Develop.Med n. 32

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Newsletter n° 32 SOMMARIO

Paralleli Istituto Euromediterraneo del Nord­Ovest www.paralleli.org

Responsabile: Marcella Rodino Redazione Italia: Claudio Tocchi

Redazione Med: José María García Alvarez Coque, Eugenia Ferragina, Giuseppe Mancini, Desirée A.L. Quagliarotti, Abdellatif Taboubi, Angelo Travaglini ________________________ tel. 011 5229810 newsletter@paralleli.org Per iscriversi alla newsletter cliccare qui.

Con il sostegno di: Rete Camerale Nord Ovest per il Mediterraneo

Scambi Italia­Med

• Turchia ­ Traguardi e prossimi obiettivi della Bsec Istanbul ­ Giuseppe Mancini • Tunisia: il cammino della ricostruzione è ancora lungo Tunisi ­ Abdellatif Taboubi

Med Flash

• Il Consiglio economico Consultivo Ue­Tunisia si apre agli imprenditori tunisini • Istanbul verso il terzo aeroporto • Export italiano da record • ICE ­ Piano nazionale export 2013­15 • Il Ceip tira le somme

Crisi ed Economia Mediterranea

• Turchia ­ ITW ad Aldo Kaslowski, presidente della Organikl Istanbul ­ Giuseppe Mancini

Sviluppo Partenariato Mediterraneo • Upm ­ via libera a nuovi progetti • La Turchia è stanca di aspettare

Approfondimenti

• La risposta all’insicurezza alimentare: il land grabbing nei paesi Med Eugenia Ferragina e Desirée A. L. Quagliarotti ­ ISSM e CNR • Agricoltura in Nord Africa: un'opportunità di sviluppo José María García Alvarez Coque ­ Università di Valencia

Palestra Mediterranea

• Terror in Sahel ­ Una chiave di lettura del terrorismo islamico in Africa nera. Overview dei principali movimenti antagonisti e loro obiettivi Angelo Travaglini Le attività dell'Istituto Paralleli sono sostenute da:

Segnalazioni


SCAMBI ITALIA­MED

Turchia ­ Traguardi e prossimi obiettivi della Bsec

Istanbul ­ Giuseppe Mancini

DevelopMed incontra il Segretario generale dell’Osservatorio per la cooperazione economica del Mar Nero”, Victor Tvircun, a pochi giorni dalla fine del semestre di presidenza turco. Il 31 dicembre si è concluso il semestre di presidenza turco dell'Organizzazione per la cooperazione economica del Mar Nero, ma il passaggio di consegne all'Ucraina – in carica dal 1° gennaio al 30 giugno 2013 – era già avvenuto due settimane prima, in occasione del vertice conclusivo di Istanbul dei ministri degli esteri, utile soprattutto per fare un bilancio di quanto prodotto negli ultimi sei mesi sotto l'impulso della diplomazia di Ankara. Il Segretario generale Victor Tvircun, diplomatico di carriera ed ex ministro dell'istruzione della Moldavia, nel suo studio in riva al Bosforo ha espresso istituzionale soddisfazione: “ogni presidenza contribuisce in modo positivo al lavoro dell'organizzazione e a migliorarne la visibilità”. E’ poi entrato nel merito della presidenza turca, di cui ha soprattutto apprezzato – nel 20° anniversario della creazione – gli sforzi per portare all'approvazione della nuova agenda economica che indica una serie di priorità e del relativo “piano d'azione” con obiettivi immediatamente perseguibili. La BSEC

17 gli obiettivi dell’agenda economica

La Bsec (nell'acronimo inglese), è nata proprio a Istanbul nel 1992, come antidoto alla destabilizzazione regionale provocata dalla disgregazione dell'Impero sovietico. Conta 12 membri a pieno titolo (Albania, Armenia, Azerbaigian, Bulgaria, Georgia, Grecia, Moldavia, Romania, Russia, Serbia, Turchia, Ucraina), oltre a 16 osservatori (tra cui l'Italia) e a 17 “partner di dialogo”. Dispone, oltre al segretariato permanente, di quattro “corpi specializzati”: l'assemblea parlamentare, la banca per il commercio e lo sviluppo (con sede a Salonicco), il centro studi sul Mar Nero (ad Atene), il consiglio con i rappresentanti del mondo degli affari (a Istanbul). L'agenda economica, “verso una partnership rafforzata”, fissa 17 obiettivi strutturali tra cui l'incremento del commercio e degli investimenti tra i membri, la protezione dell'ambiente, l'uso efficiente dell'energia, la protezione e la valorizzazione del patrimonio culturale, la lotta al terrorismo internazionale e ai traffici di ogni tipo, lo sviluppo delle piccole e medie imprese, una rete regionale di trasporti. Nel presentare le priorità della propria presidenza, a fine gennaio, il rappresentante dell'Ucraina ha spinto persino oltre le ambizioni, ipotizzando la creazione di una vera e propria area di libero scambio. E' comunque il network multimodale attorno e attraverso il Mar Nero – autostrada, ferrovia, ro­ro – il progetto

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caratterizzante, attualmente allo stadio di più concreta realizzazione: Turchia, Bulgaria, Romania, Ucraina, Russia, Georgia, di nuovo Turchia (e tutti i porti principali). Come ci ha spiegato l'ambasciatore Tvircum, “i benefici saranno molteplici, diretti e indiretti. Crescerà la velocità dei trasporti, si abbasseranno di conseguenza i costi, aumenteranno scambi, investimenti e occupazione”. Non solo, perché ai miglioramenti dell'infrastruttura fisica dovrà corrispondere un ripensamento delle pratiche burocratiche, in via di armonizzazione, “così da evitare che le dogane – attraverso controlli e permessi vari – rimangano un ostacolo”. In più, “la connettività regionale sarà collegata al più ampio progetto di reti trans­europee, così da fare del Mar Nero una zona privilegiata di transito dall'Asia all'Europea e viceversa”. Tuttavia, questo grande progetto soffre di un difetto d'origine: “i lavori e i relativi appalti sono lasciati all'iniziativa dei singoli stati – spiega Tvircun ­, con al momento grosse disparità in termini di avanzamento. Anche i fondi a disposizione sono nazionali, con l'aggiunta però di donatori internazionali”. Inoltre, a causa di dispute politiche (ad esempio, tra la Russia e la Georgia), ancora non esiste un percorso definitivamente stabilito, neanche sulla carta. Di conseguenza, non esistono tempi certi sul completamente del duplice anello autostradale e ferroviario, né sull'entrata a pieno regime dei collegamenti marittimi. La dimensione culturale

In compenso, il Segretario generale della Bsec – s'intuisce anche dal suo sorriso – è entusiasta per il rinnovato vigore della dimensione culturale e identitaria: progetti di cooperazione regionale, ricerca di visibilità per l'organizzazione, una nuova strategia di comunicazione. “Fino a oggi l'Organizzazione per la cooperazione economica del Mar Nero è stata percepita come un'istituzione di natura tecnica. D’ora in avanti ci rivolgeremo direttamente alle opinioni pubbliche”. In campo culturale, “l'obiettivo è di mettere in evidenza tutto quello che gli stati membri hanno in comune”. Ad esempio, una sua personale proposta riguarda il tema dell'ospitalità nelle tradizioni dei paesi della regione, con ricadute attese anche nella promozione turistica. Un progetto che si inserisce in quello più ampio – ancora in fase di progettazione – delle “strade della cultura” (coinvolgono solo alcuni membri, come al solito su base volontaria), dedicate alla coltivazione della rosa, alla produzione del vino, agli imperatori romani, alla numismatica, agli Argonauti a caccia del Vello d'oro, alla Via della seta. Soprattutto, l'Unione europea – con lo status di osservatore dal 2007 – “ha proposto la creazione di un'università del Mar Nero, verso la cui istituzione sono già iniziati i lavori preparatori in seno a un apposito gruppo di lavoro”; non sono stati ancora stabiliti né la sede, né gli ambiti di insegnamento, sarà però un'università con corsi completi e

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favorirà – secondo Victor Tvircum – “occasioni di conoscenza reciproca e solidarietà regionale” (già dal 1998, invece, esiste un network di università del Mar Nero che promuove scambi e forme di cooperazione). Le PMI e gli strumenti a loro supporto

La rilevanza politica

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Altro settore di estrema importanza è quello delle piccole e medie imprese, il cui sviluppo è stato tra gli obiettivi primari della fondazione, un modo per offrire un'alternativa ai paesi usciti dall'esperienza comunista. Gli strumenti a disposizione sono due: il gruppo di lavoro, che coinvolge pubblico – gli stati membri ­ e privato; il “business council”, riservato agli imprenditori. Entrambi, con modalità diverse, convergono per “creare un clima propizio agli investimenti e alle attività economiche”, attraverso “l'armonizzazione delle legislazioni, la creazione di meccanismi multilaterali per la protezione degli operatori stranieri, eventi di match­making, incentivazione per joint­ventures, programmi speciali per giovani e donne che fanno impresa”. Il terreno è propizio, le aziende italiane dovrebbero farsi avanti: a partire dalle mille già attive in Turchia. Ma la Bsec ha anche una rilevanza politica, anche se indiretta. Sono molte le situazioni calde tra stati membri (tra l'Azerbaigian e l'Armenia, tra la Georgia e la Russia, tra la stessa Turchia e la Grecia). L'Organizzazione per la cooperazione economica del Mar Nero non è coinvolta nella risoluzione dei conflitti politici, anche se offre regolarmente una piattaforma per il dialogo. Durante i vertici e gli altri incontri istituzionali, infatti, “gli stati membri possono confrontarsi e tessere legami attraverso progetti comuni”, propedeutici a negoziati veri e propri. La chiave è proprio la condivisione di problemi e progetti: la crisi economica, l'inquinamento del Mar Nero, il terrorismo e il crimine organizzato, la sicurezza energetica, i trasporti. Affrontarli attraverso i meccanismi istituzionalizzati previsti – vertici, incontri ministeriali, dichiarazioni, piani d'azione – può portare, se non all'emergere di un sentire comune, almeno al disinnesco delle forme più accese di conflittualità.


SCAMBI ITALIA­MED

Tunisia: il cammino della ricostruzione è ancora lungo

Tunisi ­ Abdellatif Taboubi

Rischia di perdere la sua efficacia il rimaneggiamento ministeriale trascinato per quasi cinque mesi dal suo annuncio al Palazzo di Cartagine, in un contesto locale caratterizzato da un blocco del dialogo nazionale. Tale blocco va a rinforzare l’idea di una troica al potere indebolita, che manca di visibilità e di un percorso chiaro rispetto alla sfida della transizione che la Tunisia attuale sta affrontando, senza contare il ritardo nell’elaborazione della costituzione e la crisi economica interna. Il 26 gennaio 2013, il Capo del Governo ha richiamato l’attenzione sulla necessità di trovare la via del consenso e di mettere fine alle lotte ideologiche. L’ostacolo principale a questo consenso sembra risiedere in un malinteso originario sulla natura dello Stato e del Regime politico che i tunisini sperano di istaurare. Far uscire il paese dallo choc economico iniziato dopo il 2011, non è meno prioritario. Le attività economiche sono quasi crollate, gli investimenti privati sono in recessione, mettendo a dura prova un settore finanziario fragile. Ogni transizione “spettacolare” che genera forti attese, porta i cittadini ad aspettarsi risultati immediati e reali. Ora niente di tutto ciò può concretizzarsi nell’immediato. La confusione concettuale della Politica

Questo atteso rimaneggiamento ministeriale, il primo del genere nella storia politica tunisina, si trova in un momento di confusione totale. Il capo del governo, per evitare conflitti e suscettibilità degli uni e degli altri, ha chiesto ai partiti contattati di trascrivere per iscritto i loro desiderata ed i loro auspici in vista di aderire al governo. Curiosamente, non ci sono state sufficienti trattative dirette. Mentre il governo era impigliato nelle questioni del rimaneggiamento, Ennahdha, (ndr Partito al potere), ha proceduto in parallelo, senza grande concertazione coi suoi alleati, alle nomine massicce dei suoi fedeli nelle aziende pubbliche e nei posti chiave dello Stato. Hillary Clinton ha appena giudicato i nuovi poteri arabi, generati delle rivoluzioni, come non attrezzati per il potere. Gli alleati di Ennahdha e i partiti con cui è in trattative hanno vissuto ciò come un inganno. L'opinione pubblica ha percepito in modo negativo questa precipitazione a carattere elettorale nelle nomine nei posti chiave dello Stato in un periodo tanto agitato e tanto instabile. Il presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, ha dichiarato in un'intervista che il movimento Ennahdha non è

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riuscito, solo, a dirigere il paese nonostante abbia ottenuto 89 seggi all'assemblea Nazionale Costituente all'epoca delle elezioni del 23 ottobre 2011. I salafiti mettono la memoria collettiva a fuoco attaccandosi ai mausolei del paese, da Sidi Bou Saïd, a Regueb fino in fondo alla Tunisia, nell’indifferenza del governo. Non è la situazione di transizione che li protegge, ma una frangia del partito islamista al potere che sembra coprire i loro misfatti. Lo Stato sembra diventare il tempio della politica politicante… Dov’è lo Stato quando la salvezza della società e del paese è in gioco? Questo si domandano molti tunisini. E il paradosso è che sono i cittadini e la società civile che agiscono e resistono, e sono Stato e governanti che manifestano una passività inesplicabile. Hichem Djaït, studioso, storico e islamologo tunisino, autore di diverse opere tra cui "La personnalité et le devenir arabo­ islamiques", "L'Europe et l'islam", "La crise de la culture islamique", "La fondation du Maghreb islamique", trattando del deterioramento dell’autorità dello Stato, sottolinea che l'avvento del concetto dello Stato è intervenuto all'epoca della formazione della troica generata dalle elezioni. Tale troica, malgrado le differenze di idee, esiste ancora. Secondo Djaït, si può affermare che oggi in Tunisia esiste uno Stato, cosa che, né il mondo politico, né l’opinione pubblica, hanno presente. Secondo Hichem Djaït , essi criticano costantemente ciò che succede, ma non vedono che esiste oggi un regime politico. Anche se barcollante, questo regime esiste dopo una rivoluzione che ha solamente due anni di età. E’anche vero però che la rivoluzione in Tunisia, e anche in Egitto e in Siria, non è stata fondata sull’islamismo, ma piuttosto sul rifiuto della dittatura e sull’idea di istaurazione di una democrazia reale, dove l’uomo è rassicurato sul suo destino. L’economia tunisina vive un periodo difficile

In questo inizio di 2013, in Tunisia il problema economico si impone a tutti i tunisini e influisce sul vissuto quotidiano del cittadino. I prezzi superano tutti i tetti. I costi dispendiosi della sanità, la perdita di qualità degli studi dei giovani, sono argomenti ricorrenti e scottanti in Tunisia. Il cammino del governo nell’elaborazione del bilancio dello Stato 2013 non sembra rappresentare una buona soluzione per dare un poco di ossigeno all’economia tunisina. Il bilanciot 2013 infatti non è altro che lo stesso del 2012, che ha dimostrato i suoi limiti nel fare uscire l’economia dalla crisi. L’economia tunisina ha raggiunto verso la fine del terzo trimestre 2012 un tasso di crescita del 3,4% (contro ­1,9%)

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e un tasso di disoccupazione del 17% (contro il 18,9%); e questo non è poco. Tali risultati non devono nascondere il rialzo del tasso di inflazione che è passato dal mese di novembre 2011 da 3,5% al 5,5%, come del resto le tendenze verso l’erosione del deficit commerciale. Di fronte alle sfide storiche riguardanti la transizione democratica, sono molti gli ostacoli che sembrano rallentare gli sforzi di ripresa economica. La contro­prestazione macro­economica è legata all'attività produttiva, ed è risultato delle misure di politiche macro­ economiche messe in opera nel 2011 e di quelle legate alle dichiarazioni diffuse tramite i mass media aventi per effetto l’infleuneza dell'ambiente degli affari. L’arresto, per molte settimane, di numerose attività produttive chiave (energia, miniere, turismo e industrie meccaniche...) sotto l’effetto di movimenti sociali, hanno avuto delle ripercussioni nefaste sull’economia del paese. Il costo di un giorno non lavorato alla Compagnia di fosfati di Gafsa è costato 2,9 MD e al Gruppo Chimico di Gabès 7,4 MD. I tunisini hanno il diritto di rivendicare un nuovo sistema economico che sia moderno e all’avanguardia, che permetta la fine della marginalizzazione sociale e di creare una ricchezza ripartita in maniera equa tra le regioni e le classi sociali. I punti di vista che propongono alternative al programma economico non presentano un’unica via, ma si dividono tra coloro che sono per la redistribuzione delle terre nelle regioni svantaggiate, coloro che rivendicano un “piano Marshall” in favore di queste regioni e coloro che auspicano una strategia di sviluppo economico e sociale basata sul “Progresso industriale integrato”. “Turisti, non credete a Envoyé spécial. Venite in Tunisia!”

Sono saliti sulla ribalta per ridurre le conseguenze devastatanti del reportage sul pericolo salafita in Tunisia, diffuso ultimamente dal programma Envoyé spécial su France 2, i professionisti del turismo tunisino non si sono risparmiati nel cercare di rassicurare il mercato francese. Un’operazione di comunicazione preparata in tutta fretta ha loro permesso di incontrare a Parigi i media in una conferenza stampa. Sostenuti dall’ambasciatore della Tunisia in Francia, i presidenti delle federazioni tunisine di Hôtellerie (FHT) e delle agenzie di viaggi (Ftav) si sono sforzati di dare rassicurazioni sul loro paese, “in piena transizione democratica”. “Ci sono estremisti in Tunisia”, ma “non ci sono minacce per il turismo”. “La più grande conquista della rivoluzione tunisina è la libertà di stampa. Ma c’è un modo di tradurre la realtà”, ha dichiarato il presidente di FHT, secondo cui la trasmissione Envoyé spécial ha mancato di obiettività. “In questo reportage, c’è un tutto un montaggio di immagini e di propositi, si mostrano avvenimenti datati e alcune affermazioni sono false. Si può bere alcol a Sidi Bouzid, contrariamente a quanto detto”, ha dichiarato il

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presidente all’AFP. “Noi ci mobilitiamo poiché un tale servizio fa dei danni”. Dopo i vicini libici, i francesi rappresentano la prima clientela turistica in Tunisia. Ma i francesi tardano a ritornare dopo la primavera araba. Capa, la società produttrice del servizio, una volta intervistata ha affermato che giudica normale che un reportage che mostra “una realtà difficile e sensibile” susciti il dibattito. “Noi abbiamo ricevuto mail di preoccupazione da parte di alcuni clienti dopo la diffusione d’Envoyé spécial, ma senza annullamento dei viaggi per ora”, ha affermato a AFP una direttrice generale di hotel frequentati per l’80% da francesi. L’ambasciatore di Tunisia ha invitato a “fare le dovute distinzioni tra i religiosi”. “Ci sono molti ‘barbuti’ conservatori e altri che sono salafiti”, ma sono una minoranza. A questi si aggiungono gli “jiadhaisti, che rappresentano una categoria transnazionale, un flagello che supera le nostre frontiere”.

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MED FLASH

Il Consiglio economico Consultivo Ue­Tunisia si apre agli imprenditori tunisini Il 15 gennaio si è tenuta la prima riunione del Consiglio Economico Consultivo tra l'Ue e la Tunisia, organismo istituito nel novembre scorso dal governo di Tunisi, su proposta del vicepresidente della Commissione Ue Antonio Tajani.. L'Unione europea è sempre più convinta dell'esigenza di integrare l'economia del Continente con quella dei Paesi vicini, e di questo progetto la Tunisia è il simbolo forse più evidente. La controprova si è avuta il 15 gennaio 2013, in occasione della prima riunione, dopo la sua costituzione nello scorso novembre, del Consiglio Economico Consultivo tra l'Ue e la Tunisia, organismo istituito dal governo di Tunisi, su proposta del vicepresidente della Commissione Ue Antonio Tajani, e che ha dato già i primi risultati, in termini di analisi e proposte. Ma la riunione, che si è svolta in una sede di rappresentanza del governo a Cartagine, ha avuto un altro importante risultato perché l'organismo ''sarà allargato ­ ha detto Tajani ­ anche agli imprenditori tunisini''. Un passo in avanti nella road map fissata da Tajani nei mesi scorsi e che sta andando avanti addirittura accorciando i tempi. ''Entro sei mesi ­ ha detto Tajani, che aveva accanto il primo ministro tunisino, Hamadi Jebali, che ha dato il suo pieno appoggio all'iniziativa ­ ci sarà la prima riunione del Consiglio economico consultivo allargato, ma già tra tre mesi i gruppi di lavoro istituiti per rendere più agevole il suo percorso faranno una prima riunione di verifica e confronto''. L'obiettivo dell'allargamento dell'organismo è chiaro: così come, ha detto Tajani, vogliamo creare le migliori condizioni perché gli investitori europei vengano in Tunisia, allo stesso modo speriamo che facciano quelli tunisini nei confronti dell'Europa. Certo, la strada è difficile, perché, ha ricordato, molti sono i punti su cui discutere e sui quali intervenire per rendere spedito il cammino. Come la messa a punto dei meccanismi di partnership, lo snellimento della burocrazia, aiuti reali alle piccole e medie imprese, sicurezza economica ed accesso al credito. Altro punto su cui riflette, ha detto ancora, è la tassazione che grava sulle imprese, in Tunisia così come in Europa. Ma Tajani ha ufficializzato un altro obiettivo, che è quello di fare partecipare gli imprenditori tunisini a quei viaggi per la crescita che la Commissione ha organizzato e organizzerà in futuro su tutti i più importanti mercati mondiali per fare dell'Europa un partner attendibile grazie ad una struttura omogenea e quindi non più dispersiva. ''Noi e la Tunisia in fondo ­ ha detto ancora il vicepresidente della Commissione Ue ­ abbiamo degli obiettivi comuni, a cominciare dalla lotta alla disoccupazione soprattutto giovanile''.

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Istanbul verso il terzo aeroporto La Direzione Generale degli Aeroporti Statali (DHMI) del Ministero dei Trasporti ha annunciato la gara d’appalto per il terzo aeroporto di Istanbul, che sarà costruito nella parte europea della città lungo la costa del Mar Nero. La gara era stata più volte preannunciata dalle Autorità turche ai massimi livelli ed il lancio ufficiale era molto atteso dagli addetti ai lavori. La decisione sarebbe prioritariamente motivata dalla necessità di alleggerire il traffico ormai pesantissimo delle due strutture già esistenti in città (gli aeroporti internazionali Atatürk e Sabiha Gökçen, dislocati rispettivamente sul lato europeo ed asiatico di Istanbul) e in buona parte legato allo straordinario sviluppo conosciuto negli ultimi anni della compagnia di bandiera Turkish Airlines. In particolare, i due scali hanno movimentato, nel 2011, circa 50 milioni di passeggeri (37 milioni Atatürk e 13 Sabiha Gökçen) e la struttura più in sofferenza sarebbe quella di Atatürk (utilizzato per la maggior parte dei voli internazionali), che starebbe da tempo operando al limite delle proprie capacità. La costruzione del nuovo scalo sarà appaltata in modalità BOT (Build­Operate­Transfer) ed il soggetto vincitore potrà gestirlo per 25 anni. Nel corso della conferenza stampa di presentazione della gara, il Ministro dei Trasporti Yildirim ha dichiarato che la capacita’ totale dello scalo sarà di 150 milioni di passeggeri all’anno. (Fonte: Italplanet.it)

Export italiano da record Presentato il Piano Nazionale dell’Export 2013­2015. Grazie a un aumento del 5% del valore delle esportazioni (nel complesso stimato a oltre 470 miliardi di euro nel 2012) e a una contrazione delle importazioni, nell’anno appena concluso il nostro Paese ha conseguito un saldo commerciale positivo di circa 10 miliardi di euro Passera: “In quest’anno abbiamo lavorato per rafforzare e ampliare gli strumenti a supporto dell’internazionalizzazione delle imprese. Con la ricostituzione della nuova Agenzia ICE, la concentrazione di tutti gli strumenti di export finance presso la CDP e l’istituzione del Desk Italia per l’attrazione degli investimenti esteri si è creato un modello completo ed efficace” L’export e la competitività delle nostre imprese sui mercati esteri si confermano tra le leve più importanti per lo sviluppo del sistema economico italiano nella fase di crisi che sta attraversando il Paese. Grazie a un aumento del 5% del valore delle esportazioni (nel complesso stimato a oltre 470 miliardi di euro nel 2012) e a una contrazione delle importazioni, nell’anno appena concluso il nostro Paese ha conseguito un saldo commerciale positivo di circa 10 miliardi di euro. Un risultato che non

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veniva raggiunto da circa 10 anni. L’Italia, inoltre, rispetto ai principali competitor europei, si qualifica come Paese esportatore che meglio difende le proprie quote di mercato, subito dopo la Germania, anche grazie un crescente up­ grading qualitativo delle nostre produzioni. Se questa tendenza positiva sarà confermata, il sistema Italia potrà generare, entro i prossimi 3 anni, 150 miliardi di euro di export aggiuntivo, superando la quota di 600 miliardi di euro, tra beni e servizi, entro la fine del 2015. Sono questi i dati e le principali stime contenute nel Piano Nazionale dell’Export 2013­2015, presentato a Roma dal Presidente dell’Agenzia ICE Riccardo Monti, alla presenza del Presidente del Consiglio Mario Monti e del Ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera. Il Piano ripercorre nel dettaglio la profonda revisione del sistema di supporto all’internazionalizzazione portata avanti dal Governo nel corso degli ultimi 12 mesi. Attraverso il coordinamento effettuato dalla Cabina di Regia ­ a cui prendono parte Regioni, Province, oltre che i principali enti e associazioni di categoria, sotto la guida dei Ministri dello Sviluppo Economico e degli Affari Esteri ­ è stato possibile mettere a sistema tutte le componenti che svolgono un ruolo sul fronte dell’export e della rete estera. Si è attivato inoltre un nuovo processo di pianificazione condivisa delle attività promozionali tra Agenzia ICE, Camere di Commercio e altri enti coinvolti, e si è dato vita a un polo di finanza per l’internazionalizzazione all’interno della Cassa Depositi e Prestiti dove sono state concentrate le competenze di SACE e SIMEST. Il Piano identifica inoltre alcune azioni strategiche fondamentali per raggiungere l’obbiettivo di portare l’export a oltre 600 miliardi entro il 2015. Tra queste: ­ un aumento delle risorse per la promozione, la facilitazione dell’accesso ai tradizionali strumenti di promozione (fiere, missioni, workshop) e ai servizi personalizzati rivolti alle esigenze delle imprese in Italia e all’estero, con particolare attenzione alle aree obiettivo, alle filiere e ai settori innovativi. ­ potenziamento degli strumenti per la crescita dimensionale delle imprese, anche attraverso incentivi all’aggregazione di imprese (reti). ­ intensificazione delle attività di formazione rivolte alle imprese esportatrici, incentivando l’assunzione di figure professionali specifiche come export manager. ­ rafforzamento delle azioni dirette alla diffusione dell’E­ commerce e della Grande Distribuzione Organizzata e di quelle volte ad attrarre gli investimenti diretti esteri. ­ dal punto di vista finanziario, con il supporto della Cassa Depositi e Prestiti, di Simest e di Sace, il rafforzamento degli strumenti a favore delle imprese esportatrici per concorrere al superamento del problema dell’attuale scarsa disponibilità di risorse. ­ azioni più incisive contro la contraffazione e a favore della

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tutela dei marchi per facilitare una maggiore apertura dei mercati contrastando, in particolare, quelle forme di restrizione dei mercati meno evidenti ma non per questo meno dannose (le cosiddette barriere non tariffarie). “L’internazionalizzazione è stata uno dei cardini della politica industriale del nostro Governo”, ha dichiarato il Ministro Corrado Passera. “Anche in un periodo di crisi, la propensione internazionale del nostro sistema produttivo, misurata dalla quota di export sul PIL, è cresciuta in modo significativo, passando dal 22% al 30%. Le nostre quote di mercato tengono meglio rispetto a quelle di molti nostri competitors. Il Piano presentato oggi fissa un obiettivo ambizioso, ma alla nostra portata. In quest’anno abbiamo lavorato per rafforzare e ampliare gli strumenti a supporto dell’internazionalizzazione delle imprese. Con la ricostituzione della nuova Agenzia ICE, la concentrazione di tutti gli strumenti di export finance presso la CDP e l’istituzione del Desk Italia per l’attrazione degli investimenti esteri si è creato un modello completo ed efficace. Se si lavora insieme, davvero si può fare la differenza”, ha concluso Passera. “Si tratta di obiettivi di assoluto rilievo strategico ­ come testimoniano la partecipazione del Presidente del Consiglio e del Ministro dello Sviluppo Economico ­ per favorire una più robusta ripresa della crescita economica del Paese, prevista riattivarsi già nei prossimi mesi”, ha dichiarato il Presidente dell’Agenzia ICE, Riccardo Maria Monti. (Fonte: ItalPlanet News)

ICE ­ Piano nazionale export 2013­15 Nel primo semestre 154 iniziative promozionali in 57 mercati: supporto ai settori tecnologicamente avanzati, rafforzamento della comunicazione d’immagine per i settori tradizionali del Made in Italy. L’ICE ­ Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane ha individuato una serie di parametri quantitativi cui ispirare i propri interventi promozionali per il prossimo triennio, indirizzando lo sforzo di programmazione coordinato e congiunto degli attori istituzionali facenti parte della Cabina di Regia per l'internazionalizzazione. Come rivelano i dati sui flussi commerciali, nel corso dell’ultimo decennio la quota di mercato dei prodotti italiani sulle esportazioni mondiali ha subito un’erosione quasi ininterrotta, passando dal 4,4% al 3,8% tra 2007 e 2011. Le previsioni, ottenute mediante il modello econometrico realizzato dall’Agenzia ICE con Prometeia Spa, prospettano che, in assenza di interventi, nei prossimi anni si è destinati ad assistere ad un’ulteriore erosione della quota di mercato mondiale dell’Italia. Per

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scongiurare questo scenario, il Piano Nazionale Export 2013­ 2013 ha individuato le aree geografiche che cresceranno maggiormente, in cui esistono concreti margini di espansione per le esportazioni italiane e i settori che, in base alle peculiari caratteristiche della domanda, presentano le maggiori potenzialità di sviluppo. Verrà facilitato l’accesso ai tradizionali strumenti di promozione (fiere, missioni, workshop) e ai servizi personalizzati rivolti alle esigenze delle imprese in Italia e all’estero, innovandoli mediante azioni e interventi tematici, con attenzione alle aree obiettivo, alle filiere e ai settori innovativi. Saranno intensificate le attività di formazione rivolte alle imprese esportatrici e promossi gli accordi di collaborazione. Verranno rafforzate le azioni dirette alla Grande Distribuzione Organizzata e quelle volte ad attrarre gli investimenti diretti esteri. Dal punto di vista finanziario, con il supporto della Cassa Depositi e Prestiti, di Simest e di Sace, è previsto un rafforzamento degli strumenti a favore delle imprese esportatrici per concorrere al superamento del problema dell’attuale scarsa di disponibilità di risorse. In questo quadro, l'Agenzia ICE ha in programma nel primo semestre dell'anno l'immediata realizzazione di un gruppo di 154 iniziative promozionali ispirate al potenziamento delle sinergie e delle collaborazioni, anche in prospettiva, con tutti i principali attori nei vari ambiti della promotion e un’attenta selezione di un mix di strumenti promozionali mirati per settore/mercato d’intervento. Le iniziative previste puntano altresì al rafforzamento della comunicazione d’immagine per i settori tradizionali del Made in Italy – le cosiddette 4 A ­ e agli interventi sui canali distributivi e la logistica. A tali interventi si affiancheranno le attività promozionali di tipo trasversale finalizzate a favorire lo sviluppo di forme di internazionalizzazione più complesse, attraverso la promozione della collaborazione industriale ed il sostegno agli investimenti all’estero nonché l’attrazione di investimenti esteri in Italia. Un ruolo di rilievo è stato inoltre assegnato all’offerta di servizi di formazione, manageriale e tecnica, come importante strumento di promozione indiretta del sistema produttivo sui mercati esteri. Le iniziative dell'ICE si dispiegheranno in Progetti tematici, modulati in chiave geografica (57 mercati di intervento) privilegiando la logica di filiera, il supporto a nuovi ed innovativi settori di intervento tecnologicamente avanzati (bio­nanotecnologie, tecnologie per l’ambiente ecc.). Piano nazionale export 2013­2015

Il Ceip tira le somme Oltre 4.300 incontri b2b organizzati; 64 eventi fieristici nel mondo presidiati; oltre 1.600 imprese piemontesi convolte dalle attività di promozione all’estero (compreso

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agroalimentare) di cui circa 300 assistite attraverso i Desk Estero in 18 paesi; 1.250 servizi di supporto consulenziale erogati, principalmente in materia fiscale, legale e doganale. Sono alcuni dati di sintesi delle attività gestite dal Centro Estero per l’Internazionalizzazione (Ceipiemonte) nel 2012 su incarico dei propri soci. Oltre 4.300 incontri b2b organizzati; 64 eventi fieristici nel mondo presidiati (19 in più rispetto al 2011); oltre 1.600 imprese piemontesi convolte dalle attività di promozione all’estero (compreso agroalimentare) di cui circa 300 assistite attraverso i Desk Estero (+44% rispetto al 2011) gestiti in 18 paesi e 200 visitate attraverso Idea (servizio di orientamento all’internazionalizzazione rivolto principalmente alle aziende più piccole e artigiane); 1.250 servizi di supporto consulenziale erogati, principalmente in materia fiscale, legale e doganale; 400 giornate di formazione per circa 2.000 partecipanti; 342 partecipanti a conferenze e workshop solo per il settore turismo (contro i 288 del 2011). Sono alcuni dati di sintesi della attività gestite dal Centro Estero per l’Internazionalizzazione (Ceipiemonte) nel 2012 su incarico dei propri soci. “Nel 2012 abbiamo puntato a stimolare e favorire le aziende perché tornassero a muoversi in prima persona oltre confine prendendo parte a eventi fieristici e missioni, che complessivamente, solo per la Business Promotion sono stati 64, con 600 partecipanti. Abbiamo inoltre proposto con forza attività di networking, da un lato tese favorire la nascita di aggregazioni tra le imprese piemontesi, dall’altro con l’obiettivo di alimentare relazioni costruttive con controparti internazionali basate sulla conoscenza reciproca. I numeri testimoniano l’esito positivo del nostro sforzo: l’ampia partecipazione delle imprese conferma il valore delle iniziative in termini di concreta utilità, in una fase economico finanziaria ancora estremamente difficile, dove la capacità di investire in innovazione, ricerca e sviluppo gioca un ruolo vincente, così come la propensione all’export ­ spiega Giuseppe Donato, alla guida di Ceipiemonte dall’ottobre 2010 ­. Export che nei primi nove mesi del 2012 in Piemonte ha toccato quota 29,4 miliardi di euro, registrano un + 3,4% rispetto al 2011 confermandoci al 4° posto tra le regioni italiane esportatrici, con una quota del 10,1% sul complessivo nazionale” (Fonte: Unioncamere Piemonte). E se ricerca e innovazione sono tra le carte vincenti per muoversi sui mercati esteri, questi temi sono anche alcuni dei punti di forza del nostro territorio, insieme a capitale umano e politiche industriali, dal punto di vista delle Mne (multinazionali estere) che si sono stabilite qui. La valutazione è stata rilevata quest’anno attraverso il progetto Observer che ha mappato 627 imprese a controllo o partecipazione estera presenti in Piemonte, patrimonio fondamentale di informazioni da utilizzare come stimolo di attrazione per nuovi investimenti. A proposito di IDE:

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“nonostante le debolezze del sistema Italia e lo scenario economico finanziario mondiale ancora estremamente difficoltoso, nel 2012 abbiamo assistito 2 aziende nel loro processo di insediamento nella provincia di Torino e un’azienda estera già presente nel processo di rilocalizzazione. – commenta Donato ­ Attualmente sono poi 25 i dossier aperti dai quali ci auguriamo possano scaturire nuovi investimenti nei prossimi anni”. Cosa ci attende nel 2013? “La generale incertezza politica italiana, il rallentamento degli indici economici più importanti, in un quadro di riduzione dei profitti delle imprese e di un livello di disoccupazione al di sopra dell'11%: sono fattori che pesano negativamente sulle prospettive di congiuntura nel 2013 – risponde il presidente di Ceipiemonte ­. In questo quadro la Regione Piemonte si è organizzata per sfruttare i fondi Fas, determinati sul supporto alle imprese all’estero, anche grazie al Piano per l’internazionalizzazione, che sta avviando con le Camere di Commercio. Tali misure si aggiungono a quelle già lanciate dalla Regione: i Piani per l'Occupazione, per la Competitività, per i Giovani e per l'ICT. É prevedibile che ne derivi un impatto positivo che attenuerà le difficoltà”. Nel 2013 le novità dei programmi gestiti da Ceipiemonte saranno sostanzialmente legate proprio al Piano per l’Internazionalizzazione. Attraverso un attendo lavoro di condivisione sul territorio e con i propri soci, in riferimento a tale Piano Ceipiemonte ha proposto un ampio ventaglio di iniziative che vede l’introduzione di nuovi progetti e la revisione di quelli esistenti nell’ottica di sviluppare in modo organico un’azione di promozione all’estero delle imprese piemontesi, con un raggio di azione sempre più ampio in termini di filiere produttive coinvolte e di aree geografiche che presentano reali opportunità. La modulazione definitiva del piano stabilirà le priorità “Resta naturalmente un presupposto di partenza: che le aziende abbiano le caratteristiche per poter affrontare la sfida di un percorso di internazionalizzazione inserito nei progetti proposti. Tutti sono caratterizzati da una struttura comune che comprende un servizio di accompagnamento specialistico, formazione, organizzazione di missioni outgoing e incoming – conclude ­. Tutti inoltre sono orientati a favorire l’aggregazione tra imprese e l’avvio di contratti di rete”.

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CRISI ED ECONOMIA MEDITERRANEA

ITW ad Aldo Kaslowski, presidente della Organik Giuseppe Mancini – Istanbul Dalla Polonia, passando per il Piemonte, la famiglia Kaslowski si trasferì nel 1878 nell’Impero Ottomano, chiamata dal sultano Abdülhamid II. DevelopMed intervista Aldo Kaslowski, businessman e grande conoscitore ed esperto protagonista della realtà imprenditoriale turca e italiana in Turchia. Aldo Kaslowski è un italo­istanbuliota, dalla storia personale complessa e dalla carriera imprenditoriale prestigiosa. La sua famiglia viene dalla Polonia; i suoi antenati si stabilirono in Piemonte qualche secolo fa. Poi suo nonno, ingegnere ferroviario, venne chiamato dal sultano Abdülhamid II – nel 1878 – per occuparsi dei collegamenti via treno dell'Impero ottomano. I Kaslowski ci sono rimasti, in quella che è poi diventata nel 1923 la Turchia. E oggi sono arrivati alla quinta generazione, mantenendo la doppia cittadinanza turca e italiana. Aldo è un businessman affermato, a capo della Organik che produce prodotti chimici nei due impianti di Istanbul e Rotterdam, per poi esportarli in tutto il mondo. Ha anche ricoperto cariche ai vertici di molti organismi imprenditoriali. Attualmente, per esempio, è vice­presidente per l'internazionalizzazione delle imprese di Tüsiad (l'organizzazione degli industriali turchi), ed è molto attivo anche in seno alla comunità italiana, come vice­presidente della sezione eurasiatica della Confederazione degli imprenditori italiani all'estero e come membro del direttivo della Società operaia di mutuo soccorso di Istanbul. Un profondo conoscitore ed esperto protagonista della realtà imprenditoriale turca e italiana in Turchia, su cui offre – degli uni e degli altri – giudizi molto positivi.

Il posto giusto

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Aldo Kaslowski definisce la Turchia “il posto giusto” per chi vuole investire, perché gli imprenditori turchi “sono allenati a fare affari” e hanno una gran voglia di ottenere risultati concreti. I dati macroeconomici che cita – anche in prospettiva – sono eccellenti e incoraggianti. “Crescita” e “dinamismo” sono sempre al centro delle sue riflessioni. A suo avviso, il segreto principale di questo successo è il legame forte con gli Usa e l'Europa, da cui ancora dipendono – nonostante la crisi – la metà del suo interscambio e i più importanti trasferimenti di tecnologie; anche perché la Turchia, rispetto a tutti gli altri paesi emergenti, ha il grande vantaggio della vicinanza geografica e dell'essere inserita nel contesto comunitario attraverso l'unione doganale. Certo, per assicurarsi ulteriori e alternativi mercati rispetto a quelli tradizionali, ritiene necessaria una politica estera di buoni rapporti con tutti. “Ci sono poi contraddizioni, come nel caso di Siria e Israele”, afferma Kaslowski. In ogni caso,


nonostante guardi anche altrove e soprattutto verso i paesi musulmani, “il cuore della Turchia batte in Occidente”. L’imprenditore nutre qualche dubbio, per esempio, sull'approccio strategico verso l'Africa. Ne apprezza la lungimiranza e le finalità umanitarie, “ma poi – si chiede – che cosa vendiamo loro?”. Nel senso che il salto definitivo dell'economia turca verso il club dei 10 paesi più ricchi per Pil – obiettivo dichiarato del governo Erdoğan nel medio periodo – passa soprattutto per la produzione e l'esportazione di beni con prevalente contenuto tecnologico e ad alto valore aggiunto. Beni che – almeno al momento – sarebbe molto difficile piazzare in paesi mediamente poveri. Più in generale, Kaslowski ritiene che la politica estera dell'Akp sia profondamente influenzata – ancor più in questa fase di boom economico (circa 3% di crescita nel 2012, 4­ 5% previsto per il 2013: con un incremento continuo delle esportazioni) – dal fabbisogno energetico, che nonostante la svolta nucleare e un timido avvicinamento alle fonti rinnovabili, continuerà per molto tempo a dipendere da olio e gas naturale provenienti dalla Russia, dall'Asia centrale e dai paesi del Golfo Persico, quindi. Tuttavia, anche in questo caso, la geografia è di grande aiuto: la penisola anatolica è l'ideale punto di transito di oleodotti e gasdotti verso l'Europa e l'Occidente, e questo farà della Turchia il paese­ chiave per la distribuzione. Mille imprese sono poche

Kaslowski è soprattutto felicissimo che l'Italia abbia ormai scoperto la Turchia “come luogo per investimenti”, ma considera le circa mille imprese italiane presenti poche rispetto alle potenzialità. “Cresceranno sempre più – afferma Kaslowski ­ seguendo le success stories di quelli che sono già arrivati”. Come per esempio la Ferrero, impegnata nella costruzione di un impianto tecnologicamente avanzato, per poi esportare in tutta la regione (“un mercato di 400 milioni di abitanti, che la Turchia vuole trasformare in una grande area di libero scambio”). Le imprese italiane trovano, infatti, terreno fertile: da una parte, “il sistema produttivo turco è anch'esso basato sulle piccole e medie imprese”; dall'altro, “gli italiani sono tradizionalmente ben voluti e per loro esiste una vera e propria corsia preferenziale”. Ci sono anche problemi, ovviamente, come per esempio il volume enorme dell'economia sommersa. Il nuovo codice commerciale entrato in vigore il 1° luglio 2012, che rende la governance delle imprese sempre più trasparente, “è però in grado di ridurla”. Nuovo codice commerciale che, inoltre, “può favorire le joint­ventures italo­turche”. L'altro problema, secondo Aldo Kaslowski, concerne le regole sui brevetti e sui marchi “la cui applicazione non è sempre garantita e uniforme”. Per continuare ad attrarre e a crescere, la Turchia “deve fornire assicurazioni alle imprese che portano tecnologie” dalle quali dipende il futuro.

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SVILUPPO E PARTENARIATO EUROMED

Upm ­ via libera a nuovi progetti Una nuova rete ferroviaria giordana, il miglioramento dell'istruzione universitaria su sicurezza alimentare e sviluppo rurale, più la creazione di un centro euromed per lo sviluppo di micro, piccole e medie imprese: questi i tre progetti che hanno appena incassato il via libera dei 43 Paesi dell'Unione per il Mediterraneo (Upm). Il primo nuovo cantiere targato Upm sarà quello per la costruzione della rete ferroviaria nazionale giordana, promosso dal ministero dei Trasporti. Si tratta di un progetto che durerà quattro anni, che andrà a integrare il sistema ferroviario nazionale con la rete regionale, creando un collegamento con i Paesi vicini. La costruzione di un 'corridoio Nord­Sud' dal confine siriano fino al porto di Aqaba (509 km) costituisce la prima fase e la spina dorsale del progetto. Il corridoio è l'asse principale della nuova rete, che collega Amman con i centri logistici circostanti, fino al porto di Aqaba. La nuova linea su ferro Nord­Sud, i cui lavori dovrebbero partire nel 2013 e terminare nel 2017, dovrà poi estendersi fino a Nord di Amman e collegarsi con la Siria. Il secondo progetto durerà due anni ed è promosso dal Centro internazionale di studi avanzati di agronomia del Mediterraneo (CIHEAM), che punta ad aumentare le possibilità di occupazione di tutti i professionisti che partecipano a programmi di istruzione universitaria e corsi avanzati di formazione, su sicurezza alimentare e sviluppo rurale. Il progetto dovrà migliorare i programmi attuali di formazione del CIHEAM post laurea attraverso una serie di attività specifiche, come lo sviluppo dell'e­learning e il rafforzamento del riconoscimento dei diplomi a livello internazionale. Queste attività saranno portate avanti dai quattro istituti CIHEAM in Francia, Grecia, Italia e Spagna, ma anche nei Paesi membri della sponda Sud del Mediterraneo. Un altro via libera dell'Upm è andato alla Camera di Commercio di Milano, che intende promuovere la creazione di un centro euro­mediterraneo per lo sviluppo e il sostegno di micro, piccole e medie imprese, per aiutare il loro accesso al mercato, al credito e alla formazione del capitale umano. Il progetto si baserà sulla creazione di reti fra imprenditori, istituzioni e investitori, per sostenere le imprese nelle fasi di lancio, sviluppo e arrivo sul mercato internazionale. In una prima fase l'iniziativa interesserà i quattro Paesi prioritari nella regione: Marocco, Tunisia, Egitto e Giordania. Una seconda fase prevede poi la diffusione dello stesso modello in tutti gli altri Stati della sponda Sud e Ovest del Mediterraneo. Leggi il comunicato stampa UPM

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SVILUPPO E PARTENARIATO EUROMED

La Turchia è stanca di aspettare Il capo del governo turco Recep Tayyip Erdogan ha nuovamente minacciato di porre fine alle trattative di adesione all'Ue e di cercare possibili alternative se i negoziati non vengono accelerati. ''Un paese non deve forse prendere una decisione, dopo che ha apettato per 50 anni?'', ha dichiarato il premier islamico. Erdogan ha detto che durante la sua prossima visita a Bruxelles, di cui non è stata ancora fissata la data, porrà la questione ''apertamente'' ai leader Ue: ''se volete farlo (accettare la Turchia, ndr), fatelo. Se non intendente farlo, dite apertamente che non lo farete''. La Turchia si è fissata l'obiettivo di una adesione al club comunitario dal 1963, con il primo trattato di associazione con l'allora Mercato Comune Europeo. Dopo molti rinvii i negoziati veri e propri sono iniziati nel 2005, ma da allora procedono a passo di lumaca. Finora è stato chiuso un capitolo negoziale su 35. L'ipotesi di una adesione di un paese musulmano, ora guidato da un premier islamico, dalla democrazia ancora imperfetta, suscita riserve in seno all'Ue. C'è inoltre l'ostacolo della crisi di Cipro, di cui la Turchia occupa dal 1974 la meta' nord, tuttora non risolta. Il mese scorso Erdogan ha minacciato di aderire in alternativa al Patto di Shangai ­ una organizzazione di cooperazione intergovernativa fra fra Russia, Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan e Kirghizistan ­ e di rinunciare all'Ue se le trattative rimarranno ferme. Una minaccia che secondo diversi analisti turchi e' un 'bluff' per ottenere una accelerazione dei processo di adesione all'Ue.

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APPROFONDIMENTI

La risposta all’insicurezza alimentare: il land grabbing nei paesi Med

Eugenia Ferragina e Desirée A.L. Quagliarotti

Da un’accorta gestione della terra e dell’acqua dipende la capacità di nutrire il pianeta e di raccogliere una sfida di portata globale: sfamare gli oltre 9 miliardi di persone che popoleranno la terra entro il 2050. Pubblichiamo un interessantissimo paper scritto per DevelopMed da Eugenia Ferragina e Desirée A.L. Quagliarotti (ISSM e CNR Napoli). La crisi alimentare globale, dopo anni di politiche poco attente al mondo rurale, ha riportato il problema della fame al centro degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Allo stesso tempo, tuttavia, le aree coltivabili sono diventate “territorio di conquista” nella lotta per la supremazia economica e politica tra i paesi. Il confronto, come già richiamato, si combatte tra quanti considerano la terra come un bene di mercato che può essere oggetto di speculazione finanziaria ­ materia prima di un’agricoltura industrializzata che soddisfa i bisogni di massa su scala planetaria ­ e chi li considera strettamente collegati al territorio e alla sua tutela e destinati a garantire il diritto fondamentale all’alimentazione. Anche le soluzioni individuate per ridurre la quota di popolazione mondiale esposta alla malnutrizione sono profondamente diverse. Molti attribuiscono il problema al basso livello d’investimenti in agricoltura nei paesi meno sviluppati. Diversi stati e molte istituzioni internazionali guardano agli investimenti esteri nel settore come l’unico mezzo per aumentare la produzione agricola. Considerare esclusivamente gli interventi destinati a generare un aumento di produttività, però, può essere limitante poiché un aumento della produzione alimentare non porta necessariamente a un aumento della sicurezza alimentare, né alla tutela del diritto al cibo. Per decenni gli aiuti internazionali al settore sono stati mantenuti a livelli minimi, i paesi con ritardi di sviluppo sono stati costretti a smantellare, a causa delle politiche di aggiustamento strutturale, i sostegni a favore dell’agricoltura contadina che costituisce il pilastro principale della produzione alimentare interna. Ora, a fronte di un fenomeno controverso e pieno d’incognite come quello del land grabbing, la comunità internazionale vuole introdurre delle regole per garantire benefici alle popolazioni dei paesi destinatari di questi investimenti in terra. Tali regole però non sono sufficienti se non si associano ad alcune azioni importanti, quali il varo di riforme agrarie all’interno dei Pvs, l’aumento dei finanziamenti all’agricoltura, il rafforzamento del controllo locale sulle risorse naturali. Da un’accorta gestione della terra e dell’acqua dipende la capacità di nutrire il pianeta e di raccogliere una sfida di portata globale: sfamare gli oltre 9 miliardi di persone che popoleranno la terra entro il 2050. Leggi il Paper

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APPROFONDIMENTI

Agricoltura in Nord Africa: un'opportunità di sviluppo

José María García Alvarez Coque ­ Università di Valencia

Un nuovo policy brief pubblicato da Paralleli e German Marshall Fund di Washington che analizza le lacune delle politiche strategiche volte a creare uno sviluppo agricolo sostenibile nella regione a fronte di una domanda crescente di cibo. Nonostante i paesi nordafricani abbiano compiuto notevoli sforzi per migliorare le condizioni dei loro sistemi agricoli, tali migliorie non sono bastate a tenere fronte ad una domanda di cibo in continua crescita. Le attuali politiche agricole devono essere modificate in modo da colmare questo gap. L'agricoltura è un settore importante su entrambe le coste del bacino mediterraneo; più che un'attività economica, essa rappresenta una parte della cultura e del paesaggio dei paesi della regione. Negli stati nordafricani il mondo rurale rimane una riserva significativa di forza lavoro per l'economia. Tali paesi sono ancora in una fase di considerevole crescita della popolazione e sono fortemente dipendenti dalle importazioni di prodotti base (cereali, carne, latte e latticini) che competono con i sistemi di produzione tradizionale, fortemente limitati da vincoli strutturali e ambientali. È pronta la regione a far fronte alla crescente domanda di cibo? Le attuali politiche agricole sono sufficienti a colmare il gap alimentare nel più ampio contesto di globalizzazione economica? Che cosa manca alle politiche strategiche per sviluppare un'agricoltura sostenibile nella regione? Leggi il policy brief ­ ITA English version

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PALESTRA MEDITERRANEA

Terror in Sahel ­ Una chiave di lettura del terrorismo islamico in Africa nera. Overview dei principali movimenti antagonisti e loro obiettivi Ambasciatore Angelo Travaglini “Una risposta sul piano della sicurezza è solo una risposta parziale. Se uno sforzo effettivo sul piano politico, economico e umanitario non è posto in essere, la soluzione del problema di sicurezza si rivela essere una soluzione mancata”. Disattendere tale verità potrebbe rivelarsi esiziale per il Mali e per le altre fragili entità della regione che potrebbero andare ad arricchire lo stuolo dei “failed states”, di cui alcuni esempi sono già reperibili in Africa centrale e orientale. E’ in queste realtà che il terrorismo prospera.

Quadro generale

Gli eventi che hanno corso in Mali non possono non costituire motivo d’interesse ed anche d’inquietudine per l’Occidente e l’Europa in particolare. I rischi per la sicurezza del Vecchio Continente sono evidenti sia per la vicinanza geografica sia per l’area sconfinata e non governata dove il radicalismo islamico domina da un decennio, avendo tratto profitto dai mutamenti prodottisi nel nord dell’Africa. Il Sahel copre spazi immensi e le frontiere che separano gli Stati che di esso fanno parte sono del tutto permeabili, consentendo a formazioni armate, composte di esperti conoscitori dei luoghi, di spostarsi da un Paese all’altro con grande facilità. Il pericolo paventato è dunque che alle porte dell’Europa si formi e si consolidi un “haven” terroristico in grado di alimentarsi attraverso quattro canali, essenzialmente: il narco­traffico, i riscatti pagati per la liberazione degli ostaggi, il contrabbando di armi e i cospicui supporti in termini di risorse provenienti dalla miriade di cellule fondamentaliste sparse un po’ ovunque nell’universo islamico, in maggior numero presenti nei Paesi del Golfo Persico. Quanto questi pericoli siano reali è stato già confermato sul campo. Il tragico assalto terroristico contro un’istallazione di gas naturale nel sud dell’Algeria, avvenuta all’indomani dell’inizio dell’intervento francese nel Nord Mali, ha costituito un evento che ha sorpreso le cancellerie occidentali sia per la facilità con la quale ha avuto luogo sia per il suo cruento epilogo, una impattante prova di forza dei “falchi” dell’apparato di sicurezza algerino che hanno visto la propria immagine e posizione significativamente consolidate. Se si considera la consistenza delle forniture di gas algerino verso l’Europa che ammontano al 20% dei bisogni e che rappresentano un’importante diversificazione rispetto alle importazioni di gas naturale dalla Russia, se si tiene mente altresì alle immense ricchezze esistenti nel deserto del Sahel, dai giacimenti di oro e uranio nel centro­sud del Mali a quelli di petrolio nell’area popolata dai Tuareg, non

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tralasciando le ingenti risorse di uranio nel finitimo Niger, nel cui sfruttamento è coinvolto il gigante francese dell’uranio, Areva, si può avere un’idea della posta in gioco e del rilievo che l’Africa occidentale riveste sia per la Francia che per il nostro Continente. Un aspetto merita di essere evidenziato in merito all’operazione “Serval”, successiva a una formale richiesta di aiuto formulata dal Presidente Dioncounda Traoré. Esso attiene al pressoché generale consenso con il quale è stata vista dalla maggioranza dei Governi francofoni della regione, fatta una certa eccezione per la Mauritania, e dal Presidente della Commissione dell’Unione africana, la sudafricana Dlamini Zuma. Non solo. Ma quel che ha colpito soprattutto coloro con una certa conoscenza della realtà africana è il plauso, incontenibile, con il quale la società civile del Mali ha salutato l’arrivo dei militari d’Oltralpe, considerati come dei “liberatori” in grado di consentire alle popolazioni di sottrarsi all’oppressione fisica e culturale di jihadisti intenti a imporre un’applicazione oscurantista del messaggio del Profeta, in profonda distonia con la cultura e l’Islam africani. Tutto questo costituisce un fatto inedito agli occhi di chi è stato testimone del senso di mal celato livore col quale gli africani vedono il prolungarsi di un’influenza europea ancora condizionante la loro vita e il loro modo di essere. Da parte di ambienti africani si è arrivati perfino a dire che l’iniziativa francese era una maniera di “saldare il debito” contratto dalla Francia nel perseguimento della sua passata politica coloniale. Lo stesso concetto è stato del resto ripreso dal Presidente Hollande, nel discorso pronunciato al termine della sua visita in Mali, quando ha ricordato che “quel che ha fatto la Francia è un modo di ricambiare l’aiuto fornito dagli africani durante l’ultima guerra, nel momento in cui il nostro Paese era minacciato nella sua integrità”. Tale scenario ben augurante non ha tuttavia suscitato all’inizio quelle risposte dalle cancellerie europee che forse Parigi si attendeva. Le reazioni americane e soprattutto dei governi UE si sono rivelate tiepide, fatta una certa eccezione per la Gran Bretagna, limitandosi alla promessa di un aiuto logistico. L’Italia prima ha promesso l’invio di tre aerei trasporto truppe per poi annullare tutto. Il desiderio del Presidente Monti di mostrare concreta solidarietà a un partner europeo nella lotta contro il terrorismo a poca distanza dall’Europa è stato bocciato, secondo quanto appreso, “dal rifiuto dei partiti ad accedere alla richiesta”. Tale decisione appare tanto più sconcertante quando si pensi che un italiano, il Presidente Romano Prodi, svolge dallo scorso ottobre le funzioni di Rappresentante del Segretario Generale dell’ONU per l’Africa occidentale (!). Gli Stati Uniti per parte loro, dopo iniziali esitazioni, hanno fornito e continuano a fornire un sostegno decisivo sul piano logistico e dell’intelligence, mettendo prima a disposizione la loro

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flotta di C­17 e consentendo poi l’utilizzazione di velivoli KC­ 135 per il rifornimento in volo. I partner europei si sono affrettati a escludere qualsiasi sostegno di natura militare (“no boots on the ground”), il Ministro degli esteri tedesco Westerwelle arrivando a dire che la “Germania non è un Paese imperialista (…)”. La conseguenza è che l’Europa ha mancato un’altra occasione di mostrarsi credibile in sede internazionale. Una solidarietà europea avrebbe riscosso in simili circostanze un enorme favore in Africa, mostrando un altro volto dell’Europa, lontano da quello che ancora si cela nella “mens populi” degli africani. Per il resto Bruxelles manterrebbe l’impegno di inviare in Mali un team di 450 formatori militari, cui sarebbe in ogni caso precluso di mettere piede in aree di guerra, unitamente all’erogazione di €50 milioni a titolo di “non­combat expenses” per sostenere lo sforzo logistico dei contingenti militari di dieci Paesi membri della Comunità economica dell’Africa occidentale (ECOWAS). Non molto e di non decisiva incidenza se si pensa al costo delle operazioni e alle necessità che si presenteranno, anche se non si può escludere che qualcosa di più potrebbe venir fuori in futuro, in esito a una migliore valutazione del complessivo quadro politico. In effetti, è alla forza interafricana che dovrebbe spettare il compito principale nella non facile impresa di riconquistare gli immensi spazi del Nord Mali, restituendo a questo Paese saheliano la sua violata integrità territoriale. Essa, infatti, è il frutto di quanto contemplato dalla risoluzione 2085 approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con la quale si è autorizzata la creazione di una forza di 3300 unità, destinata a elevarsi a circa 6­7000, cui parteciperebbero i suddetti Paesi, oltre al Chad, alla Costa d’Avorio e al Burundi. L’apporto del Chad, Paese non membro dell’ECOWAS, è ritenuto preziosissimo per interventi in teatri operativi climaticamente disagevoli quali quelli del deserto sahariano, cui le unità ciadiane sono ben addestrate; tanto più prezioso quando si pensi alla non esaltante reputazione degli eserciti dei Paesi dell’ECOWAS facenti parte della Misma (“Mission internationale de soutien au Mali”). Da segnalare vi è comunque il particolare che per la prima volta nella sua storia l’Unione africana ha deciso di finanziare con un esborso di $50 milioni la messa in opera di una forza d’intervento per missioni di pace composta esclusivamente da Paesi del Continente. Un ammontare sicuramente ridotto alla luce di una fattura complessiva aggirantesi sui $950 milioni ma in ogni caso un segnale importante di come l’Africa inizi a prendere coscienza in prima persona delle proprie esigenze. La Conferenza dei Paesi donatori svoltasi ad Addis Abeba ha

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permesso di raccogliere aiuti finanziari superiori ai $455 milioni. Se non altro per il fatto di aver canalizzato tanta attenzione con un risultato tutt’altro che modesto l’evento nella capitale etiopica non è stato un insuccesso. In tale occasione il Giappone si è impegnato a fornire un apporto di ben $120 milioni in via indiretta attraverso i canali delle organizzazioni internazionali, seguito dagli Stati Uniti che hanno promesso $96 milioni. L’UE avrebbe riconfermato i €50 milioni sopra indicati mentre la Gran Bretagna avrebbe manifestato il desiderio di inviare circa 350 istruttori per l’addestramento di militari maliani. La Germania per parte sua ha mostrato una certa poco più che trascurabile solidarietà, promettendo $20 milioni. Insignificanti e politicamente motivati sono apparsi i contributi promessi da Cina e India, $1 milione ciascuno, per non parlare della Russia del tutto assente, a riprova del covante malanimo verso l’Occidente in seno ai BRICS. Ma già fin da ora l’Unione africana ha ritenuto opportuno sollecitare l’aiuto delle Nazioni Unite, il cui ruolo è destinato a crescere, per soddisfare le esigenze logistiche dell’intervento, presagendo che dalla Conferenza di Addis Abeba non sarebbe scaturito l’ammontare necessario al completamento dell’operazione. Per il momento si assiste comunque a un difficoltoso ampliamento dello spessore dei corpi africani d’intervento in Mali, rallentato dalla scarsezza di fondi e dalle difficoltà logistiche, mentre il fondamentale effetto deterrente continua a essere assicurato dalla forza francese, coadiuvante gli omologhi maliani, e dagli effetti distruttivi generati dagli intensi bombardamenti aerei contro le postazioni degli estremisti islamici, in questa fase concentrati nel nord del Paese. A tutt’oggi solamente da parte del Chad e del Niger si è passati dalla fase dei propositi ai fatti con l’invio nel nord del Mali di contingenti in grado di assicurare un effettivo contributo. L’atteggiamento dei Governi del Nord­Africa non ha per converso brillato per particolare sollecitudine. Si diceva della Mauritania, il cui apporto sarebbe parimenti prezioso, dove le pressioni dei gruppi islamici sono a livelli tali da condizionare pesantemente gli atteggiamenti delle autorità di Nouakchott, che peraltro paiono non escludere un loro sostegno “alla condizione che una richiesta formale d’aiuti emani da Bamako”; richiesta a tutt’oggi non materializzatasi per un senso di diffidenza tra i due governi difficilmente estirpabile. La Libia e l’Egitto dal loro canto hanno pubblicamente disapprovato l’iniziativa francese, ritenuta “un atto di aggressione contro un Paese islamico”, sulla stessa linea dell’Iran. I gravi problemi interni di cui patiscono Tripoli e il Cairo, due governi alle prese con enormi problemi di sostenibilità e di consenso politico, possono giustificare una tale presa di posizione, apparsa isolata in ambito Unione africana. L’Algeria ha superato in larga misura lo scetticismo e i dubbi sui vantaggi offerti dalla soluzione militare, sicuramente minori di quelli scaturenti dal tacito assenso

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mostrato di fronte all’occupazione del Nord Mali da parte degli islamisti. La soluzione di forza in occasione della presa di ostaggi nella centrale di gas di In Amenas ha rappresentato come anzidetto un successo per “i falchi” algerini, inclini all’occorrenza a svolgere in futuro un loro ruolo nel sud del Paese in prossimità della sconfinata frontiera maliana. Con notevole ritardo infine il Marocco ha manifestato, in esito a una riunione quadripartita con Francia, Spagna e Portogallo sui problemi della sicurezza, il proprio plauso all’intervento francese; atteggiamento dal quale dovrebbe scaturire un rafforzamento della cooperazione militare di Rabat con il Mali, di cui si cominciano a intravvedere i primi segnali, mentre per converso la collaborazione nello stesso campo con l’Algeria si sta rivelando poco più di un fatto cartaceo. In poche parole il Marocco intende svolgere un suo ruolo nella lotta contro il terrorismo in Africa occidentale. Precedenti storici

Come dunque segnalato, l’intervento francese ha beneficiato di un largo consenso, includendovi anche l’organismo più importante del Continente: la Commissione dell’Unione africana. La prospettiva di uno sfaldamento di un Paese come il Mali, curiosamente considerato fino alla prima metà dello scorso decennio da qualificati ambienti statunitensi una sorta di “Paragon of Democracy”, non poteva non generare quell’onda di sostegno che perlomeno nelle forme si è manifestata. Le conseguenze di un ingresso degli islamisti di Al­Qaeda e delle sue affiliazioni esterne e locali (sulle quali si tornerà in dettaglio più avanti) nella capitale Bamako sarebbero state devastanti e avrebbero potuto comportare il progressivo inarrestabile sgretolamento di tutta quella galassia di entità africane, particolarmente francofone, dove le basi dello stato e la dimensione del consenso popolare sono di un’evanescente fragilità. Che resistenza avrebbero potuto opporre a formazioni ben armate, fortemente determinate e ben sostenute? A favore delle quali si muovono ambienti finanziariamente potenti, perseguenti un disegno destabilizzante mirato a far fruttare, in maniera alquanto malsana, risorse in gran parte loro forniti dall’Occidente? Testimonianze africane al riguardo indicano nel Qatar la principale fonte di supporto al radicalismo islamico nel Sahel. Scontata appare la risposta a queste domande. Gli interessi francesi ma anche europei avrebbero subito un colpo tremendo sotto il profilo economico, della sicurezza e dell’affidabilità della volontà occidentale, già intaccata da precedenti fallimentari esperienze, di contrapporsi fattivamente alla minaccia terrorista. Tutto questo non si può disconoscere o sottovalutare.

Retroterra maliano

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Ciò detto un aspetto di fondamentale rilievo merita di essere tenuto presente. La crisi in Mali non prende inizio nel momento in cui le formazioni islamiste fanno irruzione nel


Sahel. Essa deve le sue cause remote a molto prima, a quando nel 1991 questo poverissimo Paese pone fine con un colpo di stato militare a 23 anni d’ininterrotta dittatura inflittagli dall’autocrate africano di turno, Moussa Traoré, sostenuto dall’ex­Potenza coloniale, sotto il cui regime la popolazione maliana subisce ogni sorta di abusi e prevaricazioni. 23 anni nel corso dei quali l’irredentismo tuareg, popolazione nomade del nord del Mali, in essere fin dal momento dell’acquisita indipendenza dalla Francia nel 1960, non cessa mai di creare problemi, continuando a essere fonte d’instabilità nei decenni a seguire, subendo repressioni e un’umiliante emarginazione. Il rovesciamento di Moussa Traoré portò comunque all’inizio degli anni ’90 a un periodo contrassegnato da forme di multipartitismo che conferirono all’entità saheliana una vernice di liberalismo e democrazia senza che per questo la questione tuareg, che coinvolge il 10% di una popolazione superiore a 14,5 milioni di abitanti, abbia mai beneficiato di un effettivo tentativo di soluzione. In questo nuovo capitolo della storia del Mali la figura di Amadou Toumani Touré, ex­ collaboratore del deposto Presidente e generale dell’esercito, noto in Africa con l’abbreviativo di ATT, si staglia in maniera netta nell’ostentato ruolo di entusiasta sostenitore dell’esperienza democratica che tenderà progressivamente a fare del Mali uno dei pochi esempi di Paese africano dove un certo pluralismo aveva modo di affermarsi. L’evoluzione del processo e soprattutto la sua tenuta indussero ATT a entrare in prima persona nella scena politica, assurgendo nel 2002 alla magistratura suprema per rimanervi da padrone incontrastato per un decennio fino al marzo 2012 quando con un colpo di stato un ufficiale dell’esercito, Amadou Sanogo, rendendosi interprete delle più che giustificate lagnanze delle Forze armate, private di risorse e confinate a un ruolo secondario, caccia il controverso ATT per istallarsi in prima persona al suo posto. L’improvvisa fine dell’epoca Touré ha determinato in ogni caso un peggioramento del quadro politico in Mali al punto che lo scorso dicembre un altro putsch militare, orchestrato dallo stesso Sanogo e dai suoi accoliti, ha portato al rovesciamento del Primo Ministro Modibo Diarra, aggravando la fragilità della Repubblica saheliana. Gli attuali drammi del Mali trovano una buona parte di spiegazione in quello che avviene nell’ultimo decennio, su cui si tornerà più avanti, inauguratosi con la speranza che l’esperienza democratica cessasse di essere un esperimento per divenire una consolidata realtà. Una realtà capace di dare sostanza e contenuti alla crescita e sviluppo della nazione maliana, un qualcosa insomma che integrasse il mero esercizio elettorale condotto con criteri alquanto discutibili ma comunque tali da impressionare alcune istituzioni d’Oltreatlantico al punto da indicare nel Mali un esempio per tutti in Africa di esercizio democratico del potere.

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L’esperienza si risolse in un aggravamento dei mali endemici nazionali dove, unitamente all’effetto destabilizzante della ribellione tuareg, riesplosa nel gennaio 2012, si dovettero registrare un aumento della povertà e deprimenti livelli di corruzione, mentre la distanza tra i privilegi della ristretta nomenclatura al potere, racchiusa all’interno del clan presidenziale, e la disperante emarginazione della massa dei sudditi non ha cessato di accrescersi. Beninteso tutta l’area del Sahel offre questo rattristante scenario. Le condizioni di vita in Niger, Burkina Faso, Senegal e Mauritania non differiscono da quanto descritto in merito al Mali. La peculiarità riscontrabile in quest’ultimo Paese attiene al fatto che per le ricchezze di cui è depositario e per le conseguenze derivanti dall’ospitare la più folta e rappresentativa comunità tuareg del Sahel, il Mali si trova a essere l’entità più vulnerabile e maggiormente esposta ai contraccolpi conseguenti ai mutamenti geopolitici prodottisi nell’area. Significativi antecedenti

L’esame dei tratti distintivi della colonizzazione francese in Africa non rientra tra i temi di questa riflessione. Richiamarsi però a quel che avvenne nel 1992, in Algeria, non dovrebbe rivelarsi un vacuo esercizio ove si cerchi di fornire una chiave d’inquadramento logica e lineare degli avvenimenti che hanno interessato il Mali. In quel triste anno una promettente esperienza di democrazia in un Paese islamico fu assurdamente soppressa, impedendo alla società civile algerina di dar libero corso alla propria volontà. Il Fronte di salvezza islamico (FIS), presieduto dal moderato Abbassi Madani, molto popolare tra le cospicue emarginate frange giovanili, era uscito vincitore delle elezioni parlamentari con un programma per molti versi in sintonia con quanto propugnato, a distanza di vent’anni, dal Manifesto dei Fratelli mussulmani in Egitto e in Tunisia e ora avallato dall’Occidente. Ebbene con un colpo di stato ordito dalla giunta militare con il sostegno dei servizi segreti francese e statunitense il processo di transizione democratica, iniziato nel 1988, fu brutalmente interrotto con il rovesciamento del Capo dello Stato Chadli Benjeddid e l’istaurazione di un regime di repressione destinato a dare avvio da quel momento a una guerra civile che comportò la morte di oltre 100.000 civili. Ad avviso di molti questa fase della storia algerina ha rappresentato l’atto di nascita del radicalismo islamico nella sua espressione più intollerante contro il quale da quel momento l’Occidente si è trovato in guerra aperta. La fine di un’esperienza democratica in un Paese cerniera del mondo islamico portò alla rottura di ogni forma di dialogo tra gli schieramenti politici algerini, creando le premesse per un’implacabile contrapposizione dalla quale l’Algeria stenta a

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tutt’oggi a uscire. In questo malsano ambito nacque il famigerato GIA (Groupe islamique armé), la prima formazione terrorista degna di tal nome, resasi responsabile di atti di sangue e attentati, cui corrisposero feroci rappresaglie delle forze di sicurezza, che hanno avvelenato la realtà del Paese magrebino negli ultimi vent’anni. Il salafismo, nella sua versione più rigida e intollerante, si forma e si tempra alla prova del cruento confronto con la repressione militare in Algeria. Il GIA peraltro subisce nel tempo un processo di graduale erosione al suo interno che porta alla nascita di un movimento dissidente, il GSPC (Groupe salafiste pour la Predication et le Combat), contrario alla politica della “terra bruciata” portata avanti dal GIA, ma che non demorde nella sua inflessibile militanza contro l’apparato militare algerino, considerato “una banda di traditori apostati al servizio dei colonizzatori francesi”. La dottrina dell’intolleranza e del rifiuto del dialogo trova quindi a seguito della soppressione del moto democratico algerino la sua materializzazione sul campo, alimentata e rafforzata dalla repressione realizzata da regimi liberticidi in altre realtà del mondo arabo, il cui principale risultato è stato di radicalizzare gli spiriti ed esasperare il risentimento verso l’Occidente. Nel 2007 il GSPC confluisce nel filone di Al­Qaeda divenendo una succursale della centrale del terrore denominata AQIM (Al­Qaeda dans le Maghreb islamique) e vede la sua azione spostarsi in misura crescente in direzione degli spazi desertici del Sahel, verso la Mauritania, il Niger ed il Mali soprattutto, dove entra in problematico contatto con il movimento irredentista dei Tuareg. Fermiamoci un momento in questo excursus storico e poniamoci una domanda: se la Francia e gli Stati Uniti non avessero fornito quel becero supporto agli screditati militari algerini agli inizi degli anni novanta, siamo sicuri che le formazioni del terrore avrebbero rappresentato una sì grande minaccia ed assunto la sinistra incidenza che ora vantano nell’ovest dell’Africa? A nostro avviso questo probabilmente non si sarebbe prodotto. Perché se si fosse permesso al popolo algerino, uscito traumatizzato da una guerra di decolonizzazione ben più lunga e cruenta rispetto a quella sperimentata da altri affini Paesi, di esprimere liberamente la propria voce, consentendogli di portare avanti un progetto di edificazione nazionale che avrebbe potuto costituire un modello per altre entità islamiche, il corso degli eventi sarebbe stato verosimilmente diverso e non si assisterebbe al caos mortifero che contraddistingue al presente la realtà del mondo arabo e di una parte di quello africano.

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La costatazione da trarre quindi è che quando si preferisce la stabilità, quali che siano le sue basi di supporto politico­ sociale, alle insopprimibili priorità di democrazia e sviluppo, gli sbocchi cui si va incontro sono quelli dettati da una logica fondata sulla forza e il conflitto, a sua volta fonte di inestinguibile instabilità. Successivi sviluppi

E’ dunque nel 2007 che Al­Qaeda nella sua attuale versione magrebina si affaccia nel deserto sahariano, dove peraltro con altra sigla era presente fin dal 2003, attivando connivenze e complicità con i fragili sistemi di potere esistenti nel Sahel, al riparo dallo spietato apparato di repressione algerino, inserito altresì nei commerci di armi e droga, in essere nella regione, utili nel procurarsi fonti di finanziamento. Ma è dagli inizi del 2008 che un’altra cospicua sorgente di guadagni impingua gli introiti dei terroristi ovverossia la serie di rapimenti di turisti e tecnici occidentali che per loro sventura si trovino a percorrere una parte dell’Africa, molto suggestiva, che affonda le sue radici in una storia millenaria ma divenuta ora un’area irta di pericoli. Rapimenti che si intensificano nel 2009 e 2010 e che consentono alle formazioni di AQMI, dirette da emiri algerini, in rivalità tra di loro e con i loro partner saheliani, di arricchirsi e mettere le mani su armamenti di prim’ordine, necessari per imporre la legge della violenza e dell’intolleranza in terre per converso profondamente intrise degli autentici valori dell’islam. Valori che si declinano in termini di umanesimo, solidarietà, ospitalità, tolleranza e rispetto per le diversità. Agli inizi del 2011 scoppia la crisi libica e la Francia di Sarkozy è in prima linea per accelerare un intervento armato, sotto l’ombrello NATO, volto a un cambio di regime, il secondo che Parigi realizzerebbe in Africa, dopo quel che è avvenuto in Costa d’Avorio dove i francesi sono riusciti a spodestare il riottoso Presidente Gbagbo nei primi mesi del 2011. L’intervento franco­britannico in Libia, in un Paese organizzato su base clanico­tribale, privo, diversamente che in Egitto e Tunisia, di un assetto statuale, porta come risultato alla defenestrazione ed uccisione del dittatore Gheddafi e ad una situazione di caos generalizzato che perdura, con il proliferare di milizie tribali armate, senza che un’autorità centrale sia a tutt’oggi in grado di garantire la sicurezza ed il rispetto di una legge condivisa. La conseguenza più grave dell’attacco alla Libia, messo in atto senza una minima strategia di supporto al solo scopo di sbarazzarsi di un interlocutore scomodo ma capace di erigere una barriera contro il terrorismo islamico e di tenere sotto controllo una complessa peculiare realtà percorsa da covanti tensioni etnico­religiose, fu rappresentata dalla possibilità accordata alle formazioni islamiste di mettere le mani sul munitissimo arsenale militare di cui disponeva il dittatore. E quel che colpisce è stata l’incredibile noncuranza

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con la quale si è di fatto consentito che questo avvenisse senza porsi il problema delle sue nefaste conseguenze. A latere di questo, e arriviamo al punto di pertinenza, si è assistito allo sfaldamento dei gruppi armati fedeli a Gheddafi, composti in cospicuo numero di miliziani tuareg, con la conseguenza del progressivo rientro nel nord­Mali, l’Azawad, di migliaia di uomini, ben addestrati, desiderosi di prendersi una sorta di rivincita dopo il loro esodo dai lidi libici. Alla fine del 2011 si consuma il crollo del regime di Gheddafi cui fa seguito nel gennaio 2012, con l’arrivo nel Sahel della forza d’urto sopra descritta, lo scoppio della rivolta tuareg sotto la guida di una formazione politica laica, il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA), il vero, seppur non l’unico, punto di riferimento dell’irredentismo berbero nel Sahel. In definitiva l’effetto negativo derivante dall’attacco all’ex­ colonia italiana è stato duplice: fare della Libia, più particolarmente della Cirenaica, bacino storico del fondamentalismo islamico, un preziosissimo supporto, ideologico e militare, per le bande di jihadisti, dovunque esse operino, in Siria, nel Sinai o nel Sahara, a somiglianza dell’attacco perpetrato giorni fa contro l’impianto di gas nel sud algerino, e rendere possibile il riaccendersi di un processo destabilizzante nel Mali, realtà già segnata al suo interno dalle conseguenze derivanti dall’irradiarsi della piovra terrorista di AQMI nelle regioni settentrionali. Il colpo di stato con il quale il corrotto Presidente Toumani Touré fu spodestato a Bamako nel marzo 2012, pochi mesi dopo la fine dell’era Gheddafi, costituisce lo sbocco inevitabile del maremoto generato dalle non meditate scelte della diplomazia occidentale che, ad imitazione di quanto non provvidenzialmente prodottosi nel 1992 in Algeria, hanno sortito risultati che sono parsi andare nella direzione opposta ai reali interessi dell’Occidente. Genesi della crisi in Mali

Arriviamo dunque all’inizio della crisi maliana. Come abbiamo visto gli ex­miliziani di Gheddafi nel gennaio 2012 impugnano le armi contro il potere centrale di Bamako e trovano nelle fasi iniziali del processo un alleato obiettivo nel movimento islamista di provenienza algerina AQMI, come noto già ben installato da anni nella zona. La congiunzione dei tuareg del MNLA e degli jihadisti di Al­Qaeda ha costituito un test proibitivo per il dissestato esercito maliano che batte in ritirata, consegnando agli insorti le tre principali città del Nord: Kidal, Gao e Timbuktù, quest’ultima patrimonio culturale dell’umanità e faro dell’Islam in Africa, la città dei 333 santi islamici e delle migliaia di manoscritti, risalenti taluni al 13° secolo. L’alleanza tra i tuareg laici e i sostenitori della sharia dura

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ben poco, alla luce di confliggenti e non conciliabili finalità. I primi si vedono soverchiati dalla superiorità in mezzi e risorse degli islamisti e, dopo un flebile tentativo di resistenza, cedono il passo agli agguerriti ex­alleati. La conseguenza è che la piovra terroristica viene ad attestarsi a poche centinaia di chilometri dalla capitale Bamako mentre consolida, in maniera sempre più violenta, attraverso gravissime violazioni dei diritti umani e la profanazione di luoghi di alta rilevanza storica e religiosa, la propria osteggiata presenza nell’immenso Nord. Le popolazioni locali subiscono vessazioni di ogni sorta mentre l’UNESCO e altre organizzazioni culturali esprimono comprensibile costernazione per atti di barbarie riecheggianti quanto di analogo perpetrato in un passato non remoto dai talebani in Afghanistan. Ciò detto è lecito porsi una domanda: come hanno potuto AQMI e le sue affiliazioni radicare la loro presenza nel Nord Mali dalla prima metà dello scorso decennio fino allo scoppio dell’insurrezione tuareg nel gennaio 2012 senza che questo suscitasse una dignitosa forma di contrasto delle forze armate nazionali? Come hanno potuto i terroristi godere tanta libertà negli spazi di un Paese sovrano? Secondo quanto rilevato in proposito dai dispacci di Wikileaks e confermato da una recente testimonianza resa in Francia dal Ministro degli esteri del Niger Mohammed Bazum, il deposto Presidente del Mali ATT era in realtà ben informato su ciò che accadeva e in connivenza con le formazioni islamiste. In effetti, parrebbe che un vero e proprio “secret agreement” sui riscatti pagati dai governi occidentali per la liberazione dei numerosi ostaggi esistesse tra di lui e AQMI e che in questo “marchandage” Iyad Ag Ghali, il leader del movimento tuareg islamista Ansar Dine (“Difensori della fede”), molto vicino a Tourè, svolgesse un ruolo fondamentale per il successo delle poco nobilitanti transazioni. I rapimenti sarebbero nella grande maggioranza dei casi avvenuti in Niger e in Mauritania da dove gli ostaggi erano poi trasferiti in Mali. A questo stadio, grazie alla non disinteressata mediazione di ATT, “la merce umana” era liberata dietro il pagamento di un lauto riscatto, una cui buona fetta andava ad arricchire i fortunati membri del clan presidenziale, Presidente e consorte in primis. In sostanza se i terroristi hanno potuto dettare per anni la loro proterva legge tra le popolazioni del Nord Mali, procurando in itinere mal accette umiliazioni ai militari maliani, impotenti di fronte a tale poco edificante spettacolo, ciò si sarebbe potuto verificare, secondo queste rivelazioni, grazie alle protezioni di cui gli irriducibili islamisti godevano da parte del Presidente Touré e del suo clan. L’accordo pattuito con gli jihadisti avrebbe inoltre offerto alla

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screditata leadership di Bamako un ulteriore non secondario vantaggio: ossia utilizzare la forza armata degli islamisti per soffocare sul nascere qualsiasi tentativo tuareg di rinfocolare moti di rivolta. Una maniera, soprattutto di fronte ai vicini della regione, di garantire l’integrità territoriale del Mali, anche se questo era ottenuto attraverso intese che, di fatto, consegnavano più della metà del Paese ai terroristi di Al­Qaeda e ai suoi affiliati. Il putsch militare del marzo 2012 trova dunque la sua ragion d’essere nell’incontenibile esasperazione di ambienti non più disposti a subire le conseguenze di tale squalificante degrado. Alla luce di queste rivelazioni riesce piuttosto agevole comprendere il ben visibile plauso riservato all’intervento francese in Mali, determinato dall’improvvisa e improvvida avanzata delle forze islamiste verso Bamako d’inizio gennaio. Una decisione pagata a caro prezzo ma che non ci può indurre a credere che la battaglia sia irreversibilmente vinta. Conclusioni

La finalità strategica dell’intervento della Francia in Mali è stata, almeno fino a ora, ampiamente soddisfatta. In tal modo si è reso un servizio impagabile alla società civile maliana, a tutti quegli uomini e quelle donne che dall’aprile dello scorso anno hanno dovuto subire il diktat di bande armate mosse dall’esclusivo desiderio di imporre una loro volontà di oppressione fisica e culturale. Che l’iniziativa di un’ex­Potenza coloniale abbia suscitato, fatto assolutamente inedito in Africa nera, manifestazioni di giubilo popolare, come testimoniato dall’accoglienza straordinaria riservata “à papa Hollande” nella sua visita in Mali accompagnato dalla Direttrice Generale dell’UNESCO, è un aspetto da tenere ben presente. Ciò detto, occorre anche ricordare che aver liberato due delle tre più importanti città dell’Azawad, Gao e Timboktù, non ha significato la fine dell’operazione Serval. Vi è l’immenso Nord da liberare dove le bande jihadiste continuano ancora a spostarsi e dove riuscirà più difficile colpirle o eliminarle. Il compito che attende le forze franco­maliane si annuncia meno agevole rispetto a quanto prodottosi a Gao e Timbuktù nel senso in cui si tenga conto che Kidal, pressoché interamente popolata da Tuareg, da dove gli islamisti sono fuggiti, è ora nelle mani di irredentisti laici e religiosi. L’instabile e precario equilibrio etnico esistente in Mali tra popolazioni nere nelle loro variazioni tribali (Bambara, Peul, Songhai, Soninké ecc.) e popolazioni di pelle bianca, quali Arabi e Tuareg, che affonda le radici nei secoli passati, fa

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capire come il seguito della campagna appare irto d’insidie, soprattutto pensando al contatto che si produrrà tra i militari maliani e gli elementi tuareg, che hanno definito l’ingresso nella loro regione delle forze di Bamako “un atto di guerra”. Moltitudini di “pelli bianche” hanno cercato rifugio in lidi più ospitali, la Mauritania in primis, mossi dalla paura di restare esposti a casa loro alla vendetta dei “neri”. Preferiscono vivere da rifugiati in condizioni d’indicibile miseria piuttosto che correre il rischio di “essere fatti a pezzi” dai militari maliani. Il pericolo di vendette ed esazioni è reale. Le organizzazioni umanitarie hanno già segnalato il verificarsi di episodi incresciosi prodottisi durante la liberazione di alcune città del Paese, che hanno riportato alla memoria orrendi massacri perpetrati dall’esercito maliano contro le “pelli chiare” negli anni 90. Il completamento dell’opera di riconciliazione nazionale, in un quadro di maggiore democrazia e di un riassetto istituzionale meglio rispondente ai delicati equilibri etnico­ culturali, e il conseguimento della riunificazione del Paese, appaiono invero traguardi alquanto difficili da conseguire. Si tratterà di un qualcosa che richiederà molto tempo in attesa che il muro di terribile diffidenza e animosità che separa le diverse comunità del Mali si assottigli e diventi più facilmente sormontabile. Questo comporterà per la Francia il delineare una “policy” che ponga un’estrema attenzione a come portare avanti la sua missione, elaborando in the process una “exit strategy neither too quick nor too slow”, che dovrà tener conto sia di un migliorato quadro complessivo sia della necessità di evitare che, perdurando la presenza francese nella ex­colonia, ciò possa dar adito ad accuse di neocolonialismo suscettibili di far rinascere gli spettri del passato. Un esercizio dunque assai delicato col quale la diplomazia transalpina sarà confrontata, il cui esito ogni europeo confida che si rivelerà il meno negativo possibile; perché nella trattazione del dossier maliano non è solo in gioco l’interesse dei nostri cugini d’Oltralpe ma anche quello dell’Europa, esposta ora più mai alla minaccia terroristica. Il fallimento della scelta politica assunta dal Presidente Hollande di rispondere positivamente all’appello del Primo Ministro Traoré precipiterebbe di nuovo il Mali in un caos incontrollato dalle conseguenze imprevedibilmente negative che tutti in Occidente si augurano non si producano. Le crescenti sinergie sul piano operativo tra Francia e Stati Uniti cui assistiamo nell’area saheliana suonano conferma dell’altissima posta in gioco. In questo intricato scenario l’auspicabile coinvolgimento delle Nazioni Unite si rivelerebbe di grande ausilio nel prevenire il riaccendersi di conflitti interetnici e le conseguenti gravi violazioni dei diritti umani. Occorre ricordare in proposito che in Africa i pericoli maggiori si

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annidano nelle turbolente relazioni tra diverse etnie, diversamente che in Medio Oriente dove molto spesso esse assumono connotati settari su base religiosa. La Misma (Mission internationale de soutien au Mali), sotto la direzione del suo responsabile, l’ex­Primo Ministro del Burundi, Pierre Buyoya, nominato dall’Unione africana, sarà chiamata dal canto suo a svolgere una funzione d’importanza per gli altri Paesi della regione, minati dai mali della povertà, dell’emarginazione giovanile e delle tensioni a carattere etnico che non risparmiano nessuna entità dell’area. Il comprensibile intento delle oligarchie al potere è di evitare un riesplodere della crisi in Mali che spiani di nuovo la strada alle orde di Al­Qaeda con i temibili effetti di contagio. Queste traggono il massimo profitto dalla miseria materiale e culturale di fasce sociali, la cui estraneità e lontananza dai luoghi del potere resta in Africa abissale, una delle cause profonde della pericolosa instabilità ivi prevalente. na volta che il recupero dell’unità nazionale sarà completato, esso dovrà essere considerato un punto di partenza e non di arrivo, l’avvio di un percorso in grado di creare le basi di sostenibilità nel tempo, fruendo dell’appoggio e del sostegno che la Francia e l’Europa non dovranno far mancare a questa parte dell’Africa così vicina alle sponde mediterranee, ergo di vitale importanza per la nostra sicurezza. Arrestare gli effetti della violenza e dei soprusi è importante ma non sufficiente. Occorre poi cercare di affrontare ed eliminare le cause profonde che hanno scatenato il ciclo di violenza e prevaricazioni. Quel che si vuole evidenziare è che le vittorie registrate contro i terroristi avranno un senso e un seguito solo se i problemi reali del Paese, lasciati irrisolti per decenni da regimi autoritari e corrotti, saranno finalmente presi in seria considerazione. In primis la questione inerente alle aspirazioni di giustizia e inserimento dell’etnia tuareg, che riveste interesse per tutti gli Stati del subsistema, compresa l’Algeria, unitamente ai flagelli della povertà e livelli di esclusione sociale, che colpiscono particolarmente le giovani generazioni, non più tollerabili. Una frattura tra governanti e governati che fa dire a molti africani che la “malgovernance” coloniale in realtà non è mai terminata in Africa. Concluderei menzionando una citazione di William Lawrence, analista per il Nord Africa presso l’International Crisis Group di Bruxelles: “Una risposta sul piano della sicurezza è solo una risposta parziale. Se uno sforzo effettivo sul piano politico, economico e umanitario non è posto in essere, la soluzione del problema di sicurezza si rivela essere una soluzione mancata”. Disattendere tale verità potrebbe rivelarsi esiziale per il Mali e per le altre fragili entità della regione che potrebbero andare ad arricchire lo stuolo dei “failed states”, di cui alcuni esempi sono già reperibili in

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Africa centrale e orientale. E’ in queste realtà che il terrorismo prospera. Questo dovrebbe essere tenuto in maggiore considerazione nelle cancellerie occidentali se si vuole dare senso e concretezza alla lotta contro le centrali del bieco oscurantismo che minacciano le nostre esistenze. Overview dei principali movimenti antagonisti e loro obiettivi MNLA (Mouvement Nationale pour la Liberation de l’Azawad) E’ la principale ma non unica formazione rappresentativa della comunità tuareg in Mali. Essa è composta nella grandissima maggioranza da berberofoni, con una trascurabile presenza di maliani di razza nera. Il MNLA si batte per uno Stato tuareg indipendente e costituisce un interlocutore imprescindibile per qualsiasi negoziato volto a risolvere le complesse problematiche nazionali. Al­Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) AQMI è un movimento diretto da capi algerini, essendo una derivazione del “Groupe salafiste pour la Preche et le Combat”. Si è reso protagonista di rapimenti di ostaggi europei che gli hanno fruttato un’ingente fortuna. Pur essendo di matrice magrebina, ha registrato negli ultimi anni l’adesione di giovani appartenenti alle etnie di pelle nera, attratti dalla prospettiva di facili guadagni. Si batte per l’integrale applicazione della legge islamica nella sua versione più severa. Recentemente al suo interno si sono manifestati forti dissensi riguardanti la leadership algerina. Ansar Al­Dine Composto principalmente da tuareg islamisti e da arabi ma annovera al suo interno altri gruppi autoctoni, tutti uniti dal desiderio di attuare in Mali ed nel mondo islamico la sharia. Iyad Ag Ghali è il capo indiscusso, essendo il fondatore del movimento dopo aver militato per anni nello schieramento laico tuareg. Iyad Ag Ghali svolto un ruolo decisivo nell’aver consentito i contatti sottobanco con AQMI per la riscossione dei riscatti. Il che ha permesso ampia libertà agli islamisti di consolidare la loro presenza nelNord Mali. Vi è da rilevare che a seguito dell’Operazione Serval, Ansar Al Dine ha subito una scissione con la nascita di un nuovo gruppo, sempre islamico, denominato “Mouvement islamique pour l’Azawad”. Il MIA, seppur non abiurando la matrice religiosa, si caratterizza per il desiderio di una soluzione pacifica e negoziata della crisi e per il rifiuto di ogni forma di terrorismo. Alcuni dubbi persistono in merito alla plausibilità di tali posizioni, intaccata forse da una certa dose di opportunismo.

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MUJAO (Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest) E’ sicuramente il gruppo più torbido della galassia islamista. Si sarebbe scisso da AQMI allo scopo di sottrarsi alla leadership algerina, anche se i suoi membri, maliani di razza nera e proseliti provenienti da altri Paesi del Sahel, mossi più da ragioni di guadagno che da un’ardente fede, tengono a sostenere di essere “felici” nel collaborare con la succursale di Al­Qaeda. Avrebbe beneficiato di finanziamenti di ricchi commercianti arabi a Gao.

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SEGNALAZIONI

On line un nuovo numero dell'Osservatorio Mediterraneo Questo numero dell’Osservatorio, grazie al contributo originale di testimoni e protagonisti che operano in Tunisia ed Egitto, mira ad approfondire alcuni aspetti centrali nelle “transizioni” di questi paesi: il salafismo in Tunisia, innanzitutto, il suo peso sociale e l’influenza sulla politica; la situazione dell’Egitto dopo il referendum costituzionale caratterizzata da scontri sanguinosi, da una evidente divisione della società egiziana e da instabilità politica. Infine, il ruolo dell’arte e della cultura nelle rivoluzioni, con l’intervista a due artisti egiziani, protagonisti di spicco della rivoluzione del 25 Gennaio. Scarica il pdf Vai all'archivio

Verso la nuova PAC 2014 – 2020 Gli scenari futuri per il Piemonte, tra Europa e Mediterraneo Il settore agroalimentare piemontese si trova di fronte a sfide e cambiamenti importanti. In un contesto in continua evoluzione dove aumentano le esigenze dei consumatori e le potenzialità di crescita per il cibo di qualità “Made in Italy”, si sta avvicinando un periodo di revisione e modifica del quadro di politiche comunitarie di riferimento, con l'entrata in vigore nel 2014 della nuova PAC e con le richieste pressanti di apertura dei mercati da parte di molti dei paesi emergenti, non ultimi da quelli dell'area Mediterranea. Quali sono gli scenari possibili per i prossimi anni? Che ricadute avrà sull'agricoltura piemontese la nuova PAC? Come evolveranno i rapporti in ambito di commercio di prodotti agricoli tra UE e paesi mediterranei nei prossimi anni? Partendo da questi spunti, l’Istituto Paralleli, in collaborazione con la Camera di Commercio di Torino, ha organizzato a novembre nel capoluogo piemontese un convegno dal titolo: “Verso la nuova PAC 2014 – 2020. Gli scenari futuri per il Piemonte, tra Europa e Mediterraneo”. Per approfondire l'argomento è possibile consultare e scaricare le relazioni di alcuni dei relatori partecipanti cliccando qui.

Solaire Expo Maroc 2013

Marrakech, Maroc

Cette édition s’intéresse aux acteurs nationaux et internationaux opérant dans le domaine de l’énergie solaire

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et offre une opportunité d’échange d’expériences et de savoir­faire entre les différents opérateurs dans le domaine de l’énergie solaire. Elle proposera des forums thématiques exhaustifs et diversifiés pour permettre aux visiteurs et professionnels du métier de s’informer sur l’actualité du secteur des énergies renouvelables, et plus particulièrement l’énergie solaire. http://solaireexpomaroc.com/

Presentazione del libro "Le rivoluzioni della dignità"

Torino, Libreria

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SIEL TUNIS 2013

Tunis

14ème salon international des industries électriques et électroniques. Organisé par la Société Horizons EXPO (Groupe SOGEFOIRES International) en collaboration avec la Fédération Nationale des Industries Mécaniques (FEDELEC), ce salon biennal permettra aux industriels et aux professionnels du secteur de prendre connaissance des technologies les plus récentes dans le domaine de l'électricité. Il s'agit également d'un espace d'échange d'expertises et d'expériences qui favorise les contacts entre industriels sur les plans national et international. http://www.sielexpo.net/

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www.paralleli.org Con il sostegno di :

Rete Camerale Nord Ovest per il Mediterraneo

Le attivitĂ dell'Istituto Paralleli sono sostenute da:


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