Israele e Palestina: rincorrere la pace, spezzare
la catena di vendette
Anton Goodman – 16.03.25
È naturalmente molto significativo sentire che dei ragazzi del liceo in Italia facciano le stesse conversazioni che stiamo facendo qui in Israele. Sono conversazioni che hanno una profondità e una tristezza, perché ci si pone la domanda: è possibile sognare la pace in tempo di guerra? In questo momento, il mondo sta andando in una direzione pericolosa, c’è molta paura ovunque. È quindi per me un privilegio poter far parte di quello che state facendo, per il poco che posso condividere, se in qualche modo può essere utile a quello che state facendo.
Com’è iniziato il tuo incontro con i raccoglitori palestinesi?
Qual era la situazione precedente? E quali sono stati i principali ostacoli?
Rabbis for Human Rights porta avanti un progetto di raccolta delle olive da oltre 20 anni. Non è un’iniziativa nuova, ma sicuramente il tempo di guerra ha aggiunto significato e difficoltà alla realizzazione del progetto. Abbiamo una lunga relazione con le comunità palestinesi in Cisgiordania, perché siamo un’organizzazione per i diritti umani che lavora da tempo e tutto l’anno con queste comunità: non è solo durante la raccolta delle olive che abbiamo interazioni
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con questi agricoltori, che andiamo da loro per solidarietà o che facciamo qualcosa per sostenere i loro diritti umani. In effetti, abbiamo appena terminato una serie di eventi di piantumazione durante la stagione di semina: spesso piantiamo alberi di ulivo con gli stessi agricoltori con cui raccogliamo le olive. Lavoriamo con agricoltori palestinesi in tutta la Cisgiordania. La raccolta delle olive è molto importante per la società palestinese, sia dal punto di vista culturale che economico. Si tratta di un momento di picco economico grazie al quale le persone guadagnano denaro che è utile per tutto l’anno. E ora, in tempo di guerra, visto che per 200.000 palestinesi i visti e i permessi di lavoro in Israele sono stati sospesi, la raccolta delle olive è diventata ancora più importante.
La nostra attenzione è rivolta principalmente alle comunità palestinesi che in questo momento stanno vivendo un’ulteriore difficoltà, soprattutto a causa della violenza dei coloni estremisti. C’è stato un forte aumento della violenza dei coloni negli ultimi 10 anni e sicuramente dal 7 ottobre. Questo è uno dei modi in cui interagiamo con gli agricoltori palestinesi, perché sono a rischio per la violenza dei coloni, e durante la raccolta delle olive si instaura una relazione e una partnership particolarmente intensa.
Quando questo progetto è iniziato, qual era il vostro scopo?
Qual è l’ideale della vostra organizzazione? Perché avete deciso di aiutare i palestinesi?
Lo scopo della raccolta delle olive è quello di permettere ai contadini palestinesi di raggiungere i loro ulivi, perché ci sono molte aree di terra che non possono raggiungere, principalmente a causa delle restrizioni militari o dei rischi connessi alla presenza dei coloni. Si tratta di abusi dei diritti umani: le persone devono avere libertà di movimento
e sicuramente di raggiungere le loro terre e di raccogliere le olive. Ciò che ci spinge a farlo è il tentativo di essere d’aiuto: portiamo un gran numero di volontari in terre difficili da raggiungere per i palestinesi e raccogliamo tutte le olive da quegli alberi: quest’anno sono stati raggiunti centinaia di ettari, centinaia di acri di ulivi che l’anno scorso non erano stati raggiunti dai contadini. Per noi, quindi, la prima cosa è l’aiuto che possiamo dare agli agricoltori palestinesi.
La seconda cosa è che siamo un’organizzazione rabbinica ebraica. L’ulivo ha un grande valore sia nella cultura ebraica che in quella palestinese. Nella cultura ebraica, l’ulivo è una delle sette specie della terra d’Israele: è un simbolo di pace, di speranza e di santità. Quindi per noi, quando vediamo gli ulivi attaccati dai coloni estremisti, è – come dire – un’eresia, è un atto contrario a ciò che Dio vuole che avvenga sulla terra. Quindi anche per noi è un atto religioso andare sul terreno e aiutare i contadini palestinesi a raccogliere le olive.
La RHR esiste da poco più di trent’anni e raduna 170 rabbini israeliani: è una voce importante. Il nostro obiettivo è duplice: lavorare sui diritti umani, sia in Israele che nei territori palestinesi, portare una voce ebraica e creare un’identità ebraica intorno al lavoro che stiamo svolgendo, che per molti nella società israeliana è qualcosa da non considerare.
Non credo che ci siano molte altre persone che aiuterebbero un palestinese, e voi lo state facendo. La mia domanda è: perché pensate che ne valga la pena? C’è molta differenza tra queste due posizioni e questo ci incuriosisce molto. In primo luogo, ci sono molte persone che lo farebbero e lo fanno. Non sono abbastanza da rendere la cosa mainstream, ma durante la raccolta delle olive 1.200 volontari
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sono venuti con noi: attivisti, soprattutto israeliani e alcuni internazionali. Non siamo soli. Ci sono altre persone che la pensano come noi.
La tua domanda è ottima. Perché fare una cosa del genere? Il mainstream, la maggioranza dice che questa è una guerra a somma zero: loro devono perdere perché noi possiamo vincere, quindi dobbiamo fare tutto il possibile perché noi vinciamo e loro perdano. In primo luogo, si tratta di una pessima analisi del contesto, perché stiamo parlando di un’area di terra molto piccola. E perché uno di noi vinca, dobbiamo vincere entrambi: non c’è altra scelta. Dico questo perché ho vissuto un conflitto dopo l’altro, un funerale dopo l’altro: non c’è una soluzione militare a questo conflitto. La seconda cosa che direi è che nella Torah sono presenti comandamenti che riguardano la presenza degli ebrei in Terra Santa, in Terra d’Israele. Ed è molto chiaro nei nostri testi che questa presenza è condizionata al nostro comportamento morale. Al popolo ebraico è concesso il diritto di essere in Terra Santa – forse nemmeno come sovrano, ma di esserci come popolo –, se agisce con moralità e comportamento etico. Ed è difficile leggere questi comandamenti e vedere le azioni che si stanno svolgendo sul territorio, il governo che è al potere qui. È difficile.
Ci sono molte persone che la pensano come me: non sono affatto una voce solitaria in questo e spero che prima o poi saremo in grado di scrivere il nostro percorso. Non voglio presentarla come una nuotata controcorrente, perché vogliamo essere la corrente principale, vogliamo vincere. Fare solidarietà e attivismo significa uscire dalla propria zona di comfort. Bisogna pregare con i piedi e andare da qualche parte. Quindi diciamo ai nostri rabbini: va bene se fate un sermone per i diritti umani e la pace, e va bene se scrivete un articolo di giornale, è fantastico, ma venite in
una città palestinese e lavorate con i contadini palestinesi per dimostrare che sostenete davvero i loro diritti umani. La vostra sicurezza personale è meno garantita se venite alla raccolta delle olive piuttosto che starvene a casa, e questo ha un impatto maggiore – sui nostri partner palestinesi, ma anche su noi stessi, su chi siamo.
Com’è lavorare insieme agli agricoltori palestinesi? Cosa hai imparato vivendo questi momenti con loro? Innanzitutto, voglio dire che ognuno vive le cose in modo diverso. Per avere una buona risposta a questa domanda, vorrei invitare tutti voi a venire alla raccolta delle olive l’anno prossimo e a viverla in prima persona, così avrete molte risposte. Il nostro lavoro sulla raccolta delle olive inizia a giugno: c’è una fase di mappatura, in cui andiamo nelle comunità con cui siamo in contatto e individuiamo le diverse aree del territorio che sono difficili da raggiungere. Dopodiché, ci rivolgiamo alla leadership locale delle città per assicurarci che ci sia davvero una partnership, che siamo desiderati, che il nostro lavoro abbia senso per tutti. In alcuni luoghi stiamo lavorando con i governatori palestinesi di diverse municipalità. C’è quindi un grande lavoro di coordinamento. Abbiamo uno staff sia ebraico che palestinese, e questo è un vero punto di forza del programma, perché il nostro staff palestinese è il ponte tra la nostra organizzazione e la leadership palestinese. Una volta fatto questo, abbiamo altri incontri prima dell’inizio del progetto. Così, di solito incontriamo gli agricoltori e i sindaci tre o quattro volte durante l’anno prima di andare effettivamente sul campo. Poi pubblicizziamo l’attività: cerchiamo di ottenere il maggior numero possibile di volontari, ma lo facciamo senza dare informazioni precise, perché ci sono troll che cercano di attaccare il gruppo o di far sapere all’esercito in anticipo
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quello che stiamo per fare, e ci impediscono di farlo, anche se è legale. Così pubblichiamo una serie di annunci che non dicono dove si svolgerà esattamente la raccolta, e le persone si iscrivono, poi telefoniamo a tutte le persone, una per una, per verificare chi sono. È una cosa delicata. Una volta creato il gruppo, affittiamo qualche pullman – da Tel Aviv, da Gerusalemme, da Haifa –. Partono molto presto il venerdì mattina e raggiungono le diverse città della Cisgiordania. Quando arriviamo, veniamo accolti dal sindaco della città e da un gruppo di contadini, che sono sempre molto ospitali e ci accolgono con brocche di caffè e spuntini. Ci conosciamo un po’ e poi ci dedichiamo insieme alla raccolta. Lo facciamo in fretta, perché in alcune aree la situazione è molto calda, ci sono spesso attacchi. Si stendono dei teloni sul terreno e poi si tolgono le olive dai rami facendole scorrere sul telo: i contadini palestinesi danno indicazioni. Stiamo sui campi circa 5 o 6 ore, a meno di imprevisti e ostacoli. Alla fine, se abbiamo tempo, pranziamo insieme: non c’è una discussione politica profonda, ma c’è un’interazione umana nel raccogliere le olive, nel parlare e nel dire: «Come si dice questo in arabo?», nel sentire un po’ di cose sulla terra in cui ci troviamo e sulla situazione in cui vivono gli agricoltori.
Cosa dicono le autorità delle vostre azioni? Cosa ne dicono gli altri israeliani? E le vostre famiglie?
Con le autorità israeliane abbiamo sempre cercato di rispettare lo stato di diritto e di coordinarci con l’esercito israeliano prima della raccolta delle olive. Negli ultimi due anni, non siamo stati in grado di coordinarci con l’esercito per via di quella che chiamiamo “erosione dello Stato di diritto”. Quando le autorità hanno delle responsabilità e non le rispettano, la situazione può essere caotica o addirittura molto pericolosa per il territorio. L’IDF si è allontanato dal
coordinamento della raccolta delle olive e ha aperto la porta alla violenza dei coloni. Perciò informiamo l’esercito e la polizia quando ci sono attacchi, ma la risposta che riceviamo dalle autorità non è buona: potrebbero venire sul campo, arrestarci e arrestare i nostri attivisti. Stiamo cercando di collaborare con le autorità, ma al momento hanno una politica che lavora contro di noi.
All’interno della società israeliana ci sono sicuramente gruppi più progressisti che sostengono ciò che facciamo e che sono felici di vederlo, ma c’è numero consistente e crescente di persone che pensa che siamo dei traditori. Quelli che pensano che loro devono perdere perché noi vinciamo, pensano che noi siamo dalla parte dei palestinesi. Io sono dalla parte dei palestinesi e sono anche dalla parte degli israeliani, ma la gente non riesce a capirlo: nella società israeliana c’è una grande paura e ignoranza nei confronti della società palestinese, perché siamo stati tenuti separati per molti anni. C’è un muro di separazione molto grande che attraversa la Cisgiordania. Così, quando dico che vado in una città palestinese, molti si spaventano: «Come fai ad andare lì? Avete armi? L’esercito è con voi?», «No, non abbiamo armi e l’esercito non è con noi, ma la comunità ci ha invitato», «Sei pazzo. Morirete, vi uccideranno», «Ci vado ogni due giorni da più di 15 anni: è vero, potrei contrarre il diabete per quanto sono dolci alcuni snack, ma questo non è uccidere». Quando sono nei villaggi palestinesi mi sento al sicuro, mentre non mi sento al sicuro sulle strade: è pericoloso, c’è il terrorismo dei coloni. Mi sento al sicuro con i palestinesi e non mi sento sicuro con i coloni israeliani: le cose si ribaltano a seconda di dove ci si trova.
Questa coesistenza tra voi e i palestinesi cosa porta alla vostra vita personale e anche religiosa? Cosa ti porta a sacrificarti?
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Allora, alcune cose che hai detto in questa domanda non usano il linguaggio che userei. Mi spiego. “Coesistenza” è per me una parola problematica, perché si può coesistere senza avere uguaglianza: un cavallo e il suo cavaliere coesistono, o l’uccello che mangia dalla bocca dell’ippopotamo. Non sono interessato, e nemmeno la nostra organizzazione, a creare un senso di convivenza. Non possiamo assolutamente vivere insieme se ci sono ingiustizie e disuguaglianze: ci deve essere giustizia e uguaglianza per tutti, ed è proprio questo l’obiettivo di un’organizzazione per i diritti umani. Si tratta di questo tipo di valori. Credo che questo sia importante da capire. Inoltre, se venissi in una comunità palestinese e dicessi che sono interessato alla coesistenza, non credo che mi accetterebbero. Non credo che tu intendessi questo, ma ci tenevo a dirlo, perché sono distinzioni che hanno valore. Naturalmente, traggo molti vantaggi dai miei rapporti con i palestinesi. Voglio dire, come regola di vita, stringere relazioni con persone e gruppi diversi è sempre qualcosa da cui si trae beneficio: rende persone migliori e apre una serie di opportunità. Ora è il Ramadan, e ogni sera sono invitato a un iftar, il pasto che interrompe il digiuno. Devo continuare a rifiutare inviti! Sai, ricevere bottiglie di olio dai contadini palestinesi e sapere che sto versando quell’olio mi piace tanto: questa è la qualità della vita. Ci sono così tante persone nel mondo che hanno perso la testa per la qualità della vita: avere un prodotto, i soldi, ma questa non è qualità di vita. La qualità della vita è qualcosa che ha un valore sia fisico che spirituale: ho guadagnato moltissimo dai miei amici palestinesi, ci siamo gli uni per gli altri. È per questo che non direi assolutamente che mi sto sacrificando. Non sono un salvatore bianco che arriva su un cavallo bianco in grado di fare qualsiasi cosa. Io sono solo me stesso: questo è tutto ciò che ho e non pretenderei di essere qualcosa di più
di questo. Non credo di sacrificarmi. Penso di correre un rischio per il bene della mia regione. E ho dei figli, che hanno più o meno la tua età, che sono molto più preoccupati del fatto che io possa sacrificarmi prestando servizio nell’IDF, piuttosto che nel fare quello che sto facendo.
Ho quattro figli, di 18, 16, 13 e 11 anni. A 18 anni inizia il servizio militare in Israele. Riuscite a immaginare che cosa significhi mandare i vostri figli al servizio militare senza sapere in quale conflitto andranno a combattere?
Saranno al confine settentrionale a combattere in Libano?
Saranno mandati in Siria? Saranno mandati a Gaza? Sono in Cisgiordania? Sono in una forza speciale che va a combattere contro gli Houthi nello Yemen? È una situazione da incubo. È insostenibile aspettarsi che continuiamo a mandare i nostri figli in queste guerre insensate, per cui sembra di tirare un calcio a un barattolo lungo la strada, spostando il problema di dieci anni per poi ricominciare tutto da capo. Viviamo un conflitto dopo l’altro.
Da quello che dice sembra che non ci sia alcuna speranza, tranne questi momenti, queste azioni di convivenza. Penso che tu abbia ragione. All’interno della nostra organizzazione ci sono diverse scuole di pensiero e diversi atteggiamenti, alcune persone sono più fiduciose e altre meno – io sono sicuramente uno di quelli che nutre meno speranze sulla direzione che prenderanno le cose –. Credo che la mancanza di speranza sia probabilmente contagiosa e che presto la sentirete anche voi, perché nel mondo è stato avviato qualcosa di inarrestabile. Credo che nel momento attuale essere senza speranza significa essere realisti. Ma non è la fine della storia. Non si tratta di speranza e non speranza: l’umanità ha vissuto di crisi nel corso della sua esistenza e la maggior parte di queste crisi ce le siamo portate addosso
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inutilmente. Questo accade in ogni generazione. Nella vostra generazione, e anche nella mia, c’era questa falsa speranza che l’umanità fosse cambiata e che stessimo entrando in un periodo in cui ci sarebbero stati progressi tecnologici, meno povertà, meno guerre e le cose sarebbero migliorate e avrebbero continuato a migliorare. Ma non possono continuare a migliorare se non si approfondisce veramente l’anima dell’uomo e la comprensione di chi siamo. Io sono ebreo: ogni generazione della mia famiglia è stata perseguitata in Europa: sono le storie che ho sentito dai miei nonni, dai miei bisnonni e dalle storie dei loro bisnonni. Credo sia importante il modo in cui si vive nei momenti di crisi. A volte puoi scrollare sul telefono e pensare: «Oh, sta per crollare tutto». In primo luogo, sì, le cose potrebbero precipitare. Ma, in secondo luogo, questo non significa che ciò che si fa sia meno importante, anzi: è più importante quello che si fa quando le cose vanno a rotoli. Quindi c’è poca speranza, ma questo non significa che non si possa avere una buona vita e fare cose straordinarie. Quando c’è una mancanza di speranza, è importante uscire e dire: «Farò cose straordinarie, non cose mediocri. Non ho intenzione di diventare un burocrate, non è questo il momento. Il mondo è quasi in fiamme: è il momento di fare qualcosa che sia il più significativo possibile». Ed è proprio per questo che sono stato così felice di sentire quello che farete al Meeting di Rimini, perché è esattamente la cosa giusta da fare in questo momento.
Hai qualche momento o storia specifica o particolare da condividere con noi?
Durante l’ultima raccolta di olive abbiamo avuto un incidente, i coloni hanno attaccato gli attivisti – circa cinquanta –che erano sul campo. Erano mascherati e lanciavano pietre:
violenza vera e propria. La polizia ha arrestato due dei nostri coordinatori: li hanno rilasciati dopo 24 ore, ma non hanno avuto il permesso di entrare in Cisgiordania per 15 giorni.
La nostra risposta immediata, come organizzazione, è stata: «Dobbiamo tornare in questa città. Dobbiamo tornare in questi campi, perché questa è una situazione che i palestinesi vivono quotidianamente, ed è ingiusta. È un abuso dei diritti umani». Abbiamo deciso di tornare e di tornare con molte più persone.
Il problema è che la cosa è stata pubblicizzata un po’ troppo e così l’esercito è venuto a saperlo. Io guidavo l’autobus: quando siamo arrivati al checkpoint tra Gerusalemme e Ramallah siamo stati fermati dalle forze di sicurezza che avevano già assegnato e stampato un ordine di zona militare chiusa per il luogo in cui stavamo andando, a 50 chilometri a nord da lì. Così ci siamo resi conto della situazione: anche i pullman che arrivavano da Tel Aviv e da Haifa erano stati fermati e avevano subito le stesse restrizioni. Non potevamo guidare fino alle zone prefissate – ci avrebbero arrestati tutti, eravamo più di cento –, allora abbiamo pensato di andare fino a delle zone limitrofe e poi coordinarci con i contadini palestinesi per incontrarci in un punto più sicuro. Ma i militari ci hanno seguito e alcuni veicoli erano come pronti per la battaglia. Ci siamo riuniti con gli altri pullman e sopra di noi ronzavano i droni per sorvegliarci. Ci siamo riuniti in cerchio, sul ciglio della strada, in un campo. Abbiamo spiegato ai volontari cosa stava succedendo e la comunità palestinese, il sindaco e i contadini sono venuti a parlare e ci hanno detto: «Grazie per essere venuti per solidarietà. Ci saranno altre occasioni in cui raggiungeremo la terra insieme». Poi abbiamo parlato insieme a loro: c’è stato un momento in cui le persone hanno sentito che ci stavamo riunendo, ci guardavamo negli occhi. Allo stesso tempo
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c’erano militari intorno a noi e droni sopra di noi, ma non guardavamo in quella direzione. Certo, hanno cercato di distrarci, di sequestrare le auto o di dire: «Dovete andarvene», o altro. È un momento in cui si crea la pace, letteralmente nel mezzo di un’azione militare. E questa è un’esperienza molto significativa, che fa sperare.
Dopo quello che hai detto prima sul fatto che non è realistico essere fiduciosi, volevo chiederti: cosa significa per te la pace in questo momento? Se è davvero irrealistico essere fiduciosi, allora perché ci credete? Allora, perché continuate ad andare avanti?
Per me la pace è una specie di utopia, è l’era messianica: forse il Messia viene e ci sarà la pace. Penso che anche se fermiamo il conflitto qui, ci sarà pace in tutto il mondo? C’è mai stata pace in ogni comunità umana? Mai, non abbiamo mai vissuto un’epoca simile. Ma nella Bibbia ebraica si dice che bisogna amare la pace e correre dietro alla pace. Quindi la prima cosa da fare è amare la pace. Quando si incontra la pace e si vede la pace, il cuore si riempie in un modo per cui è chiaro che la guerra non può portare una tale gioia e un tale amore: non può accadere grazie alla guerra. Un mio vicino di casa è stato ostaggio a Gaza ed è stato liberato: che festeggiamenti nella nostra città, quando è tornato a casa! La gente era piena di amore per il suo ritorno a casa. Non c’è possibilità di sentirsi allo stesso modo se si è ucciso qualcuno, anche se si tratta di un leader terrorista. L’amore per la pace è un amore forte. “Amare la pace”.
“Rincorrere la pace” sembra suggerire che la pace sia sempre in fuga da te, la pace va rincorsa: sarà sempre così, e diventa ancora più importante in un momento in cui vediamo la pace allontanarsi da noi sempre di più. In Europa, negli Stati Uniti, in Russia e Ucraina, praticamente in tutto
il mondo, la pace è sempre più lontana da noi. Questo non significa che si smetta di correre, non significa che il comando di Dio di andare a cercare e correre dietro alla pace non abbia più significato: è proprio il contrario! Significa che bisogna farlo: ciò che determina l’umanità è come si agisce in questi momenti.
Qual è, in particolare, secondo te, il modo di vivere? Cosa significa correre, inseguire la pace? Allora, io non so cosa significhi avere speranza. Voglio dire: il 7 ottobre, nelle prime settimane di guerra, mi sembrava di aver perso la speranza. Davvero, ho sentito che il 7 ottobre ho perso la speranza che prima avevo, e ho cercato di ritrovarla, come la pace, inseguendola. Ho inseguito la speranza attraverso una serie di progetti, la creazione di un progetto di aiuti umanitari in Cisgiordania, attraverso proteste e dimostrazioni, cercando di portare cose buone. Più correvo dietro alla mia speranza, più non la raggiungevo e più dimenticavo come ci si sente ad avere speranza. E così sto ancora inseguendo quella sensazione. Quindi non sono un esperto di speranza.
Vorrei anche dirvi, se state facendo questa mostra, di stare attenti alla speranza. Diffido della speranza, dei finali hollywoodiani. Come dire: «Andrà tutto bene se facciamo questo e quest’altro». Questa non è una fiera della scienza sul cambiamento climatico, in cui si dice: «Se facciamo questo, o non lo facciamo, succederà questo». Questo non significa che non si possa vivere una vita piena, amorevole e bella, ma smettiamola di vendere questo tipo di falsa speranza. Dire questo non significa perdere: io non sono un nichilista, né voglio morire. Amo la vita: questa sera c’è un tempo splendido e anche l’alba sarà fantastica. Ma non ho una speranza a cui aggrapparmi per l’umanità, in questo momento.
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Cosa intendevi prima quando ci hai detto che entrambi –Israeliani e Palestinesi – dovete vincere? Come ho detto, siamo su un pezzo di terra molto piccolo, due popoli molto resistenti che hanno legami molto profondi con questa terra. Nessuno dei due andrà da nessuna parte: se c’è una cosa che è chiara, è che siamo pronti a prendere armi nucleari sulla testa piuttosto che andare da qualche altra parte. Il nostro legame con questa terra è molto simile, perché è un legame religioso, di preghiera, di cultura, di amore per la terra e di costruzione di persone. Il popolo ebraico e il popolo palestinese sono molto simili in questo senso. Non si può creare la pace in questa terra rendendo un popolo superiore a un altro, non si può avere un popolo con più diritti e un altro con meno e pensare di non arrivare al conflitto. Ci saranno conflitti violenti.
L’unico modo per costruire forse un po’ di speranza per le persone è iniziare ad affrontare la questione dei diritti umani e dell’uguaglianza. Iniziare a dire ai Palestinesi: «Vi vedo. Capisco la vostra sofferenza», andare dagli israeliani e dire: «Vedo che state soffrendo». Perché ci sono decine di migliaia di israeliani che questa sera non dormiranno nelle loro case per via dei razzi. Bisogna andare da loro e dire: «Dobbiamo trovare una soluzione». Bisogna andare nelle comunità palestinesi, nelle comunità di pastori nella Valle del Giordano che non hanno accesso all’acqua e dire loro: «Vi daremo accesso. Faremo in modo che abbiate accesso all’acqua come a Tel Aviv e come a Ramallah. Faremo in modo che l’accesso all’acqua nella nostra regione sia equo». Quando inizieremo a migliorare questi aspetti, inizieremo anche a parlare di un processo di pace. Ma prima occorre entrare e iniziare a migliorare la vita delle persone sul campo e a dare loro qualcosa per cui vivere. Penso che se non si fa così, se ciascuna delle due parti non ha qualcosa
per cui vivere, allora si vedranno di nuovo momenti terribili come il 7 ottobre.
Mi piacerebbe che la prossima volta che ci incontriamo ci fosse una risposta più approfondita da parte vostra, perché avete fatto molte domande. Forse non ho le risposte, forse le avete voi. Forse avrei dovuto ascoltarvi, invece di parlare così tanto. Mi piacerebbe incontrarvi di nuovo. Il nostro conflitto è diventato una conversazione globale, è diventato un argomento che ha causato conflitti in tutto il mondo. È terribile viaggiare al di fuori della nostra regione e vedere quanto le persone siano polarizzate o arrabbiate l’una con l’altra riguardo al nostro conflitto. Allo stesso tempo, penso che sia una conversazione molto importante per tutti noi e quindi mi interessa sapere quali sono le vostre opinioni e cosa pensate del lavoro che stiamo facendo e di ciò che deve accadere qui.
Parents Circle (Layla Alsheikh e Robi Damelin)
25.03.2025
Entrando subito nel vivo dell’argomento, volevo chiedere qualcosa sulla situazione attuale, delle tensioni che si rinnovano e si aggravano.
Layla Alsheikh Innanzitutto, è molto difficile per una madre con cinque figli affrontare questa situazione: mia figlia maggiore è sposata e vive a Gerusalemme, ma non ha ancora ottenuto la carta d’identità israeliana – suo marito è un arabo di cittadinanza israeliana –, quindi, se vuole venire a trovarci, ha bisogno di un permesso, ma a causa della guerra non le viene dato.
Sono una persona che lavora in un’organizzazione per
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la pace, e a volte è molto difficile spiegare alle persone che sono intorno a me perché continuo a fare ciò che faccio anche durante la guerra, anche durante questa follia, perché affronto questa situazione come la affronto. È molto difficile spiegarlo alla gente, perché spesso pensano che noi ci occupiamo di operare una “normalizzazione” della situazione attuale: dire a un palestinese che lo scopo è “normalizzare” i rapporti con gli Israeliani suscita reazioni, è difficile. Ci sono molte, molte difficoltà nel farsi capire. Capisco la tristezza, la paura, la rabbia di chi mi circonda, ma continuo a dire che non dobbiamo perdere la speranza, perché non possiamo vivere senza speranza. Non solo per me e per noi, ma per i miei figli, per i miei nipoti, per tutte le persone che vivono in questa terra: loro meritano una vita migliore e per questo non possiamo fermarci, anche se è difficile.
Come reagiscono le persone – israeliani e palestinesi – quando parlate di riconciliazione?
Layla Alsheikh Se prima della guerra era un po’ difficile convincerli, ora è diventata una missione impossibile, perché con tutte queste uccisioni da entrambe le parti, con tutto quello che sta accadendo, è molto difficile per la gente accettare la possibilità di una riconciliazione. Siamo nel bel mezzo di una guerra, quindi non è per nulla scontato che le persone siano interessate a una qualsiasi forma di riconciliazione. È una situazione molto, molto cupa e triste, e si può solo sperare che tutto questo finisca presto.
Prima di tutto, crediamo nella riconciliazione perché è una cosa importante. Quando nel 1993 ci sono stati gli Accordi di Oslo, nessuno era pronto ad accettarli, perché eravamo in guerra – la Prima Intifada – e, all’improvviso, hanno iniziato a parlare di pace: nessuno era pronto, quindi è stato molto difficile per tutti. Per questo motivo, dopo un
po’ di tempo, quegli accordi sono di fatto naufragati. Dopo un po’ di tempo abbiamo iniziato a credere che in realtà c’è la possibilità di fare un accordo di pace: innanzitutto al livello dei governi, poi anche a quello della riconciliazione fra i popoli che soffrono quotidianamente per questo conflitto, da entrambe le parti.
Noi siamo le persone che hanno perso i loro cari, le persone che soffrono quotidianamente a causa dei checkpoint, dell’occupazione, e così via. Crediamo che la riconciliazione porterà le persone a comprendersi reciprocamente: non si tratta di essere d’accordo su tutto o di amarsi, ma di rispettarsi, di capire, di trovare un modo di vivere insieme. Dobbiamo imparare a vivere insieme: è l’unico modo. Per questo motivo, dobbiamo crederci. Ma con questa guerra, con questo governo estremista in Israele, con quello che ha fatto Hamas è molto difficile convincere le persone: molti di quelli che credevano nella pace hanno iniziato a sentire che non c’è speranza. Non tutti, perché c’è ancora chi crede nella pace: ci sono alcuni che hanno perso dei familiari il 7 ottobre e che si sono uniti a Parents Circle e che vogliono la pace: c’è gente che ha un’idea diversa, un pensiero diverso rispetto alla maggioranza. Pensavamo che dopo lo scoppio della guerra molte famiglie avrebbero lasciato il forum, invece molte persone sono entrate e solo tre famiglie sono uscite: siamo diventati più di 800; è positivo, è un buon segno, perché mostra che ci sono persone che credono ancora nella pace e che vogliono vivere una vita migliore.
Il nostro lavoro è però molto difficile. Le persone del Governo israeliano, non solo Netanyahu, ma anche BenGvir – il Ministro della sicurezza nazionale di Israele – incoraggiano praticamente ogni giorno i coloni ad attaccare i palestinesi. Non so se avete in mente il docufilm No Other Land, che ha vinto l’Oscar: il regista palestinese è stato ag-
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gredito dai coloni, che l’hanno picchiato e ferito. Poi i soldati israeliani lo hanno arrestato e portato via in ambulanza: nessuno sa dove sia ora. La situazione è molto complicata ed è diventata col tempo sempre più profonda e radicata. In Cisgiordania gli arresti di palestinesi aumentano. Gira voce che vogliano occupare la Zona C, che è quella in cui vivo: nessuno sa che cosa succederà dopo. E per le persone che vivono nelle Zone A e B? Che cosa ne sarà di loro? Chi sarà responsabile per loro? Che cosa succederà all’Autorità Nazionale Palestinese? I Palestinesi hanno perso fiducia nell’ANP, perché non ha fatto praticamente nulla per aiutare il nostro popolo: si è limitata a guardare e, oltre a qualche piccolo commento, non ha detto nulla. I Palestinesi si sono sentiti abbandonati: è per questo che è così difficile parlare con loro, durante questa guerra, di riconciliazione e di pace.
Robi Damelin È un periodo così difficile, e questo significa che bisogna lavorare sempre di più, che bisogna porre fine a questa situazione politica, che bisogna riportare indietro gli ostaggi e fermare la guerra a Gaza. Quante altre persone devono essere uccise prima che la gente si renda conto che non si può ottenere la pace dalla guerra?
Una delle cose più sorprendenti di Parents Circle è che stiamo andando avanti a lavorare nonostante quello che succede ogni giorno. Stiamo organizzando una cerimonia per lo Yom HaZikaron – il giorno di memoria per i soldati caduti, è una festa dello Stato di Israele –. Il tema che abbiamo pensato per la cerimonia è quello della scelta: che cosa si sceglie di fare quando si perde qualcuno? È intervenuta una donna che è stata tenuta in ostaggio a Gaza dopo il 7 ottobre: suo marito è stato ucciso durante la prigionia e il suo corpo è ancora a Gaza. Ed è a partire da questo che si è unita a Parents Circle.
Da ottobre abbiamo 80 nuovi membri: si sono uniti per motivi molto tristi, ma, d’altra parte, è miracoloso – così come è miracoloso che in così pochi se ne siano andati. Certamente non si può dire che le persone non siano preoccupate o arrabbiate, ma non se ne sono andate e credono ancora nella causa: è un risultato molto importante, considerato tutto quello che sta accadendo.
Ma sentire al telegiornale di quello che è successo al coregista di No Other Land è vergognoso: è stato attaccato a casa sua dai coloni e poi è stato arrestato dall’esercito – penso che sia in prigione, non so se sia stato rilasciato –. La cosa veramente spaventosa è che chi fa cose del genere, da una parte e dall’altra, non viene mai chiamato a rispondere per i propri atti: abbiamo visto così tanti errori, così tante azioni che hanno ostacolato e ostacolano la pace. Dall’altra parte, quando guardo le persone, quando vedo la qualità delle persone che si sono unite, ne esco incoraggiata. Il nuovo presidente del CDA ha perso entrambi i genitori il 7 ottobre, un altro membro del CDA ha perso la madre. È una cosa straordinaria il fatto che loro desiderino di continuare a lavorare.
L’altro giorno abbiamo avuto un iftar – la cena che interrompe il digiuno durante il Ramadan – a cui hanno partecipato più di 200 donne palestinesi: è stato un incontro meraviglioso, ed è stato molto bello vederci e parlare.
Questo venerdì avremo un incontro a cui parteciperanno solo donne israeliane: ciò di cui abbiamo bisogno è imparare a dire la verità, a non avere paura che l’altra persona scappi se dici qualcosa che non le piace. Se ci si fida abbastanza delle persone, si è abilitati ad ascoltare con empatia anche quando non si è d’accordo. E molte donne – o in generale persone israeliane – hanno davvero paura di dire ciò che pensano veramente: questo significa che non c’è fiducia di essere ascoltate davvero.
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Ci spiegate meglio la giornata di memoria di cui parlavate?
Robi Damelin È una giornata di memoria per i caduti israeliani, ma noi di Parents Circle abbiamo pensato a una cerimonia in cui i membri del nostro gruppo, sia israeliani che palestinesi, vengono a raccontare la loro storia personale. Gran parte del lavoro che facciamo è attraverso le storie personali. A proposito, abbiamo pensato un altro progetto simile: “Ascoltare dal cuore”. È un programma che abbiamo a creato a Washington DC, in collaborazione con la Georgetown University.
C’è stato un momento specifico in cui avete capito che sareste state in grado di perdonare?
Layla Alsheikh Prima di tutto, quando parliamo di perdono, non si tratta di dimenticare quello che è successo: ci si ricorda tutto. Secondo me ognuno vive il perdono in maniera diversa, quindi è difficile fare un discorso generale. Per me, perdonare significa allontanare l’odio e la rabbia: io non ci penso più a queste cose. Il giorno in cui mio figlio è morto, non ho pensato di vendicarmi, perché ho capito che la vendetta non avrebbe mai riportato indietro mio figlio e, se anche mi vendicassi, colpirei qualcuno che non conosco: chi è il soldato che ha ucciso mio figlio? Non lo so, quindi colpirei qualcun altro per vendicarmi, portando un’altra persona innocente in questo ciclo di violenza.
Tre anni fa è successo qualcosa. Siamo stati a Gerusalemme, io e Robi, con altre persone di diverse organizzazioni. Dopo che avevamo parlato delle nostre storie, si è alzato un uomo israeliano, che ha iniziato a raccontare la sua storia personale: sapevo già chi fosse, ma era la prima volta che lo ascoltavo. A un certo punto ha detto che era stato un ufficiale dell’esercito, e che prestava servizio nella mia zona. Ha raccontato che, una volta, aveva impedito a un’auto pa-
lestinese carica di bambini malati di arrivare in ospedale, di fatto condannandoli. Mi era successa una cosa simile con i soldati, quando è morto mio figlio: non era lui in persona, ma era la stessa cosa, quella che mi era successa. È stato un momento molto difficile per me, perché in tutta la mia vita non avevo mai pensato di incontrare un soldato, uno di quelli che hanno fatto e fanno queste cose al mio popolo e a me, alla mia famiglia. Non sapevo cosa fare, ho iniziato a piangere, non sapevo cosa dire.
Robi ha chiesto a entrambi di uscire un momento per parlare. Dopo poco lui ha detto: «Ho capito cosa ho fatto», e ci ha raccontato del fatto che si è dimesso dall’esercito, che si è rifiutato di prestare servizio, e che per questo, mi sembra, si è fatto più di sei mesi di carcere. Ha fondato poi un’organizzazione insieme a ex prigionieri palestinesi, con lo scopo di collaborare alla fine del conflitto. L’ho guardato e gli ho detto: «Per me è molto difficile ascoltarti, ma allo stesso tempo voglio ringraziarti perché hai il coraggio e l’onestà di parlare davanti a me. Se sapessi che mi tieni nascosta una parte della tua storia, non potrei mai e poi mai perdonarti, ma ora ti conosco, ora so che senti davvero di aver fatto qualcosa di sbagliato e cerchi di correggerlo per evitare che altre famiglie si trovino nella stessa situazione: per questo, ora, posso perdonarti». Questa è la vera riconciliazione.
È facile parlare di amore e di pace – tutte belle parole –, ma a volte vengono dei dubbi, ti chiedi se sei davvero convinto di quello che hai fatto. Però sono certa che quel giorno ho fatto qualcosa di buono e questo mi dà speranza ogni giorno, mi permette di continuare anche in questi tempi duri, perché anche i soldati sono vittime. Una volta ho incontrato alcune ragazze che si stavano per arruolare: mi hanno fatto alcune domande e ho capito che non sapevano
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nulla della nostra vita, mi hanno fatto tantissime domande. Anche loro sono vittime: della legge, del regime di occupazione… È come cominciare a capire le persone che hai di fronte: non è che giustifichi quello che fanno, ma è come se le comprendessi. Quando comprendi le persone che hai davanti e cominci a rispettarle, allora puoi perdonare.
Nella nostra organizzazione non è obbligatorio perdonare. Ci sono molte persone che dicono: «Non perdonerò mai la persona che mi ha fatto questo». È una scelta personale, è una questione diversa da persona a persona, da religione a religione, da zona a zona.
Robi Damelin Il perdono non è un prerequisito per partecipare a Parents Circle: è una decisione molto personale. Quindi, in primo luogo, molti Palestinesi – e ora anche Israeliani – non saprebbero nemmeno chi è la persona che ha ucciso loro figlio, un loro famigliare. Dove sta il perdono? Chi dovresti perdonare? «Un palestinese ha ucciso mio figlio»: non si può perdonare per questo l’intera nazione palestinese. È una questione molto personale.
Nel mio caso, visto che hanno catturato l’uomo che ha ucciso mio figlio David, c’è stata per me la possibilità di guardare al significato di perdono che, ribadisco, non ha lo stesso significato per tutti. Significa rinunciare al diritto, alla giustizia? Significa dimenticare? Significa che la persona deve essere pentita? Ci si può fare tantissime domande su questo tema. Quindi bisogna essere molto, molto cauti. Se chiedessi a ciascuno dei tuoi compagni di classe che cosa significa perdonare, ciascuno ti darebbe una risposta diversa. Per me è stato un percorso personale: si tratta di non vendicarsi, si tratta di comprendere e non si tratta di un’amnistia, di un condono.
Che rapporto c’è tra giustizia e perdono? Si può avere giustizia perdonando e non vendicando?
Robi Damelin Non penso che una cosa abbia a che fare con l’altra. Cos’è la giustizia? Pensiamoci. Giustizia è che il ragazzo che ha ucciso mio figlio deve stare in carcere per il resto della sua vita? Non lo so. Per me, sarebbe importante liberare quest’uomo, se questo permettesse di riportare indietro un ostaggio: si tratta della sacralità della vita umana. Non ho bisogno di vendicarmi di quest’uomo, sono in pace. E non si può perdonare se non si è in pace con se stessi: ma dire questo non significa cancellare l’istanza della giustizia, non significa che ciò che questa persona ha fatto andasse bene.
Avrei un’ultima domanda, che riguarda la nostra responsabilità: che cosa possiamo fare per non essere trascinati nel gorgo della disinformazione? Come possiamo partecipare, da qui, a quello che sta succedendo da voi?
Robi Damelin Sapete quale sarebbe una soluzione straordinaria? Se si guardasse quali sono tutte le ONG che operano in Israele e Palestina, scegliere una che lavora per porre fine all’occupazione, alla guerra, alla violenza, e la si sostenesse. Non necessariamente attraverso i soldi, ma anche solo un sostegno morale. Non deve essere per forza Parents Circle, ma se voi studenti, così entusiasti, prendeste tutta questa straordinaria energia che avete e la impiegaste per sostenere moralmente le donne, la pace, per rompere il silenzio, per sostenere chi combatte per la pace, per le ONG in Palestina che lavorano per la pace, allora fareste la differenza nella mia vita e nella vita di Layla. Stare in mezzo a una piazza a sventolare una bandiera può anche essere bello, ma non cambia nulla.
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Layla Alsheikh Ritengo che sia molto importante per voi essere parte di questo processo, perché, penso, nel vostro paese ci sono comunità piuttosto grandi di arabi e Israeliani: il conflitto potrebbe dilagare anche da voi. È importante allora parlare e imparare dall’esperienza: in tutto il mondo è lo stesso, dovunque ci siano Palestinesi e Israeliani, anche se non sono nati in queste terre. È stato versato molto sangue da entrambe le parti e quindi ci si porta dietro il conflitto ovunque, e la situazione continua a peggiorare. Perciò è importante raccontare ai vostri vicini, ai vostri amici queste storie che avete sentito da me e da Robi, far capire loro la situazione, far capire che cosa sta succedendo.
Noi diciamo sempre che è inutile essere pro-Israele o pro-Palestina: bisogna essere pro-pace. Questo è ciò che vogliamo, perché è l’unica cosa che ci aiuterà.
Suor Valentina Sala – 04.03.25
Dicci qualcosa di te.
Sono ormai a Gerusalemme da dodici anni – anzi, non “ormai”, perché si è sempre agli inizi in una realtà come Gerusalemme – e faccio parte delle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, che è una congregazione missionaria francese fondata nel 1832. Dopo aver passato molti anni in Italia, per la formazione a Como e poi in Toscana con la Pastorale giovanile, mi hanno chiamato a Gerusalemme perché avevo studiato ostetricia prima di diventare suora. Il nostro ospedale a Gerusalemme Est stava infatti per aprire il reparto di maternità, per cui nel 2013 sono arrivata.
Come si conciliano le sue due vocazioni di suora e ostetrica?
Sono cresciuta in parrocchia e ho sempre sentito il tema
della vocazione: mi affascinava molto perché ho sempre ritenuto che abbiamo un posto nel mondo e questo posto va scoperto, va trovato: se si lascia entrare il Signore nella nostra vita, non lo si trova da soli, ma si chiede di trovarlo. Per cui, il discorso vocazionale mi affascinava e allo stesso tempo mi faceva molta paura, perché temevo che il Signore prendesse tutto, anche quello che non volevo darGli. La mia prima esperienza di vocazione è stata l’ostetricia: non sapevo bene cosa fare dopo le scuole superiori, avevo 16 anni e pensavo a facoltà come filosofia, psicologia, psicomotricità. A un certo punto, però, mia mamma ha partorito l’ultima mia sorella e, andando in ospedale a trovarla, mi hanno dato in braccio la neonata e mia mamma mi ha parlato della sua ostetrica. Da quel momento si è piantato qualcosa nel mio cuore, che è diventato un richiamo a studiare ostetricia. Ho fatto tre anni di infermieristica, tre anni di ostetricia e ho trovato il mio posto. Ero fidanzata e non avrei mai immaginato di dover consegnare anche questa parte della mia vita. E invece, studiando per la tesi di ostetricia, ho incontrato le suore di San Giuseppe e ho riscontrato una coincidenza enorme tra il loro carisma e la mia vita. Il Signore si è fatto sentire in modo molto forte e ho dovuto decidere se dire di sì. Ecco quindi le due vocazioni. In realtà, per nove anni in Italia l’essere ostetrica non mi è mai servito a livello di professione, fino a quando non mi hanno chiamata a Gerusalemme. Perché in una sua intervista definisce l’ospedale San Joseph come luogo in cui nascono “i figli per la pace”? Quando abbiamo aperto il reparto di maternità, una delle mie battaglie principali è stata quella di proteggere la naturalità del parto, perché volevo che la madre, il bambino, la famiglia rimanessero al centro e che la medicalizzazione non prendesse il sopravvento. Perseguendo tale obiettivo,
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siamo arrivati alla decisione di inserire il parto in acqua e questo ha scatenato l’interesse delle donne ebree, che mai avevano cercato un ospedale palestinese o comunque arabo, dalla parte Est della città, per mettere al mondo i loro figli. Questo mi ha interrogato tantissimo: prendersi cura, accompagnare è diventato un modo per accogliere e permettere alle persone, anche quelle considerate nemiche da alcuni dello staff, di avvicinarsi. Ciò ha permesso l’incontro tra le ostetriche palestinesi e le mamme israeliane: una cosa mai vista. Si è quindi sempre più fatta largo in me la scoperta che accogliere con delicatezza, tenerezza e attenzione era uno strumento di pace, persino quando sono arrivati nel nostro ospedale i feriti di Gaza della guerra del 2014. Tale convinzione si è fatta strada non solo in me, ma anche negli altri, diventando una caratteristica propria dell’ospedale.
Come si ama chi sceglie una strada diversa dalla nostra o è lontano dalle nostre idee?
Quando qualcuno fa qualcosa che ci ferisce o prende qualche scelta che va contro quello che noi siamo o che noi crediamo, penso sia molto importante, almeno per chi ha fede, che questo amore non passi direttamente da me all’altro, ma che acquisti uno sguardo che passa attraverso lo sguardo di Dio. Se non riesco a volerti bene perché mi hai ferita o perché quello che fai è assolutamente contrario a quello in cui io credo, oppure distrugge quello che sto cercando di costruire, penso che, se il Signore ti ha amato come persona, come figlio, io non posso non amarti come fratello o sorella. Forse non troverò il modo di esprimere questo amore, ma non posso escluderti da questo amore.
Partendo dalla sua esperienza, come definirebbe il perdono e cosa vuol dire per lei perdonare?
Io sono po’ spaventata da parole come “perdono” o “pace”, perché sono grandi anche solo da pronunciare. Penso tuttavia che nella vita quotidiana, come dice il Vangelo, il perdono sia uno sciogliere, un lasciar andare. Credo che, nel momento in cui si ha la grazia e la capacità di perdonare, siamo innanzitutto noi che veniamo liberati da qualcosa che ci teneva prigionieri e lasciamo andare l’altro perché non dipende più da noi per il torto fatto. Si ritorna così a una libertà che permette una nuova relazione. Questo per me è il perdono: il lasciar andare, lo sciogliere e il ritrovare una libertà di incontro.
Parafrasando Italo Calvino, che cosa nell’inferno del conflitto israelo-palestinese non è inferno? Mi sorge una domanda: il conflitto è un inferno? C’è un senso per cui sicuramente lo è: per la violenza che ha, per l’ingiustizia e per la sofferenza che porta. È anche vero che la nostra vita passa da questo conflitto, non si può escludere solo perché è qualcosa di indesiderato. Noi dobbiamo passarci in mezzo e cercare di trovare un posto dentro questo conflitto, per creare quello che inferno non è, per generare del bene, del bello e una comunione, proprio lì dove tutto il resto parla di morte, di distruzione, di eliminazione dell’altro. Ci sono tante persone che non si danno per vinte su questo, pur con una sofferenza enorme. Nessuno crede sia facile, soprattutto dopo quello che è successo, però nelle realtà bisogna starci, non tirarsene fuori, ma cercare dei modi per generare bene.
Come si trova la speranza nella riconciliazione? E, soprattutto, per cosa vale la pena combattere? Io credo che l’amore sia sempre il motore dell’uomo: questo però non vuol dire che è sempre quello che funziona come
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motore. Purtroppo ci sono tante altre spinte che guidano la nostra vita e il risultato ce l’abbiamo davanti agli occhi. Credo perciò che una nostalgia di quello che non abbiamo vada mantenuta, uno spazio vuoto che noi abbiamo svuotato tramite la violenza e tramite il rancore. Rimangono sempre in noi una sete e un desiderio di bene che a un certo punto dovranno risvegliarci. Credo in questo: è l’amore – che è Dio e che è anche la comunione – quello che ci muove verso il bene, il resto ci fa semplicemente perdere. Per sperare questo, occorre però una decisione da parte mia, non basta la sola spontaneità: non faccio del bene spontaneamente, come anche non è spontaneamente che mi riconcilio con l’altro. Secondo me, soprattutto in questo momento, occorre una scelta, anche se non è facile.
Quando uno ha sperimentato qualcosa di bello – la comunione, che è la relazione, e cioè permettere all’altro di essere sé stesso –, allora vale la pena combattere assolutamente per questo. Quando uno ha “gustato” l’esperienza del nemico che prende un volto e ha questa memoria, non può non combattere per il bene. Non può non spendersi per questo, anche senza pensare di fare cose fenomenali, ma semplicemente tenendo presente da che parte stare e che vale la pena scegliere la comunione.
Raccontaci dell’ospedale Saint Joseph di Gerusalemme: com’era la situazione quando è arrivata a Gerusalemme e come è cambiata poi?
L’ospedale Saint Joseph è l’unico ospedale cattolico di Gerusalemme Est, è stato aperto dalle nostre suore nel 1956 a seguito della guerra d’indipendenza del 1948, quando Israele è diventato uno Stato. Il nostro ospedale Saint Louis era rimasto dalla parte israeliana e non era quindi più possibile servire la popolazione palestinese rimasta dall’altra parte: a
Est della città allora fu costruito l’ospedale generale Saint Joseph. Nel 2015 abbiamo aperto il reparto di maternità, che aveva l’obiettivo di servire donne cristiane e donne musulmane di Gerusalemme e dintorni, ma inaspettatamente sono arrivate anche donne ebree attirate dal parto naturale. All’inizio questo arrivo non è stato così pacifico, perché alcune ostetriche hanno manifestato fatica ad accogliere donne ebree: le consideravano nemiche. Piano piano, però, con un lavoro di presenza e di accompagnamento – perché non c’è da insegnare, ma da educare ed essere presenti “nel mezzo” – nelle donne ebree è sorta una grande gratitudine assieme a un grande coraggio – quello di venire nel nostro ospedale –, mentre nelle nostre ostetriche sono emerse tanta cura e accoglienza.
Ora, noi ci troviamo nella parte est di Gerusalemme, completamente immersi in ambiente arabo, e ogni tensione, anche piccola, diventa subito molto percepibile nel nostro ospedale. E così è successo dopo il 7 ottobre: abbiamo assistito a un calo drastico delle presenze di donne israeliane ed ebree. Questa cosa si è abbastanza ridimensionata dopo i primi mesi. La domanda più frequente che io ricevo dalle donne ebree è se si possano fidare ancora del nostro staff palestinese e io rispondo ovviamente di sì, confermando loro che il nostro staff non è cambiato a causa del conflitto.
Ricordo solo un episodio all’inizio della guerra: non era passato molto dal 7 ottobre, e una mattina sono andata dalle ostetriche che erano in turno. Erano ostetriche cristiane. In quei giorni si faceva una fatica enorme a passare i checkpoint, e spesso si verificavano soprusi gratuiti da parte dei soldati. Le ostetriche in turno si raccontavano le loro esperienze di passaggio al checkpoint quella mattina, e in loro c’era molta rabbia verso i soldati e le autorità israeliane. Ho ricordato loro che in tanti erano morti solo pochi giorni
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prima, ma una di loro, tra l’altro una delle più brave a lavorare con donne ebree, ha reagito istintivamente: ha detto che gli stava bene, che dovevano capire anche loro che cosa vuol dire essere vittime e soffrire. Io sono rimasta abbastanza scioccata dalla risposta, ma ho capito che occorre dare spazio e tempo anche a queste reazioni. Ho semplicemente detto che noi siamo cristiani e la violenza non può essere il nostro criterio, quanto la compassione, e che bisogna cercare di mettersi nei panni dell’altro, e mi sono allontanata. Poche ore dopo, la stessa ostetrica mi ha portato in una sala parto e con le lacrime agli occhi, mi ha chiesto scusa per quello che aveva detto, e ha detto che non ce l’aveva con gli ebrei con cui era solita lavorare. Ha poi aggiunto che lì in ospedale ne aveva incontrati e aveva visto che erano persone proprio come lei, ma che era stanca di vedere che non ci si trattava come esseri umani. Questo per me è stato molto significativo: uno non si deve fermare a commentare la reazione, ma deve capire che dietro la rabbia tantissime volte, se non sempre, c’è una grande sofferenza e una grande nostalgia di comunione, di una relazione che sia reciproca. Per cui si deve accompagnare, accogliere e lasciare lo spazio in cui uno possa crescere e scoprire gli altri come persone.
Quindi si può dire che un’accoglienza sia possibile anche nel conflitto?
Assolutamente sì. Ci sono molte persone che hanno un’umanità grande da entrambe le parti. La cosa che rende tutto difficile è la sofferenza che si è provata. Ricordo una mamma ebrea che ha partorito da noi. Il giorno dopo il 7 ottobre mi ha chiamata e mi ha detto che non riusciva a fare nient’altro che piangere e stringere a sé il suo bambino. Diceva di aver paura per il solo fatto di essere ebrea, paura di essere uccisa. Quello che è successo il 7 ottobre ha generato il panico
in tanti israeliani e la risposta di Israele su Gaza ha messo anche le persone palestinesi in questo stato di autodifesa. Il punto è uscire dall’atteggiamento di autodifesa e tentare di riaprire la via dell’accoglienza. Di fronte alla domanda: «Di te mi posso fidare?» si deve tornare a rispondere: «Sì, di me ti puoi fidare!» Bisogna lavorare per tenere lo spazio dell’accoglienza aperto così che l’altro possa avvicinarsi e si possa vedere il volto di una persona che è come me. Il conflitto ha chiuso questo spazio di accoglienza in tanti, ma non in tutti: non tutto è perduto, molte cose sono cambiate, ma si può sempre ripartire.
Libano: vivere due volte
Padre Michel Abboud – 27.03.25
Per iniziare volevamo farle una domanda abbastanza ampia, abbastanza semplice: ci può dire qualcosa su di lei?
Io sono padre Michel Abboud, sono un religioso carmelitano, e sono il responsabile di Caritas Lebanon da cinque anni. Ho studiato filosofia – anche a Roma per due anni – e insegno da ventidue anni nelle scuole filosofia e catechismo: mi piace insegnare. Qui in Libano siamo prevalentemente cattolici di rito maronita, ma ci sono tante comunità cattoliche: maroniti, appunto, ma anche latini, greci cattolici, armeni.
Ci può descrivere la situazione in cui operate in Libano?
La situazione in Libano adesso è molto critica, c’è la guerra. Sapete che il Libano è l’unico paese del Medio Oriente che è caratterizzato da un’identità cristiana? Quando diciamo «identità cristiana», possiamo pensare per esempio al fatto che il Presidente, per legge, è cattolico, così come il comandante in capo dell’esercito: la Costituzione libanese stabilisce un sistema di equilibrio istituzionale tra le diverse comunità religiose.
Attualmente c’è la guerra tra Hezbollah – un partito po-
litico, che è anche una milizia armata: è una realtà molto complessa – e lo Stato di Israele: quest’ultimo bombarda tutti i punti del Libano in cui si trova Hezbollah. Dunque ci sono tanti sfollati che hanno lasciato i loro villaggi per rifugiarsi in luoghi sicuri. Ci sono almeno un milione di libanesi che sono sfollati: 200.000 hanno trovato riparo nelle scuole pubbliche, altri sono andati dai cugini, dai parenti… e hanno lasciato dietro tutto. Noi, come Caritas – insieme a tante altre ONG – stiamo cercando di aiutare.
Poco tempo fa abbiamo organizzato una giornata in cui dieci medici con diverse specializzazioni si sono messi a disposizione per visitare le persone e distribuire medicine: avevamo assistito 105 persone, quando Israele ha cominciato a bombardare. In quel momento veramente c’era la paura più assoluta, eravamo tutti a rischio. Abbiamo fermato le visite e ci siamo nascosti. Dove e quando c’è un po’ più di sicurezza abbiamo deciso di rimanere. Un’altra volta ci hanno vietato di uscire da una scuola per più di tre ore, per il rischio dei bombardamenti. Sto raccontando queste cose per dare un’idea della situazione in Libano, che non è facile. Talvolta la vita è normale, ma in un istante può cambiare tutto: questa è la nostra realtà, una realtà di insicurezza, in cui non sappiamo quello che succederà. Abbiamo sempre questa domanda: la guerra è finita o no? Nessuno ha dato per il momento una parola definitiva sulla fine della guerra, anche se ora come ora siamo in una fase di allentamento. Le situazioni più critiche riguardano il sud del paese e Beirut, che sono i centri del potere di Hezbollah. Sopra a Beirut adesso si sente un aereo israeliano che sta pattugliando. Negli ultimi mesi c’è una nuova situazione di crisi che è legata alla caduta del regime di Assad in Siria. Tanti cristiani hanno lasciato la Siria e sono venuti in Libano: non so se avete visto i video delle persone che lasciano i loro villaggi,
ma finora sono venuti più di 10.000 profughi da noi. La Caritas sta aiutando anche questa situazione nel nord del paese.
Ci potresti dire qualche dettaglio in più sul vostro operato come Caritas?
Come Caritas siamo presenti in tutto il Libano. Abbiamo dieci centri medici e dodici “cliniche mobili” che si possono spostare in diverse zone. Abbiamo 37 centri sociali a cui le persone più povere possono rivolgersi per i loro bisogni, quattro centri educativi per persone con bisogni speciali, centri per i rifugiati – soprattutto siriani –, centri di accoglienza dei migranti. Poi aiutiamo e accogliamo bambini lasciati in strada. Cerchiamo di portare la carità lì dove c’è bisogno.
Potrebbe descriverci la giornata tipo di una persona che vive a Beirut?
Uno studente si alza la mattina, va a scuola e, per arrivare, c’è tanto traffico di solito. A volte però si mettono tutti in fila dal benzinaio, perché gira voce che la benzina sta finendo; a volte le strade sono deserte, perché arriva la notizia che Israele sta per bombardare e allora la gente rimane a casa tutto il giorno. Beirut è una città piena di contraddizioni, di opposizioni. Per esempio: un giorno la città è deserta, il giorno dopo i ristoranti sono pieni. Ci sono tantissimi stranieri perché in Libano vivono circa 5-6 milioni di libanesi, mentre fuori dal Libano ne vivono 12-14, e vengono in Libano spesso durante le vacanze, dall’Australia, dall’Europa, dall’America… Ci sono poi tantissimi studenti, perché Beirut è una città universitaria, e ci sono diversi studenti stranieri. È una città che cambia in fretta, internazionale.
Voi aiutate i ragazzi a riprendersi dai traumi e dalle ferite della guerra. Che cosa fate di preciso? Come vi dicevo, stiamo lavorando a tanti livelli qui in Libano, soprattutto con i ragazzi. Innanzitutto a livello psicologico, per cercare di aiutarli a costruire una sicurezza interiore. Tanti giovani vogliono andare fuori dal Libano: tanti ragazzi della vostra età dicono di voler finire l’università e lasciare il Libano, perché non hanno fiducia nel loro paese, perché stanno cercando sicurezza e stabilità, non la trovano qui. E che cosa si può dire? Tanti sono morti qui. Non so se sapete cos’è successo a Beirut nel 2020: c’è stata una grande esplosione nel porto, sono morte almeno 200 persone e ci sono stati tanti feriti. Un papà e una mamma sono venuti in ufficio da me e mi hanno detto: «Abbiamo ucciso nostra figlia», «Come?», «Nostra figlia voleva andare a studiare in Canada e noi non l’abbiamo lasciata andare: è morta durante l’esplosione. La colpa è nostra, abbiamo ucciso nostra figlia». La percezione di colpevolezza di questi due genitori è diffusa in tante persone, qui in Libano. Quando i giovani, i ragazzi e le ragazze, i figli vogliono lasciare il Libano, i genitori soffrono, soffrono per la lontananza, ma sopportano questa sofferenza per il bene dei loro figli. Noi stiamo organizzando tante assemblee con i giovani – ne facciamo una a settimana su diversi livelli di età –: Grazie a Dio, in Caritas ci sono 2.000 giovani dai 15 ai 30 anni: facciamo assemblee, momenti di spiritualità, volontariato. Se andate su Facebook e Instagram e cercate “Caritas Lebanon” potete vedere tutte queste attività: grazie a Dio c’è molta attività da parte di giovani libanesi, gruppi di giovani, gruppi missionari, gli scout. Aiutiamo i giovani che vivono qui in Libano e decidono di rimanere qui e dare una mano. Stiamo toccando con mano un bisogno profondo a livello di salute mentale, psicologico: organizziamo tante sessioni e attività
di counseling psicologico con i ragazzi e i bambini, ma in genere ci sono tutte queste attività che coinvolgono i ragazzi e che li aiutano a uscire dalle situazioni di guerra.
Potrebbe dirci qualcosa riguardo alle cliniche mobili?
Noi abbiamo diversi centri medici, dove le persone vengono per essere visitate e per le prescrizioni, per avere medicine gratis. Ma ci sono persone – per esempio anziane o portatrici di handicap – che non hanno la possibilità di venire nei centri medici, che non hanno mezzi per venire. Quindi abbiamo organizzato dieci cliniche mobili, che sono divise nelle diverse zone del Libano. Ogni giorno ognuna di queste cliniche visita una parrocchia, un villaggio: non aspettiamo che loro vengano da noi, ma andiamo noi da loro. In quella parrocchia, in quel villaggio sanno che il primo giovedì del mese verrà l’infermiere o il dottore e porterà le medicine. Talvolta ci sono degli anziani che non sanno leggere: allora l’infermiere spiega loro quale medicina devono prendere a che ora, distinguendo colori diversi – rosso al mattino, verde a mezzogiorno, blu alla sera. Abbiamo cominciato a fare i test per diagnosticare il diabete, per il cancro – e siamo rimasti colpiti da quante persone ammalate ci sono di cui non si sapeva nulla. Sono persone che non avevano la possibilità di essere visitate da un dottore per via della crisi economica in cui il Libano è sprofondato e che ha creato moltissimi nuovi poveri. La lira libanese ha perso il suo valore in pochi anni: se il mio salario equivaleva a 2.000 dollari, ora ne vale 200 – lavoro dalla mattina alla sera per 200 dollari al mese. Se questa è la mia situazione, quando sento un dolore non vado dal medico: non me lo posso permettere. Ma se la Caritas viene da noi gratis, allora vado a farmi visitare. Abbiamo scoperto tante malattie e abbiamo scoperto che tante persone stanno soffrendo in silenzio. Soprattutto questi nuovi poveri.
Che cosa le dà la forza di fare quello che fa?
C’è una grande forza che si chiama Spirito Santo, una forza che Dio ha lasciato nella Chiesa: è come la forza del Sole, che non si ferma mai. Noi la scopriamo nei giovani che si danno da fare come volontari, che sono entusiasti e che sanno che la loro ricompensa viene da Dio. Lo Spirito Santo dà loro la forza. Crediamo alla Provvidenza divina: senza la Provvidenza, per esempio, Madre Teresa non avrebbe potuto lavorare, tanti santi non avrebbero potuto lavorare. Noi amiamo i poveri, ma Dio ama i poveri meglio di noi e più di noi. Noi siamo strumenti di questo amore. Non possiamo cancellare la povertà – come ha detto Gesù –, ma stiamo passando da questa vita e abbiamo il potere di fare il bene.
Quanto bene facciamo? Pensiamoci. Se sono studente, gli studi sono importanti; se lavoro, il lavoro è importante, devo lavorare per vivere. Ma colui che fa l’esperienza di dare se stesso, vive due volte e sperimenta l’entusiasmo. Noi abbiamo visto questo con i nostri giovani, che sono tutti volontari, e che sono studenti universitari: quando si impegnano sul campo come volontari, ritornano a studiare con questo entusiasmo.
È una grande grazia poter incontrare la sofferenza degli altri. A volte sentiamo questa gente che ci dice: «Dio vi ha mandato da noi», ed è una grande grazia potersi accorgere: «Oh, sono mandato da Dio, sono un ambasciatore di Dio, è una grande grazia che Dio mi abbia mandato per aiutare queste persone». La vita di queste persone è difficile, ma non sono state lasciate sole: hanno la fede in Dio che non li lascia e vedono che ci sono delle persone accanto a loro che dicono questa parola. Questa è la forza che ci lascia il lavorare nella carità, c’è un sentimento di gioia per coloro che lavorano sul campo: sentono che Dio dà.
Noi che cosa possiamo fare per voi?
La prima cosa è la solidarietà: la gente qui sa che c’è qualcuno che sta pensando a loro, che c’è gente in Italia che pensa a loro, che ci sono parrocchie in Italia che ho visitato, che pensano a loro e che hanno raccolto soldi per finanziare le nostre iniziative. La questione non è la somma di denaro raccolto: ciò che conta è che ci sia qualcuno che pensa a noi. La solidarietà non è appena provvedere a che gli altri abbiano da bere e mangiare: anche gli animali fanno così. La solidarietà si capisce quando pensiamo a persone che sono unite nella preghiera: ci sono delle persone che stanno pensando a noi davanti a Dio.
Poi c’è l’aiuto negli aspetti più concreti: c’è qualcuno che viene ad aiutarmi, qualcuno che mi ha dato da mangiare. Quando noi capiamo chi ha bisogno di aiuto, se chi individuiamo ha la possibilità di lavorare, gli offriamo un lavoro. Non tutti possono e spesso, appunto, le paghe sono troppo basse per soddisfare tutti i bisogni, e la gente viene da noi a bussare con le lacrime agli occhi. A queste persone noi non diamo solo i soldi, ma chiediamo loro di coinvolgersi con noi nel fare il bene, perché non vogliamo andare da soli al cielo, vogliamo prendere le persone con noi. Dio pensa a tante strade per farci arrivare i soldi di cui abbiamo bisogno e per ricompensare le persone che hanno generosità.
Io credo di capire i giovani che vogliono lasciare il Libano: è difficile rimanere. Che cosa propone lei ai giovani per restare in una situazione così difficile?
A quelli che decidono e hanno la possibilità di andarsene io dico sempre: «Non dimenticare il tuo paese». In questi anni di crisi, la diaspora è stata come ossigeno per il Libano, perché ogni famiglia ha qualcuno fuori dal Libano che ha mandato dei soldi. Rimanere in contatto è fondamentale.
Come sono i rapporti tra le diverse comunità religiose?
Abbiamo un buon rapporto tra musulmani e cristiani. Durante le guerre civili in Libano lo scontro riguardava anche l’identità religiosa, ma un certo fondamentalismo è arrivato da fuori: adesso queste cose non ci sono più, se non in qualche punto del paese. In quest’ultimo periodo di guerre ci sono sfollati musulmani che vengono accolti dai cristiani: siamo fratelli nell’umanità. Non sono con il cristiano che ha sete, con il musulmano che ha fame, no: sono con una persona umana che ha fame e sete. Ci sono dei gruppi fondamentalisti che sono chiusi, ma non tutti sono così: tanti sono aperti ed è possibile una convivenza, lavorare insieme.
Secondo lei, anche da un punto di vista politico-diplomatico, è ragionevole avere una speranza? In passato è successo che due, tre persone hanno lavorato con la diplomazia per migliorare la situazione in Medio Oriente. Lei ha fiducia che questo possa accadere anche ora?
Per rispondere ci vorrebbero almeno due ore, ma ci proverò in un minuto. In Medio Oriente tutto dipende dalla politica e ogni realtà è intrecciata con tutte le altre: in Libano ci sono cristiani, sunniti e sciiti, poi ci sono Israele, gli Stati Uniti, i francesi e gli europei, l’Iran, l’Arabia Saudita, la Russia, la Siria, Hamas, l’ISIS, il problema del petrolio… I cristiani sono dispersi in tutti i luoghi del Medio Oriente e ovunque ci sono equilibri molto delicati.
È difficile immaginare un Medio Oriente senza sangue, da quando Caino ha ucciso Abele, da quando Erode ha fatto massacrare i bambini, dai martiri che ci sono stati dopo Gesù. In Medio Oriente si vede questo mistero della pace: la pace esiste o non esiste?
Per capire che cosa significa la parola «confusione» bisogna studiare la situazione in Medio Oriente: è la confusione
totale, non si sa da dove comincia, non si sa dove si arriva veramente. Noi facciamo, noi guardiamo da lontano, viviamo: non si sa se e quando si farà un accordo tra i grandi paesi. Nessuno sa se e quando questo accordo tra i grandi paesi si farà, ma il popolo libanese non coincide con la politica e noi nel frattempo continuiamo a vivere e a fare del bene.
Padre Firas Lufti – 06.05.25
Da quanto tempo vive ad Aleppo e com’è vivere in mezzo alla guerra? Ha mai avuto paura di morire? Ho vissuto ad Aleppo 14 anni, durante i quali ho avuto modo di assaporare questa gloriosa città, che era il nervo dell’economia di tutta la Siria: era la città dell’industria, della cultura, dell’arte, della musica, e di tante altre belle cose.
Tutto questo, prima del 2011. Sono stato ad Aleppo fino al 2004, poi sono stato un po’ a Roma per studiare – sono un biblista –, e sono rientrato ad Aleppo mentre c’era la guerra, nel 2015. È lì che è nata l’idea del progetto “Un nome e un futuro”. Sono stato trasferito nel 2019, ho svolto il mio ministero nella regione di San Paolo, che comprendeva Siria, Libano e Giordania. Poi, ultimamente, e questa è l’ultima obbedienza, da quasi tre anni mi trovo nel cuore della capitale della Siria, a Damasco.
Questo bellissimo ricordo di Aleppo mi sta nel cuore. Vivere 14 anni in una città significa assumerne tutta la bellezza, ma anche tutto ciò che essa attraversa, e in modo particolare, il dolore della guerra. Una guerra che non ha avuto eguali nella storia per la sua durezza, per la sua lunghezza e per la pena che le persone hanno vissuto: bombardamenti,
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fame, abbandono, emigrazione…
Se ho avuto momenti di paura e paura di morire? Non posso nascondere di aver attraversato momenti di buio. In particolare, nel maggio del 2016, quando il mio convento, dove svolgevo il mio servizio al Collegio Terra Sancta, fu colpito in pieno da un missile che uccise una donna anziana: non ho avuto paura di morire, ma ho temuto per le altre persone che erano lì. La donna che morì aveva 94 anni ed era la più anziana della città, con lei c’erano altre quattro persone ferite, e con me c’era un altro francescano. Io dovevo correre da solo, non c’erano altre persone ad aiutarmi con le donne che si rifugiavano nel convento dei Francescani, una ventina, che venivano dal centro di recupero San Vincenzo de Paoli. Quello fu un attimo di paura.
Ho vissuto un altro momento di paura nel 2013, quando i jihadisti hanno ucciso un sacerdote di nome François Murad. Io ero lì in zona, ad Idlib, la periferia del paese, dove regnavano questi, diciamo, fuorilegge, persone venute da tutto il mondo. Non solo dovevo andare a prendere le spoglie di questo sacerdote ucciso, ma anche proteggere e salvare la vita di tre suore del Rosario. Anche lì ho avuto un altro bel momento per domandarmi: «Ma dove sto andando? Può darsi che anche un missile mi uccida». Avevo paura e pensavo alle lacrime che mia madre avrebbe versato se fossi partito per il cielo.
Chiaro, nel bel mezzo della guerra si fanno i conti anche con la paura, con la morte. La guerra è una brutta cosa, che brucia non solo le mani di chi la inventa, di chi la intraprende, ma brucia tutti quanti, e in particolare gli innocenti: bambini, donne, anziani.
Ha accennato al progetto “Un nome e un futuro”: volevamo sapere com’è cominciato e da quale bisogno è nata la sua creazione, e, soprattutto, com’è possibile che un frate e un mufti si aiutino a vicenda. Il progetto è nato tutto da un’amicizia, ma anche da un bisogno: bisogno e amicizia sono stati i binari su cui è partito quel treno, che continua tuttora a portare bene, pace, serenità e benessere ai bambini più colpiti da questa guerra e anche alle loro mamme. Il contesto geografico di questa realtà era la periferia più abbandonata: sapete che spesso papa Francesco ha detto che la Chiesa deve andare nelle periferie dell’esistenza. Quella zona dove è situato il progetto è una delle periferie più abbandonate: Aleppo Est. Era una zona colpita dai bombardamenti, quindi le persone innocenti, donne e bambini rimasti spesso colpiti, mutilati di guerra, dovevano trovare rifugio in case semidistrutte o totalmente distrutte. La prima volta che ho visitato questa realtà, insieme alla dottoressa Binan, era nel 2016-2017, quindi era appena diventato possibile accedervi. Non si poteva andare lì, eppure abbiamo avuto il coraggio. Le dicevo: «Ma siamo matti? Possiamo farcela? Non è che ci sono delle mine, qualche jihadista che esce per sparare?». E lei rispondeva: «Nessun problema, se noi abbiamo l’intenzione di fare il bene, il Signore ci proteggerà». Ed è andata così. Abbiamo visto, toccato con mano tutto il male, tutta la disgrazia, tutta la catastrofe, il risultato della guerra, che è brutalità in tutti i sensi. Abbiamo visto quei bambini mendicare in mezzo alla strada, donne e tanti loro bambini vendere il pane per vivere o sopravvivere, e quei palazzi, quelle case interamente distrutte.
Allora è nata la domanda: «Che cosa possiamo fare per questa povera gente?». È nata così l’idea di come venire incontro a queste migliaia di bambini non registrati nella so-
cietà, cioè senza un riconoscimento legale, senza un nome. Per questo è nato il progetto di dare prima di tutto nome e registrazione ufficiale a questi bambini che tanti nella società consideravano “seme corrotto”, “seme cattivo”, cioè figli delle violenze dei jihadisti sulle donne: noi abbiamo pensato all’essere umano, mentre altri volevano addirittura cacciarli via dal paese, non vedendo in loro una dignità umana. Abbiamo pensato un po’ a Gesù, a San Francesco e anche all’idea di uomo nell’Islam.
Appunto per non essere considerato come un francescano che aveva lo scopo di fare proselitismo in quella zona in cui vivono solo musulmani abbiamo parlato con il mufti di allora, era un grande amico, e gli abbiamo detto: «Guarda, in quella zona sono tutti musulmani, io voglio fare il bene a questi bambini. Mi dai una mano?». E lui rispose: «Come no? Avanti, siamo soci nel fare del bene». Allora, da questa amicizia è nato un progetto intitolato “Un nome e un futuro”: senza nome non si dà un’identità a un essere umano, il nome fa parte della nostra missione, del nostro essere pienamente cittadini. Riconoscevamo che, se non avessimo offerto a questi bambini un’educazione, un’istruzione e un supporto per il futuro, sarebbero diventati guerriglieri, avrebbero portato con sé tanto rancore contro tutti e contro la società che li ha rifiutati e non accolti. Quindi, per me era necessario intervenire, dare tutto il contributo che possiamo offrire per proteggerli nel presente e nel futuro. Ecco come è nato tutto quanto.
Abbiamo lavorato insieme alla dottoressa Binan, che è una psicologa musulmana, con il mufti di allora, che era un po’ il capo e ci proteggeva come operatori di pace e di bene in quel contesto di catastrofe e di estremo bisogno, e con tanti italiani e tante persone di buona volontà, che hanno contribuito anche economicamente, finanziando questo
progetto, che è cresciuto, si è sviluppato e continua tuttora a seminare il bene. Tanti di questi bambini, ora diventati adulti, sono andati all’università e sono tornati anche loro a servire e ad aiutare altri bambini bisognosi.
Quando, dopo i bombardamenti, c’è stato il terremoto, non ha avuto il pensiero di lasciar perdere tutto quanto?
Certo, Aleppo ha avuto più di una disgrazia. La guerra è stata la più eclatante, 14 anni di continuo. E poi abbiamo avuto anche noi l’effetto della pandemia, che ha seminato terrore e anche causato la morte di tanti nostri amici; due frati francescani sono morti ad Aleppo, purtroppo, a causa del Covid. E poi è arrivato anche il terremoto. Il terremoto è stata questione di secondi, e, certamente, oltre alla distruzione di tante strutture, ha causato tanti morti in quella zona dove noi svolgiamo tuttora la missione e il progetto “Un nome e un futuro”, perché le strutture lì sono molto fragili, non sono ben costruite. Davanti a questo caos, la prima domanda che sorge non è: «Perché?». Non avremo mai risposte a tanti «perché?» nella vita: il perché del dramma dei terremoti, il perché del dramma delle guerre, il perché del dramma della morte degli innocenti, dei bambini. Però c’è un’altra domanda che io ritengo personalmente utile: «Come?». In mezzo a questo disastro, come posso rendermi utile? In mezzo a questa pandemia o al terremoto o alla disgrazia della guerra, come posso mettere al servizio degli altri i doni, i talenti che il Signore mi ha dato? È lì che cambia tutto, è lì che cambia l’impostazione. La domanda del «perché» mi porta all’assurdità a volte, come ha portato tanti filosofi all’ateismo. Il «come?» porta invece i credenti alla speranza di alleviare il dolore altrui, di mettersi a disposizione degli altri, servendoli, amandoli, facendomi davvero, spero, un pastore. Non uno che condanna, non
uno che scappa. Un pastore, come dice Gesù nel Vangelo di Giovanni, non abbandona il suo gregge quando arrivano il lupo, le pandemie, i pericoli: il pastore è uno che offre se stesso, il buon pastore dà la sua vita perché gli altri possano vivere e vivere in meglio. Spero di realizzare quello che sto dicendo: le parole sono facili da dire, ma non sempre facili da attuare.
Mi auguro che la mia esistenza, con la mia percezione di me stesso come essere umano, come cristiano, ma anche come religioso e sacerdote, possa andare sempre verso gli altri per accoglierli così come sono, nella loro diversità sessuale, culturale, di religione, credenti, non credenti, e poter trovare anche la via di comunicare con loro e di amarli, mettendomi al loro servizio in tutta la mia possibilità, in tutto quello di cui io dispongo come mezzi. Soprattutto, mi sono accorto che durante la guerra le persone hanno bisogno di ascolto. Tutti abbiamo paura: non possiamo, durante un terremoto oppure una guerra, non avere paura; però se hai una persona accanto a te che ti accoglie, che ti comprende, che ti ascolta, che poi si fa in cento per darti una mano, allora la vita diventa più accettabile. Questa è stata, diciamo, la mia posizione davanti alla guerra: non scappare, non lasciare, non abbandonare le persone che il Signore ha messo sulla mia via, sulla mia strada, ma poter aiutare con tutti i mezzi che ho disposizione.
Quello che tu dici è molto bello, ma non è troppo poco? Può cambiare davvero la realtà? Può contribuire alla pace in Siria? È una domanda molto interessante. Davanti a un grande disastro, a una grande catastrofe, non è troppo poco fare iniziative qua, iniziative là? Questa è una domanda alla quale ha risposto Madre Teresa di Calcutta, dicendo qualcosa di cui sono anch’io convinto. Di fronte al dramma degli anzia-
ni che morivano per strada a Calcutta, al dramma della povertà assoluta, diceva: «Io non posso salvare il mondo, non posso impedire il male. Do un piccolo contributo. L’atto di bene, pur essendo piccolo, è una goccia nell’oceano, però l’oceano non sarebbe lo stesso senza questa goccia».
Mi spiego meglio. Certo che un progetto come “Un nome e un futuro”, anche se ha aiutato centinaia e centinaia di persone, non ha risolto il problema della guerra in Siria, che ancora oggi non è risolto. Ma chiaramente, sicuramente, ha fatto tanto bene, ha salvato la vita di molti bambini che potevano essere adesso ancora per le strade, che potevano diventare altri jihadisti, che potevano finire ad alimentare la macchina del male. Abbiamo, entro le nostre possibilità, ridotto il male, ma anche tante volte cambiato il male in bene. Certamente, si tratta di una goccia nell’oceano, è una azione: può apparire insignificante davanti alla grande e terribile guerra, al dramma della guerra, della pandemia, del terremoto, però le persone che abbiamo aiutato non sono rimaste uguali, sono cambiate. Quei bambini saranno sempre riconoscenti alla vita, che ha posto per loro questo progetto sul loro cammino: hanno ripreso la scuola dopo 5-8 anni di interruzione, quelli che erano mutilati di guerra hanno avuto la possibilità di una fisioterapia, quelli che non sapevano parlare hanno fatto un percorso di logopedia. Le mamme, che erano proprio disperate, senza lavoro, con 4-5 figli da allevare, hanno ricevuto la possibilità di partecipare a qualche progetto, di fare qualche lavoro. Quando fai il bene, il mondo cambia.
Cito un proverbio italiano che è interessante per me, da questo punto di vista: fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Tante volte il bene non viene considerato, così come invece fanno clamore disgrazie, problemi, scandali: il bene, per sua natura, è certamente lento, ma molto efficace, perché fa penetrare le sue radici più pro-
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fonde nel cuore dell’umanità e della società. Lo possiamo vedere e toccare con mano dopo anni, qui in Siria. È un po’ come il seminatore, che getta il seme per terra. I frutti non si raccolgono dopo due giorni: bisogna aspettare magari anni perché l’albero cresca e si possano raccogliere i frutti. Anche il più piccolo atto di bene avrà sicuramente un impatto sull’altro e sulla società in generale, anche se non si può immediatamente raccogliere l’effetto. Le radici e i frutti hanno bisogno di tempo. Credo che il progetto che abbiamo messo in piedi sia fondamentale, soprattutto in una società dove ci si combatte per motivi religiosi, confessionali: i cristiani sono stati e rimarranno ponti di incontro, dialogo e riconciliazione tra diversi gruppi ed etnie in un contesto multiculturale come il nostro. Penso che quello che abbiamo potuto fare, per la grazia di Dio e l’aiuto di tanti, è un bene che va coltivato, è un bene che è stato piantato e i cui frutti, prima o poi, verranno raccolti in abbondanza: frutti di giustizia, verità, riconciliazione e pace.
Ci potrebbe raccontare una storia di queste persone cambiate?
Vorrei ricordare una persona, uno di quei bambini che, per prendersi cura dei suoi fratelli più piccoli, è dovuto andare a lavorare, ed è stato quindi sottoposto a forme di sfruttamento minorile. Lavorava tutta la settimana, e, nel weekend, veniva da noi nei centri. Diceva: «Beh, io devo vivere, quindi, dato che mio papà è morto e io sono il fratello maggiore, devo lavorare con le mie mani». Aveva 12-13 anni e aveva mani più forti delle mie per il lavoro che faceva. A un certo punto però, questo ragazzo, affezionandosi a noi del progetto, vedendo che potevamo essergli vicini e dare una mano a lui e alla sua famiglia, che potevamo offrirgli la possibilità di studiare, sentendosi accolto e amato, ha lasciato il lavoro e ha cominciato ad andare a scuola: ora va in università.
Avrebbe passato tutta la vita a essere sfruttato in lavori pesanti, e adesso invece ha una vita davvero diversa e bella, credo che sia una persona contenta. Ho in mente poi tante donne che non avevano avuto la possibilità di imparare a leggere e a scrivere, che erano analfabete: abbiamo fatto un corso per loro. Mi ricordo la felicità di una di queste donne, quando stava per scrivere il primo messaggio su WhatsApp a uno dei suoi figli che è all’estero.
Ci sono tante altre storie commoventi di persone che abbiamo incontrato e aiutato: i bambini che non avevano un posto dove giocare nel quartiere; una ragazza a cui abbiamo regalato una bambola a Natale, e che la mattina dopo dice a sua madre che per tutta la notte non aveva chiuso occhio, tanta era l’emozione di aver ricevuto un regalo, il primo regalo della sua vita; un altro ragazzo che dice: «È la prima volta che gioco con un vero pallone». Sono cose piccole, emozioni piccole, ma che cambiano la vita: sono storie di persone che si sentono finalmente “normali”, si scoprono importanti, scoprono di avere la stessa dignità di tutti i bambini e di tutte le bambine del mondo.
Ora che Assad non c’è più, la situazione è migliorata? Com’è la vita in Siria adesso?
Chiaramente la situazione ora è diversa da quando abbiamo iniziato la nostra presenza ad Aleppo. Ora la lotta per i siriani è una lotta economica, perché, da questo punto di vista, Assad o non Assad, la vita qui non è migliorata: stiamo vivendo una svolta politica, ma gli orizzonti per la gente comune non sono cambiati granché. Le reminiscenze della guerra pesano ancora e rimangono i problemi economici, quelli di tante persone che hanno perso il lavoro, e tante case sono ancora cumuli di macerie. Un processo di ricostruzione non è ancora lontanamente iniziato. Non siamo
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più sotto la guerra dei bombardamenti, ma sotto la guerra delle sanzioni economiche internazionali che non sono state ancora tolte, della povertà estrema, di una società che ancora fatica a tessere relazioni. Una guerra rompe le relazioni tra le persone, nel popolo: è la Siria stessa ad essere stata distrutta, e che ora va ricostruita, non solo per quanto riguarda i mattoni, ma soprattutto gli animi e le relazioni. Non è facile, ve lo assicuro. Durante questi quattro mesi abbiamo avuto tanti problemi: molti sono stati uccisi per questioni di appartenenza religiosa – drusi, alawiti… –: su tante cose non c’è chiarezza sulla direzione che prenderà la Siria. Quindi penso che ora effettivamente le armi tacciono, ma si “combatte” per una ricostruzione del paese.
Le sanzioni in questo giocano un ruolo fondamentale. Se, per esempio, voleste fare un gesto di carità mandando 50 Euro per i bambini di Aleppo, non potreste, per via delle sanzioni economiche. È un’altra guerra, credetemi: la guerra delle sanzioni è una guerra ancora più cattiva, più difficile di quella delle armi. Non è facile vivere davanti a persone che hanno ancora paura del futuro, a persone che vivono nella povertà estrema, che sono disperate e si sentono abbandonate.
Che cosa, secondo lei, rende possibile la pace? Che cosa le permette di guardare in faccia l’altro e di costruire insieme?
La pace è il desiderio di ogni persona sana, la pace è un bisogno. La pace non è semplicemente l’assenza della guerra, perché può, per esempio, non esserci nessuna guerra nella mia città o nel mio paese, ma il mio cuore può nel frattempo bruciare di rancore, attendendo solo la possibilità di divorare l’altro, di distruggerlo. La pace è armonia, relazioni serene tra le persone, costruire ponti e non alzare muri. La pace è guardare l’altro come dono, come un fratello. Veramente noi, come dice il titolo dell’esortazione apostolica
di papa Francesco, crediamo di essere tutti fratelli? Oppure pensiamo che l’altro, perché è diverso da me – per opinione, religione o nazione – sia un nemico?
San Francesco pregava il Signore, chiedendoGli di renderlo uno «strumento di pace»: non significa essere pacifisti, ma persone che costruiscono la pace in ogni gesto, in ogni mossa della loro vita. Non è facile vivere davvero questo che sto dicendo, perché il più delle volte l’altro – perché mi è antipatico, perché è diverso – lo considero come un ostacolo, come un impedimento alla mia crescita. Pace significa innanzitutto nutrire la pace nel proprio cuore. Gesù diceva: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio», beati i costruttori della pace. Credo che, in un mondo flagellato dalle guerre – non solo la Siria, ma anche il Libano, Gaza, l’Ucraina, l’Africa –, abbiamo bisogno di tanti operatori di pace, di tanti costruttori che credono anzitutto nella pace, che, vivendola dentro di sé, saranno capaci di trasmettere, di costruire, di farsi araldi della pace.
Credo che papa Francesco sia stato un grande, diciamo così, difensore della pace e odiatore della guerra. Per l’ennesima volta, un giorno prima di morire, ha detto: «No alla violenza, no alla guerra, no all’odio». Il mondo ha bisogno di persone che non tacciono davanti ai disastri o alle catastrofi, che non siano freddi o indifferenti, che non scappano; il mondo ha bisogno di persone che si fanno avanti, che hanno fiducia non solo in se stessi, di persone che hanno fiducia in Dio, perché è Lui la nostra pace. Essere costruttori di pace vuol dire anzitutto nutrirla nel proprio cuore, essere coraggiosi, non badare molto alle sconfitte – perché non si riesce mai al primo colpo e col primo gesto che facciamo: tante volte la pace è un frutto di molta pazienza, di una semina a lungo termine –, e diffondere proprio questo sentimento, questi gesti, a tutti. Allora cresce l’amicizia tra i
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popoli, cresce la fiducia, cresce anche il clima di solidarietà. Io penso che chi vive in contesti difficilissimi come la Terra Santa e il Medio Oriente in generale, debba interrogarsi: «Come posso essere utile io in questo contesto multiculturale, multietnico, multireligioso? Qual è il mio contributo, quali sono i miei talenti, come posso usufruire di questi talenti per metterli al servizio della pace, della ricostruzione, del costruire ponti, dialoghi, e così via?». Penso che gli «operatori di pace» che Gesù ha chiamato «beati» siano proprio le persone che si impegnano veramente e sinceramente nella pace, quelli che lavorano nella costruzione dell’armonia: sono persone anzitutto contente di esserci, di essere qui, persone che sentono la vocazione per fare tutto questo. Perché stare qui costa anche tanti sacrifici: spesso non hai a disposizione internet, acqua o elettricità, spesso non puoi cambiare vestiti ogni giorno e molti sono senza vestiti, non puoi fare vacanze, non c’è svago e così via. Ma questi sacrifici hanno un senso: danno un senso alla mia identità, al mio essere umano, al mio essere un cristiano e anche un religioso. «C’è più gioia nel dare che nel ricevere», diceva San Paolo. È tutta una questione di come vuoi impostare la tua vita: secondo il modello del mondo, del consumismo, dove c’è tutto, dove puoi voler tutto, dove puoi comprare tutto, dove puoi ottenere tutto, oppure con delle rinunce; ma sono rinunce che fanno maturare, crescere, ti rendono una persona più equilibrata, ti permettono di costruire la pace innanzitutto dentro di te.
Vedendo tutta la distruzione – oggi, ma anche a quando hai iniziato ad Aleppo, nel pieno della guerra –, dove nasce la tua speranza?
Grazie per aver fatto una domanda sulla speranza, perché veramente penso, come si dice in italiano, che sia “l’ultima
a morire”. Qui c’entra la mitologia greca, il mito di Pandora. Viene aperto il vaso in cui era contenuto tutto il male e il mondo, che prima era innocente, e dove non c’erano le guerre e i mali che tocchiamo ogni giorno nel nostro contingente, viene invaso da questo male. Ma cosa rimane in fondo al vaso? La speranza. È da qui che nasce il proverbio. La speranza, dal punto di vista teologico e biblico, è avere fiducia nel Signore che ha vinto il male e la morte, è sentire che le promesse di Dio avverranno, saranno compiute, anche se attualmente si vede solo il buio: è, da un punto di vista teologico, l’alba della Pasqua dopo la notte buia nel sepolcro. Insieme alla dottoressa Binan, musulmana di grande umanità, di grande attenzione verso le sofferenze e il dolore altrui, avevamo intuito proprio questo: il Signore non vuole abbandonare questa parte così sofferente del popolo siriano, questa periferia bisognosa di tutto, di acqua, pane, elettricità, affetto, amore. La speranza è nata da quando abbiamo messo piede ad Aleppo Est, dicendo, pregando: «Signore, che cosa possiamo fare?». E Lui ispira, è Lui che ha suscitato innanzitutto il desiderio di fare qualcosa, e poi, nel nostro intelletto, il come farlo. Non bastano desideri pigri e utopici: bisogna mettere le mani in pasta, studiare il progetto, vedere, verificare come l’obiettivo si può raggiungere praticamente, pragmaticamente. Io chiamerei tutto questo «speranza»: riconoscere il bisogno, la catastrofe, impegnarsi in prima persona, assumere sulle proprie spalle il male, iniziare a lavorarci, a mettere pietra su pietra.
Mi viene in mente il Buon Samaritano della parabola: una persona ferita, mezza morta, nelle periferie dell’umanità fuori da Gerico. Passano il sacerdote e il levita, e non ci fanno caso. A un certo punto passa uno straniero, lo guarda e – viene detto con un’espressione stupenda – «ebbe compassione»: “avere compassione” significa non solo guardare la
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sofferenza, il dolore negli occhi, ma anche vivere empatia per l’altro, immedesimarsi con lui, aiutare come vorresti essere aiutato. Qui nasce la risposta autentica alla vita. Quello che noi abbiamo fatto è stato abbattere la cultura della morte ed edificare una cultura della vita, un futuro di pace: da qui è nata la speranza. San Paolo diceva: «Tutto posso in Colui che mi dà la forza»; non ci facciamo sopraffare dal male quando viviamo la speranza, quando la chiediamo nella preghiera. Ecco allora perché San Francesco pregava: «Signore, fammi strumento della Tua pace». Io desidero che Tu, tramite me, ti faccia incontro a questa umanità sofferente, fai delle mie qualità intellettuali, psichiche, fisiche… uno strumento per costruire la pace qui e ora, in questo contesto.
Che cosa la fa partire con uno sguardo diverso, per cui l’altro non è indifferente o un nemico, ma un fratello?
Occorre partire dalla propria esperienza: se io non mi sento accolto, amato e voluto bene, non posso accogliere, voler bene e rispettare l’altro. Io sono stato fortunato. Per esempio, una volta abbracciai un bambino di Aleppo e chiesi a sua madre: «Come si chiama?», «Firas». Che differenza c’è tra lui e me, che abbiamo lo stesso nome? Io ho avuto una famiglia che mi ha accolto, amato, rispettato, offerto una educazione, valori cristiani da custodire e nutrire, che mi hanno portato alla vocazione cristiana e sacerdotale e francescana. Questo bambino, oggi, se non riceve la stessa cosa, se non viene accolto, sarà triste e rifiuterà la società. Tutto dipende, tutto parte da come noi veniamo accolti. Se sei amato, non puoi non amare, come si dice nella Bibbia: «È solo dando che si riceve». Lo affermava anche San Francesco: se diamo, non sciupiamo o perdiamo nulla, ma anzi, guadagniamo, riscopriamo la nostra realtà umana, giungiamo alla nostra maturità, scopriamo la nostra identità cristiana.
Anche papa Francesco parlava molto dell’indifferenza: non possiamo chiudere gli occhi mentre accade il male davanti a noi; dobbiamo darci da fare, scoprirci e sentirci utili, fare delle proposte. Ripeto: non possiamo risolvere tutto il problema, il dramma, il dilemma del male. Possiamo però maledire il buio che c’è davanti a noi e accendere una candela. State sicuri che una piccola candela, in un tunnel totalmente buio, cambia tutto: almeno puoi vedere, puoi capire dove mettere i piedi per i passi successivi. Se chiudo gli occhi, allora lascio sprofondare nel buio me stesso e l’altro.
Un’ultima curiosità: noi abbiamo conosciuto il progetto “Un nome e un futuro”, ma potrebbe dirci qualche parola sulle opere di cui voi francescani vi occupate in Terra Santa? “Un nome e un futuro” è qualcosa di modesto a cui ho dato vita. Ma i francescani, dove si sono accorti di un bisogno e dove è stato possibile, hanno offerto il loro contributo. Faccio solo qualche esempio della Siria: abbiamo un ambulatorio a Latakia, sulla costa; una mensa per i poveri ad Aleppo che distribuisce 800 pasti al giorno; ad Aleppo, mentre c’ero io, abbiamo costruito una piscina e dei campi da gioco, perché i bambini non avevano posti per giocare in città – il gioco è una terapia –. Abbiamo fatto tantissime cose. Penso che i francescani non si siano risparmiati neanche un’opportunità per fare il bene: ci sono decine di progetti. Ora, per esempio, abbiamo dato il via a una piantumazione di alberi, il progetto si chiama “Agricoltura per la carità”: il ricavato dei frutti, dell’olio e del latte – anche un po’ di allevamento fa parte del progetto – verrà distribuito ad anziani, malati e persone senzatetto. Questo è un altro gesto, un altro passo, un’altra piccola candela di bene che illumina il mondo intorno a noi.
Binan Kayyali – 27.04.25
Mi chiamo Binan Kayyali. Lavoro con Pro Terra Sancta come consulente indipendente per il sostegno psicologico in Siria, ad Aleppo, e in Libano, a Dar al-Jumhūriyya. La mia collaborazione è iniziata molti anni fa, intorno al 2015: insieme a padre Firas Lutfi abbiamo cominciato a progettare numerosi interventi di sostegno psicologico per i bambini che hanno vissuto, come noi, le condizioni della guerra. Nel 2017 è partito un progetto chiamato Mustaql, che si traduce letteralmente: “Indipendente”: si tratta del progetto “Un nome e un futuro”, avviato nel quartiere di Aleppo Est al-Shāri‘iyya. Quando entrammo per la prima volta ad Aleppo Est, la zona, liberata da poco nel corso del 2015, non era ancora sicura: camminavamo per le strade e potevamo imbatterci in ordigni inesplosi o altri residui di guerra. Circa un mese dopo la liberazione abbiamo aperto il primo centro a Karm al-Tūtu, poi uno a Mishar‘ār e, grazie a Dio, ne abbiamo aperto un altro. Tutti questi centri sono nati sotto la guida dei padri francescani e con lo sviluppo di Pro Terra Sancta.
All’inizio offrivamo servizi limitati: l’obiettivo principale erano le attività educative, perché la maggior parte dei bambini, a causa della crisi, aveva interrotto la scuola. Abbiamo quindi cercato prima di tutto di sostenere i ragazzini che avevano abbandonato gli studi, aiutandoli a iscriversi di nuovo, anche attraverso avvocati e autorità locali, per ottenere un nome e un’identità ufficiale nel Paese in cui vivono.
Abbiamo inoltre fornito un intenso supporto psicologico, di cui la zona aveva e ha un bisogno enorme. Il mio impulso era umanitario al 100%: vedevo, attraverso la mia relazione con i bambini e il lavoro svolto fin dall’inizio della crisi, quanto fosse grande il loro bisogno di attenzione e comprensione. Molti non trovavano nessun modo appro-
priato per esprimersi, e questo mi ha spinto, insieme a un team di specialisti, ad aiutarli, sempre sotto la supervisione dei francescani e grazie a un finanziamento organizzato. Volevamo che i bambini potessero ritrovare sicurezza, nutrimento emotivo e stabilità: finché si è affamati e inquieti, non si riesce a costruire nulla di buono. Il nostro primo obiettivo, dunque, era “ricollegarli” alla vita e migliorare la loro salute mentale. Abbiamo avviato diversi programmi: gestione delle relazioni a rischio, gestione dello stress, ruoli familiari, competenze comunicative. Purtroppo, la guerra ha cambiato profondamente la natura dei bambini, il loro modo di pensare, i sentimenti. Una grande percentuale presentava sintomi dissociativi, ansia, depressione, tristezza, visioni pessimistiche, soprattutto in adolescenza, e molti avevano perso la speranza, non avevano più una meta. Osservando questi bisogni, soprattutto quelli psicologici, li abbiamo presi per mano per far loro attraversare questo percorso.
Parlando della nostra esperienza personale come specialisti, la guerra ha cambiato molto anche noi: le bombe e i colpi ci hanno trasformati nel pensiero e nelle emozioni, ma, in senso positivo, ci hanno dato maggiore determinazione a restare nel Paese e ad aiutare la gente. Aiutare gli altri ci ha aiutato a guarire a nostra volta: non è un processo individuale, ma collettivo. Offrendo sostegno alle persone che ne avevano bisogno, le abbiamo accompagnate verso quella che speriamo sia la strada della salute. Non è stato facile, per me non lo è stato, ma il sorriso dei bambini, le parole di incoraggiamento dei genitori, il cambiamento nei loro pensieri, il loro ritorno a scuola, la rinascita dei loro sogni ci hanno dato la forza. Dopo anni di cammino insieme, vediamo un effetto molto bello, anche se non immediato, che non accade in un giorno, un mese o un anno: un im-
Siria: non «perché?», ma «come?»
patto che si estende ben oltre il singolo e coinvolge tutto il suo ambiente. Con gli sforzi nostri, dell’organizzazione e dei responsabili, speriamo di continuare a offrire servizi psicologici, educativi e sociali integrati, secondo i bisogni che incontriamo. Vogliamo portare avanti il messaggio di Pro Terra Sancta: aiutare chiunque sia nel bisogno, senza distinzione di religione, idee o provenienza. Speriamo davvero di trasmettere questo bel messaggio.
Bwa Bwa Phan – 25.03.25
Può darci una panoramica, anche dal punto di vista storico, sulla situazione in Myanmar? In questo momento che cosa sta succedendo?
Il Myanmar – chiamato anche Burma o Birmania – è un paese del sud-est asiatico che si trova tra Cina, India e Thailandia. È un paese caratterizzato da una immensa diversità etnica e religiosa. Il gruppo maggioritario, quello dei Burma, è prevalentemente buddhista e storicamente, da dopo la Seconda guerra mondiale, ha cercato di plasmare l’intero paese forgiando un’identità nazionale birmano-buddhista. Molti altri gruppi etnici, tra cui il mio, i Karen, si sono opposti a questo tentativo, hanno resistito. I Karen lottano per l’autodeterminazione da oltre 76 anni.
Il Paese ha subito numerosi colpi di Stato militari, l’ultimo è avvenuto nel 2021 e ha scatenato un movimento di resistenza ancora più diffuso e determinato. I militari hanno risposto con una violenza senza precedenti. In questo momento, ci sono oltre cinque milioni di sfollati e più di 22.000 prigionieri politici. Gli attacchi aerei con i droni, i bombardamenti, i colpi di artiglieria si verificano ogni giorno: anche se i telegiornali in Occidente, e non solo, non
dicono nulla, questa è la realtà quotidiana per molti.
Quali sono le condizioni del popolo Karen e degli altri gruppi etnici? Può descrivere la repressione che devono affrontare? Sono condizioni al di là di ogni immaginazione. Sono tornata da poco in Inghilterra dopo essere stata nella mia terra d’origine. Ho visitato scuole, ospedali, centri sanitari e molte comunità di sfollati, ho parlato con insegnanti, operatori sanitari, leader delle comunità, e abitanti dei villaggi sfollati. Solo nella regione dei Karen, oltre un milione di persone sono sfollate. L’esercito birmano ha distrutto scuole, ospedali, chiese, monasteri e case. Ho visitato luoghi che sono stati bombardati, dove si vive nella paura costante di attacchi aerei o dell’artiglieria o di essere scoperti dai droni.
Le scuole sono state trasferite in luoghi più sicuri, nella giungla. Le lezioni si svolgono sotto gli alberi e vicino alle “classi” sono state scavate trincee in cui poter scappare e rifugiarsi in caso di bombardamenti. In una scuola che ho visitato, molti insegnanti e alunni camminano per più di 90 minuti nella giungla per poterla raggiungere dai loro villaggi nascosti. Negli ospedali allestiti nella giungla ho incontrato donne incinte che dovevano camminare per ore per essere curate, ospedali dove mancano l’acqua potabile e le forniture di base. In generale, le persone hanno un disperato bisogno di cibo, vestiti, medicine, coperte e strumenti per cucinare. Nonostante tutto questo, sono rimasta colpita da come le persone si aiutano a vicenda: questa solidarietà mi dà forza e speranza.
L’esercito birmano, da anni, non solo attacca, ma blocca gli aiuti che sono destinati a raggiungere le regioni abitate dalle altre etnie.
Rispetto alle proporzioni della crisi, il suo lavoro non le sembra solo una goccia nell’oceano? Che impatto pensa che
abbia? Pensa che il Myanmar sia stato dimenticato? La pace in Myanmar è possibile?
Sì, quello che faccio può sembrare una goccia nell’oceano. Ma per coloro che hanno una sete disperata, anche una sola goccia può significare tutto. Abbiamo salvato vite, portato speranza e una reale differenza. Se una goccia può fare così tanto, immaginate cosa potrebbero fare mille gocce.
Non siamo solo dimenticati: siamo abbandonati. Non riceviamo l’attenzione o il sostegno che dovremmo ricevere. Eppure, credo davvero che la pace sia vicina ora più che mai. L’esercito birmano sta perdendo il controllo delle regioni in cui vivono altre etnie. A gennaio sono tornata nel mio luogo di nascita, un posto da cui ero fuggita più di trent’anni fa. Ora possiamo liberamente muoverci lungo il fiume Saluen, vicino al confine con la Thailandia, dove un tempo vivevamo nella paura: è un cambiamento monumentale. A causa delle perdite subite, l’esercito ora si affida in larga misura ad armi a lungo raggio, ai droni, ai bombardamenti indiscriminati, ma stanno perdendo terreno. La situazione sul campo è cambiata.
Quello che noi facciamo riguarda però la pace, non la guerra: non promuoviamo la violenza o l’odio, semplicemente aiutiamo le persone di tutte le etnie e non solo i Karen. Nella nostra zona ci sono anche civili di etnia birmana e aiutiamo anche loro.
Può spiegare lo scopo della sua fondazione e il tipo di lavoro che svolge?
Sono fuggita dal mio villaggio a 17 anni, quando avevo più o meno la vostra età, portando con me quel poco che avevo. Dopo mesi di spostamenti, sono arrivata in un campo profughi in Thailandia e mi è stato riconosciuto lo status di rifugiato: la situazione era molto difficile, perché viveva-
mo di razioni e non potevamo lasciare il campo profughi. Ho avuto però la fortuna di essere selezionata per lasciare la Thailandia: io e altri quattro abbiamo ricevuto una borsa di studio per andare a studiare all’estero. Nel 2001 sono arrivata nel Regno Unito e lì ho conseguito un master in Educazione e sviluppo.
Mio padre, che aveva dedicato tutta la sua vita per la libertà del nostro popolo, è stato assassinato nel 2008, solo tre anni dopo la scomparsa di mia madre. In loro memoria, io e i miei fratelli – anche loro sono riusciti a lasciare il Myanmar – abbiamo creato questa fondazione per continuare il loro lavoro. Ci concentriamo su quattro obiettivi principali: alleviare la povertà, offrire istruzione, promuovere i diritti umani, preservare la cultura Karen. Sosteniamo le comunità lungo il confine tra Thailandia e Myanmar e all’interno del Myanmar, rispondiamo alle emergenze come attacchi, inondazioni, o durante il Covid, forniamo materiale scolastico, costruiamo aule, formiamo insegnanti e sosteniamo gli ospedali locali con cibo e forniture mediche, gestiamo anche pensioni e borse di studio. Ogni anno assegniamo il premio “Padoh Mahn Sha Young Leader” – dal nome di mio padre – a un giovane Karen che ha fatto la differenza per la sua comunità. Il premio consiste in 4.000 dollari utili per sostenere il loro lavoro: lo scopo è riconoscere gli sforzi dei giovani e di incoraggiare altri a contribuire per la loro comunità.
Come fate a coordinare tutto questo dall’estero?
Sono le terre in cui siamo nati e cresciuti e, da quando le abbiamo lasciate, abbiamo mantenuto i contatti con la gente e con le persone che lavorano sul campo. Dopo 76 anni di repressione e resistenza, noi Karen non ci siamo abbattuti proprio per la nostra resilienza e la solidarietà all’interno
della comunità: vogliamo sostenere questo, perché le persone sul campo riescano a lavorare e ad aiutare la comunità.
Perché l’istruzione è così importante per lei?
L’istruzione è la chiave dello sviluppo personale e comunitario. Senza istruzione, le persone non possono sfuggire alla povertà: io, per esempio, senza la borsa di studio che ho ricevuto non potrei fare quello che faccio oggi. Sono appena tornata dal Myanmar e ho potuto constatare come i giovani laureati siano la spina dorsale della comunità: lavorano nella sanità, nell’istruzione, nei servizi sociali. Ecco perché voglio che più giovani possibile vadano a scuola. Sosteniamo già alcuni studenti, ma voglio fare molto di più, perché ho visto in prima persona l’impatto che ha.
Che cosa le dà la forza di non arrendersi?
La nostra lotta dura da più di 76 anni: tante vite perse, donne rimaste vedove, bambini rimasti orfani, infanzie rubate. I miei genitori hanno dato la vita per la libertà, ma non l’hanno mai vista realizzata. Non siamo ancora liberi: arrendersi non è un’opzione per noi. La nostra forza viene da dentro. Con o senza il sostegno della comunità internazionale, continueremo finché tutti non saranno liberi in Myanmar.
Ha mai incontrato qualcuno che sta dall’altra parte – i militari birmani – con cui fosse possibile un dialogo, un incontro, un riconoscimento reciproco?
Molti ragazzi birmani sono costretti ad arruolarsi nell’esercito senza possibilità di scelta e, senza un vero addestramento, vengono inviati a combattere nelle “regioni etniche”: fanno loro il lavaggio del cervello fin da piccoli. Quello che ho visto e vissuto è stato terrificante: le atrocità commesse dai
militari – stupri, torture, uccisioni, utilizzo dei civili come scudi umani – mi provocano ancora gli incubi, sogno di scappare da loro anche se è da decenni che vivo nel Regno Unito. Ma non è colpa loro: a molti di loro viene fatto il lavaggio del cervello fin da quando sono bambini, a scuola insegnano che le persone delle altre etnie sono solo terroristi e ribelli. Vogliono cancellare le altre identità. I bambini Karen, quando vengono cresciuti secondo l’istruzione controllata dai militari, non imparano la nostra vera storia.
Nonostante tutto e in tutto questo che ci sta raccontando, avrebbe degli esempi di una pace costruita dal basso?
La gente sopravvive grazie alla resilienza della comunità. In molti villaggi, le scuole operano sotto gli alberi, con le trincee intorno. Gli abitanti dei villaggi hanno organizzato una rete di comunicazioni per avvisarsi a vicenda quando decollano gli aerei militari e dare l’allarme, così che le persone possano rifugiarsi in tempo. Di notte, le persone non dormono nelle case, ma si nascondono nella giungla. Questo sistema di sostegno reciproco e di allerta aiuta le persone a sopravvivere. Non riceviamo quasi nessun aiuto diretto da fuori, ma le persone si aiutano tra loro, ed è così che siamo sopravvissuti fino a questo punto. Certamente, le donazioni per noi sono fondamentali, senza risorse non possiamo fare nulla di efficace. Io spero che ci sia una mobilitazione politica che impedisca al regime di andare avanti nel fare quello che sta facendo, ma intanto la comunità resiste.
Colombia: per gratitudine, seminare pace
Don Rito Alvarez – 16.02.25
Chi è Don Rito Alvarez?
Don Rito è un uomo fortunato, un uomo di fede che è diventato sacerdote, un uomo che ha fede e che crede in alcuni valori umani: condividere con gli altri quei doni che il Signore ci ha dato e poter aiutare chi ha bisogno. Quindi Don Rito è un prete che, nel suo piccolo, cerca di seguire Gesù.
Che cos’è la pace? Qual è l’esperienza o l’idea di pace che hai nel cuore e nella mente?
Se posso usare un’immagine, la pace è come chiudere gli occhi, prenderci tutti per mano e rivolgerci a un unico Padre, accorgendoci di essere tutti fratelli.
Ma la pace oggi, per quello che sta succedendo nel mondo, è una grande speranza, perché purtroppo la pace, che è un valore, un dono, è qualcosa che davvero dovrebbe essere un diritto di tutti, ma non sempre lo è. Quindi la pace è questa grande speranza, come quella del Giubileo. Ieri dicevo a un gruppo di bambini: immaginate la pace come quel gruppo di bambini che siamo noi: ci siamo incontrati, pur essendo di parrocchie diverse e di età diverse, ci siamo messi in una sala insieme a giocare, ci siamo presi per mano, abbia-
mo detto il Padre Nostro, ci siamo dati un grande abbraccio e, senza conoscerci, in quattro e quattr’otto, eravamo felici di essere insieme. La pace per me è questo: prenderci tutti per mano, sentirci fratelli e rivolgerci a un unico Padre.
Puoi dirci della tua giovinezza nel Catatumbo? Cosa ha impedito che tu cedessi alla logica della violenza? Qui rispondere diventa un po’ più impegnativo. Io sono nato nel territorio del Catatumbo, al nord-est della Colombia, vicino al confine con il Venezuela, in un villaggio molto lontano da un piccolo centro abitato: per arrivarci occorrevano tre-quattro ore a piedi attraversando fiumi e foreste. Non c’erano opportunità. A otto anni ho conosciuto per la prima volta un maestro, perché i nostri genitori, assieme con gli altri del villaggio, hanno pagato questo maestro per tre mesi, perché insegnasse a leggere e a scrivere a me, ai miei undici fratelli e agli altri bambini del villaggio. Ho avuto la fortuna di accogliere la fede come un dono da parte dei miei genitori. Una delle cose importanti per la nostra famiglia è: «Sia fatta la volontà di Dio». Quando mia mamma è rimasta incinta dell’ultima bambina aveva 42 anni, ed è stata forse la prima volta che andava da un ginecologo, che le consigliò di abortire, perché la gravidanza era pericolosa per la sua vita. Lei se ne andò abbastanza infastidita. Dopo tre anni tornò da quel medico e gli fece vedere mia sorella, dicendo: «Ecco qua, la bambina che lei voleva eliminare». La prima volta che andò dal ginecologo tornò dicendo: «No, io accolgo la volontà di Dio, quello che Dio vuole». E oggi mia sorella è sposata e ha tre figli, è quella che sta vicino a mia mamma e si prende cura di lei, perché io e gli altri siamo lontani.
Anche se eravamo numerosi, in casa abbiamo avuto sempre uno spazio per accogliere le persone, per dare un posto
– anche se solo una stuoia per terra – o da mangiare. Da noi hanno trovato posto bambini che magari non avevano dove vivere: almeno cinque bambini che non avevano dove andare sono cresciuti con noi, sono stati adottati dai miei genitori – senza documenti o altro –: hanno trovato un letto e potevano stare con noi e crescere. La mia esperienza da piccolo è stata quella di avere poche cose, ma tante ricchezze: poche cose materiali, ma tantissime ricchezze spirituali di amore, di accoglienza, di disponibilità.
In questo mondo c’erano però i guerriglieri, i quali purtroppo cercavano di convincere noi bambini a prendere le armi. Alcuni miei amici partirono con loro. Saul, un mio amico d’infanzia, è andato con loro quando aveva 14 anni, e pochi anni dopo è stato ucciso. Il suo corpo è stato abbandonato e mangiato dai cani e dagli avvoltoi: capimmo che non era possibile quell’idea della rivoluzione, di mondo nuovo e così via. Negli anni ’90 la gente si è illusa di cambiare la propria situazione piantando la coca.
Faccio una parentesi, tornando al mio percorso personale. A 15 anni ho concluso la quinta elementare, a 18 anni ho iniziato con le medie: ero già alla frutta, già non potevo più sognare, per me la vita era finita. Però qualcosa è successo: delle persone mi hanno aiutato e dopo tutta una serie di peripezie che non sto a raccontarvi, nel 1993 sono venuto in Italia perché c’era la possibilità di studiare e di entrare in seminario. Nel Duemila sono stato ordinato sacerdote nella diocesi di Ventimiglia e sono diventato parroco nella cittadina di Vallecrosia.
Nei primi anni ’90, molti contadini si sono illusi che, piantando la coca, la loro vita sarebbe cambiata: purtroppo, la vita è cambiata veramente. Arrivarono i paramilitari per contendersi il territorio con i guerriglieri, si è scatenata una guerra, e chi ci ha rimesso sono stati i civili – anche
i miei parenti, i miei familiari: sfollati, alcuni uccisi, tanti amici… –. Per esempio, mio cugino Michelangelo. I paramilitari sono arrivati e chiedevano il pizzo, e lui disse: «Io non posso darvi quello che chiedete, perché mi serve per pagare l’affitto e dar da mangiare ai miei figli»; l’hanno portato davanti a tutti e gli hanno sparato in testa cinque colpi di pistola, dicendo poi a tutti: «C’è qualcun altro che non vuole pagare?»
Quando tornai in Colombia nel Duemila, appena ordinato sacerdote, mi occupai in modo particolare di seppellire parenti, amici, di seppellire i guerriglieri. Tutta questa situazione mi ha sconvolto e mi ha fatto pensare una cosa: io ero un uomo fortunato, innanzitutto per la fede, e poi perché avevo trovato anche un posto dove si viveva in pace, avevo trovato qualcuno che mi ha accolto come i miei genitori avevano accolto tante altre persone. Ho pensato che quel bene non potevo tenerlo solo per me: dovevo fare qualcosa. Quando sono tornato, era appena sparito un amico di mio padre e, siccome ero prete, mio padre mi disse: «Andiamo ad aiutare la sua famiglia nelle ricerche». Ci ha dato una mano anche la Croce Rossa, dopo tre giorni l’abbiamo trovato: l’avevano ucciso. Abbiamo fatto il funerale ed è stato un momento straziante. Mio fratello faceva il trasportatore e sulle strade vedeva tanti corpi delle persone che venivano uccise. Per esempio, una ragazzina di 17 anni, uccisa perché accusata di essere stata fidanzata con uno dei guerriglieri: non l’hanno neanche seppellita, l’hanno lasciata sul ciglio della strada e la mangiarono gli avvoltoi. Dopo 15 giorni un contadino coraggioso è andato lì con una pala, ha spostato le ossa e ha messo un po’ di terra sopra. Questo è il mondo che c’è dietro alla cocaina: ho vissuto tanta rabbia, nella mia regione sono morte più di 8.000 persone, poi ci sono tutti gli sfollati. Ho pensato che di fronte a tutto questo non potevo vive-
re da solo come rifugiato qua in Italia, ma che dovevo fare qualcosa. Così nel 2006, parlando con la mia famiglia, abbiamo deciso di iniziare con una fondazione, la Fondazione Oasis de Amor Y Paz. La fondazione nasce proprio per poter aiutare i bambini come ero io, che vogliono studiare, che non vogliono la guerra, che non vogliono il cammino della cocaina, che non vogliono indurirsi, ma che veramente hanno buone intenzioni. Nel 2007 abbiamo accolto 10 ragazzi e siamo cresciuti con tanta fatica: oggi abbiamo tre centri dove vivono più di 150 persone. Abbiamo due obiettivi fondamentali in Colombia: il primo è seminare pace nel cuore dei bambini, così che non crescano arrabbiati – perché arrivano molti bambini arrabbiati, il bambino arrabbiato è quello che arriva e ti dice, e mi è successo: «Da grande voglio uccidere chi ha ucciso mio padre, io da anni lavoro nella coca perché qualcuno ha ucciso mio padre». Io non voglio che i bambini crescano così, perché sono i criminali di domani. La prima cosa è seminare pace nel cuore dei bambini. La seconda cosa è dare un’opportunità a quei bambini sfruttati nelle piantagioni di coca, portandoli fuori: stiamo parlando di migliaia di bambini del Catatumbo, dove sono coltivati a coca oltre 40.000 ettari, dove si producono oltre 500 tonnellate di cocaina all’anno.
In Italia invece andiamo nelle scuole per sensibilizzare contro le droghe, raccontando la tragedia della cocaina. Vado in Colombia ogni sei mesi, a gennaio e a giugno, per accogliere i bambini che arrivano e per seguire i tre centri. Nel primo ci sono un’ottantina di ragazzi dalle elementari alle superiori, nel secondo ci sono studenti universitari, nel terzo abbiamo dei campi a 2.000 metri sul livello del mare, dove i contadini imparano a coltivare il caffè al posto della coca. Insieme a due amici del Principato di Monaco abbiamo creato un’associazione per fare un commercio solidale,
vendendo il nostro Oasis Café Colombia, così da ricavare qualche fondo in più per le nostre iniziative.
Potresti farci comprendere meglio la differenza che c’è tra i narcos e i paramilitari? Che ruolo ha lo Stato? Negli ultimi anni vedi dei segni di cambiamento?
Purtroppo segni di cambiamento in positivo non li vedo. Se parliamo di cocaina, bambini sfruttati, guerriglieri, paramilitari, bisogna andare a vederne la radice. Quando c’è una realtà bella bisogna conoscere perché lo è, per esempio: noi vediamo CL e dobbiamo conoscere la storia di CL perché è qualcosa di molto bello e che trasmette dei bei valori. Ma anche quando c’è una realtà non bella dobbiamo capire perché si è arrivati a questo punto. Il problema fondamentale in Colombia è la corruzione, a causa della quale spesso gli amministratori locali non sembrano essere al servizio del bene comune, e perciò mancano fondi per le scuole, le università, per la sanità, e quindi le persone sono meno difese da tutti quei gruppi illegali o guerriglieri o gruppi legati ai narcos e così via. Uno dei problemi più grossi è quindi il traffico di droga e le sue ramificazioni nella politica. In questo momento il governo colombiano mi sembra pensi più alle armi, che ad investire sull’insegnamento, le scuole, le strade, e tutto quello che veramente può cambiare il cuore delle persone. Quindi io ritengo che se non si lavora per creare una coscienza in una popolazione partendo dai bambini, continueranno a crescere tanti bambini arrabbiati e tanti bambini arrabbiati saranno tanti adulti che prenderanno altri cammini e non il cammino della pace.
In mezzo all’inferno dei narcos, come fai a strappare i ragazzi in Colombia da una vita segnata dal male e a costruire oasi di pace? Ma soprattutto, perché lo fai?
Nel momento in cui mi trovo di fronte a una persona che ha bisogno, se ho una coscienza, non posso passare oltre. Gesù con la parabola del buon samaritano ci ha spiegato bene cosa succede: ci sono tante persone in questo mondo – magari anche chi ha dei ruoli importanti – che passano oltre, ma se uno ha una coscienza e guarda negli occhi la persona che ha di fronte, certamente qualcosa deve fare. Ed è per questo che io mi batto, faccio il possibile e l’impossibile per poter dare la possibilità a quei ragazzi che lavorano come schiavi nelle piantagioni di coca per poter costruire con loro un mondo di pace. Perché lo faccio? Per gratitudine, perché sono molto grato al Padre Eterno di quello che mi ha dato. Per un senso di gratitudine – e devo dire una cosa: se non fosse per la fede, per la fede in Gesù Cristo, nel perdono e in quei primi valori fondamentali della vita cristiana, io sarei diventato un capo narcotrafficante o uno della guerriglia. Lo faccio per gratitudine: per quello che mi hanno insegnato i miei genitori, perché penso di aver vinto una lotteria essendo venuto in Italia. Ho ricevuto tantissimo e l’unico modo per ringraziare il Padre Eterno è impegnarmi per far qualcosa per gli altri.
Immagino che tu abbia subito minacce da parte di chi domina questo ambiente del narcotraffico: di fronte alle minacce di morte, come si fa a non avere paura? Quando tu incontri questi ragazzi, che cosa dici loro che può essere più forte della paura di morire?
Sono stato minacciato in Colombia, soprattutto di essere sequestrato, ma le minacce un po’ più pesanti le ho subite in Italia, quando mi sono impegnato con i migranti qui alla frontiera. Non posso dire di non aver paura, ma ho tanta fede, tanta speranza e soprattutto credo molto nella volontà di Dio. Sono ben consapevole che quando uno fa
il bene per il fratello non deve aver paura di nulla, anche se a volte certamente non è facile, quando ci sono problemi e difficoltà.
Perché vado avanti? Perché credo fermamente che bisogna essere grati, che bisogna prendere per mano quei bambini, come qualcuno ha preso me per mano e mi ha aiutato a uscire. Penso che per costruire la pace si debba prendersi per mano, non cercando con paura un rifugio, ma semplicemente con il desiderio di camminare insieme. La cosa più importante in questo percorso è affidarsi, mettersi nelle mani di Dio e vivere con essenzialità la vita, facendosi sempre questa domanda: «Ma io cosa voglio veramente nella mia vita?». Allora sogno sempre di vedere tutti quei bambini che arrivano alla fondazione con un sacchettino di plastica – hanno solo un cambio di vestitini –, poi li vedo già grandi, che vanno a scuola, che sono dei professionisti, degli infermieri e dei medici, grazie al percorso che abbiamo fatto insieme. Siamo nel tempo del Giubileo: la speranza è la cosa più bella, e credo che il Padre Eterno sa lavorare là dove noi non sappiamo da dove cominciare.
Tu dici che non bisogna far arrabbiare i bambini. Cosa intendi con questa espressione? Educare i bambini senza farli arrabbiare? Perché il perdono dovrebbe essere preferibile alla vendetta? Quando ero piccolo, due persone del nostro villaggio si erano separate. Noi eravamo già tanti in casa, ma, dato che i miei genitori erano padrino e madrina di Battesimo dei figli di questa coppia, un giorno vennero da mia mamma e ci lasciarono il loro figlio di due anni, prima di andarsene. Noi eravamo grandicelli e discutemmo con mia mamma: «Perché accetti questo bambino? I genitori sono vivi, noi qui siamo in tanti…». Mia mamma disse: «Gli altri vivono
la loro vita, ma questo bambino, da solo, non potrebbe: ricordatevi che non bisogna mai disprezzare i bambini, perché, comunque sia, i bambini, crescendo, si ricorderanno di quello che hanno visto in noi adulti: quando hanno ricevuto amore, sapranno contraccambiare con amore; quando hanno ricevuto cattiverie, impareranno a fare i cattivi». Questa cosa ancora mi commuove, ed è il motivo per cui tutte le volte che vedo un bambino, io lo vedo già grande. Spero che quel tal bambino che abbiamo accolto abbia sempre un ricordo della fondazione, della nostra comunità, delle persone che incontra perché così potrà dire: «Ecco, qualcuno che mi aiuta».
Racconto un altro episodio. In questo momento alla fondazione stiamo aiutando una ragazza di 27 anni che ha dei deficit cognitivi: è sempre stata considerata – scusate il termine – la “scema del villaggio”, è alta 1,40 m. Quando era ancora minorenne, hanno abusato di lei e ha avuto un bambino, che ora ha 10 anni e vive con i nonni. Lei, per tirare su qualche soldo, andava la mattina presto in paese a mettere dei pezzi di cartone sulle selle delle moto, per evitare che il sole li rendesse incandescenti, chiedendo poi una moneta ai motociclisti. Il suo compleanno è a gennaio, per cui ogni volta che torno lei mi cerca: da tempo ormai facciamo un pranzo a casa mia per festeggiarla. Quando sono andato il mese scorso, mi ha chiesto di adottarla, di portarla in fondazione. Non avevo un posto da offrirle, ma poi un’assistente sociale mi ha detto che ancora oggi tanti abusano di lei, mi ha raccontato delle storie terribili. Allora mi è venuto in mente: questi sono i veri beati, questi sono i piccoli di cui dobbiamo veramente occuparci; per me, fare qualcosa per questi piccoli è assolutamente la cosa più importante e più vera, più autentica.
Anche se a volte viene la rabbia e certe situazioni sono
difficili, bisogna pensare ad alcune testimonianze. A messa stamattina ho parlato di San Francesco: quando si è spogliato di tutto per ricostruire la chiesa di San Damiano aveva solo 24 anni. Viene portato in tribunale da suo padre e si spoglia letteralmente di tutto, dicendo poi: «Posso sentirmi libero di chiamare Dio: Padre», e recita il Padre nostro. In alcune situazioni di rabbia bisogna veramente entrare un po’ nel cuore di Dio, staccarsi, capovolgere, avere un po’ la mente fredda, avere un po’ la creatività di San Francesco, anche per poter dire: «Non voglio lasciarmi andare alla rabbia di fronte all’ingiustizia, e voglio fare qualche gesto intriso di amore, generosità, pazienza, umiltà». Quando fai così, all’inizio sembra che fai un buco nell’acqua, ma quando le cose sono suggerite da Dio, il Padre sa anche come farle conoscere al mondo.
Che cosa significa per me il perdono? Nel 2016 ho partecipato a un programma televisivo in Colombia, in cui avevano invitato cinque persone che raccontassero di gesti di riconciliazione e di pace. Insieme a me c’era una ragazza, la cui madre era stata uccisa dai paramilitari. Questa ragazza, grazie alla fede, decise di perdonare il carnefice di sua madre; l’ha incontrato e gli ha detto: «Io sono la figlia di quella signora che hai ucciso e ho deciso di perdonarti». Quel giorno lei aveva portato l’assassino alla trasmissione – è noto in tutta la Colombia per essere un criminale –, me l’ha presentato, e lui mi ha detto: «Ho sempre pensato, per tutto il male che ho avuto nella mia vita, di essere destinato a ricevere sempre e solo il male: tutti, alla fine, volevano uccidermi. Però una donna mi ha toccato il cuore, una donna che, nonostante il male che io le ho fatto, mi ha voluto bene, mi ha perdonato. Questa donna mi ha convertito». E si è messo a piangere. Anche io mi sono commosso e mi sono convertito, e mi sono detto: «Come si può perdonare? Solo se nel
tuo cuore hai tanto amore per Dio!». Solo l’amore di Dio ti può aiutare, perché le nostre reazioni umane sono incapaci di perdono; ma quando nel tuo cuore c’è l’amore di Dio, qualche miracolo succede, anche se noi siamo così limitati umanamente, qualcosa di buono succede sempre.
Il Papa ci ha invitato ad aiutarlo nella profezia della pace. Tu, evidentemente, sei uno che questo compito lo sta vivendo da tempo. Secondo te, come ognuno di noi può concretamente aiutare il Papa in questo?
Penso che ognuno deve fare bene il proprio dovere, là dove il Padre lo ha messo: chi è studente, chi è insegnante, chi è prete, chi è genitore, chi è psicologo, chi fa lo spazzino… ognuno al suo posto, cercando di capire in quale modo il suo dovere può essere fatto al meglio. Poi, a mio avviso, dobbiamo andare a riscoprire o a mantenere sempre vivi alcuni dei valori e delle tradizioni fondamentali della vita cristiana. Io sono molto legato a San Francesco e a Don Bosco: mi piacciono moltissimo queste belle testimonianze. Nel momento in cui noi facciamo bene il nostro dovere, con semplicità, e riscoprendo e facendo riscoprire quello che già c’è – i valori fondamentali del Vangelo –, secondo me possiamo essere testimoni. Un’altra cosa fondamentale: non ci dobbiamo dimenticare di dire sempre la verità.
Quando ci sono queste guerre, situazioni di conflitto, forse per via dei mass media, siamo spinti a tifare per una parte o per l’altra: non possiamo cadere nella tentazione di essere tifosi, dobbiamo tifare solo per la pace, facendo conoscere le grandi testimonianze, anche attraverso le piccole e grandi iniziative che possiamo mettere in atto. In tutto questo noi possiamo contribuire molto bene per un mondo diverso e soprattutto offrire una speranza di pace.
Mi è venuto in mente un altro episodio legato alla mia
famiglia. In questo mondo fatto di guerriglia e di bande, abbiamo avuto momenti molto difficili. In un’occasione alcuni guerriglieri si erano messi in testa che mio fratello, che faceva il trasportatore, poteva fare la spia riguardo a ciò che succedeva nei territori che controllavano, e avevano quindi deciso di ucciderlo. Più volte si erano messi ad aspettarlo su una strada dove sarebbe dovuto passare, ma per fortuna prese sempre delle vie alternative. Si è salvato e la questione, dopo un po’ di tempo, è caduta. Quando abbiamo iniziato la fondazione, uno dei primi ragazzi che abbiamo accolto era proprio il figlio del guerrigliero che aveva deciso di uccidere mio fratello. Abbiamo aiutato questo ragazzino: ora è un piccolo imprenditore, ci vuole bene, ogni volta che torno in Colombia viene a trovarmi. Lui non sa che suo padre voleva uccidere mio fratello, ma suo padre – che è ancora vivo – lo sa, e sa che io so. In una occasione in cui questo padre è venuto alla fondazione, ho detto ai ragazzi: «Questa fondazione deve essere un segno di speranza, qui dobbiamo cancellare tutte quelle cose che nel passato ci hanno fatto male. Se qualcosa è successo, accogliamola come la volontà del Signore. Il perdono deve essere uno dei fondamenti che ci aiutano a tenere i piedi per terra». Io so chi mi ha minacciato in Colombia, lo conosco, e ho avuto anche la possibilità, in un secondo momento, di dargli da mangiare.
Tu, di fronte a tutte le ingiustizie e al dolore, hai mai detto: «Ma dov’è Dio?». No. No, perché la presenza di Dio è così viva che io mi rendo conto che tutte le sofferenze non c’entrano niente con Dio; mi rendo che, nella nostra libertà, noi uomini ne combiniamo di tutti i colori, e, anzi, tutto questo mi fa tanto pensare alla pazienza di Dio con noi. A me piace molto pensare alla volontà di Dio – l’ho imparato da mia mamma –, e quindi
nei momenti difficili spero che sia il Padre a giudicare e a fare quello che Lui sa fare. Ma, soprattutto, per ciò che ci compete, mi piace cercare di capire; perché, nel momento in cui entriamo in tutta una serie di meccanismi, mi rendo conto che gli errori degli uomini dipendono dall’essersi allontanati da Dio: è la cosa più terribile. Allora non mi arrabbio con Dio, perché non credo che Dio c’entri molto in questa vicenda, quando piuttosto la nostra contumacia di uomini.
All’inizio dicevi che la pace è una grande speranza: qual è il nesso tra le due?
Rispondo con quello che ho detto all’inizio: bisogna seminare la pace nel cuore delle persone. Quando in Colombia sono stati fatti degli accordi di pace tra lo Stato e un gruppo armato, ho detto che la pace non si firma su un quaderno, ma si scrive nel cuore delle persone, e che sono certi meccanismi – che ho provato a raccontarvi – a permettere questo. Quando dico che “la pace è speranza”, intendo dire che bisogna lavorare molto per seminare la pace nel cuore dei bambini, perché i bambini sono la speranza del mondo. Stamattina, in chiesa, dicevo ai bambini: «Voi avrete in mano il mondo e spero che sarete protagonisti di pace, capaci di consegnare un mondo diverso da quello che gli adulti stanno facendo oggi». Per poter costruire la pace nei territori in conflitto io rimuoverei subito tutti i governanti e consegnerei il governo alle madri e ai bambini: madri e bambini sanno quanto si soffre nella guerra, soprattutto le madri, perché non c’è sofferenza più grande di un figlio che non torna dal fronte. Tutte le madri, anche degli schieramenti opposti, se si guardano negli occhi, si possono dire: «Ma cosa stanno facendo i nostri figli? Non possono continuare a farci soffrire così!».
Haiti: guarire le ferite
Suor Paësie – 11.03.25
Qual è la tua proposta educativa ad Haiti? Cosa ti ha portato e cosa fai ad Haiti? Vivo ad Haiti da ventisei anni. Prima ero una Missionaria della carità, l’ordine fondato da Madre Teresa di Calcutta. Nel 2017 ho fondato una nuova comunità che si chiama Kizito Family, per la protezione e l’evangelizzazione dei bambini che sono per strada a Port-au-Prince. Il progetto educativo è principalmente rivolto alla protezione, perché un bambino, ad Haiti, se va a scuola è automaticamente protetto dall’essere arruolato dalle bande: le gang non arruolano bambini che vanno a scuola, ma quelli che trovano per la strada. Perciò l’idea di creare le scuole è stata innanzitutto per la protezione, quindi adesso abbiamo otto scuole nell’area della Cité du Soleil che è un’area degradata, uno slum. Il primo obiettivo è stato quindi quello della protezione: il fatto di essere un bambino che va a scuola dà un’identità, ad Haiti è molto forte la differenza tra un bambino che va a scuola e uno che non ci va, un bambino che non va a scuola non ha un valore, non conta niente agli occhi della società. Ovviamente, poi, la scuola è anche un luogo in cui loro possono essere evangelizzati, in cui raccontare loro
l’amore di Gesù; inoltre possono anche aver da mangiare, perché a scuola viene fornito il pasto, e spesso è l’unico cibo che ricevono durante il giorno. Le madri della Cité du Soleil di solito cucinano solo la domenica e invece gli altri giorni mangiano semplicemente qualcosa per strada, perciò i bambini in realtà soffrono la fame.
E le ferite che vedi intorno a te? Come te ne prendi cura?
Innanzitutto ci sono delle ferite fisiche: negli ultimi cinque anni l’area dello slum è controllata da diverse gang in guerra l’una contro l’altra e quindi molti bambini sono feriti dai proiettili. Così a volte li dobbiamo portare negli ospedali, dove opera Medici senza frontiere che si prende cura di loro gratis; poi bisogna fare dei follow up perché le ferite sono molto serie: alcuni dei bambini rimangono invalidi e purtroppo alcuni non sopravvivono.
Oltre alle ferite fisiche ci sono anche le ferite dello spirito. La povertà stessa infligge ferite perché deumanizza. Il fatto che un adulto non abbia un lavoro, passi la giornata a non fare niente, questa è già una ferita di per sé; unita al fatto che non si può mantenere la propria famiglia, che non può dare il cibo ai propri figli, crea altre ferite. La vita delle madri è veramente dura, a volte trascorrono tutto il giorno al mercato per cercare di vendere qualcosa, tornano a casa stanchissime, molto stressate e non riescono a dare affetto ai loro bambini. Questo è quello che noto: le donne diventano aspre, dure a causa della povertà e questo si trasmette ai bambini che non ricevono l’affetto di cui hanno bisogno. Sono aspetti strettamente legati alla povertà: tra le persone più ricche non vedo questi problemi, c’è una relazione più normale tra genitori e figli, c’è molto più affetto nelle famiglie più ricche rispetto a quelle molto povere.
Poi ci i sono altre ferite, per esempio la violenza sessuale
collegata alla violenza delle bande criminali: quando le bande invadono delle zone della città, spesso bruciano le case, uccidono soprattutto gli uomini, a volte anche le donne, e stuprano le donne. Tra le madri dei bambini che vengono nelle nostre scuole, ce ne sono molte che sono state vittime di abuso – il nostro focus sono i bambini ma incontriamo anche le madri –. Queste ferite dello spirito possono essere guarite solo attraverso l’amore, l’amore è l’unguento che può guarire le ferite, proclamando l’amore di Dio attraverso le parole, attraverso la nostra presenza e cercando di viverle con loro.
I bambini poveri di Haiti non hanno accesso ai sacramenti, quando non vanno a scuola non hanno un posto dove possono andare per il catechismo e a volte non hanno i documenti, non hanno il certificato di nascita e così non possono essere battezzati: perciò abbiamo i centri di catechismo dove insegniamo e li aiutiamo anche ad ottenere un certificato di nascita, li aiutiamo a comprare vestiti per il loro battesimo o per la loro prima comunione e questa è un’altra parte del nostro apostolato.
Ci può dare qualche esempio di come queste ferite possono essere guarite dall’amore? Come l’insegnare il catechismo e la religione cattolica in una situazione così disperata può essere un modo per guarire queste ferite? In realtà, posso vedere tutti i giorni esempi di come queste ferite possono essere guarite, attraverso i sorrisi e la gioia dei bambini che vengono a scuola. È così visibile! Solo guardare i loro volti il mattino quando arrivano a scuola è una vittoria, ma in ogni caso c’è un processo di guarigione che si sta sviluppando. Ogni piccola cosa che facciamo viene molto apprezzata, noi siamo molto grati perché percepiscono l’amore di cui sono oggetto. Per esempio, oggi stavamo distri-
buendo il cibo che riceviamo da un programma internazionale e alcune delle madri ci hanno detto: “Grazie sorella, noi moriremmo senza di voi”; stavano esagerando. Però è vero che il cibo non è solo il cibo e basta: vedono qualcuno che si prende cura di loro. Guarire, come accade con una ferita fisica, è un processo lento, ma vedo i segni, come per esempio la gioia dei bambini e dei genitori, la gioia e la pace nei loro cuori.
Proclamare il Vangelo, far conoscere la legge di Gesù è una forma di guarigione e di salvezza. Qui vivono in mezzo all’inferno, il livello di violenza è alto e vivono cose terribili, anche i bambini vivono esperienze terribili. Essere in grado di nutrirli attraverso la fede in Gesù, che è il loro Salvatore, è anche questa una forma di guarigione, perché dà loro speranza e la forza di andare avanti.
Volevamo chiederle di più rispetto alla vostra proposta educativa legata alle parole del Santo Padre. Siamo stati colpiti dal concetto di architetti e artigiani della pace. Il Papa dice che la pace è costruita sia da grandi leader politici che agiscono come architetti di pace duratura sia da piccoli artigiani che lavorano quotidianamente dal basso. Ti sei mai sentita inutile o troppo piccola nei confronti della situazione disastrosa davanti a te?
Sì, se consideri che la situazione di Haiti sta peggiorando sempre più. Sono arrivata nel 1999, la situazione era bruttissima, i bambini morivano di fame e di tubercolosi e in quel momento non pensavo che la situazione sarebbe potuta diventare peggiore, ma l’ha fatto: effettivamente è peggiorata e sta continuando a deteriorarsi. Il contesto politico scoraggia moltissimo ed è facile sentirsi inutili; ma non è questo quello che considero: ho i bambini davanti a me, i bambini che servo e lì è molto diverso, perché quando
vedo che ogni bambino riceve qualcosa, impara a fare il segno della croce e a dire “Gesù”, a pregare, riconosco che è un processo lento, a lungo termine, ma di questo si tratta quando pianti i semi. Lo Spirito Santo sta costruendo la pace, la vera pace deriva dallo Spirito Santo: io sono un suo strumento, e dunque evito di guardare ai risultati immediati, perché è scoraggiante e non sono risultati visibili. Qualche volta vediamo qualche esito, ma la pace di cui parliamo non è visibile.
Se non è visibile come puoi dire questo? Se non ci sono risultati come possiamo sperare ragionevolmente? È una provocazione, ti voglio sollecitare, per così dire. Perché è ragionevole sperare se non si vedono i risultati del vostro operato? Credo che sia ragionevole sperare, nella fede e nell’affidarsi.
Quando ho iniziato la nuova comunità non ero sicura se il Signore mi stesse chiedendo di rimanere una Missionaria di carità o di andarmene e iniziare una nuova comunità. E così in un momento di ritiro ho chiesto al Signore: «Devo rimanere o devo lasciare la comunità?». E ho ricevuto una risposta chiarissima da Gesù, che mi ha detto: «Voglio che tu abbia fiducia». Non era una risposta precisa alla mia domanda, in un certo senso, ma è successo in quel momento per il mio discernimento – ed è una cosa che Lui mi chiede ogni giorno. È ragionevole, nell’amore e nella fiducia, sapere che Dio mi sta chiedendo di salvare questi bambini e di piantare i suoi semi; Lui è colui che porterà alla guarigione e che porterà alla pace.
Dici che la fede è ciò che rende tutto ragionevole: cosa allora ti aiuta a tenere viva la tua fede in un contesto così difficile e drammatico?
Il Signore della Grazia, che ci sostiene in questo momento
presente; Lo sento molto, in questi anni mi sono sentita molto raramente impaurita o molto stressata e so che questa è una Grazia che Gesù mi dà per fare questo lavoro. Faccio esperienza di questo in modo molto forte nella vita delle donne, delle madri, perché quello che loro vivono è così duro, la stessa povertà o il fatto che si devono svegliare al mattino senza cibo da dare ai bambini. Tuttavia, sento in loro una grande pace e questo mi colpisce molto.
Faccio un esempio: un giorno, una donna mi venne a trovare perché aveva un bambino che era ammalato. Abbiamo parlato del bambino e poi dell’altro figlio, che andava a scuola, ma che avevano mandato via perché lei non aveva pagato le tasse scolastiche. A un certo punto, le ho chiesto se fosse mai stata vittima di violenza; lei mi disse di sì, e mi ha raccontato piangendo che poche settimane prima era stata stuprata da una banda. Poi però mi disse: «Dio lo sa», e poco dopo stava già parlando di nuovo dei figli, aveva cambiato conversazione, ed era in pace con se stessa, molto tranquilla, e sorrideva. Quando le dissi che c’era un medico disponibile per i suoi bambini era felice, sorrideva, e ho visto, in quella donna e molte molte altre che incontro, che Dio è presente nelle loro vite e a loro dà la Grazia, a loro dà la pace nel cuore e la grazia di cui hanno bisogno per affrontare le difficoltà della vita; questo io lo percepisco in modo molto forte e vedere questo rafforza anche me.
Un giorno, era domenica – noi portiamo sempre i ragazzi a Messa –, un ragazzino che stava attraversando la strada, uscito di chiesa, è stato colpito da un proiettile ed è morto. Aveva 14 anni. La settimana successiva stavo pregando e mi stavo lamentando con Dio, dicendo: «Noi preghiamo per la pace e invece quello che riceviamo è sempre più violenza. Perché non ci dai la pace?». E sentii che Dio mi stava rispondendo: «Ti do la pace, ti ho già dato la pace», al tempo
passato. Quando sentii queste parole – non con le orecchie, ma nella preghiera – divenni consapevole che questa pace era già nel mio cuore: anche se ero turbata, questa pace era nel mio cuore. Vedo questa pace dappertutto, specialmente nelle donne: Lui non dà questa pace con le parole ma a suo modo, direttamente nel cuore delle persone.
Cosa significa per te essere una costruttrice di pace? E pensi che educare i giovani sia un modo per costruire effettivamente la pace?
In realtà, chi costruisce la pace è lo Spirito: io sono un Suo strumento. L’istruzione è certamente un modo per costruire la pace, specialmente trasmettendo i valori cristiani, perché quello che accade ad Haiti è anche legato al voodoo. Il voodoo è praticato ad Haiti ed è una religione essenzialmente basata sulla paura: le persone hanno paura degli spiriti e così fanno delle cerimonie per proteggersi da questi spiriti malvagi, non vedono Dio come buono e quindi vivono nella paura degli spiriti, nella paura di Dio e nella paura verso l’altro. La religione voodoo promuove quindi una mentalità del sospetto: le persone non si fidano l’una dell’altra e perciò la società umana non può essere costruita. I valori cristiani sono l’opposto: il perdono, l’amore per l’altro, la protezione dei più deboli, tutti questi sono valori su cui una società può essere costruita, la pace può essere costruita. Un’istruzione che trasmette questi valori quindi è molto importante in questo senso.
Ti è mai successo che uno dei bambini che hai accolto a scuola o al catechismo sia poi entrato in una banda una volta diventato adulto?
Sì, noi andiamo per le strade e invitiamo i ragazzi a venire nella nostra casa e, qualche volta, qualcuno viene, rimane
per due o tre giorni e poi va via. Quando sono per strada, i bambini ricevono soldi con l’elemosina o con qualche lavoretto o perché rubano. Capita quindi che qualcuno – ma sono molto pochi – rimanga per poco tempo nella nostra casa: tra questi che se ne vanno, qualcuno finisce nelle bande. Uno di questi ragazzini che era andato via, circa due mesi fa, mentre ero per strada – lui mi aveva visto, ma io no –, mi si avvicinò e mi disse che era finito in una banda e che voleva uscirne, che non voleva rimanere. Mi disse: «Voglio uscire adesso», per cui non è più ritornato nella banda dopo quel momento. Credo che due bambini che conosco siano in una banda, solo due dei 3.000 bambini che serviamo.
Come fai a non essere arrabbiata con loro visto che hai mostrato loro un’altra opzione?
Sono più arrabbiata con le persone che li stanno influenzando. Sicuramente anche loro hanno libertà di scelta: i due bambini che sono andati via sono molto limitati intellettualmente, possono essere stati influenzati molto più facilmente. Perciò penso che le persone colpevoli sono quelle che li influenzano. Nel contesto più ampio di Haiti, penso che i colpevoli siano le persone che vendono armi e che guadagnano da una situazione del genere, piuttosto che i bambini.
Sei arrabbiata nei confronti dei criminali?
Sì, ma i veri criminali sono molti politici e le persone che si occupano di traffico di armi. Perché spesso i gangster si sono uniti alle bande a causa della povertà: molti di loro sono solo poveri ragazzi che non hanno cibo. Coloro che sono dietro i loro capi, quelli che stanno facendo i soldi da questa situazione, quelli sono colpevoli.
Quando ci hai parlato del ragazzino di 14 anni che è stato ucciso, io ho pensato: «Per lui non c’è stato niente nella vita, non c’è stata una promessa per lui». Pensi che la vita sia una promessa per i bambini di Haiti?
Con «promessa», intendi un futuro? Se consideriamo la situazione politica del paese, anche per i ragazzi che finiscono la scuola secondaria è molto difficile avere un lavoro o continuare a studiare. In questo senso, possiamo dire che non ci sia un ragionevole futuro per loro ad Haiti. Tuttavia ci sono alcuni ragazzi che finiscono la scuola e riescono a fare dei piccoli lavori. Ma credo che, comunque, occorra pensare alle cose una alla volta e non progettare il futuro, perché non è possibile un vero progetto. Questa è stata la mia ragione iniziale, la ragione per cui volevo fare qualcosa per i bambini: quando vedevo che i bambini erano per strada e non andavano nemmeno a scuola, mi sono detta che era proprio ingiusto lasciare questi bambini senza un futuro, senza saper leggere e scrivere, e quindi ho cercato di rendere accessibile questa possibilità.
Lo hai già detto durante l’intervista ma vorrei chiederti che cos’è la pace per te. È un dono di Dio e noi lo riceviamo quando ci fidiamo di Lui e quando scegliamo di seguire la Sua volontà; quando rifiutiamo la volontà di Dio, immediatamente perdiamo la pace. Penso che tutto ciò abbia a che fare con la nostra volontà, che deve essere in sintonia con la volontà di Dio. È una questione simile alla musica, se paragoniamo la pace con l’armonia: quando c’è armonia tra la nostra volontà e la volontà di Dio, allora c’è la pace.
Hai mai pensato di andartene da Haiti?
In realtà no. È successo, non molto tempo fa, che dovetti
fare un viaggio all’estero, l’aeroporto era stato chiuso e non c’erano voli per tornare ad Haiti, ma questa per me non era una scelta da prendere in considerazione, perché volevo ritornare dai bambini, perché i bambini sono qui; perciò io non sto proprio pensando di andarmene da Haiti.
Questo mi ricorda anche un episodio: durante la lotta tra le bande nella Cité du Soleil, c’era una strada molto pericolosa, dove le bande attaccavano i passanti. Le persone dovevano per forza percorrere quella strada per andare a lavorare, per cui dovevano uscire molto presto, a volte alle 2 di notte, per passare prima che ci fossero le bande in strada a chiedere soldi e minacciare. E poi, ancora, il pomeriggio dovevano ritornare indietro per quella stessa strada: a volte parlavo con le madri e dicevo loro che era troppo pericoloso passare a quell’ora e loro rispondevano che avevano lasciato i bambini a casa, che le stavano aspettando: quindi dovevano percorrere quella strada. Mi sento anch’io nello stesso modo: devo essere qui per i bambini, perché i bambini sono qui.
Vorrei farti una domanda che riguarda la tua missione e riguarda noi. Tu sei una missionaria da tanti anni e quindi la chiamata nella tua vita è stata chiara. Ma per quanto riguarda la maggior parte delle persone, la chiamata di Dio non è di andare in missione: è possibile costruire la pace per noi qui?
Ognuno ha una missione e la missione inizia nella vostra famiglia. Andare in un paese straniero o in un paese povero è uno scopo speciale, per cui ognuno deve fare discernimento, un discernimento che nessuno può fare al posto di qualcun altro. La Chiesa è missionaria, per cui c’è anche chi va lontano in un altro paese, la missione è molto ampia, ma inizia a casa, in famiglia.
Cosa intendi dire quando dici che la missione inizia in casa? Con le persone più vicine a te, perché la missione non è un sogno o un’immaginazione: è nella tua realtà, tra le persone che sono vicine a te, dove puoi iniziare a essere un missionario, un testimone dell’amore di Dio, uno strumento della sua pace.
Un’ultima domanda: dedicandoti completamente a costruire la pace, c’è qualcosa che ricevi in cambio, c’è qualcosa che impari educando gli altri?
Ho già risposto parzialmente quando ho parlato delle donne: la pace che io sento nei loro cuori è contagiosa, so che ricevo la pace da loro e anche la gioia; ricevo la gioia dai bambini, dai loro sorrisi, dal loro entusiasmo. Sono veramente consapevole di ricevere molto da loro.
Maddalena Boschetti – 14.03.25
Innanzitutto ti chiederei di presentarti e di raccontarci perché sei ad Haiti.
Mi chiamo Maddalena, sono una missionaria della Chiesa cattolica e vivo ad Haiti da 23 anni. Sono una consacrata camilliana, e questo mi apre al servizio dei più fragili, in particolare i malati e i disabili, ai quali dedico tutte le mie forze da quando sono ad Haiti, e anche da qualche tempo prima. Dico sempre: io vivo ad Haiti, non lavoro ad Haiti, non faccio parte di un progetto specifico. Mi considero una persona privilegiata perché vivo una vocazione, una persona che il Signore ama enormemente e alla quale ha messo una mano sulla testa, che sta custodendo e conducendo. È una chiamata che cerco di seguire ogni giorno, senza sapere dove il Signore mi conduce: sono una laica, una consacrata e una missiona-
ria. Mi occupo, insieme a persone meravigliose del posto, di tutto ciò che può essere positivo per dare valore alla vita dei bambini più fragili, dei bambini disabili e delle loro famiglie, e di tutti coloro che soffrono per una disabilità, una malattia o, in generale, per la catastrofica situazione del paese.
Non sono nella capitale. Vivo da parecchi anni nella punta più estrema del Nord-Ovest di Haiti, nella diocesi di Port-de-Paix. In questo dipartimento, in questa regione, mi trovo nella punta più estrema, quindi nel Nord-Ovest del Nord-Ovest. Tutto ciò che viviamo qui, in questa zona, prende forma dalla storia del paese e dalla realtà locale, che è una realtà di estrema povertà e di isolamento geografico. Non ci sono praticamente strade, e le situazioni sono penose, anche per gli spostamenti. La gente vive di un’agricoltura di sussistenza: non ci sono macchine agricole, tutto è fatto a mano e con i machete. Non c’è acqua corrente, non ci sono acquedotti: l’acqua proviene da sorgenti naturali, o viene accumulata in cisterne dalla pioggia. Non c’è corrente elettrica, se non dove può essere generata con generatori o pannelli solari.
Secondo me, negli ultimi anni, sono proprio la difficoltà di vivere qui e l’isolamento che ci permettono di sopravvivere, perché in qualche modo la povertà estrema ci difende da ciò che sta accadendo nella capitale e in altre zone del paese. Dove c’è estrema povertà, di solito non c’è uno sguardo avido che mira a possedere. Quello che accade nella capitale è terribile: siamo in uno dei paesi che il nostro amato papa Francesco ha definito vittime di questa “Terza guerra mondiale a pezzi”. Siamo in una sofferenza enorme, con violenze disumane, oserei dire sataniche, da cui non ci si riesce a difendere: è il Signore che dice e dirà una parola per difendere i suoi piccoli, perché è solo Lui che abbiamo come punto di speranza.
Perché hai deciso di andare ad Haiti?
Sono italiana, nata a Genova, e sono venuta ad Haiti 23 anni fa come missionaria. Ho sentito e tuttora sento questa come la mia vocazione, il Signore mi ha chiamato a vivere qui. Io gli ho sempre chiesto di rendermi suo strumento di bene per coloro che non avevano nessun altro, per quelli che avevano veramente più bisogno. Da 23 anni Lui mi ha concesso, mi ha donato la grazia immensa di vivere in questo che è uno dei paesi più poveri e difficili della terra, al servizio dei bambini disabili e malati, al servizio dei più poveri. Ogni giorno ho la coscienza di essere una persona ascoltata da Dio: questa è la sua risposta per me. Sono venuta qui rispondendo a una chiamata, e ogni giorno mi riscopro a cercare di capire come rispondere: c’è un continuo rinnovamento di questa Sua proposta, e ogni giorno mi sento sempre più grata per questa vita che mi ha dato da vivere qui, qui per Lui.
Che cosa ti fa dire che c’è speranza per Haiti?
Le persone. Gli atti brutali sono commessi da persone di Haiti, ma non da tutti. Il popolo di Haiti è un popolo in olocausto in questo momento, è offerto in olocausto, è un popolo che soffre. Il vero popolo di Haiti io lo vedo nei genitori dei miei bambini che non hanno niente di più di quello che è strettamente necessario per vivere, ma danno tutto ciò che possono per i propri figli, che lavorano e si spaccano la schiena in questa terra così rocciosa e difficile da coltivare. Sono persone buone, sono persone che amano vivere. Questa voglia di vivere della gente di Haiti e questa grande fede sono enormi, più grandi di quelle che noi siamo abituati a percepire in noi o fra noi. C’è un continuo proporre il nome di Dio per ciò che accade, ma proporlo bene, un chiedere a Dio l’intervento. Ecco, la speranza mi viene da questa gente, dalla sua re-
silienza, senza dubbio, dalla sua voglia di vivere, dalla sua fede e dalla sua bellezza profonda di popolo, che non è quella dei violenti, dei banditi che stanno devastando la loro stessa gente.
Che cosa ti fa dire che essere – e nascere – ad Haiti non è una sfortuna?
Essere ad Haiti per me non è una fregatura, perché seguo la mia vocazione. Per un giovane haitiano, invece, questa può essere una prigione. Haiti è stata resa una prigione perché non c’è modo di uscire da questa situazione, e soprattutto i giovani lo percepiscono. Ho giovani che fanno di tutto, che sono ottime persone, e si dedicano in modo ammirevole ed esemplare allo studio, alla ricerca di lavoro, e al lavoro stesso. Ma c’è un continuo senso della sconfitta che nasce qui, nella nostra zona, dalla povertà e dal fatto di non riuscire a fare più di quanto permetta la società rurale della zona. I giovani non possono viaggiare, non possono andare nella capitale. Se sono riusciti a trasferirsi nella capitale tempo fa, stanno attenti a vivere, devono stare molto attenti a quale strada prendono per ritornare a casa. C’è un senso di pericolo enorme e un senso di ingiustizia subita, proprio perché non si è liberi di godere dei diritti di cittadino – siamo in un paese che non garantisce nulla –, e non si è liberi di godere dei diritti di essere umano fuori dal proprio paese – perché non ti vogliono, chiudono tutte le frontiere e non ti accettano –. Questo avviene semplicemente per egoismo, ma diventa anche fonte di pregiudizio in popolazioni che non sanno bene cosa succede, cosa vive un popolo come il nostro. Dico “il nostro” perché con gli haitiani ci sono tanti popoli sofferenti, in cui ci sono persone perbene, giovani che hanno tutto uno slancio per vivere e per donare se stessi con le proprie energie, i propri talenti, ma che sono repressi, che non
possono presentarsi, che non possono uscire dalle situazioni infernali che vivono. Questo succede a causa dell’egoismo a livello internazionale, di questa chiusura e paura. Le decisioni prese a livello alto hanno poi delle ricadute sulle persone e si trasformano in pregiudizi: «Lui viene da là, quindi non è una buona persona, quindi è pericoloso, quindi è uno scansafatiche». Tutta una serie di deformazioni di una realtà umana che, in verità, è piena di novità. Il pregiudizio chiude la possibilità della conoscenza e imprigiona non solo l’haitiano sofferente nel proprio paese, ma imprigiona noi stessi ovunque siamo in una mentalità, in una chiusura che ci impedisce di vedere le enormi potenzialità e la bellezza delle persone, delle culture, dei popoli che abbiamo intorno. Questo per me è fondamentale.
Ho in mente tanti esempi di giovani che hanno tutta questa positività, ma anche tanti esempi di sofferenza. Giovani che hanno perso la testa, depressi, ragazzi che hanno tentato di togliersi la vita. Da noi non ci sono gli psichiatri, e vedi vagare questi ragazzi per strada, come da noi una volta i “matti del villaggio”. Sono giovani che nella loro interiorità hanno passato una sofferenza tale per cui hanno ceduto da qualche parte.
La mia coscienza è quella di essere una persona fortunata nel vivere una vocazione che l’ha portata là dove la maggior parte delle persone non avrebbe la minima voglia di mettersi. Ma non ho problemi, perché è la mia strada: non potrei essere più felice da un’altra parte. Non è una felicità che viene dal fatto che oggi c’è il sole. Ho visto e vedo cose che sono proprio brutte, ma non mi lascio governare da questo. Guardo oltre, guardo in alto, e sento che il Signore mi dà questa forza per dare forza agli altri. Mi dà questa speranza, questo sguardo con il quale credo e spero di essere capace di dare speranza a chi mi conosce, a chi mi vede qui.
Immagino che tu abbia visto crescere molti ragazzi: com’è il tuo rapporto con loro? Che cosa ti dà? È una bella domanda. Ho visto tanti ragazzi crescere: molti non li vedo più, ma con molti altri, soprattutto quelli che non avevano famiglia, siamo rimasti famiglia l’uno per l’altro. Con questi ragazzi, bambini che ora hanno trent’anni –o almeno dai 23 in su –, ma anche con gli adulti che lavorano con me, siamo insieme da 15 anni. Prima ero nella capitale, quindi ho tutta una serie di amici e famiglie lì, e qui ancora di più. In questi anni ho vissuto, lavorato, faticato, condiviso tutte le fatiche possibili e immaginabili con persone che hanno sfidato tanti pregiudizi per supportarmi ad aiutare i disabili. Qui il disabile è proprio “l’ultimo”. Chi si occupa del disabile fa scandalo perché “perde tempo”, “butta i soldi”, perché i soldi servono per quelli che stanno bene, non per i bambini che non possono camminare, non possono vedere, non possono parlare. Questo fa molto scandalo. Chi ha accettato di mettersi in gioco per la disabilità ha fatto tanto – non tutti, perché alcuni sono venuti e sono andati –, chi è rimasto è la mia famiglia e mi aiuta. Così come questi bambini e queste famiglie di bambini, quelli che sono più capaci di ascoltare i consigli e che quindi fanno crescere un dialogo con tutti noi, sono la mia famiglia. Non mi sento minimamente sola. Qui non sono solo in una comunità, ma in una famiglia.
Quindi il tuo ruolo è anche educativo?
Il nostro ruolo è anche educativo, a livello comunitario e di presenza nella comunità. Anche solo il fatto di esserci, non tanto il parlare o il fare divulgazione, ma essere presenti e fare da catalizzatore per altri: significa educare la comunità a sentirsi ricca anche di questi bambini, ricca di queste presenze fragili. Il nostro è un cammino umano enorme.
La nostra presenza di missionari è una presenza che parla dell’amore di Dio per ognuno di noi. Siamo qui per dire il valore della vita di tutti, e quindi degli ultimi, rispetto a quello che la gente pensa. Siamo qui per far capire, anche senza le parole, ma con questo vivere insieme, che c’è un cammino da fare anche come comunità e come esseri umani: nel vederci tutti con occhi nuovi, nel vedere il nostro valore e la nostra dignità, e cercare di continuare ad aprire sempre di più gli occhi per fare questo cammino insieme.
In un contesto di guerra, come di fatto è Haiti, questa educazione e questa comunità sono uno strumento di pace? Potresti spiegarci come, secondo te?
Sono uno strumento di pace: il nostro vivere al servizio di questi bambini è il modo che abbiamo scelto e che stiamo scegliendo per costruire la pace, per costruirla qui dove siamo, intorno a noi, a partire dai più piccoli, a partire dalle nostre misere forze, al servizio dei più piccoli. Questo è il nostro modo di costruire la pace. Anche papa Francesco parlava del fatto che la pace non la fanno solo i grandi politici, ma anche le persone più piccole.
Intorno a me vedo la pace quando vedo i miei bambini che adesso sono qui, ad esempio, nelle nostre due classi speciali, nella fisioterapia o negli incontri, quando vedo queste persone contente di essere insieme. Qui abbiamo un centro che la CEI ci ha aiutato a costruire, e lo teniamo come una casa per tutti loro, una bella casa con fiori, piante, qualcosa che crea una sorta di oasi di pace rispetto a ciò che è fuori. Ogni volta che vedo i bambini nella ricreazione; oppure le mamme sedute con i loro bambini in braccio che si agitano perché non riescono a coordinare i movimenti, e le mamme sono lì che parlano, si raccontano le loro cose; oppure i bambini che sono fuori e fanno “caos” perché stanno cor-
rendo uno dietro l’altro, perché giocano; per me è il paradiso sulla terra, un segno profondo di bene, di quella pace che vorrei per tutto il paese.
Che cosa significa per te “pace”?
Pace è una vita piena. Pace non è assenza di guerra, pace per me è vivere all’altezza dell’essere umano, una vita in cui non c’è spazio per la paura dell’altro o anche di se stessi. Pace è una vita nella gioia di vivere.
Secondo te, noi, che viviamo in Italia, e quindi in una situazione molto diversa, possiamo essere, nel nostro piccolo, portatori di pace?
Penso che ognuno di noi abbia la propria vocazione, quindi il proprio posto nella vita del mondo. La vocazione, il dono che il Signore fa, è un dono di vita per sé e per gli altri. Quindi, ovunque, in qualsiasi modo, in qualsiasi stato di vita, siamo chiamati a essere testimoni di una vita che si dona, di una vita che crea bene per l’altro. Essere attenti l’uno all’altro è costruire pace, a partire dalla famiglia, dai compagni di classe, dai vicini di casa, dalle persone che incontriamo, senza paura. Questo non vuol dire imprudenza. Se vado in giro per Port-de-Paix non abbraccio tutti, perché sto attenta a non farmi sparare, per esempio, sono un po’ prudente.
Il sentirsi responsabili del bene dell’altro, questo può essere ovunque: in qualsiasi momento, se mi accorgo che posso fare una differenza per l’altro, questo è costruire pace. Ogni volta che mi accorgo di avere tante cose da dire alla persona che ho davanti, ma se le dico male o non è il momento giusto per dirle bene, non costruisco pace. Cerco allora di stare zitta, oppure cerco di capire cosa mi impedisce di dirle come vorrei dirle, e allora cerco di lavorare su di
me, per costruire pace. Non è un lavoro solo sul “fuori”, ma anche sul “dentro”. Costruisco pace nel momento in cui mi accorgo che posso essere migliore per l’altro, e l’altro mi aiuta a capire in cosa, perché vedo in lui il mio specchio, cioè vedo reazioni, emozioni, bisogni. In lui vedo un fratello e una sorella, in cui cerco di immedesimarmi, provando a capire cosa posso fare io di bene per lui. Credo che questo sia un modo per costruire pace con i fratelli e anche in se stessi.
Come fai a essere certa, visto che le cose ad Haiti vanno oggettivamente male, che un disegno di bene ci sia?
Perché Dio è più forte, perché il bene è più forte del male: questa è la nostra fede, per cui mi fido di Lui. Non so se nella mia vita vedrò le cose andare meglio qui ad Haiti, ma non è importante: importante è vivere bene, vivere facendo il bene e cercando di far vivere meglio gli altri. Io non ho idea se vedrò un paese diverso o meno pericoloso, ma so che il bene è più forte del male. So che la Risurrezione è l’ultima parola, non la morte. Questa è la mia fede, e questo è vero in tutto, ad Haiti e nel mondo, nella storia.
Giovanna Salome – 10.03.25
Innanzitutto, volevamo chiederti di presentarti e di raccontarci perché ti trovi ad Haiti. Mi chiamo Giovanna, sono italiana e sono arrivata ad Haiti per la prima volta nel 2011. All’epoca ero una studentessa, sono arrivata qui per la mia tesi di dottorato in antropologia. I miei ambiti di riflessione, come ricercatrice, erano le catastrofi e la salute.
Nel 2011 era passato solo un anno dal grande terremoto del 2010, che aveva causato molti morti, feriti e distruzio-
ne, colpendo in particolare la capitale. Arrivai con il desiderio di lavorare sull’incontro tra la popolazione haitiana che viveva nei campi sfollati e l’aiuto umanitario. La mia ricerca sul campo è durata circa due anni, durante i quali ho vissuto nel paese, imparato il creolo e cercato di comprendere come funzionassero le cose, vivendo in modo molto semplice. Questo mi ha portato a conoscere e ad amare questo paese, a conoscere e ad amare Haiti. Sono tornata in Italia per scrivere la mia tesi di dottorato, ma ho iniziato ad avere collaborazioni sul campo come antropologa e mi sono innamorata così tanto del paese che ho scelto di tornarci e non sono più andata via. Quindi, salvo una piccola pausa per la stesura della tesi, sono qui più o meno dal 2011.
Il mio impegno nel paese si è concretizzato in vari modi. Dopo la ricerca di dottorato ho cercato di mettere a disposizione la mia professione e il mio sguardo sulle cose per aiutare alcuni organismi internazionali a capire meglio le logiche locali, affinché i progetti proposti fossero più adatti, culturalmente più situati e parlassero veramente alla popolazione. Nel frattempo, insieme a un gruppo di amici haitiani e internazionali abbiamo costituito un’associazione a scopo culturale, attraverso cui abbiamo creato una rivista, che si chiamava 360°, ora in stand-by a causa della crisi. Anche se abbiamo poco tempo insieme, devo dirvi qualcosa di questa rivista, perché vorrei raccontarvi anche di una Haiti che non è solo violenza e crisi, ma è uno dei paesi culturalmente e socialmente più esplosivi e ricchi che abbia mai incontrato. È un contesto ricchissimo per letteratura, teatro, arte, e produzione di arti dal riciclo. Purtroppo, a causa della crisi, negli ultimi anni sta producendo meno. La rivista 360° era nata proprio dalla volontà di creare qualcosa di nuovo rispetto alle riviste già esistenti, che erano più di stampo letterario o scientifico. Abbiamo cercato di lavorare
su temi diversi, adottando uno sguardo multidimensionale e multidisciplinare, facendo appello a varie discipline. Ad esempio, prendevamo un tema e lo esploravamo dal punto di vista delle arti, della letteratura, delle scienze sociali, e anche delle scienze dure, quando possibile. Tutto questo cercando di utilizzare molto le immagini, collaborando con illustratori e pittori locali, dato che l’immagine era poco utilizzata nelle riviste. Accanto alla produzione della rivista, c’è stato tutto un lavoro per diffonderla nel paese, facendola conoscere anche al di là della capitale. Haiti è un paese molto centralizzato. Siamo circa 10-11 milioni di abitanti (l’ultimo censimento è del 2015, quindi le cifre non sono molto corrette), e circa metà della popolazione abita nella capitale. Potete immaginare un paese “megacefalo”, con una grossa testa che è la zona metropolitana di Port-au-Prince, e province meno densamente popolate che spesso hanno scarso accesso a risorse di base e anche alla cultura, perché tutti i servizi sono concentrati nella capitale. Con il gruppo di amici abbiamo organizzato delle tournée nelle scuole per presentare la rivista e animare atelier ludici e pedagogici, usando la rivista come strumento per parlare di loro, del paese o dei temi trattati. È stata un’esperienza molto ricca che mi ha insegnato molto sulle province che non conoscevo e sulla ricchezza che condividevamo con questi studenti.
Nel frattempo, crescendo e cominciando a mettere su famiglia (ho due bambine di quasi due e cinque anni con il mio compagno haitiano), ho cercato un lavoro più stabile che rispondesse alle mie esigenze e interessi, e in cui potessi sentirmi utile per il paese. Così è iniziato il mio incontro con un’organizzazione francese per la quale lavoro tuttora: Douleurs Sans Frontières. È un’organizzazione nata più di 35 anni fa, con sede in un ospedale a Parigi, l’Hôpital de la Salpêtrière, vicino a Gare du Nord. È stata fondata da
alcuni medici specializzati nella presa in carico del dolore, una specializzazione relativamente giovane in medicina e più sviluppata in Occidente. Questi medici hanno deciso di unirsi per espandere questa conoscenza all’estero, iniziando interventi in paesi colpiti da conflitti o in situazioni postconflitto, dove molte persone avevano problemi con arti persi a causa di mine antiuomo. Nel tempo, l’organizzazione ha ampliato la sua prospettiva, iniziando a lavorare su questioni più ampie, legate alla presa in carico del dolore, alle cure palliative per i malati di cancro e con focus specializzati sulla salute mentale. Con loro ho iniziato a lavorare nel 2019.
Fino al 2019 ero una persona molto libera di muovermi nel contesto haitiano, in moto, a piedi o con gli autobus locali chiamati “Tap-Tap”, ma dal 2019 sono iniziate rivolte contro il potere costituito, che hanno cominciato a paralizzare la vita della capitale. Tutti gli abitanti hanno dovuto riconsiderare il modo di vivere la città, con un’escalation che purtroppo conosciamo ancora oggi. Nel corso degli anni ci sono stati diversi momenti chiave, come l’omicidio dell’allora Presidente Jovenel Moïse, nel luglio 2021. Questo ha portato il paese a una graduale instabilità socio-politica che da anni non permette lo svolgimento di elezioni libere e democratiche. In questo vuoto di potere, nonostante ci siano stati organi o persone che lo hanno gestito a momenti, il potere è ormai indebolito e non si struttura su elezioni, e questo crea ampi margini di azione per i gruppi armati.
Questi gruppi sono nati in alcune zone depresse della città, ma con il tempo hanno acquisito forza e potere economico. C’è stato un “salto di qualità” tra il 2021 e il 2022, quando hanno organizzato una vera e propria industria del sequestro. Non c’era giorno nella capitale senza sequestri, e a seconda dei momenti alcune categorie venivano colpite
più di altre: ad esempio, i medici sono stati pesantemente colpiti a un certo punto, per via del loro benessere e del loro ruolo nella società. I sequestri sono diventati un fenomeno capillare che attraversava integralmente la popolazione, arrivando a colpire anche la povera donnina all’angolo della strada che vendeva hotdog per pochi spiccioli. Questo modus operandi strutturato ha permesso ai gruppi armati di diventare indipendenti e di potersi finanziare: hanno costituito così dei veri e propri eserciti. In un paese economicamente indebolito, dove la popolazione fatica a sopravvivere e trovare lavoro, i gruppi armati sono diventati una possibilità di sostentamento: offrono un salario assicurato alle persone che abitano nei quartieri in cui la situazione è più precaria. Grazie ai capitali di cui dispongono, riescono anche ad acquistare armi sempre più raffinate e a strutturare operazioni concepite quasi militarmente. Quindi crescono, diventano economicamente indipendenti, e, oltre ai sequestri, cominciano a voler guadagnare nuovi pezzi di città, scatenando letteralmente una guerriglia a Port-au-Prince. Quando parlo di Port-au-Prince, intendo un territorio vastissimo, un grandissimo agglomerato urbano: la zona metropolitana è costituita da sette comuni e si stima che quasi il 90% della zona metropolitana sia ormai sotto il controllo delle gang. Questa guerriglia si è intensificata tantissimo nell’ultimo anno, con i gruppi armati che hanno deciso di prendere il controllo totale della capitale, avanzando centimetro per centimetro. La loro strategia è: bruciare case, uccidere persone e violentare donne per guadagnare terreno, costringendo la gente ad abbandonare le proprie abitazioni e a rifugiarsi nella miriade di campi sfollati che ormai sono fissi nelle strade della capitale da circa un anno e mezzo.
Com’è possibile che realtà criminali che agiscono in maniera parassitaria giungano a strutturarsi e ad avere possibilità economiche come quelle che stai descrivendo? Qual è il loro obiettivo? L’implosione dello Stato ha creato uno spazio vuoto: con quale scopo lo occupano? È una domanda più che legittima e importante. Non riusciamo ancora a rispondere totalmente.
Ci sono alcuni elementi nell’evoluzione del modus operandi di queste gang che ho omesso. Uno è il narcotraffico, ma non è il solo. Dopo un picco importante di sequestri, il fenomeno si è un po’ abbassato, parallelamente alla creazione di nuove modalità operative. In particolare, le gang hanno ormai messo sotto scacco tutte le uscite e le entrate tra provincia e capitale, creando punti di pedaggio fissi. Oggi non si può più andare in quasi nessuna provincia via terra, ma solo per via aerea. Questo controllo permette loro, una volta presa una zona, di imporre un pizzo sistematico nei mercati e negli uffici di cambio. Gli uffici di cambio sono importantissimi, perché l’impatto della diaspora haitiana sulla popolazione locale è fondamentale per la sopravvivenza, al punto che la diaspora è considerata l’undicesimo dipartimento del paese (Haiti ha dieci regioni). Immaginate cosa può significare il controllo delle chiese, il controllo del territorio per riscuotere il pizzo in maniera sistematica. Se gli haitiani non pagano le tasse allo Stato haitiano, i gruppi armati le tasse se le fanno pagare. Inoltre, il controllo dei porti e degli assi principali di comunicazione permette di procedere ai vari traffici illegali in maniera molto più serena. Negli ultimi mesi si parla anche di traffico d’organi, ma non so… su questo non mi pronuncio.
Ci chiediamo tutti quale sia il disegno, perché a un certo punto, se continuano a fare terra bruciata, dove arriviamo? Se continuano a bruciare case e a cacciare gente, questo
tessuto sociale sarà incapace di pagare il pizzo. Questa è la verità, ma credo che ormai siamo arrivati a un “tutto per tutto”. Negli ultimi mesi si sta tentando, con sforzi più o meno timidi, di contrastare questa situazione e i gruppi armati hanno cercato di utilizzare un discorso del tipo: «Negoziamo». Ma ormai questo punto è stato sorpassato e non si capisce quale sia il loro piano. Una coalizione di gang che si è creata circa due anni fa, a gennaio 2025 si è autodichiarata partito politico. Perché? Non si capisce. Se diventi un partito, significa che hai delle ambizioni di governo, ma non credo che vogliano governare: già controllano tutto il paese… Nelle ultime settimane il governo ha creato una task force che si sta occupando di effettuare degli attacchi dall’alto con i droni. Non so dirvi neanche bene quale sia la strategia del governo: ma anche questi sforzi non hanno di fatto scalfito il potere delle gang, che anzi hanno preso il controllo di nuovi quartieri.
Questa è la situazione in cui viviamo oggi. Ed è una situazione che ovviamente ha toccato la scuola, ragazzi della vostra età. Ci sono attacchi che hanno costretto a una paralisi totale delle attività scolastiche, soprattutto l’anno scorso: per tre mesi, nessuno è potuto andare a scuola, ma perché non si poteva proprio uscire di casa. Alcune scuole – quelle che disponevano di più mezzi – sono riuscite a fare corsi online e via dicendo. Si è cercato poi di recuperare nel periodo estivo. Viviamo con un monitoraggio continuo rispetto alla sicurezza: prima di uscire di casa, e di far uscire di casa i tuoi figli, devi controllare i mille gruppi di sicurezza di cui ormai tutti facciamo parte, ascoltare la radio a partire dalle 5 del mattino per sapere se la strada è libera, se non ci sono barricate, attacchi in corso, per calcolare i tragitti, per sapere come la giornata potrà svolgersi o meno. Poi ci sono bambini che, purtroppo, dopo che le loro famiglie sono sta-
te cacciate dalle loro case e vivono da sfollate, vivono in una situazione estremamente precaria. Sono disseminati per la città e i genitori non hanno più la capacità economica di mandarli a scuola. Immaginatevi le condizioni nei campi sfollati: densamente abitati, condizioni igienico-sanitarie decisamente scarse…
Scusami, ti faccio una domanda diretta: tu perché decidi di continuare a stare lì? Anche pensando alla tua famiglia, come fai a stare lì? Come fate a vivere in una situazione del genere?
È una responsabilità che si è raddoppiata, la mia, avendo una famiglia. La domanda è difficile. Haiti è un paese ricchissimo, che dà molto, ma è anche un paese estremamente faticoso. O lo ami o lo odi. Se lo ami è chiaro che al fondo c’è una grossa volontà – da parte mia e di tutte le persone che sono qui e che continuano a lavorare – di continuare ad accompagnare il paese fuori dalla crisi. Certe volte mi dico: la scelta di restare è difficile, la scelta di partire lo sarebbe altrettanto. Io sono molisana, mi sono trasferita a Roma per studiare, ma ormai Haiti è casa mia. Le mie figlie sono nate in Italia, ma la loro vita è qui.
Come viviamo questa situazione? Cerchiamo di impiegare tutte le precauzioni necessarie, proprio da un punto di vista della sicurezza. Ho imparato non solo per me e la mia famiglia, ma anche per la sicurezza delle persone che lavorano con me, perché noi cerchiamo di aiutare al massimo gli altri, ma cerchiamo di essere sempre attenti alla sicurezza e al benessere delle persone che lavorano con noi. Ho cercato di sviluppare questa expertise: mi sono formata sul come gestire alcune crisi, alcune situazioni problematiche, monitoro costantemente i movimenti miei e degli altri. È faticoso, ma veramente necessario.
Per quello che riguarda la mia vita personale, ho cercato anche di creare un contesto dentro casa il più bello e pieno possibile, immaginando diverse attività per le mie bambine. Certo, più cresceranno e più sarà difficile, ma mi auguro che un giorno usciremo da questa crisi, che non sarà eterna. Con le altre persone che hanno fatto la mia stessa scelta cerchiamo di essere solidali, di farci forza e cerco sempre di ricordarmi, nei momenti in cui mi scoraggio, che quello che cerchiamo di fare cerchiamo di attuarlo perché le persone che sono ancora meno fortunate di noi possano stare un po’ meglio. In mezzo a questa crisi io sono una persona molto fortunata.
Mi sembra che ci sia una sproporzione assoluta tra chi costruisce e chi distrugge: sembra uno scontro impari, da far cadere le braccia. Le mie braccia cadono e si rialzano costantemente. È una ginnastica, è una ginnastica senza fine. Non so se in questo c’entra un po’ il mio essere antropologa: l’antropologia ti insegna a guardare il micro all’interno del macro, ti insegna a guardare. Quando devi studiare un fenomeno, quando lo devi osservare, devi guardare: certo, devi avere in mente le tendenze generali, ma poi devi guardare quello che le persone fanno nella loro intimità, nel loro piccolo spazio, nella loro piccola casa, nel loro piccolo quartiere. Forse è questo che mi conduce a guardare sempre quello che fanno le persone intorno a me e il modo in cui loro contribuiscono, nel loro piccolo, a costruire una rete diversa. Chiunque: il guardiano che c’è nel mio cortile, le ragazze che sono a casa con me e che mi danno una mano.
C’è una storia che ultimamente ha colpito molto me e l’equipe con cui lavoro. Noi facciamo diverse attività, fra cui una presa in carico psicologica di bambini, adolescenti e
adulti che vivono nei campi sfollati. Abbiamo un protocollo abbastanza elaborato e quindi con ogni gruppo facciamo 7-8 sedute, per lavorare un po’ sui traumi che si sono accumulati: molti hanno perso la casa, dei famigliari, tutto; e continuano a essere esposti alla violenza, anche nei campi. Questi campi sorgono spesso in scuole abbandonate, o edifici governativi in disuso. Spesso invece le scuole o i terreni per i campi sfollati appartengono a dei privati che decidono di aprire le loro porte e di accogliere 1.200 persone senza niente in cambio. Tutto questo era un’introduzione per capire la storia che sto per raccontarvi. Il proprietario di una scuola l’anno scorso è stato sequestrato, e ha dovuto vendere tutto quello che aveva per pagare il riscatto: l’unica cosa che gli era rimasta era la scuola. Quando nel novembre 2024 gli attacchi si sono intensificati, avevamo 1.200 sfollati: lui ha aperto le porte della sua scuola per ospitarli. Quando si parla dei campi sfollati ad Haiti, spesso si parla dell’aiuto umanitario, della sofferenza, dei problemi; raccontare la storia di questo uomo fa parte del mio impegno in quanto direttrice del mio centro, ma soprattutto in quanto antropologa ed essere umano: serve creare una contro-narrazione di questo paese, perché è anche il modo in cui parliamo delle cose che contribuisce a dar loro forma. Io credo fermamente in questo.
Per me, parlare di questa realtà è parlare delle micro-cose che le persone fanno nel loro quotidiano non solo per resistere, ma per vivere e permettere agli altri accanto a sé di vivere. Penso che sia in questo che io trovo la mia motivazione.
Sudafrica: essere perdonati 111
Sudafrica: essere perdonati
Linda Biehl – 12.03.25
Vorremmo chiederle se può fare un breve riassunto delle vicende che l’hanno portata a fondare l’associazione. Sono stata molto fortunata perché ho avuto quattro figli straordinari, Amy era la seconda. È sempre stata una bambina dalla grandissima forza di volontà, fin da quando era molto piccola. Per fare un esempio, era rappresentante della sua classe. Crescendo si è appassionata alle relazioni internazionali e quando andò alla Stanford University cominciò a interessarsi specialmente all’Africa Sub-sahariana. Al liceo, lei e le sue sorelle sentirono una canzone, Free Nelson Mandela di un gruppo chiamato The Specials, e proprio al liceo nacque in Amy l’interesse per il Sudafrica e per tutto quello che c’entrava con l’Apartheid. Per questo quando si laureò voleva già andare in Sudafrica, lo voleva moltissimo. Lavorò a Washington DC e ottenne un lavoro al National Democratic Institute che la portò nell’Africa sub-sahariana, in Namibia. Alla fine però ottenne una borsa di studio Fulbright per trascorrere 10 mesi a Cape Town e organizzò un’attività di ricerca con la Western Cape University, che era l’università dei non bianchi. In pratica era stata istituita per persone di colore, a differenza della grande Università
di Cape Town. Potè lavorare direttamente con persone come Dullah Omar, che poi fu Ministro della Giustizia, e tanti altri. Divenne una ricercatrice per loro, ma strinse anche molti rapporti, e fu così che la maggior parte dei suoi amici viveva nelle township e nelle aree fuori dalla bellissima Cape Town.
Alla fine di quel periodo, Amy si preparava a tornare a casa e a cominciare un dottorato in African Studies. Il giorno della festa d’addio, Amy si offrì di portare a casa, in una township, alcuni suoi amici che non avevano l’automobile. Proprio lungo la strada incontrarono un grosso raduno di uomini del Pan Africanist Congress, un movimento che aveva coniato l’espressione “un colono, un proiettile” (il “colono” era una persona bianca). Quel giorno Amy fu fermata da alcuni uomini del Pan Africanist Congress, lapidata e accoltellata a morte. La storia ebbe un certo rilievo a livello internazionale. All’epoca, era l’agosto del 1993, le prime elezioni libere e la vittoria di Mandela si stavano avvicinando; quell’evento fu molto destabilizzante per il Sudafrica e la sua gente, ma lo fu soprattutto per la nostra famiglia. Nel giro di pochi minuti, il nostro campanello iniziò a suonare. Eravamo a Newport Beach, California, una bellissima e soleggiata giornata di agosto, di lì a pochi giorni Amy sarebbe rientrata a casa. Provate a immaginare la situazione.
Vogliamo sapere cosa è successo dopo questo momento. Come è nata l’Amy Biehl Foundation? Scoppiò il caso sui giornali, ricevemmo migliaia di lettere di condoglianze, fummo contattati anche dal presidente Clinton. A un certo punto ci contattò anche l’African National Congress, il partito di Nelson Mandela, invitandoci a visitare il Sudafrica, la terra che Amy aveva amato. Quello fu un momento difficile, perché stavamo affrontando – io, le mie altre figlie, mio figlio, la famiglia, gli amici – la frenesia in-
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torno all’intera questione. Non era facile ragionare su questa proposta, c’era ancora molto interesse mediatico attorno alla morte di Amy, e ci chiedevamo quale fosse la cosa giusta da fare, ma soprattutto che cosa avrebbe voluto Amy. Alla fine decidemmo che, sì, avremmo accettato l’offerta. A molte persone la nostra scelta non piacque, dicevano che era da pazzi accettare, ma noi desideravamo andare per incontrare le persone che Amy amava e a cui teneva. Avremmo visto con i nostri occhi.
Amy era stata assassinata ad agosto, ad ottobre partimmo per il Sudafrica, come veri e propri ospiti del Paese. Non dimenticherò mai un’accoglienza così calorosa. Ci portarono a visitare il Sudafrica, ma soprattutto i luoghi dove Amy aveva vissuto, e potemmo vedere quanto l’amavano, lo vedevamo dall’accoglienza che ci riservavano. Visitammo anche le township. Ovviamente c’erano persone che non erano d’accordo e non supportavano alcune delle cose che poi abbiamo iniziato a dire. Ma se non fossimo andati in quel viaggio e non avessimo visto con i nostri occhi le condizioni in cui viveva la gente, non avremmo mai capito: quello per cui combattevano era la loro stessa dignità. Senza quel viaggio probabilmente non avremmo fatto i passi successivi. Abbiamo iniziato a stringere rapporti con varie realtà, tra cui la Stanford University. E così è nata una piccola fondazione, che riceveva alcune donazioni, che mettevamo da parte, tentando nel frattempo di riprendere una vita normale, anche se, a un certo punto, ci accorgemmo che la vita non avrebbe potuto essere come prima. Dal Sudafrica arrivavano inviti a tornare lì per aiutare, e noi iniziammo a desiderare di dare una mano, ma eravamo consapevoli di non conoscere a sufficienza quella terra. Iniziammo a collaborare con USAID e a fare ricerca, così da conoscere i problemi del Sudafrica e in particolare di Cape Town: problemi
di salute, di istruzione, di sicurezza, e poi l’AIDS, che era davvero dilagante all’epoca. Così abbiamo messo insieme un programma di inclusione, per migliorare la vita delle persone, decidendo in particolare di concentrarci sulle vite dei giovani. Mio marito ed io per un certo periodo ci trasferimmo in Sudafrica, e cominciammo a collaborare con molte persone, tra cui diversi studenti, ricercatori, e anche pensionati che sono venuti ad aiutarci, e la fondazione così si è allargata.
Tra i nostri vari progetti c’era una panetteria che avevamo allestito in modo che le persone potessero imparare il mestiere di fornaio, visto che la disoccupazione era altissima all’epoca. Un giorno però uno dei nostri autisti che trasportava il pane fu assassinato: fu allora che cominciammo a dubitare di continuare la nostra opera, credevamo fosse venuto il momento di smettere. Qui fu decisivo l’incontro con un uomo che poi sarebbe diventato un nostro grande amico, l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, che ci invitò a non fermarci: secondo lui dovevamo assolutamente continuare. Così ci siamo coinvolti moltissimo nella comunità della zona intorno a Cape Town per parecchi anni. Sfortunatamente mio marito morì nel 2002, e da allora in poi dovetti continuare senza di lui.
Prima che mio marito morisse, a un certo punto ci vollero contattare i giovani uomini che erano stati arrestati per l’omicidio di Amy e che scontavano la pena detentiva. Avevano circa 18 anni ed erano stati condannati a 18 anni per omicidio. Grazie alla Commissione per la verità e la riconciliazione, attraverso un processo che non fu facile per noi, avevamo avuto la possibilità di ascoltare la loro storia. Quando furono rilasciati, con due di loro, Ntobeko Peni e Easy Nofemela, iniziò un rapporto. Ci incontravamo, conoscemmo la loro storia e cercammo di metterci nei
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loro panni. Con loro abbiamo capito che la cosa migliore che potevamo fare era essere di supporto e aiutare la gioventù di una nazione che stava lottando per la sua libertà. La stragrande maggioranza delle persone in Sudafrica aveva bisogno di tanto supporto, così abbiamo continuato e abbiamo avuto esperienze estremamente interessanti. Easy e Ntobeko vennero con noi negli Stati Uniti e parlarono in molte, molte scuole, hanno incontrato molte persone e sono diventati giovani uomini meravigliosi. Oggi direi che si prenderebbero cura di me a prescindere da dove possa trovarmi. Abbiamo ancora un buon rapporto, anche se oggi non torno più così spesso in Sudafrica e non faccio più formalmente parte dell’associazione. Sto invecchiando, ho 81 anni, al momento c’è un altro film in produzione su Amy, abbiamo fatto documentari, e ci sono libri e articoli sulla sua storia, e un giorno anch’io vorrei raccontare la mia.
Da parte mia, credo che la gioia più grande della mia vita sia stata poter entrare in rapporto con persone che mai mi sarei aspettata. Certo, non vorrei che si ripetessero gli stessi eventi, ma mi sento privilegiata ad aver provato un po’ di questa gioia. In tanti sono curiosi di quello che mi è accaduto nella vita e del percorso che ho fatto incontrando così tante persone, e in molti vogliono capire come sia stato possibile. Le persone religiose vogliono capirlo, i sociologi vogliono capirlo, e anche gli avvocati che riflettono sulla giustizia riparativa. Tutto quello che posso dire è che ho semplicemente camminato: ho camminato lungo la mia strada.
Puoi parlarci del rapporto che hai stabilito con i due ragazzi che hanno partecipato all’omicidio di Amy? Che cos’è per te il perdono?
Per me sicuramente è stato molto importante conoscere Desmond Tutu, che purtroppo oggi non è più con noi. Lui
è diventato un vero e proprio mentore per me, anche riguardo al perdono.
Innanzitutto penso che il perdono sia per te stesso, non per gli altri. È molto importante perdonare, ma se non sei in grado di farlo tu per primo, non puoi forzare questo processo nelle altre persone: ma quando lascerai andare l’amarezza del tuo cuore, allora vedrai che ti sentirai meglio, sotto tutti i punti di vista, anche fisicamente. Un professore qui negli Stati Uniti, Fred Luskin, ha riunito un gruppo di irlandesi ai tempi del conflitto e delle violenze nel loro Paese, e ha iniziato a parlare loro di perdono reciproco, e ha invitato anche noi. Noi abbiamo accettato, portando con noi anche un uomo proveniente dal Sudafrica, e così abbiamo dato il nostro contributo, perché perdonare è troppo importante. Se non riesci a lasciar andare e a perdonare, e dunque ad andare avanti in qualche modo, l’amarezza ti consuma e non vivi più il presente.
Un secondo aspetto importante per me è stato rendermi conto della vita delle persone, accorgermi di quanto la vita degli altri possa essere così diversa dalla mia. Quando andammo in Sudafrica per la prima volta, mio figlio, che allora aveva 16 anni, mi diceva: «Mamma, mamma, non dovremmo essere qui, non è il nostro posto». Un giorno io e mio marito andammo a partecipare a una conferenza, e mio figlio rimase a giocare con altri ragazzi del posto. Aveva paura, temeva che lo avrebbero odiato. E invece, quando siamo usciti, ho visto i bambini correre e giocare con mio figlio, che addirittura li portava in spalla. Non avevano l’acqua corrente, le loro scuole sembravano delle discariche. Mio figlio, allora, resosi conto della loro situazione, disse: «Se vivessi nelle loro condizioni, penso che anch’io sarei diventato un militante»; credo che vedere con i nostri occhi ci abbia aiutato molto.
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Aggiungerei, inoltre, che noi amavamo Amy, amavamo quello che lei stava facendo in Sudafrica, e perciò sono convinta che lei stessa si sarebbe aspettata tutto questo da noi. Ma veniamo al processo. Non era facile, tutto avveniva in tre lingue, e il loro sistema giudiziario non è identico al nostro. Tuttavia, partecipando alle sessioni del processo, potemmo conoscere le famiglie dei processati e questo fu importante: ci rendemmo conto della loro situazione, e capimmo che in realtà stavano provando a lottare per la libertà del loro popolo, non erano dei criminali. La famiglia di uno degli assassini si legò moltissimo a noi e noi aiutammo la sorella a frequentare la scuola superiore mentre lui era in prigione. Tuttavia non incontrammo subito Easy e Nntobeko. Furono loro a venirci incontro: quando uscirono di prigione si resero conto che niente era cambiato, anzi, il lavoro mancava ancora, e i giovani avevano lasciato la violenza politica per abbracciare il crimine. Sapevano che avevamo avviato dei programmi di aiuto alla popolazione: aiutavamo i maschi a diventare operai nell’ambito delle costruzioni, facevamo molti progetti di cucito per le donne. A quel punto vennero da noi per chiederci se il gruppo giovanile della loro township avrebbe potuto collaborare con noi. Che coraggio incredibile! Così ci hanno invitato nella loro township e durante un incontro ci presentarono con queste parole: «Parla Linda Biehl, madre di tutti noi, parla Peter Biehl, padre di tutti noi». Loro ci hanno adottati, capite? Adottati!
Erano persone che avevano sperimentato tanta sofferenza. Violenze da parte della polizia, oppure l’uccisione dei loro parenti quando erano ancora bambini. Non era facile per loro. Io non so dire che cosa sia il perdono in generale, né se si debba sempre perdonare, posso solo parlare della mia situazione. Sentivo che loro mi stavano facendo un
dono: loro donavano qualcosa a me, io donavo qualcosa a loro. Credo che in quella situazione noi siamo diventati semplicemente persone, uomini e donne che cercano di fare qualcosa di positivo nella situazione in cui si trovano. Ancora oggi sono in contatto con tantissimi ragazzi che hanno partecipato ai nostri programmi e oggi hanno finalmente una loro vita dignitosa.
Quello che è accaduto è più grande di noi. Per me il perdono è dimostrare a mia figlia Amy che la sua vita ha avuto un grande significato, più grande di quello che lei immaginava. Sono felice che oggi sia ricordata con affetto e che quello che è accaduto, per quanto drammatico, abbia avuto un esito buono. Questo è ciò che sento a proposito del perdono.
Il perdono ha a che fare con la giustizia? E che ruolo ha avuto la Commissione per la Verità e la Riconciliazione nella sua storia?
Credo che il Sudafrica sia stato veramente coraggioso a intraprendere questo processo, e credo che la Commissione abbia aiutato molto a curare le ferite del Sudafrica. Noi fummo coinvolti così: il ministro della giustizia, Dullah Omar, era un amico di Amy, e quindi scoprimmo molto presto che il caso di Amy sarebbe stato presentato davanti alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Ci chiesero se avremmo voluto partecipare e noi accettammo. Domandarono se volessimo portare con noi un avvocato, ma rispondemmo che non era necessario: non era una questione legale, per noi era una questione di umanità. Io, inoltre, non mi sono mai considerata una vittima.
Mio marito ed io abbiamo fortemente sostenuto il lavoro della Commissione, anche quando la Commissione decise che gli assassini di Amy avrebbero dovuto essere ri-
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lasciati molto presto, nonostante le condanne che avevano già ricevuto. Il caso mio e di mio marito ha attirato molto l’attenzione, in tanti ci hanno chiesto di raccontare. Personalmente credo che ci abbia aiutati non essere sudafricani, e quindi poter essere più obiettivi nel giudicare. Era come se avessimo avuto una specie di vocina nella nostra testa che veniva da Amy e che diceva: «Sostenete questa cosa!», perché lei aveva sostenuto molte cause simili nella sua vita. Essendo però americana, e non sudafricana, non credo di essere la persona giusta per giudicare l’intera esperienza della Commissione per la Verità e la Riconciliazione.
Ci puoi raccontare della tua amicizia con Desmond Tutu? Mi sento molto fortunata ad aver incontrato una persona così straordinaria. La prima a parlarcene fu Amy stessa, che aveva assistito a un suo intervento pubblico a Stanford ed era rimasta entusiasta. Tutu era già piuttosto noto anche negli Stati Uniti. A permettere il nostro incontro fu una giornalista che era diventata nostra amica, Sam Venter, che ci fece incontrare con Tutu, un uomo così piccolo, ma così simpatico! Anche se spesso era molto serio, penso fosse l’uomo più simpatico sulla terra. Mi ha insegnato a ridere, è stato un sole nella mia vita, e ho condiviso moltissimi dialoghi con lui. Ogni volta che avevamo un piccolo problema era pronto ad ascoltarci. Ha riacceso una scintilla nella mia vita. Credo che lui vedesse in noi delle persone che potessero esprimere appieno il messaggio della Commissione per la Verità e la Riconciliazione meglio di qualunque altra famiglia: per questo raccontava spesso la nostra storia. Era così caloroso con noi, e io mi sento così fortunata ad averlo incontrato.
Ntobeko Peni – 18.03.25
Puoi raccontarci la tua storia?
Sono nato e cresciuto a Cape Town, in Sudafrica. Dico sempre che sono felice di condividere la mia storia perché non è solo mia: è la storia di tutti noi. Sono felice di condividerla perché credo che tutti possiamo imparare da essa. Ci sono grandi lezioni qui dentro e tanti giovani possono essere ispirati, molte comunità di ogni tipo possono crescere incontrando questa storia.
Io sono nato in una “piccola” famiglia di sei maschi e quattro femmine. Potete immaginare cosa volesse dire crescere in dieci in una casa con due camere da letto, una cucina e un salotto. Una camera era dei genitori, nell’altra dovevamo stare noi otto figli. Quindi alla sera trasformavamo la cucina e il salotto in altre camere da letto per avere più spazio. Una volta che tutti avevano cenato, pulivamo, passavamo lo straccio, mettevamo le spugne e ci preparavamo il letto. Queste sono le mie umili origini. A quell’età non sentivo stonature in questo modo di vivere perché l’amore nella famiglia, l’unità, la coesione superavano tutto questo. E naturalmente, da piccolo, non conoscevo nessun’altra vita migliore di quella che vivevo. Alla scuola elementare, a circa sei o sette anni, io e i miei coeatanei abbiamo assistito a tutta la brutalità del sistema dell’apartheid. La nostra scuola elementare era adiacente a una scuola superiore. Ogni volta che c’erano proteste, gli studenti scendevano in strada, la polizia arrivava e sparava a chiunque: non importava chi fosse coinvolto e chi no, quando sparavano i gas lacrimogeni, si diffondevano nell’aria e intossicavano tutti. A scuola le lezioni iniziavano alle 8 e c’erano due pause: alle 9:15 e alle 10:15, alle 14 la scuola finiva. Questi orari erano precisi e scanditi dal suono della campanella. Ogni volta che c’erano
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delle sparatorie la campanella suonava fuori orario e dovevamo correre nel punto di raccolta per essere rimandati a casa, ma arrivò un momento in cui accadeva così spesso che, ogni volta che sentivamo suonare la campanella in orario anomalo, il preside smise di convocarci e ci invitò a correre direttamente a casa, lasciando a scuola lo zaino. Potete immaginare cosa significhi crescere in un ambiente così. Ovviamente, da bambini, non correvamo mai a casa quando dovevamo farlo. Eravamo curiosi, volevamo vedere cosa stava succedendo. In realtà sapevamo già cosa sarebbe successo: la polizia sparava agli studenti delle superiori e a chiunque fosse in strada, lasciava a terra i feriti, inseguiva i fuggiaschi, poi tornava e calpestava con gli stivali di pelle le ferite dei moribondi per far uscire il sangue più velocemente ed accelerarne la morte. Questa era la realtà a cui eravamo esposti. Quando vedevamo gli studenti delle superiori portare in salvo i feriti, noi piccoli volevamo imitarli, ma non avevamo abbastanza forza per sollevare dei corpi, quindi ci comportavamo come un branco di iene: afferravamo tutti insieme i feriti per le spalle e li trascinavamo in salvo. Oggi sappiamo che questo non era il modo corretto di soccorrere, ma all’epoca imitavamo solo quello che facevano i più grandi. Così, mentre la polizia inseguiva gli altri, noi piccoli ci infilavamo tra i vicoli per trascinare via i feriti. Crescevamo così.
Un’altra cosa che da piccoli facevamo spesso era andare a caccia nei boschi. Usavamo le nostre biglie da gioco rotte per cacciare e colpire gli uccelli. Poi abbiamo smesso di cacciare, abbiamo iniziato a comprendere il vero valore di una biglia rotta. All’epoca le bevande erano vendute in bottiglie di vetro, non in plastica come oggi. Ci divertivamo a colpire le bottiglie vuote con le biglie, poi abbiamo smesso di fare anche questo. Abbiamo iniziato a comprendere il valore delle biglie rotte e delle bottiglie di vetro. A otto anni, in-
fatti, abbiamo iniziato a raccogliere questi oggetti per darli al Pan Africanist Congress (PAC). Venivano usate per costruire bombe Molotov: le biglie venivano messe dentro le bottiglie riempite di benzina con uno straccio. Quando le bottiglie venivano lanciate contro i veicoli della polizia, le biglie rotolavano negli angoli nascosti e aiutavano il fuoco a propagarsi. Quando davamo questi oggetti al Congress sapevamo benissimo per che cosa sarebbero stati utilizzati. In cambio, a volte, ci davano bottiglie di bevande per recuperare la cauzione al negozio. Sapevamo di contribuire alla lotta. Crescevamo così. Vedevamo ogni giorno morire persone, era diventata la normalità.
A tredici anni ero già dentro la politica. Non era una scelta: se eri in strada eri coinvolto. Quando c’erano proteste dovevi scappare, altrimenti avrebbero sparato anche su di te. Il coprifuoco veniva imposto e dovevamo sparire dalle strade. Dopo poco ho aderito al PAC, un movimento armato che credeva che la terra ci fosse stata tolta con la forza e che solo con la forza avremmo potuto riprendercela; nel tempo sono diventato uno dei leader studenteschi. Il 1993 fu dichiarato l’Anno dell’Operazione Grande Tempesta. Quell’anno morì Amy. Non era una cosa prevista: non era conosciuta, non era un bersaglio, si è trovata coinvolta in questa operazione che era iniziata nel 1992: avevamo deciso che l’anno successivo avremmo reso il Sudafrica ingovernabile. Colpivamo ristoranti, chiese frequentate dai bianchi, piscine, club, ovunque ci fosse una concentrazione di bianchi. Attaccavamo camion e aziende che finanziavano lo Stato, bruciavamo i camion della spesa, del latte, del pane nei nostri quartieri per creare disagio. Il nostro slogan era: «Massimo danno al nemico, minimo danno agli africani». Bruciavamo la merce, ma sapevamo che la polizia avrebbe dovuto scortare i nuovi rifornimenti fino alla stazione di
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polizia e i negozianti avrebbero potuto andare a prenderli lì. Amy è morta durante questa operazione.
Sono stato condannato per la sua morte a 18 anni di prigione, era la mia prima volta in carcere. Ho scontato cinque anni. Poi sono comparso davanti alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, che non era un processo perfetto ma per lo meno mirava a promuovere, senza imporre, la riconciliazione. Non tutti hanno partecipato, ci sono ancora famiglie che non sanno dove siano stati sepolti i loro figli: la polizia dell’apartheid rapiva, torturava, uccideva e faceva sparire i corpi. Molti di quegli agenti sono morti, ma ancora oggi si cercano i resti.
Durante la Commissione ho incontrato i genitori di Amy: Peter e Linda Biehl. È stato scioccante scoprire chi fosse davvero Amy. Era molto più di una qualunque studentessa americana. Aveva a cuore il Sudafrica, si era diplomata in un liceo dove aveva scritto “Libertà per Mandela” sul cappello del diploma. I suoi genitori hanno detto che il perdono non spettava a loro, visto che erano americani: spettava a noi sudafricani di perdonarci tra di noi. Quella frase mi ha colpito profondamente. Inizialmente pensavo che Amy non potesse essere loro figlia, erano troppo giovani, ma poi mi hanno dimostrato che lo era davvero. Il processo era formale, non potevamo parlare direttamente. Noi durante il processo non abbiamo chiesto perdono, ma abbiamo spiegato le nostre motivazioni: non eravamo criminali, lottavamo per un ideale. Dopo essere stati liberati, ho incontrato privatamente i genitori di Amy. Da allora siamo stati insieme per molti anni, ho viaggiato negli Stati Uniti molte volte con loro.
Ma questa storia è più semplice da raccontare attraverso un dialogo e delle domande. C’è però una regola: non censurare le domande che vi vengono in mente. Ponetele così
come sono, in questo modo mi aiutate a rispondere più facilmente. Non sono una persona che si offende facilmente, soprattutto con gli estranei. Quindi, per favore, sentitevi liberi di chiedere qualsiasi cosa vi venga in mente. In questo modo si apre un vero dialogo.
Come è nata l’associazione legata alla memoria di Amy?
Che cosa fai tu oggi all’interno dell’associazione?
Attualmente, la Amy Foundation si pone l’obiettivo di fornire opportunità ai giovani delle nostre comunità, opportunità che noi non abbiamo mai avuto. Gestiamo programmi pomeridiani per giovani dai 6 ai 18 anni, e poi dai 18 anni proponiamo il Centro per lo Sviluppo delle Competenze Giovanili, con lo scopo di formare i ragazzi su competenze di tipo pratico. Collaboriamo con molti hotel, ristoranti, navi da crociera. Abbiamo molti giovani sulle navi da crociera all’estero, in Paesi dove noi stessi non siamo mai stati. Quando tornano per le vacanze o per le tre settimane di pausa, ci raccontano di essere stati in Portogallo, in Spagna. Queste sono opportunità che la fondazione offre ai giovani, per aiutarli a cambiare la propria vita, perché la maggior parte dei genitori non può permettersi di mandarli in scuole alberghiere, che sono molto costose. Abbiamo quindi un programma di formazione professionale dove chef professionisti formano i ragazzi per tre mesi. Durante questi tre mesi ci sono anche giornate dedicate alla formazione per il lavoro in sala, perché non tutti diventeranno chef. Alcuni lavoreranno alla reception, altri faranno supporto. Abbiamo varie collaborazioni, persino con un hotel a Londra dove alcuni dei nostri ragazzi hanno potuto lavorare per 12 o 14 mesi.
Sono opportunità che cerchiamo ovunque: stringiamo accordi con varie istituzioni che poi ci offrono risorse. Alcuni visitano la fondazione, rimangono colpiti e da lì nasco-
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no collaborazioni. Il nostro obiettivo principale è facilitare l’accesso alle opportunità per i giovani che altrimenti non le avrebbero. In questo modo li aiutiamo anche a crescere con disciplina: se sei indisciplinato, anche fuori dai nostri programmi, la tua reputazione ci riguarda. Non possiamo mandarti in una scuola alberghiera se ti comporti male. Insegniamo anche ai ragazzi come usare correttamente i social media, perché spesso vengono usati in modo sbagliato; spieghiamo loro che ciò che pubblichi oggi ti seguirà per i prossimi 20 anni. Alcuni datori di lavoro controllano i social prima di assumere e rimangono scioccati. Quindi li formiamo su vari aspetti, in modo che possano affrontare anche le proprie sfide personali.
E perché lavori in questa associazione?
Innanzitutto sono un uomo d’affari, gestisco le mie attività. Ma guadagnare denaro non ti riempie come persona. Fare impresa era una mia ambizione, ma lavorare direttamente con i giovani, condividere la mia storia con loro, motivarli e mostrare loro la strada per il successo è molto più gratificante che avere un conto in banca più ricco. Ho lavorato con la fondazione per 17 anni, poi ho lasciato per quattro anni per gestire un’azienda, poi sono tornato. Quando gestisci un’azienda lavori con i sistemi, non con le persone. I clienti sono per lo più adulti che sanno già cosa vogliono. Ma nei programmi pomeridiani lavori con i giovani, offri loro opportunità che io non ho mai avuto: per me questo è molto appagante.
Tornando a quello di cui ci parlavi prima, che giudizio hai sull’operato della Commissione per la Verità e la Riconciliazione?
Quando ero in prigione ero ancora un militante. Per sopravvivere alla prigionia dovevi pensare come un militante
e rimanere un militante, solo così potevi adattarti: appena iniziavi a pensare come una persona, perdevi la concentrazione e non avevi più la forza di resistere. Dovete tenere conto che avevamo giurato: «Obbedirò irrevocabilmente a ogni ordine, direttiva o comando del movimento. Servirò, soffrirò e mi sacrificherò per il movimento». Quindi quando arrivò la Commissione, la nostra questione fu: «Non abbiamo agito come persone, abbiamo agito per conto del movimento; perchè adesso dobbiamo presentarci qui come persone?». Ci dissero che era un sistema che il nostro movimento non aveva previsto, ma dovevamo comunque partecipare per ottenere la libertà dal carcere. Ci ordinarono di partecipare. Non eravamo contenti, io non ero contento: siamo andati al processo con un atteggiamento di grande resistenza, ma fu il processo a costringermi a cambiare. Mi ha davvero umiliato.
C’erano dei momenti in cui i giudici bianchi arrivavano a dire: «No, questo non è quello che ha detto il richiedente. Questo è quello che io ho capito dal richiedente». Non era un processo penale normale. Era sconvolgente sentire questo tentativo di comprensione da parte un giudice bianco: siamo entrati lì con un atteggiamento oppositivo, eppure le stesse persone contro cui avevamo combattuto erano ora in prima linea nella Commissione per la Verità e la Riconciliazione. E poi, senza questo processo, non penso che avrei mai incontrato la famiglia Biehl così da vicino, non avrei mai creduto a quello che dicevano in televisione sulla riconciliazione, perché per noi tutto quello che dicevano nei notiziari era propaganda. Ma, incontrandoli faccia a faccia, a meno di cinque metri di distanza, quando parlavano potevi sentirli davvero, non solo ascoltarli: potevi sentire la loro sincerità, potevi collegarti a loro. Mi guardavano negli occhi quando parlavano e le loro parole erano sincere.
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Quando ero in prigione, dovevo restare militante anche se volevo essere solo Ntobeko e lasciare da parte il militante, ma non potevo. Quando loro dissero: «Vi perdoniamo, ma spetta a voi sudafricani perdonarvi tra di voi», ero condannato a 18 anni di prigione. Quando tornai in cella, capii che il perdono della famiglia di Amy per me era sufficiente, essere liberato o meno, non mi importava: quello che portavo nel cuore era il loro perdono. Dopo aver incontrato la famiglia Biehl, fu più facile contattarli per un incontro personale, fuori dai procedimenti ufficiali. Loro volevano incontrarci, ma non sapevano se fosse giusto né se noi lo volessimo. In quegli incontri privati posero domande che non erano state poste nel processo formale: non volevano sapere solo di Amy, ma anche chi fossimo, come fossimo cresciuti. Li portai nella casa dove ero nato e cresciuto, videro le due piccole stanze, il salotto e la cucina. Volevano sapere chi fosse veramente Ntobeko, come era stato cresciuto. Anche questo mi ha colpito molto. Il luogo dove Amy fu uccisa è vicino alla mia casa attuale, dove c’è una pompa di benzina. Quando dovevo fare rifornimento, evitavo quella stazione di servizio perché aveva una storia per me. Il rapporto personale con la famiglia Biehl mi diede la forza di affrontare i miei demoni personali. Una cosa è affrontare qualcosa per il tuo movimento politico, ma arriva il momento in cui devi affrontare le cose per te stesso, con la tua coscienza, il tuo senso di colpa. Una cosa è chiedere perdono, un’altra è essere perdonati e liberati.
Perché desideri raccontare la tua storia? Molte persone tendono a pensare che io sia la mia storia. Io non sono la mia storia: la mia storia è molto più grande di me. È una storia locale, nazionale, internazionale. Molte persone possono imparare da questa storia, da ciò che è
successo durante la transizione. Ci sono persone che hanno perso i propri cari per malattia o morte naturale e fanno fatica a superarlo, ma ci sono persone come la famiglia Biehl che hanno visto la propria figlia brutalmente assassinata in un Paese straniero e sono riusciti a fare pace con questo. Questa storia deve essere raccontata, è più grande di me ed è molto importante che la comunità globale possa imparare da essa. Tutti possiamo vedere che oggi il mondo non è in pace, per niente. Non siamo in pace: ci sono ancora guerre regionali in corso in tutto il mondo. La mia storia ha ormai più di 30 anni, ma è ancora attuale per le lezioni che possiamo trarre da essa. La mia storia non è mia, è una storia che deve essere condivisa, così che le persone possano imparare.
All’interno del processo di riconciliazione è divenuta centrale una parola intraducibile in italiano, ubuntu. Che valore ha per te questo concetto?
Ubuntu significa che un bambino non è cresciuto solo dalla sua famiglia, ma è cresciuto da un intero villaggio. Ubuntu ha radici molto antiche. Si vive ancora oggi, ma il pensiero Ubuntu sta affrontando delle sfide a causa delle libertà e dei diritti umani che abbiamo ottenuto, che sono molto importanti, ma vengono anche abusati. Nell’ideale Ubuntu non esiste che un giovane possa mancare di rispetto per strada: non si devono rispettare solo i propri genitori o la propria famiglia, si deve rispettare ogni adulto. Con Ubuntu, se i tuoi genitori trovano lavoro in un’altra provincia, possono lasciarti dai vicini con totale fiducia, e i vicini ti tratteranno come se fossi loro figlio. Ubuntu significa anche che se il raccolto del tuo vicino è andato male e il mio è andato bene, lo condivido. Perché dovrei tenere tutto il mio raccolto per me? Condividiamo. Se tu coltivi granturco, io cipolle, un altro carote, quando arriva il tempo del raccolto, ci scam-
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biamo e ci aiutiamo. È un concetto profondo, quello di Ubuntu. Anche chi non ha buoi per arare il campo riceve aiuto: usiamo i nostri buoi e i nostri aratri per arare anche il loro. Oggi invece si tende a pensare che tutto ci appartenga. Ubuntu significa: «Io sono perché noi siamo», questa è la traduzione. Nessun uomo è un’isola, siamo una comunità; questa è l’essenza di Ubuntu. Non esiste che tu passi accanto a una persona che sta portando pesanti sacchetti della spesa senza fermarti. Quando eravamo bambini, mentre giocavamo ci fermavamo subito per aiutare quella persona, portando i suoi sacchetti fino alla fermata dell’autobus o fino a casa. Così siamo stati educati, per noi non è qualcosa che ci è stato insegnato esplicitamente: era la nostra vita, era naturale.
Che cosa può aiutare le persone a perdonare oggi?
Ognuno, alla fine di una normale giornata con le persone che gli stanno accanto, ha il dovere di perdonare. Sì, ci sono tensioni, ci sono conflitti: non possiamo semplicemente perdonarci senza affrontarci, non dobbiamo evitare il confronto. Nel confronto identifichiamo le nostre differenze, capiamo come ci siamo feriti a vicenda, ma identifichiamo anche le aree dove possiamo essere d’accordo. Magari abbiamo cinque punti di disaccordo, e possiamo dire: «Accetto di cedere su questo, tu accetti su quest’altro, lavoriamo su questo punto insieme». Se il processo funziona, possiamo aggiungere un altro punto di accordo. E se io, alla fine, sono in pace e ho capito che posso fidarmi, allora posso anche dire: «Ok, cedo su tutti e cinque i punti». Dobbiamo affrontarci. Come si può andare avanti? Perdoniamoci prima di andare avanti. È importante lavorare per il perdono. Non possiamo pretendere il perdono, come non possiamo pretendere la pace mentre c’è ingiustizia, non si può chiedere
di vivere in una società pacifica mentre la comunità globale si trova in una condizione di ingiustizia. Non puoi davvero sostenere la pace se prima non sostieni la giustizia.
Non possiamo avere una relazione reciproca fino a quando non troviamo un modo per perdonarci a vicenda e non si può arrivare al perdono senza avere un dialogo. Che sia acceso o meno, va bene in ogni caso. Tiriamo fuori tutto perché, dopo che abbiamo fatto uscire tutto, possiamo capirci. Il perdono nasce proprio lì: dal dialogo, dalla ricerca della giustizia e dalla volontà di capirsi.
Il perdono è sufficiente per rimarginare le ferite nate da un’ingiustizia?
Il perdono da solo è sufficiente, perdonare è già abbastanza. Posso perdonarti e andarmene con la mente in pace. Non è necessario che io voglia rivederti ancora. Perdonarti non significa che tu debba venire a lavarmi i piedi: posso perdonarti e basta, e ognuno va per la propria strada. Certo, il perdono da solo può essere sufficiente in alcuni casi, ma non in tutti. Nel nostro caso specifico, in Sudafrica, dire solo: «Perdoniamo», per esempio, non è abbastanza. Occorre dare seguito concreto ai cambiamenti, perché tante mostruosità erano autorizzate dalle leggi. È necessario approvare leggi che costruiscono una società migliore.
Quindi, in questo caso specifico, il perdono non basta da solo. Ma ci sono stati anche alcuni poliziotti che si sono presentati alla Commissione e hanno chiesto perdono, dicendo all’inizio: «Come poliziotto, ho seguito gli ordini», ma a un certo punto hanno capito che quello che facevano non era più politica, era crudeltà. Alcuni di loro hanno persino rivelato volontariamente dove erano sepolti i nostri giovani combattenti nei cimiteri segreti. Nessuno glielo aveva chiesto, ma sentivano di doverlo fare. Erano divorati
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dentro. Non ricordavano nemmeno i nomi delle persone sepolte lì, ma si ricordavano dove avevano scavato le fosse. Nessuno sapeva che loro erano coinvolti in quei crimini, ma loro sono venuti spontaneamente a raccontarlo. Questo significa che c’era qualcosa che li stava consumando dentro. Alla fine, devono imparare anche loro a perdonare se stessi.
Devono affrontare il trauma che hanno causato, non solo agli altri, ma anche a loro stessi. Per questo si sono presentati spontaneamente, anche se non c’erano testimoni che potessero accusarli. Si capiva chiaramente che c’era qualcosa che li stava distruggendo dentro.
Vogliamo ringraziarti moltissimo Ntobeko. Ragazzi, è stato un piacere condividere la mia storia con voi. Mi sono informato di più su quello che state facendo, ho capito che è qualcosa di molto positivo, vista anche la lunga storia di questo evento. Ho visto alcune foto molto vecchie e ho capito che è un lungo viaggio, ha una lunga tradizione, e questo mi ha interessato molto. Sono felice di aver contribuito.
Rwanda: vedere il volto dell’altro
Jean Paul Habimana – 12.05.25
Per prima cosa volevamo chiederti di raccontarci che cosa è successo in Rwanda.
Innanzitutto, grazie di avermi contattato per questo progetto così importante! Apprezzo tantissimo il vostro impegno –un impegno che tutti noi cristiani dovremmo prendere sul serio, perché la pace davvero riguarda tutti.
Magari comincio raccontando qualcosa di me. Io sono in Italia dal 2005, sono venuto in Italia per studiare e diventare prete. Ho interrotto il mio percorso, quindi non sono prete: sono sposato, ho due figli, sono un insegnante di religione a Milano da ormai 14 anni.
Come sei riuscito a sopportare il male vissuto da te e dalla tua famiglia? Che ruolo ha avuto la fede nell’affrontare il male e il dolore della guerra?
La fede ha avuto un’importanza radicale nella mia vita, fin da quando ero piccolo: sono nato e cresciuto in una famiglia cristiana e quindi per me credere in Dio e pregare Dio non era una cosa forzata, era naturale. Prima di mangiare e prima di andare a letto, si pregava, assolutamente. Pregare era proprio uno stile di vita. Quando il genocidio è iniziato, è
entrato nello stile di vita che avevo prima: quando è arrivato il genocidio, pregare Dio è stato naturale. La fede quindi mi ha aiutato non come uno sforzo, come un aggrapparsi all’unica cosa che mi rimaneva, ma come una continuità dello stile di vita che avevo già prima. Oggi, quando ci penso, e quando vedo, visto che insegno religione nei licei, che molti ragazzi fanno fatica a credere davvero, capisco che qui sta il punto. Il problema è che spesso cerchiamo di credere quando ci capita qualcosa di eccezionale o quando siamo alla ricerca della soluzione di un problema. Onestamente, per quanto mi riguarda, se penso al dolore che ho vissuto quando ho perso mio papà a 10 anni, quando ho perso tantissimi parenti – sia dalla parte di mia madre che da quella di mio padre –, quando ho visto mia madre diventare vedova giovanissima e crescere da sola noi 7 figli e altri bambini nostri parenti, mi accorgo che la fede era per noi uno strumento davvero essenziale.
Ogni tanto mi chiedo che cosa avrebbe fatto mia mamma senza la fede. Nel 1994, in Rwanda, non c’erano, per esempio, psicologi o tutte quelle figure che in Occidente, oggi, possono aiutare in situazioni drammatiche. La fede è stata veramente uno strumento vitale: senza la fede non sarei qui, perché la fede ha a che fare con la mia vita tutta, non solo quando vado in chiesa.
Che cosa ti ha aiutato a tenere la tua fede così salda in una situazione così difficile?
La fede in Dio è, appunto, una fede: non è uno sforzo mentale. Nei momenti difficili della mia vita è stata veramente una fede, uno strumento efficace per potermi alzare e andare avanti. Faccio un esempio concreto. Dopo il genocidio, ci siamo trovati ad affrontare alcune situazioni difficili: costruire una casa, tornare a scuola. Andare a letto senza pregare
poteva essere veramente una disperazione, invece, pregare mi faceva capire che, certo, ero sfortunato per quello che avevo vissuto, ma ero anche fortunato: la fede, in determinate occasioni, mi ha aiutato, soprattutto grazie alla lettura del Vangelo, a capire che la vita non è fatta solo di cose belle. La fede nel Dio cristiano, che ha abbracciato la Croce per salvarci, mi ha aiutato a capire che non c’è fede cristiana senza la sofferenza. Questa non è una cosa che si impara a scuola, e neanche in chiesa: si impara nella vita. L’ho imparata vedendo mia mamma che faticava per mandarci a scuola: ho capito allora che a scuola non potevo perdere tempo, perché perdere tempo avrebbe voluto dire non solo offendere me stesso e mia mamma, ma anche quel Gesù che mi aveva fatto sopravvivere durante il genocidio. Avevo visto morire tante persone, ma ero riuscito a sopravvivere.
La fede, il mio percorso, è stato proprio questo: vi sto parlando di me. Ma tante persone in Rwanda sono andate avanti grazie alla fede, perché la fede ti faceva capire che anche in quel male che hai vissuto in realtà poteva andare peggio: avevamo di fronte a noi persone che stavano davvero peggio. C’erano ragazzi della mia età che erano rimasti senza genitori, senza fratelli, senza sorelle. Solo mio papà era stato ucciso: nella nostra sfortuna eravamo stati fortunati. Era come un segno, come un impegno, un dovere: portare avanti questa fede. Mi dicevo: «Se sei rimasto, ci sarà un motivo».
Come ciò che ha vissuto ha influenzato la sua concezione del perdono? Leggendo qualcosa sulla sua storia, abbiamo visto che alcune persone di etnia Hutu le hanno salvato la vita. È cominciato tutto da questi incontri? Ho imparato nel tempo che cosa significa perdono. Dopo il genocidio – 1994, 1995, 1996 –, “perdonare” era un verbo
che non poteva entrare nella mia testa. Soprattutto la sera, ci mettevamo a parlare e non ci raccontavamo altro se non le nostre sofferenze. Ma nel 1997 sono andato al liceo e i miei compagni di classe erano i figli degli assassini: ho iniziato a vedere la vita vera che anche loro vivevano, e ho iniziato a vedere che in realtà la sofferenza non era solo dalla mia parte, ma che anche questi figli di coloro che ci avevano lasciato senza nulla e nessuno soffrivano. Ho iniziato a riflettere: il perdono non è una cosa che cade dal cielo, ma nasce in una contestualizzazione e soprattutto in una consapevolezza che, nella vita, bisogna andare avanti. Quando ho iniziato a realizzare che anche gli Hutu sono stati toccati dal genocidio, allora ho incominciato a perdonare.
Mi piace sottolineare un fatto: io parlo di un perdonare, diciamo, generalizzato. Io odiavo gli Hutu in quanto tali, tutti. E spesso mi dimenticavo che in realtà c’erano degli Hutu che mi avevano aiutato durante il genocidio. Per un male, pur grande, che avevo ricevuto, generalizzavo: nel tempo, piano piano, ho iniziato a capire che non tutti gli Hutu hanno partecipato al genocidio. Anche grazie all’esempio di una famiglia Hutu che mi ha aiutato durante il genocidio, grazie ad alcuni progetti dello Stato, e grazie soprattutto alla Chiesa, ho iniziato a capire, a pensare e a dire, che innanzitutto dovevo fare pace con me stesso, e poi con la mia storia. Nel tempo, non subito, ho incominciato a perdonare.
Leggendo alcune testimonianze dei sopravvissuti al genocidio, siamo rimasti colpiti dal vedere che il perdono è un’esperienza che dà nuova vita, sia a chi è perdonato, ma anche a chi perdona. Che cosa ne pensa?
Assolutamente: il perdono libera, libera entrambi. Non ho un esempio in prima persona da raccontare, ma vi posso
citare degli esempi che ho visto. Ho in mente un caso: una persona che ha ucciso un tuo parente bussa a casa tua, ti chiede scusa faccia a faccia; all’inizio ci rimani male, ma poi capisci che è l’unica via. Questo libera. Quando torno in Rwanda vedo le persone che convivono: ci sono Hutu che hanno ucciso e Tutsi che convivono. Era una cosa impensabile negli anni subito dopo il genocidio; invece, è stato possibile ripartire, grazie all’aiuto della Chiesa e delle diverse realtà religiose – in Rwanda ci sono diverse religioni –, grazie all’aiuto dello Stato, grazie alla Commissione Nazionale per la Riconciliazione e ai Tribunali Gacaca. Questi processi di riconciliazione avviati nel 2001 hanno fatto sì che sia le persone che hanno subito il genocidio, sia le persone che hanno fatto del male, si siano liberate. Il perdono ti fa capire che l’altro ha sì sbagliato, ma rimane un essere umano. E tu, come persona che ha subito atrocità di questo genere, se non perdoni, ti porti dentro un peso: invece, quando riesci a fare un passo, ti liberi. Io vedo mia mamma vivere accanto a persone che hanno ucciso alcuni miei familiari: e l’unica cosa che mia mamma dice è che comunque, se non li perdoni, stai male, mentre loro sono liberi. Liberarci è perdonare, è una cosa liberante anche per la vittima, perché fa capire che bisogna andare avanti. Un passo dopo l’altro si vede che, nel momento in cui si cammina insieme – come è accaduto in Rwanda –, nel momento in cui le persone convivono e condividono, la vita diventa reale.
Da che cosa è partito questo desiderio di riconciliazione così concreto e diffuso?
In Rwanda, il perdono è nato da un’esigenza concreta subito dopo il genocidio: tenete presente che, durante il genocidio, lo Stato chiedeva agli Hutu di uccidere i Tutsi, quindi anche gli Hutu che non hanno partecipato al genocidio
pubblicamente si dichiaravano assassini, mentre di nascosto magari aiutavano dei Tutsi; inoltre veramente tantissimi Hutu avevano ucciso, avevano partecipato al genocidio e ci sono state tantissime vittime. Subito dopo il genocidio, in Rwanda c’erano tantissimi orfani, tante vedove, tantissimi carcerati. Il Rwanda, poi, è un paese molto povero. Ci siamo allora resi conto che c’era un problema, al di là delle ferite psicologiche e sociali: c’era una ferita economica che bisognava affrontare. Ma c’erano anche altri problemi legati alla giustizia: non avevamo una magistratura pronta ad affrontare certi problemi, non avevamo delle norme penali sul genocidio. Era tutto nuovo, tutto da studiare, tutto da affrontare. A un certo punto, piano piano, il Rwanda ha cominciato.
All’inizio, visto che c’era la pena di morte, alcuni sono stati condannati alla pena capitale, seguendo i codici e le pratiche occidentali che avevamo ereditato. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei Duemila, però, la Chiesa ha cominciato a introdurre delle specie di tribunali ecclesiastici, partendo dalle comunità ecclesiastiche di base. Cosa vuol dire? Vuol dire che dieci famiglie che abitavano nella stessa comunità si radunavano, pregavano e, piano piano, hanno cominciato a raccontarsi la verità, hanno cominciato ad ascoltarsi a vicenda: non si arrivava a una sentenza. All’inizio del 2001, il modello offerto da queste realtà, che avevano preso piede nelle comunità cattoliche, è stato portato avanti dallo Stato, riprendendo delle forme tradizionali di giudizio. Prima del colonialismo, quando c’era un problema tra due persone, ci si radunava con gli anziani del villaggio, con la famiglia della vittima e del carnefice e si cercava una soluzione per la pace. Lo Stato ha iniziato a fare questo: sono i tribunali Gacaca a cui accennavo prima. “Gacaca” significa “prato, erbaccia”: ci si sedeva per terra tutti quanti
e si cercava di arrivare alla verità. Lo Stato ha introdotto questo tipo di tribunali nel 2001, dando agli assassini che erano in carcere la possibilità di riconoscere le loro colpe nel genocidio e di chiedere il perdono, e di essere liberati dalla prigione, e dando alle vittime la possibilità di perdonare. Non è difficile immaginare quanto questa cosa, a noi sopravvissuti, non sia piaciuta: «Ma come, perché vengono liberati questi assassini?».
È stata una istituzione che abbiamo capito col tempo. Tra il 2002 e il 2003, mentre i tribunali Gacaca erano attivi, il Rwanda è veramente cambiato: tanti sono stati liberati e tanti sopravvissuti hanno imparato a convivere con gli assassini. È stato importante potersi immedesimare anche con i famigliari degli assassini: per esempio, per me, come dicevo, con i loro figli. Gli Hutu sono la maggioranza nel paese: i loro familiari avevano tanti problemi; avere un papà, un cugino, una mamma in carcere voleva dire dover portare loro da mangiare, perché le carceri non hanno fondi a sufficienza. Era una cosa complicata dal punto di vista sociale ed economico per lo Stato e per tante persone.
La riconciliazione è cominciata per una necessità – innanzitutto economica, poi sociale –, ma ci siamo resi conto che era uno strumento molto utile. Lo dico sempre ai miei studenti: bisognerebbe introdurre forme simili anche in Italia, in Occidente. Il sistema giudiziario per cui i colpevoli vanno in carcere e ci si disinteressa di tutto il resto a volte fa più male che bene.
Una pace fondata sul perdono è possibile? Sì, la pace fondata sul perdono è possibile, ma, per quanto mi riguarda, ci deve sempre essere un’autorità. Senza l’autorità, certe cose diventano veramente difficili o impossibili da attuare. All’inizio, come vi dicevo, in Rwanda il perdo-
no è stato “imposto”. Noi sopravvissuti non volevamo perdonare: volevamo fargliela pesare e fargliela pagare. Però ci siamo resi conto che, alla fine, anche se avessero lasciato la pena di morte – che è stata eliminata dal codice rwandese nel 2007 –, condannare a morte tutti gli assassini non ci avrebbe restituito i nostri parenti morti. Magari all’inizio il perdono può sembrare una cosa superficiale e facile, una leggerezza di fronte a colpe gravi: però, nel momento in cui viene portato nella vita concreta, diventa molto importante. In che senso? Basta fare un giro in Rwanda: si vedono persone che hanno ucciso i parenti dei loro vicini di casa che vivono uno accanto all’altro. Questo è possibile solo per dei passi giganti che sono stati fatti.
Ci può spiegare meglio in che senso le è stato possibile perdonare quando ha scoperto che anche le persone Hutu hanno sofferto?
Ho iniziato a perdonare, a capire quanto era importante perdonare, quando ho iniziato a vedere il volto dell’altro, quando ho iniziato a vedere le persone in faccia. I problemi che spesso abbiamo – non solo in Africa; penso a quello che vedo a scuola, alla politica in Italia – dipendono dal non guardarci in faccia. Guardare il volto di una persona è la primissima cosa per poter perdonare, ma anche per tanti altri passi che si possono fare. Ho iniziato a guardare in faccia i miei compagni di scuola, che erano figli degli assassini. Quando dicevo: «È possibile che mia mamma non trovi i soldi per mandarmi a scuola?» – perché ogni volta mi mancava qualcosa –, notavo poi che anche a loro mancava sempre qualcosa. E dicevo: «Ma con tutto quello che ci hanno rubato, com’è possibile che siano poveri anche loro? Com’è possibile che quelli che ci hanno distrutto le case, che hanno saccheggiato i nostri negozi, che ci hanno portato via
tutto, siano poveri?». Da queste piccole cose ho iniziato a scoprire che non era tutto come pensavo.
Il perdono, ma prima ancora la considerazione dell’altro, nasce dal guardarsi in faccia, dal considerare il volto vero dell’altro, perché, finché non ho nulla a che fare con l’altro, è molto facile considerarlo come una minaccia, come la fonte dei miei guai. Invece, quando ti capita di guardare davvero in faccia l’altro, quando ti accorgi che in realtà siete tutti sulla stessa barca, si apre una strada nuova.
Abbiamo letto una tua intervista in cui, parlando della speranza, dici che è la consapevolezza che non c’è notte a cui non segua un giorno. Che cos’è per te, la speranza? Che legame c’è tra speranza e pace? È vero: non c’è una notte a cui non segua il giorno. Ed è questa la speranza che auguro sempre a tutti i ragazzi e a tutti coloro che stanno vivendo un momento di buio. Penso a tutte le persone che stanno vivendo la guerra: in Ucraina, in Palestina, in Africa, che è davvero devastata e di cui nessuno parla, in Sud America. Quando si è nel buio, si arriva a pensare che il giorno non arriverà mai. Ma ecco che lì arriva la speranza.
La speranza nasce nel momento in cui uno guarda il buio, guarda la negatività che lo circonda e dice: «Dove sta la luce? È possibile che tutto questo accada a me?». Quando siamo nel buio, diventa difficile vedere la luce, vedere la speranza. L’unica cosa che porta la speranza è non dimenticare mai la propria storia: quante negatività, quante cose brutte abbiamo superato! La consapevolezza di questo genera speranza. Siamo nell’anno del Giubileo: la speranza non l’abbiamo inventata noi, ce l’ha data Cristo. Se non ci fosse la Risurrezione, la nostra vita sarebbe vana. Quando guardiamo soltanto alla Croce, alla morte, alla negatività,
senza ricordare che ci sarà una risurrezione, tutto diventa senza senso, privo di significato.
Pensando alla mia storia, alla mia vita, capisco benissimo che la speranza è la vita, non è una teoria; la speranza è quel fidarsi di ciò che si vive senza mai dimenticare quelle piccole cose che sono accadute nella propria vita. A volte è davvero facile dimenticarsi, scoraggiarsi. La speranza, soprattutto la speranza cristiana, non è una teoria: se la morte e la Risurrezione di Gesù non fossero incarnate nella nostra vita quotidiana, cioè nelle nostre difficoltà a volte insopportabili, sarebbero una cosa di duemila anni fa – poco interessante –e la vita sarebbe dura. La mia speranza è poter dire: «Anche se il mondo non mi capisce, anche se gli intellettuali fanno fatica a capire quello che viviamo, l’importante è tenere quel punto fermo: abbiamo incontrato Gesù». Ognuno di voi può dire un punto fermo – un nome e un cognome, un luogo e un tempo precisi –: abbiamo incontrato Gesù, e quella è la speranza, perché lì ti è riuscito di superare quello che pensavi fosse insuperabile. La speranza non è nei libri o nella bocca di qualcuno che ti deve confermare su una teoria: la speranza nasce tra te e la tua storia, nella storia tra te e Dio. La speranza è vita: visto che non siamo degli eroi, dobbiamo ricordarcelo, perché è facile dimenticare ed è facile farci trascinare da un mondo così distratto e cieco.
Il perdono, la pace e la speranza sono possibili solo per i cristiani?
No. C’era un filosofo, che si chiamava San Giustino, che parlava di «semi di verità». Facendola molto semplice, Giustino diceva che, per il fatto ci ha creato a Sua immagine e somiglianza, Dio ama tutti gli uomini: tutti gli uomini possiedono quindi semi di verità nella loro coscienza. I cristiani cos’hanno in più, allora? Onestamente, per noi è
molto più semplice, perché riconosciamo che Dio si è fatto uomo. Quindi non siamo più bravi degli altri, ma siamo più “agevolati”: pensate a Gesù che si fa incontro alle prostitute, a Zaccheo, ai corrotti, agli stranieri (la Samaritana). Gesù, parlandoci, ci ha fatto vedere tutto, ci ha fatto vedere che abbassarsi per aiutare i più deboli e i più sporchi non è un’umiliazione, ci ha dato tutto. La salvezza è per tutti, perché tutti hanno la possibilità di arrivare a Dio, perché Dio si trova profondamente nella coscienza di ciascuno: noi siamo facilitati.
Nel ’94, quando c’è stato il genocidio, eri piccolo. Sei stato da solo?
Sì, sono stato da solo, nel senso che quando scoppiò il genocidio, mi sono trovato in parrocchia da solo. Ho fatto più di un mese in una parrocchia in cui, purtroppo, sono state uccise tantissime persone. Ero con mio fratello, più piccolo di me di tre anni, aveva 7 anni mentre io ne avevo 10. Dopo siamo stati in una famiglia di Hutu che ci ha nascosto. Abbiamo reincontrato nostra mamma e gli altri nostri fratelli verso la fine del genocidio. L’unica cosa che mi teneva vivo era un continuo pregare e sperare che arrivasse il giorno dopo. Oggi è il mio compleanno, faccio 42 anni. Questa notte ho fatto un incubo, perché mio padre nel ’94, quando è stato ucciso, aveva 42 anni. E ho pensato che c’è davvero tanta strada da fare: mentre siamo qui a parlare di quello che è accaduto nel mio paese 31 anni fa, ci sono tante persone che stanno morendo oggi. La cosa più orrenda è vedere che la parte del mondo che sta bene non si interessa: distinguiamo ancora i profughi da aiutare da quelli da non aiutare, come se la sofferenza avesse un colore della pelle. Io ho molta fiducia nei giovani: non è una questione di quantità, ma di qualità. Gesù ha cominciato con dodici.
Penso che sia importante costruire dei piccoli passi, che sono quelli che cambieranno il mondo. Quanto a me, l’unica cosa che ho fatto è stata cercare di continuare a pregare, di dare e di fare tutto quello che potevo, di “sfruttare” al massimo tutto quello che mi veniva offerto e, soprattutto, sono stato molto aiutato.
Ti volevo chiedere se potessi approfondire una cosa di cui hai già parlato, cioè del fatto che non si può parlare di pace e perdono in astratto, a tavolino, ma solo in concreto. Io, ovviamente, non sono perfetto: ciascuno ha le sue lotte nella vita. Ma se guardiamo all’uomo perfetto, che è Cristo, possiamo vedere quanto sia stato concreto. Il Vangelo è davvero concretissimo. È questa concretezza che a volte ci manca, così come ci manca quello che io a volte chiamo “giusto egoismo”: se non ci vogliamo bene, se non vogliamo bene a noi stessi, diventa difficile voler bene agli altri. La prima persona che ha bisogno del bene sono io.
Hai detto che per perdonare bisogna guardare veramente l’altro: come si impara a fare questo?
A volte, quando guardi l’altro, soprattutto quando ti ha fatto una cosa brutta, vedi spesso il male, solo il male. Allora, bisogna imparare a guardare l’altro in modo ampio, a guardarlo vedendo se stessi – il “giusto egoismo” che dicevo prima –. Facciamo finta che l’altro sia un parente, un compagno di classe: se con l’altro devi convivere o arrivare a un determinato scopo condiviso, allora, forse, conviene non guardare l’altro solo per ciò che ha fatto, ma anche per la relazione che avete, che vi lega, per quello che è. Il perdono molto spesso diventa concretamente possibile se guardiamo a ciò che ci lega, a ciò che abbiamo in comune. Non possiamo guardare l’altro solo per ciò che ha fat-
to. Se qualcuno ci considerasse solo per ciò che facciamo, saremmo nei guai: cos’è che abbiamo meritato? Semplicemente, siamo stati fortunati: tutto qua. Siamo in un sistema che fa diventare l’altro vittima di ciò che fa. Perdonare significa allora, innanzitutto, fare lo sforzo di guardare l’altro non soltanto come individuo isolato, ma come parte integrante della nostra società e del mio spazio. Se voglio la pace nel mio spazio, devo guardare l’altro come parte di me. Come vi dicevo, in Rwanda si sta costruendo la pace non perché siamo arrivati al 100%, al top, ma perché stiamo cercando di considerarci tutti sulla stessa barca: se il costruire non nasce da qui, allora la pace diventa un’utopia, un ideale non realizzabile. Quando cerchiamo di perdonare guardando l’altro come parte integrante del nostro tessuto sociale e della nostra vita, allora le cose diventano più concrete: magari non facili – non è mai facile perdonare –, ma più concrete, motivate. Diventa possibile chiedersi: «Io, nei suoi panni, cosa avrei fatto?». Provate anche voi a farvi questa domanda e provate a mettervi veramente nei panni dell’altro. Da questo punto di vista, la propaganda mediatica è allucinante: rende difficilissima questa immedesimazione.
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Bosnia-Erzegovina: la vera convivenza e la vera libertà
Mons. Pero Sudar – 01.05.25
Potrebbe raccontarci il contesto culturale ed etnico della Bosnia, sia prima della guerra che dopo?
Probabilmente sapete già bene che la Bosnia-Erzegovina è un paese dell’incontro, perché già dai tempi dei Romani questo territorio tracciava la linea di confine tra i due imperi, quello d’Occidente e quello d’Oriente. Purtroppo, nei secoli successivi, ci sono state numerose guerre o pretese di spostare questa linea, che univa ma allo stesso tempo anche divideva due mondi. Così è accaduto anche durante l’Impero Ottomano, sotto cui noi siamo stati 420 anni, e poi è successo sotto l’Impero Austro-Ungarico, e con la Jugoslavia, sia la prima e che la seconda. In qualche modo perciò si può dire che la Bosnia-Erzegovina sia sempre stata un Paese dell’incontro e, purtroppo, anche dello scontro. I tentativi di spostare questo confine, hanno portato anche a un miscuglio delle etnie, delle culture e delle religioni, così che in Bosnia-Erzegovina oggi, come anche prima di questa ultima guerra, convivono tre popoli cosiddetti “costitutivi”: i serbi, i bosgnacchi e i croati; che nello stesso tempo appartengono a diverse religioni
o a diverse confessioni: la Chiesa Serbo-Ortodossa, la Chiesa Cattolica e la religione Islamica; e c’è anche un certo numero di ebrei. Si può dire che siamo veramente un miscuglio e quindi anche, in qualche modo, un’immagine di questo mondo in cui noi viviamo, diciamo europeo, dove sono rappresentate proprio queste diverse religioni. È una ricchezza, però può essere vista negativamente, perché rimane sempre una minaccia che si ripete e che può culminare nelle diverse guerre. In questo contesto ci vuole veramente un grande impegno per arrivare alla pace e per conservarla.
Questo caratterizza anche il momento attuale in cui, purtroppo, assistiamo a una tensione tra una politica che vorrebbe centralizzare tutto il Paese e un’altra che vorrebbe frammentarlo. Tutto questo è dovuto in parte alla soluzione con cui è finita la guerra: una pace imposta che ha diviso il Paese in due entità o due parti assai autonome, così che è veramente difficile farle funzionare, proprio a causa di queste due tendenze che sono opposte e che non permettono una convivenza serena. Ecco, noi purtroppo, invece di dimenticare la guerra e costruire una vera pace in concordia, in collaborazione, sembriamo più pronti a preparare una nuova guerra e questo fa veramente paura a molte persone.
Alla fine della guerra avete deciso di investire molto denaro non nella ristrutturazione degli edifici ecclesiastici, ma nella costruzione di scuole. Da dove è nata questa idea? Come potevate sperare che persone che si erano combattute per anni potessero prendere parte a un’unica scuola?
Ogni guerra deve finire e ogni guerra è finita. Sono state tantissime nella storia umana, si ripetono e gli scontri non portano mai niente di bene. Si è provato a spiegare il conflitto dicendo che, non essendo in grado di vivere insieme, dovevamo vivere separati. Ma questa era un’ideologia del
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tutto sbagliata.
Noi abbiamo capito questo e abbiamo prima di tutto cercato di aprire un piccolo “rifugio” a Sarajevo, dove spesso dominava l’intolleranza. A volte si nascondono queste parti negative di Sarajevo, la si esalta perché è multietnica, multireligiosa, si dice che durante la guerra nessuno era discriminato e così via, ma questo non è vero, come non è vero per nessuna città nella Bosnia-Erzegovina durante la guerra. Durante la guerra e durante l’assedio molte scuole a Sarajevo furono chiuse per la paura che i bambini venissero uccisi durante l’orario scolastico, e molte famiglie per questo hanno deciso di lasciare Sarajevo. Ad ogni modo, per dare a queste famiglie un rifugio, una sicurezza, così che almeno in un posto potessero sentirsi sicuri rispetto al fatto che i loro bambini non sarebbero stati discriminati, noi come Chiesa, come Arcidiocesi di Sarajevo, abbiamo desiderato di aprire una scuola di questo tipo, per tutti. Eravamo convinti che la separazione e l’intolleranza non avrebbero mai portato a un esito positivo e abbiamo deciso di aprire questa scuola a tutti coloro che volessero veramente costruire. Volevamo almeno porre un segno, per affermare che non eravamo e non siamo tutti d’accordo con la politica di chi afferma che possiamo vivere solo divisi a livello etnico, religioso e culturale. Con grande sorpresa da parte nostra sono stati molti i genitori, anche non cattolici e non croati, che decisero di iscrivere i loro bambini nella piccola scuola con cui abbiamo iniziato. E fu così che dovemmo allargarla, e poi allargarla ancora, fino a che oggi, ventotto anni dopo l’apertura di questa scuola, gli alunni iscritti a Sarajevo sono circa 1.500 e appartengono a tutte le etnie e a tutte le religioni. Ed è veramente un piccolo segno, non è l’unica scuola di Sarajevo, ce ne sono tante altre, però è l’unica con questo scopo: far vedere che, durante e dopo la guerra, c’è gente che vuole
investire la propria vita per mostrare che il nostro futuro, come il futuro anche di tutto il mondo, è nella convivenza, nella collaborazione e nel reciproco aiuto, e non nella separazione. Solo così la pace può essere veramente possibile.
La pace è difficile ed è vero che pochissimi periodi nella storia umana sono stati privi di guerre. Però, se la pace non fosse possibile, vorrebbe dire che la vita non è possibile. Ci sono uomini invece che tengono alla vita e dicono: «La pace è possibile perché io voglio la vita».
Che valori insegnate a scuola? Che speranza di pace c’è dietro ciò che insegnate a scuola? E, secondo lei, come hanno fatto i genitori degli alunni a decidere di iscrivere subito i propri figli in questa scuola, subito usciti dalla guerra? Sottolineo che questa scuola è stata aperta durante la guerra, non dopo la guerra. Penso che i genitori abbiano iscritto i propri figli prima di tutto perché si fidavano e si fidano della Chiesa e credevano che questa nostra iniziativa fosse nata proprio per insegnare valori che erano importanti anche per loro. Il primo valore che insegniamo, e che insegna il solo fatto che i giovani stiano qui insieme, è la necessità di accettarsi a vicenda, cioè che la religione, le differenze etniche e culturali non devono essere e non sono un motivo per aver paura dell’altro, ma sono un’occasione di reciproco arricchimento. Noi tollereremo in questa scuola tutte le stranezze, tutti gli sbagli, tutti gli atteggiamenti tranne uno, che è proibito agli insegnanti come agli alunni: l’intolleranza inter-etnica e inter-religiosa. L’unica cosa che è proibita e per cui non si può rimanere nella nostra scuola è proprio questa. Allora anche il primo scopo che vogliamo raggiungere è proprio insegnare ai nostri alunni che ci sono tanti motivi umani, specialmente religiosi, di accettare l’altro come è, perché l’altro è sempre e comunque un’occasione per il mio arricchimento personale.
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Le altre religioni, le altre culture sono sempre per me un’occasione di imparare qualcosa di positivo e, reciprocamente, per condividere con altri qualcosa che ho io. La prima cosa perciò è la tolleranza che insegniamo stando insieme.
Altri punti forti del nostro insegnamento sono le lingue classiche, che sono utili per far capire ai nostri alunni che abbiamo un passato comune. Poi ci sono le lingue moderne: siamo la prima scuola in Bosnia-Erzegovina che ha introdotto, per esempio, la lingua inglese dal primo anno di scuola. A sei anni i nostri alunni cominciano a studiare inglese, per poi aggiungere altre lingue, e diventare capaci di comunicare con il mondo fuori dalla Bosnia. Il terzo punto caratterizzante è l’informatica, che abbiamo introdotto fin dai primi anni di questa scuola. Inoltre da noi si insegnano la religione e la storia delle religioni, per far capire ai nostri alunni che ogni religione ha qualcosa di positivo e che ogni religione veramente insegna la tolleranza, cioè ad accettare l’altro. Ma poi c’è anche l’attenzione all’ecologia, ai diritti umani, a tutto quello che in qualche modo riguarda la cultura della pace.
Questo, come Chiesa Cattolica – abbiamo 14 scuole in diverse località –, è il nostro piccolo contributo al difficile impegno per costruire la pace in Bosnia-Erzegovina, un Paese dove purtroppo siamo stati molte volte tentati di credere che la pace si possa raggiungere con la violenza, che non è mai possibile. E purtroppo c’è anche attualmente in Europa un atteggiamento che crede che con gli armamenti possiamo in qualche modo evitare la guerra: la guerra si evita solo con la collaborazione, la guerra si evita solo costruendo la pace con piccoli passi, come fate anche voi con questa mostra che volete organizzare.
Ci racconta un episodio che descriva questa realizzazione
di una pace apparentemente impossibile tra etnie, religioni diverse, avvenuta dentro le vostre mura? Ce ne sarebbero tanti. Per esempio, da noi in Bosnia-Erzegovina, oggi, è la festa dei musulmani. La nostra scuola non apre per rispetto degli alunni di fede e religione islamica. Ma è successo anche che una piccola ragazza musulmana, nella seconda classe elementare, abbia svolto il ruolo dell’angelo in una rappresentazione che è stata messa in scena in occasione del Natale. A questa festa è venuta la nonna della bambina, un’anziana musulmana. Quando la piccola, sua nipote, è tornata a casa, la donna le dice: «Tu sei musulmana, come puoi fare un angelo cattolico?». La piccola ha risposto: «Nonna, angelo significa malak – che è la parola “angelo” in arabo e per la religione islamica –: è la stessa cosa; questo non ci divide, ma ci unisce». Allora penso che questo piccolo aneddoto descriva bene come noi riusciamo in qualche modo a insegnare ai nostri ragazzi che abbiamo tanto, tanto in comune e che questo patrimonio comune bisogna usarlo per la convivenza, per la cultura della pace e del reciproco arricchimento.
Leggendo alcune parole di don Giussani, abbiamo capito che la pace non è il contrario della guerra, ma ha a che fare con l’assenza di timore, di paura e di incertezza, e quindi si può vivere la pace solo nell’atto dell’abbandonarsi a Dio. Che cosa significa per lei abbandonarsi a Dio? A Sarajevo, nel vostro contesto, nella vostra scuola, siete arrivati alla pace? Quasi l’80-90% dei cittadini della Bosnia-Erzegovina, anche di Sarajevo, si dichiara credente. Il credente crede che tutto è nelle mani di Dio, che Dio comunque guida la storia umana e la guida a una meta finale dove vincerà la pace, una pace celeste, dove tutti i desideri positivi del cuore umano saranno realizzati. Sappiamo però anche molto bene che
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per arrivare alla pace non basta solo dire: «Dio provvederà», perché Dio certe cose, come la pace, le ha poste anche nelle nostre mani, e Dio sostiene colui che cerca di fare la sua parte. Oltre a confidare in Dio, oltre a credere che Dio alla fine porterà e darà il dono della pace – perché la pace, come la fede, come la grazia, è un dono –, bisogna essere pronti ad accettare questo dono: questo vuol dire collaborare, vuol dire creare le condizioni in cui Dio può darci questo grande, grande dono.
Dopo l’esperienza veramente brutta della guerra – perché la guerra è culmine di tutti i mali, è il culmine delle ingiustizie perché toglie tutti i diritti umani, e toglie il valore fondamentale, toglie la vita – spero e penso che noi cercheremo di collaborare e di impegnarci per creare questi presupposti perché la pace veramente sia possibile. La pace tra gli uomini non può essere mai perfetta e c’è sempre bisogno di migliorarla. Però non è neanche vero che la pace non è possibile: la pace è possibile, ma ci vuole impegno, e ci vuole anche la preghiera. Occorre chiedere l’aiuto di Dio perché ci renda disponibili a fare la nostra parte. Quando l’uomo fa la sua parte, quando il cuore umano è veramente disposto a ricevere questo dono di Dio, io sono veramente convinto che Dio, che ci vuole tanto bene, che è stato anche disposto a dare la vita nel Suo Figlio per redimerci dal peccato – e la guerra è un grande peccato –, sono convinto che non esiterà a darci anche il dono della pace. Però, ripeto, bisogna che siamo disposti a riceverlo e che nasca il desiderio di accettare, di ricevere questo dono e di condividerlo con gli altri, con tutti.
E quindi a Sarajevo è stata raggiunta la pace?
La pace, quella vera, non è raggiunta neppure in Italia, che è così bella e così ricca, perché ci sono sempre tensioni – e io un po’ leggo le notizie dall’Italia, vedo quanti partiti lottano
tra loro e quanta gente è disposta ad uccidere per proteggere i propri interessi –. Anche a Sarajevo siamo molto lontani da una vera pace. Però siamo, grazie a Dio, in una situazione di assenza di scontri armati. Ma questa non è la pace: la pace è voler bene a tutti, è impegnarsi affinché a nessuno vengano tolti i diritti fondamentali. In questo senso, la pace vera, la pace duratura, la sicurezza di tutti a Sarajevo non c’è ancora, come purtroppo in molti posti di questo bel mondo in cui viviamo. Allora c’è tanto da fare.
Informandoci sulle vostre scuole abbiamo letto che desiderate preservare e tutelare l’identità e la tradizione di ciascuna etnia. A questo proposito, ci siamo domandati: che cosa volete preservare delle varie tradizioni? Esistono tradizioni buone e cattive? E poi, che libertà ha ciascuno di fronte alla propria tradizione?
Noi ci impegniamo a rispettare ogni nostro alunno per quello che lui è, aprendo scuole in cui si possono iscrivere tutti. Non vogliamo che quando qualcuno si iscrive nella nostra scuola, che si chiama cattolica, cessi di essere un vero musulmano. Perché la convivenza non c’è tra uguali, la convivenza c’è solo se siamo diversi. La vera convivenza e la vera libertà ci sono solo se veramente rispettiamo ognuno per quello che è e solo se siamo diversi, come ho detto, possiamo arricchirci a vicenda. Per questo incoraggiamo i nostri alunni a rimanere quello che sono, sia nel contesto della loro fede sia nel contesto della loro cultura, come nel contesto della loro identità etnica.
È sbagliato dire quello che hanno detto i leader della nostra guerra: «Essendo diversi, non possiamo vivere insieme». Questo non è vero. Ognuno è radicato nella propria tradizione e non c’è futuro senza passato, non c’è una cultura ricca per il futuro se non rispettiamo quello da cui nasciamo,
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da cui proveniamo. E ognuno ha la propria famiglia, ha il proprio Paese, ha la propria città, ha la propria nazione da cui trae origine. Dio non ci dà niente senza gli uomini: tutto ciò che ci è dato, ci è dato tramite gli altri, anche la stessa vita. Non mi sembra che la tradizione, quando è positiva, quando è ricca, impedisca a uno di crescere come persona, anzi lo stimola, lo aiuta.
Quando due sono ben radicati nella propria tradizione, allora possono farsi dono l’uno all’altro, e così anche tutta la comunità. Io non parlo delle tradizioni negative, tradizioni che si impongono come assolute e nelle quali non c’è libertà: questo non è tradizione, ma qualcosa di negativo che ha imposto un sistema politico o una politica per i suoi scopi, direi, scopi che non sono umani. Per noi è veramente molto importante che i nostri alunni rimangano ciò che sono, che crescano insieme e si arricchiscano a vicenda. In questo senso, penso che in Bosnia-Erzegovina la diversità non sia una minaccia, ma un’occasione, se la cogliamo nel senso positivo e se la consideriamo come qualcosa che può diventare un patrimonio comune. Noi abbiamo tanto in comune, essendo diversi: è questo che ci lega come amicizia, come mutua disponibilità ad aiutare, un aspetto molto rappresentato nella nostra storia. Tutto questo può essere veramente un’occasione per costruire insieme la convivenza e la pace vera. La pace vera si realizza quando ognuno viene rispettato nella sua peculiarità e quando vengono rispettati tutti i diritti e gli sono garantite le stesse possibilità di realizzarsi nella società e nella comunità in cui vive.
Spesso ci sentiamo impotenti di fronte all’imponenza del male e crediamo che il nostro operato non possa dare un contributo alla pace. Che responsabilità abbiamo di fronte alla situazione in cui versa il mondo oggi?
Sì, qualche volta ci sembra veramente di non poter far niente davanti al male che esiste nel mondo, però il male non esiste in un mondo astratto. Il male e la guerra in qualche modo abitano in ogni cuore umano; la guerra non ci sarà più quando i cuori umani saranno liberi dalle tentazioni negative, nel piccolo e nel grande. Ognuno di noi è personalmente responsabile per quello che può fare lui. Se sembra che io non possa fare niente perché magari non ho un ruolo importante nella società, tuttavia, se mi impegno nel neutralizzare i sentimenti negativi nel mio cuore, ho già dato un grande contributo alla pace nel mondo, perché così ci sarà già almeno un cuore libero dai rancori, dai sentimenti negativi. Allora lì già cresce, germoglia il seme della pace. Se ognuno di noi, anche un piccolo gruppo, veramente, riesce a vivere libero, liberato dal male nel proprio cuore, ha già dato un grande contributo. Se tutti si impegneranno altrettanto, allora lì ci sarà la pace, perché non ci sarà il male che culmina nella guerra. La guerra comincia quando io cedo alla tentazione che l’altro sia una minaccia per me e allora arrivo al punto in cui posso far qualcosa contro di lui.
Perciò temo tantissimo quando oggi si dice che noi nell’Unione Europea dobbiamo armarci, dobbiamo spendere perché la Russia ci minaccia: non risolveremo il problema della Russia così, secondo me. Perché in un mondo in cui ci sono le armi atomiche, dobbiamo disarmare i nostri cuori; disarmiamo le nostre teste, e così daremo un grande contributo alla pace vera e duratura. Da noi c’è un’iniziativa che dura già da anni, si chiama “Sminare il nostro paese”, perché ci sono tante mine nel territorio della Bosnia-Erzegovina. Io però ho fatto una proposta dicendo: «Andiamo a sminare prima le nostre teste, i nostri cuori: lo sminamento del territorio sarà così molto più facile e molto più efficace».
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Nel desiderare e costruire la pace esistono differenze tra tutti i diversi gruppi o invece dipende sempre e solo dalla posizione delle singole persone? Infine, ci può lasciare un’immagine della Bosnia oggi?
La mia esperienza, vivendo in Bosnia quasi tutta la vita ed essendo stato a Sarajevo durante la guerra, è che non ci sono popoli solo negativi o solo positivi. La mia esperienza in tutti questi anni, anche durante la guerra, è che da ogni parte ci sono persone veramente perbene e che in tutti i gruppi ci sono persone con cui posso instaurare rapporti sinceri, senza nessuna fatica, e questo sia tra i capi religiosi sia tra la gente più semplice.
Abbiamo fondato anche un gruppo di intellettuali a Sarajevo: siamo bosniaci, musulmani, e croati. Ci incontriamo ogni tanto e cerchiamo di trasformare questo gruppo in un gruppo di amici, perché a me sembra che l’amicizia sia la via più facile per arrivare a capirci meglio e a costruire i progetti positivi insieme. Se un amico mi fa un torto, io lo perdono più facilmente di quanto perdoni qualcuno che non conosco e di cui non mi fido. Sottolineerei però che i giovani sono più aperti, sono più disposti a non guardare quello che ci siamo fatti l’un l’altro e a guardare al futuro. Forse loro sono più adatti per progetti in cui ci vuole un’audacia più rischiosa e dove si mette in gioco qualcosa di più. Il nostro momento attuale: l’instabilità, come ho già sottolineato, è provocata purtroppo dalla nostra tentazione di arrivare alla pace con la violenza. Ecco perché abbiamo fatto la guerra. La nostra situazione odierna è fragile, perché qualcuno dall’Occidente – quelli che purtroppo si prendono il diritto di dare le soluzioni in tutto il mondo – suggerisce che la pace può funzionare bene senza giustizia. Questi sono due errori che si trovano nelle fondamenta della Bosnia di oggi, e purtroppo così non può funzionare. Non siamo
ancora in grado di voltare pagina e dire: «Dimentichiamo quello che è stato, cerchiamo di collaborare rispettandoci a vicenda e di far parte di un mondo che apprezza e che si impegna per la pace, che è l’Unione Europea». Purtroppo la Costituzione che ci è stata imposta dagli Stati Uniti non ci rende capaci di funzionare come uno Stato democratico, perché trent’anni dopo la guerra siamo ancora sotto un protettorato in cui l’Alto Rappresentante decide su tutto, e purtroppo non decide sempre secondo giustizia e non sempre comprende bene la nostra situazione. Ecco perché la situazione è un po’ più tesa del solito, perché questo Alto Rappresentante purtroppo ha imposto certe leggi contro di cui si è ribellata una parte, cioè la Repubblica Serba, e poi sotto la sua influenza ha fatto processare il Presidente di questa Repubblica. I Serbi si sono ribellati e adesso annunciano leggi per proteggersi dall’iniziativa dell’Alto Rappresentante, che a sua volta, purtroppo, come succede sempre, è incoraggiato da un’altra etnia, che è opposta a quella della Repubblica Serba.