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Movement”), concordi nel valutare la scelta USA “una prova dell’indifferenza e della scarsa conoscenza della nostra realtà”. Scelta che, sempre a giudizio degli stessi ambienti, si rivelerà controproducente e fornirà argomenti al regime oppressivo interno per accrescere la propria legittimità e credibilità nella società nazionale. La storia della nazione iraniana è del resto ricca di illuminanti esempi di come essa sia riuscita nel corso dei secoli a tener testa alle pressioni esterne; e questo sia nei confronti della detestata Potenza coloniale britannica, sia verso la Russia degli zar prima e l’Unione Sovietica dopo, oggetto di atavica diffidenza, sia ora infine contro quelle Potenze che a giudizio degli iraniani vogliono negare un diritto riconosciuto dal Trattato di non­Proliferazione nucleare, sottoscritto da Teheran fin dagli anni ‘70; diversamente da Israele che, oltre a essere in possesso di un temibile arsenale nucleare a fini militari, continua a essere fuori dal medesimo Trattato e rifiuta agli ispettori dell’Agenzia atomica l’accesso ai propri impianti. La politica di sanzioni sta indubbiamente producendo risultati, anche se il prezzo viene pagato soprattutto dalla massa dei cittadini iraniani piuttosto che dai centri del potere politico, militare e religioso, i quali a tutt’oggi non mostrano cedimenti di fronte alle pressioni occidentali. Né potrebbe essere altrimenti agli occhi di chi abbia una sufficiente conoscenza della realtà iraniana. Al riguardo è interessante rilevare una recente dichiarazione comune finnico ­ svedese con la quale i due governi pongono in rilievo i pericoli della situazione e l’opportunità di un serio approccio negoziale affrancato da quel carico di minacce e toni ultimativi che feriscono la dignità di un popolo. Con il risultato di approdare a sbocchi lontani da quelli perseguiti. Secondo le diplomazie dei due Paesi nordici, quel che si dovrebbe cercare di evitare è creare le condizioni di una mobilitazione generale in Iran suscettibile di dar incontrollato corso a rigurgiti nazionalistici dalle poco rassicuranti conseguenze sul piano interno e regionale. D’altronde quel che emerge dalle analisi realizzate dai centri dell’intelligence dei due Paesi più direttamente coinvolti in quest’area di crisi, Israele e Stati Uniti, è come la decisione di dotarsi dell’arma atomica non sia stata ancora assunta dai vertici iraniani. E questo non solo per il decreto religioso emesso dalla massima autorità sciita, l’ayatollah Khamenei, ma anche per le difficoltà obiettive in termini, se vogliamo, di tecnologia cui Teheran si trova confrontata nel portare avanti il processo di arricchimento dell’uranio. A tal proposito risulta utile richiamarsi a quanto recentemente apparso in un documento pubblicato da un team assolutamente bipartisan composto da figure illustri dell’establishment di sicurezza statunitense (Zbignew Brzezinski, Brent Scowcroft e Richard Armitage, citandone solo alcuni), nel quale gli autori del pregevole “paper” concordano nel ritenere che ci vorrà “un anno o più” perché gli iraniani riescano a dotarsi di uno strumento atomico per uso militare (“military grade weapon”) mentre, una volta

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