Iconemi 2013 NUOVI PAESAGGI VERSO SMART CITY

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Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”

QUADERNI 24

a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi

BERGAMO UNIVERSITY PRESS

sestante edizioni


Con il contributo

Comune di Bergamo

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Bergamo

Š 2014, Bergamo University Press Collana fondata da Lelio Pagani, diretta da Anna Maria Testaverde

ICONEMI alla scoperta dei paesaggi bergamaschi a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi p. 80 cm. 21x29,7 ISBN – 978-88-6642-164-1

Segreteria organizzativa: Renata Gritti, Silvia Cortinovis www.iconemi.it

In copertina: Immagine di Francesca Perani.

Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo


INDICE

MARINA ZAMBIANCHI Nuovi paesaggi verso Smart City. La città sensoriale, partecipativa, ecologica ...........................

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FULVIO ADOBATI Un cantiere di rammendi ................................................................................................................

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MARIA CLAUDIA PERETTI Shrinking City - Smart City. Obiettivi smart per la città del “declino” ........................................

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ALESSANDRO COPPOLA Pianificare la contrazione. Proprietà, progetto e natura nelle shrinking Cities nordamericane .......

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CARLO SALONE Urban shrinkage. Geografie italiane tra declino e resilienza urbana ............................................

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MARIO SALOMONE I beni comuni nella città contemporanea .......................................................................................

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GIOVANNA RICUPERATI Un nuovo metabolismo urbano .......................................................................................................

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JOHNNY DOTTI Crescita e rigenerazione dei beni di comunità ...............................................................................

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GRAZIA PRATELLA Infrastrutture, spazi e tempi urbani, tempi e orari della città, Smart City. Le banche del tempo .......................................................................................................................

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IVAN MAZZOLENI Bergamo Smart: una sfida verso la città intelligente .....................................................................

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SERGIO CAVALIERI - MATTEO KALCHSCHMIDT - LAURA VIGANÒ Il progetto Bergamo 2.(035) “Un nuovo concetto urbano per un nuovo mondo” .......................................................................

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FRANCESCO VALESINI Bergamo Smart City: un sistema integrato di reti .........................................................................

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EMILIA RIVA Tavola rotonda: Bergamo Smart City a che punto siamo ..............................................................

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DINO NIKPALJ Smart City, una sfida che parte dai nuovi cittadini ......................................................................

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MARINA ZAMBIANCHI

NUOVI PAESAGGI VERSO SMART CITY. LA CITTÀ SENSORIALE, PARTECIPATIVA, ECOLOGICA

INTRODUZIONE Il ciclo di conferenze di quest’anno è stato occasione di riflessione sul tema della Smart City, declinata sulla realtà bergamasca, anche per le potenzialità in termini di qualificazione e trasformazione del paesaggio urbano. Le Smart Cities sono le città che creano condizioni di governo, infrastrutturali e tecnologiche per produrre innovazione sociale, per rendere efficienti i consumi energetici eliminando gli sprechi e l’inquinamento, per risolvere i problemi legati alla crescita, all’inclusione e alla qualità della vita attraverso l’ascolto e il coinvolgimento dei diversi attori locali coinvolti: cittadini, imprese, associazioni. La materia prima diventa la raccolta e la gestione organizzata dei dati: le forme e le modalità dell’intervento pubblico nei contesti urbani trovano nuove articolazioni, superando le settorialità tradizionali, con una nuova capacità strategica. Le città sono sempre più nodi attivi dei flussi fisici ma anche e soprattutto di quelli immateriali. Dopo i decenni della grande espansione, le città si confrontano sul tema dello sviluppo sostenibile ed elaborano nuovi contenuti e nuove politiche di qualità. La vera sfida consiste nel rigenerare la città attraverso politiche che pongano gli abitanti al centro del progetto: riparare e migliorare ciò che esiste, riducendo gli sprechi di risorse, fermare l’espansione, cambiare il modo di gestire il territorio, lavorando attraverso un coordinamento tra i diversi settori della pubblica amministrazione in collaborazione con gli abitanti. Il ruolo che aree di proprietà pubblica possono assolvere nel rappresentare validi esempi di gestione sperimentale e innovativa è di primaria importanza: la difficoltà a capire quali potranno essere i possibili scenari nel medio e lungo termine, rende ancor più auspicabile individuare nuove modalità

per una gestione attenta del transitorio, in grado di consentire una pianificazione che sia coerente con le effettive attuali esigenze. In questo contesto è interessante anche analizzare il ruolo delle imprese: si è passati dall’idea di “città nuova” all’idea di “città da rinnovare”, dall’idea di territorio come entità neutra, indifferenziata, finanziaria e quantitativa a quella di territorio come ecosistema abitato, vivo, denso di relazioni, di strati e di differenze, di attribuzioni, di simboli, di valori immateriali. Forse la chiave di volta sta nell’adottare un atteggiamento resiliente, propenso alla trasformazione, capace di un adattamento attivo e di una flessibilità necessaria a rispondere alla particolare situazione di crisi in cui ci troviamo, con l’obiettivo di raggiungere un nuovo equilibrio. A livello sociale non va dimenticata la dimensione della fragilità, che è parte del nostro quotidiano e su cui una vera “città intelligente” abitata da “cittadini intelligenti” deve continuamente interrogarsi per trovare nuove risposte attraverso la creazione di reti sociali con una visione comune sul cambiamento ed in grado di assumersi responsabilità pubblica. Si evince quindi che, partendo dal concetto cardine di paesaggio – leit-motiv di Iconemi – le sole soluzioni urbane o tecnologiche non sono sufficienti per rispondere alla crisi: la Smart City deve essere in grado di rivedere le funzioni degli spazi pubblici, reinventandosi anche attraverso la progettazione di nuovi ambienti associativi e promuovendo nuove e diverse relazioni sociali per un nuovo welfare. Anche quest’anno proponiamo un contributo qualificato ed approfondito al dibattito di questi mesi sulla “Smart City” attraverso un percorso di approfondimento con molti spunti di riflessione ed un approccio multidisciplinare che da sempre contraddistingue la nostra iniziativa.

Keywords: Senso di responsabilità, partecipazione, cooperazione propositiva e sperimentale, governo del transitorio, resilienza, innovazione, coordinamento.



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FULVIO ADOBATI

UN CANTIERE DI RAMMENDI

Il riferimento a Thierry Paquot e a un’urbanistica “sensoriale, partecipativa, ecologica”, che caratterizza il ciclo di Iconemi 2013, apre alla complessità del proporre, nel tempo di progetti e politiche verso una smart city, le ragioni profonde di un progetto per la città e per l’urbano. Un progetto capace di collocarsi entro il paradigma di una resilienza che unisce alla sostenibilità delle trasformazioni urbane – nelle declinazioni sociale, ambientale ed economica – la capacità di coniugare spazio e tempo, luoghi e flussi urbani, di assumere le dimensioni del temporaneo e del reversibile quali categorie legittime nella scelta urbanistica; tale approccio va rivelandosi quale forma efficace in tempo di crisi (di risorse economiche e di idee) e sovente meglio adeguata al portato storico dei luoghi. Tre temi di particolare rilievo, a parere di chi scrive, che Paquot1 propone per un’urbanistica “volontaria”, cioè consapevole: (i) ripensare, anche sotto il profilo giuridico, nozioni come “privato, pubblico, individuale, collettivo attraverso degli studi comparati sugli usi dei territori urbani2; (ii) elaborare progetti urbani che partano, prima di tutto, dalla condizione degli abitanti e dei luoghi, senza volere applicare, a qualsiasi costo, una ricetta già applicata altrove3; (iii) nel processo decisionale bisogna dedicare un tempo incomprimibile alla parola scambiata, un approccio ecologico che non può che rivelarsi fecondo per la maieutica del progetto4.

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Il fermento intorno alle politiche urbane e ai temi progettuali legati a smart city rappresenta un’occasione straordinaria per alimentare il dibattito intorno alla città, a quale città, per quali cittadini, per quale concetto di qualità urbana. Una città di amministratori, ricercatori e addetti ai lavori che elaborano idee e azioni per un rinnovamento urbano e una nuova governance (in chiave “smart”); cittadini che si misurano con una pervasiva presenza di strumenti tecnologici e applicazioni atte a programmare e controllare e il proprio stare nello spazio e nel tempo; comunità che si confrontano su prospettive di partecipazione attiva e, ancora, nuove forme di governance capaci di reinterpretare il rapporto tra cittadini, istituzioni e beni comuni.

SMART CITY VS. SHRINKING CITY In questa stagione storica risuonano titoli dedicati alla città: dall’avvenuto “sorpasso” della popolazione urbana mondiale rispetto alla popolazione rurale5, al consistente peso delle realtà urbane negli equilibri energetici e ambientali del pianeta: già oggi il territorio urbano occupa il 2% delle terre emerse, ospita il 50% della popolazione, consuma il 75% delle risorse energetiche e produce l’80% delle emissioni di CO2. Lo scenario 2050 vede, in ragione delle forti dinamiche di inurbamento dei paesi

da Paquot (2010), con riferimento particolare all’efficace commento di Giordano M.L. in: http://www.cartografareilpresente.org/ article673.html. 2 “Mener des études comparées quant aux usages des territoires de l’urbain afin de repenser des notions comme «privé, public, collectif, individuel», etc., en relation avec leur traduction juridique” p. 125. 3 “Élaborer des projets urbains qui partent avant tout de la situation des habitants et des lieux sans vouloir coûte que coûte appliquer une recette venue d’ailleurs” p. 126. 4 “Il faudrait prévoir dans tout processus architectural et urbanistique un temps incompressible pour la parole échangée. Cette écologie temporelle de la parole serait salutaire à la maïeutique du projet”. p. 11. 5 Premettendo opportune attenzioni per le categorie statistiche assumibili e per la correttezza delle simulazioni, il sorpasso della popolazione urbana su quella rurale è stato calcolato da team di ricerca della Università della North Carolina State e dell’Università della Georgia che il 23 maggio 2007 erano insediati 3.303.992.253 nelle aree urbane di abitanti contro i 3.303.866.404 insediati nelle campagne.


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FULVIO ADOBATI

Fig. 1. Maria Brown con sunnibrown.com, 2011 (http://www.revistadigital.com.br/wp-content/uploads/2013/08/11_Triumph-of-the-City.png).


UN CANTIERE DI RAMMENDI

“emergenti”, la quota di popolazione urbana raggiungere il 75% (percentuale oggi già raggiunta dal continente europeo). Va rilevato come nei paesi ad economia “matura”, stanti violente trasformazioni degli assetti economico-produttivi, emergano fenomeni di città in declino e città fantasma (shrinking city e ghost city), e come in questi anni sia di interesse la narrazione di questi temi6 e l’analisi degli elementi di crisi nella città, da non confondersi con la crisi della città. Riprendendo infatti il volume di successo di E. Glaeser “Triumph of the City”, la città (definita da Glaeser come la nostra più grande invenzione) non è mai stata in salute come in questi anni. Torna alla mente l’immagine della “città invincibile” del geografo Jean Gottman, che, studiando proprio il contesto nord-americano (il Northeast megalopolis o Bos-Wash Corridor con Boston, Washington, New York, …) per primo aveva identificato le dinamiche di agglomerazione urbana complessa che hanno informato il concetto di megalopoli e anticipato già negli anni Settanta i tratti di una megalopoli padana in via di formazione. In una visione certo connotata dal suo profilo di economista, Glaeser traccia una descrizione significativa delle dinamiche urbane nel tempo della telematica: “Benché sia diventato molto economico viaggiare tra luoghi molto distanti tra loro, o lavorare in rete tra l’Ozarks e l’Azerbaijan, un numero sempre crescente di persone si raggruppa sempre più strettamente in grandi aree metropolitane. (…) Le città, i densi agglomerati che punteggiano il globo, sono stati i motori dell’innovazione fin da quando Platone e Socrate bisticciavano in un mercato di Atene. Le vie di Firenze ci hanno dato il rinascimento, e quelle di Birmingham la Rivoluzione industriale. Le grandi prosperità della Londra contemporanea, o di Bangalore o di Tokio, viene dalla capacità di produrre nuovo pensiero. Girare per queste città –sia che percorriamo marciapiedi pavimentati o attraversiamo un reticolo di incroci, giriamo intorno a rondò o ci infiliamo dentro i sottopassaggi- vuol dire né più né meno studiare il progresso umano. Nei paesi più ricchi d’Occidente, le città sono sopravvissute alla tumultuosa fine dell’era industriale, e sono ora più opulente, più salubri e più attraenti che mai. Nelle aree più povere del mondo, le città stanno espandendosi enormemente perché la densità urbana fornisce la via più sicura per passare dalla penuria alla prosperità. A dispetto delle conquiste tecno6

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logiche che hanno determinato la fine delle distanze, salta fuori che il mondo non è tutto uniforme; è appezzato. La città ha trionfato” 7

LA CITTÀ IDEALE Nelle versioni più orientate a magnificare l’accezione “brillante” della smart city e le possibilità offerte dai dispositivi tecnologici di connessione/comunicazione, a quelle più “intelligenti” e volte a definire un disegno organico degli ambiti d’azione8 e le rispettive sinergie, alla base delle energie che sospingono smart city è rinvenibile una tensione mai estinta (e auspicabilmente da tenere ben viva) verso la ricerca di una “città ideale”, da concepirsi come contestualizzata, originale e unica (in questo prendendo distanza da concetti univoci e modellizzati/banalizzati di città ideale). A beneficio di un fertile accostamento al tema smart city/città ideale, si propone a seguire un contributo stimolante dell’antropologo francese Marc Augé, noto in particolare per avere elaborato la teoria dei nonluoghi: (…) Cosa nelle città reali può evocare qualcosa che potremmo considerare come la città ideale? Mi vengono in mente due esempi. Li idealizzo certamente, ma l’esercizio è precisamente questo: trovare delle tracce dell’ideale. Il primo esempio, di gran lunga il più convincente, è quello delle città di medie dimensioni del Nord Italia, Parma o Modena, per esempio. Nel centro di queste città la vita è intensa, la piazza pubblica resta un luogo d’incontro, si circola in bicicletta, si cammina naturalmente lungo luoghi di rilevanza storica. Il visitatore di passaggio ha l’impressione di poter entrare in intimità con questo mondo piacevole senza farsi notare, quasi scivolando, di stabilire delle relazioni senza esservi obbligato e passare da una città all’altra per il semplice piacere degli occhi. Ma, mi si obietterà, bisogna proprio chiuderli gli occhi per ignorare tutto ciò che contraddice questa miope visione turistica: la povertà, l’immigrazione, gli atteggiamenti di rifiuto... Ancora una volta mi fermo all’ideale, che esige, in effetti, una forma di miopia. Altro esempio: la vita di quartiere in un arrondissement parigino. Potremmo fare molti altri esempi, sappiamo che nelle più grandi metropoli del mondo (Città del Messico, Chicago) esistono forme di vita locale molto vivaci. La vita di quartiere è quella che si

Si veda il contributo di A Coppola in questo volume. Glaeser ed. it. 2013, pp. 7-8. 8 La definizione di smart city è difficilmente sintetizzabile, ma si caratterizza principalmente per la (intelligente) combinazione di sei fattori principali: smart economy, smart people, smart governance, smart mobility, smart environment, smart living. 7


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FULVIO ADOBATI

Fig. 2. Immagine tratta da: Futuropolis, la città del futuro vista dai bambini (http://www.futurefilmfestival.org/news/futuropolis-lacittà-del-futuro-vista-dai-bambini).

può osservare nelle strade, nei negozi, nei bar... A Parigi, città dove da diversi anni la vita è diventata più difficile, è solo su scala ridotta che riusciamo a vedere dei legami fragili resistere al disincanto: le conversazioni al bistro, le chiacchiere tra una persona anziana e la giovane cassiera al supermercato, gli scherzi dal droghiere tunisino: si tratta di piccole forme di resistenza all’isolamento che sembrerebbero provare che l’esclusione, il ripiegamento su se stessi e il rifiuto dell’immaginazione non sono una fatalità. Cosa possiamo concludere da questi segni sparsi? Che ogni programma generale e ogni progetto nel dettaglio dovrebbero associare riflessioni di genere diverso: una riflessione da urbanista sulle frontiere e sugli equilibri interni al corpo della città; una riflessione da architetto sulla continuità e le rotture dello stile; una riflessione antropologica sulle abitazioni odierne che deve conciliare la necessità di aperture multiple sull’esterno e il bisogno di intimità privata. Un ampio cantiere di “rammendi” (nel senso che gli davano le sarte un tempo, le “magliaie” che “riprendevano” i vestiti strappati e le calze smagliate). Bisognerebbe, per quanto possibile, tracciare di nuovo le frontiere tra i luoghi, tra l’urbano e il rurale, tra il centro e la periferia. Delle frontiere, cioè delle soglie, dei passaggi, delle porte ufficiali per far saltare le bar-

riere invisibili dell’esclusione implicita. Bisogna restituire la parola al paesaggio. Ci si potrebbe assegnare come compito a lungo termine quello di rimodellare il paesaggio urbano moderno, nel senso che gli attribuisce Baudelaire, dove gli stili e le epoche si mescolerebbero consapevolmente, come le classi sociali. In Francia, i Comuni e le circoscrizioni delle città hanno l’obbligo di destinare una certa quota di appartamenti ad edilizia popolare, ma oltre al fatto che spesso quest’obbligo è raggirato, spesso stile e materiali scelti portano a un effetto di stigmatizzazione. Ancora uno sforzo verso l’ideale... Questo ideale dovrebbe essere riconoscibile anche nella disposizione interna degli appartamenti più modesti dove, su scala ridotta, dovrebbero coesistere le tre dimensioni essenziali della vita umana: lo spazio individuale privato, eventualmente lo spazio pubblico (all’occorrenza il familiare) e la relazione con l’esterno. Formulato in questo modo, l’ideale è utopico e non è evidentemente di competenza esclusiva dell’architetto. Ma la materia dell’ideale o dell’utopia è già là. Per concludere, torno all’immagine della sarta, o meglio della magliaia. Non è una metafora che riguarda esclusivamente progetti grandiosi in grado di offrire bellezza a tutti, né si tratta di rimodellare grandi paesaggi dove ciascuno può perdersi e ri-


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Fig. 3. Bishop P., Urban Design ( http://welldesignedandbuilt.com/2012/05/02/temporary-urban-design/.

trovarsi. Serve solo a ricordarci che tutto comincia e tutto finisce con l’individuo più modesto e che le imprese più grandi sono vane se non lo riguardano almeno un po’. (…)9

“TEMPORARY CITY” E UN PROGETTO DI CITTÀ Riprendendo le traiettorie di smart city poste in apertura, in questa fase storica, attenzione privilegiata risiede (e dall’esplosione della bolla immobiliare e dei fenomeni di shrinkage urbano la cosa è di tutta evidenza)10 nella rigenerazione urbana e funzionale del patrimonio costruito esistente; per il contesto europeo e italiano tale attenzione si rivolge in particolare al patrimonio architettonico storico11. Come già ricordato per il patrimonio edilizio dismesso (o, altrettanto cospicuo, sottoutilizzato) va allargandosi l’attenzione intorno alle forme di uso temporaneo dello spazio, certo per i caratteri di attuabilità connessi al difficile momento economico-finanziario in particolare nel contesto europeo (per investimenti immobiliari pubblici ma anche privati). Ma almeno altri tre fattori rilevanti emergono quali vincenti per il temporaneo12 in questa fase: (i) la reversibilità delle funzioni insediate, che vengono collocate a occupare spazi adattandosi a configurazioni preesistenti e con l’ausilio di piccole opere di 9

manutenzione; (..) le funzioni temporanee (come diversi esempi europei testimoniano) favoriscono attività appartenenti a settori “creativi” (l’assenza di routine pre-configurate per queste pratiche è in questo senso un carattere di apertura alla creatività) nelle modalità operative emergenti nell’economia contemporanea, capaci di fungere insieme il ruolo di potenziali incubatori e nel contempo favorire forme di co-working; il contesto di riflessione intorno al riuso di pezzi di città è uno straordinario contesto di facilitazione dell’esercizio di cittadinanza: “è attivandosi in pratiche di riuso della città, che chi vive nella città ha l’occasione di provare cos’è la cittadinanza (provare e apprendere attraverso l’uso)” (Crosta, 2011, p. 82)

Riportando al centro dell’attenzione il contesto di Bergamo, piace qui riprendere il fertile percorso intrapreso13, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, per uno sforzo di progetto organico su complessi monumentali (non utilizzati o sottoutilizzati) e città. A distanza di tre decenni alcuni organismi architettonici14 sono stati recuperati alla città, altri sono sulla (faticosa) strada di un recupero, ma risuonano forti alcune riflessioni di un protagonista di quel percorso, Giancarlo De Carlo, tra re-

(Augé, 2012, pp. 16-18). Si rimanda qui ai contributo di M.C. Peretti e di C. Salone in questo volume. 11 Molti sono gli esempi di interesse, in alcune capitali europee all’avanguardia (Berlino, Amsterdam, Parigi) ma anche in diversi altri contesti: l’ex caserma di Ferrara “Spazio Grisù”, la “Cable Factory” a Helsinki, da fabbrica di cavi elettrici e telefonici a fabbrica di cultura e eventi, l’ex cotonificio “Spinnerei” a Lipsia a Cittadella dell’Arte Contemporanea, il “Chapitò” di Lisbona da Riformatorio a luogo di integrazione sociale e culturale. 12 La letteratura intorno ai temi del Temporary Urbanism e del Temporary Reuse negli ultimi anni è cospicua, si segnalano qui: Bishop P., Lesley W. (2012) The Temporary City, Routledge, e il numero monografico della rivista Territorio, 56, 2011, F. Angeli, Milano. 13 Il percorso ha visto un momento fondamentale nella mostra-convegno tenutasi nel marzo-aprile 1982, per la quale si rimanda agli atti predisposti dal Comune di Bergamo. 14 Esito di un percorso di riflessione e di un convegno comunemente denominato sui “contenitori architettonici”, poi ridefiniti “organismi architettonici” su proposta di Giancarlo De Carlo. 10


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FULVIO ADOBATI

ancora ai “primi passi”) realtà universitaria di Bergamo. L’attuale condizione storica ci ripresenta un quadro di ripensamento di un’idea di città entro un orizzonte globale, anche in ragione di una nuova collocazione di Bergamo nel quadro nazionale, europeo e mondiale (in termini di profili di accessibilità, relazioni e ruolo potenziale). E di una presenza di una istituzione universitaria che può rappresentare il fattore di sviluppo determinante. Progetto di città e progetto di università in questa chiave camminano insieme. Lavorare a un cantiere città (con la pazienza dei rammendi…), è la sfida appassionante che anche in questo volume, a partire dai progetti di BergamoSmartCity e di Bergamo2.03517, è tracciata. Una sfida che responsabilizza istituzioni e cittadini a un progetto di futuro. Fig. 4. Giancarlo De Carlo, L’architettura della partecipazione, Milano, Saggiatore, 1973, copertina.

sponsabilità degli amministratori e dei politici e diritto/dovere dei cittadini: (…) “Quello che mi pare manchi ancora, ed è naturale, è la presenza di un reale disegno, o progetto, di quello che si vuole questa città sia (…) Chi avrà il compito di dare il disegno della città? Io credo che il disegno della città lo danno i cittadini. Tuttavia poiché i cittadini non possono essere tutti chiamati (…) la responsabilità del primo passo per il disegno della città la devono assumere gli amministratori e i politici”.15

Ancora, con riferimento alla necessità di attribuire funzioni agli organismi architettonici: “il problema che assilla tutti, ciòè che cosa mettere dentro questi contenitori, può essere risolto in modo molto semplice, che può essere messa qualunque cosa; in modo molto complicato che non ci deve essere niente. Il contenuto dipende dalla individuazione del ruolo complessivo della città”.16

Utile ricordare come componente rilevante di quel dibattito fosse riferita agli spazi per una (allora

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…“Il contenuto dipende dalla individuazione del ruolo complessivo della città”.

Nulla da aggiungere; molto da lavorare, con passione. Riferimenti bibliografici AUGÉ M., (2012) “La città ideale”, in: City 2.0. Il futuro delle città, e-book Festival dell’energia, Perugia, pp. 14-18. BISHOP P., LESLEY W. (2012) The Temporary City, Routledge. CROSTA P.L. (2011), “Riuso temporaneo, come pratica che apprende la cittadinanza”, in Territorio, 56, F. Angeli, Milano, pp. 82-83. GLAESER E. (2011), Triumph of the City, Penguin Group USA, trad. it (2013) Il trionfo della Città, Bompiani, Milano. PAQUOT T., (2010) L’urbanisme c’est notre affaire! L’atalante, Nantes. PASSERINI TOSI C., a cura di, (1982), “Bilancio di un convegno”, in Comune di Bergamo, Mostra-convegno sui complessi monumentali di Bergamo.

Passerini Tos (1982), p. 3 Passerini Tosi ( 1982), p. 15 si rimanda ai saggi in questo volume di Mazzoleni e di Cavalieri-Kalchschmidt-Vigano.


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MARIA CLAUDIA PERETTI*

SHRINKING CITY – SMART CITY OBIETTIVI SMART PER LA CITTÀ DEL “DECLINO”

Il rapporto europeo del programma URBACT, pubblicato nel luglio del 2013 e dedicato alle Shrinking cities, rende conto del fenomeno dello shrinkage che caratterizza il territorio di molti centri urbani in Europa.1 Shrinking cities significa “città in contrazione”. La contrazione riguarda diversi aspetti: è una contrazione del Pil (Prodotto Interno Lordo), un calo, a volte brusco e repentino, della popolazione e soprattutto della fascia di popolazione economicamente attiva, una riduzione dei servizi e del livello del welfare. La contrazione ha una sintomatologia ricorrente e si rende visibile attraverso alcuni segni che entrano nella nostra percezione e diventano “paesaggi del declino”: spazi svuotati, surplus di immobili dismessi e abbandonati, oppure costruiti ma mai utilizzati e mai riempiti di usi e di senso. I paesaggi dei vuoti diventano spesso paesaggi del degrado e dell’insicurezza, malattie che si propagano in maniera virale, via via a contesti allargati. Lo svuotamento è un fenomeno esponenziale che crea ulteriore vuoto: nei quartieri in contrazione diventa sempre meno appetibile abitare e quindi chiudono i negozi, diminuiscono i servizi, crollano i valori immobiliari. La contrazione è il risultato della crisi economica (che è inscindibile dalla crisi ambientale e dalla crisi sociale) e più in generale della crisi di un modello di sviluppo nel suo complesso. La contrazione si accompagna e si intreccia al sensibile invecchiamento della popolazione europea: nel nostro continente gli ultrasessantenni aumentano attualmente di due milioni ogni anno,

mentre il rapporto tra pensionati e popolazione attiva, ora vicino al 25%, nel 2050 sarà pari al 45%, con un abitante su dieci di età superiore agli ottantanni.2 Il rapporto URBACT ci dice che oltre il 40% delle città europee con più di 200.000 abitanti hanno subito un calo della popolazione e che tale fenomeno riguarda anche i centri più piccoli, tant’è che c’è anche chi descrive l’Europa dei prossimi anni come un mare che si sta ritirando con alcune isole che si stanno espandendo.3 Se questa è la realtà come è possibile governarla? E ancora, riferendoci al tema di Iconemi 2013 cioè alla Smart City, cosa può voler dire essere smart rispetto a tale sfondo di declino generale? Il rapporto URBACT ci fornisce diverse risposte. La prima, per molti versi sorprendente, è che per far fronte a questa situazione prima di tutto è necessario prenderne atto, cioè non ostinarsi a sperare che tutto torni come prima e ad usare gli strumenti e le politiche che hanno accompagnato la fase espansiva dei decenni precedenti. È necessario cambiare paradigma e sostituire all’idea di sviluppo come processo lineare, quella di sviluppo come processo ciclico: è necessario un cambiamento profondo degli strumenti e delle politiche. Ciò appare particolarmente vero in materia di governo del territorio e delle sue trasfomazioni: nelle fasi di contrazione agire con la logica dell’espansione non solo è disutile, ma è addirittura dannoso, perché tende ad amplificare e accelerare i meccanismi della crisi. Il declino, piuttosto, deve essere contrastato attribuendo un ruolo centrale alle azioni locali, co-

* Architetto, ideatrice di Iconemi. 1 URBACT è un programma finanziato dall’UE, di scambio e apprendimento finalizzati allo sviluppo urbano sostenibile “From crisis to choice: re-imagining the future in shrinking cities” è il titolo del rapporto pubblicato nel maggio 2013 a cui si fa riferimento in questo scritto. È possibile scaricarlo gratuitamente dalla rete nel sito: http://urbact.eu/fileadmin/general_library/19765_Urbact_WS1_SHRINKING_low_FINAL.pdf 2 op. cit. pag. 8. 3 WIECHMAN T., op. cit. pag. 8.


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MARIA CLAUDIA PERETTI

struite sulla specificità dei contesti, a forte valenza sociale, con il coinvolgimento dei territori e di tutte le loro componenti: da una visione quantitativa, settoriale e atopica si deve passare ad una visione integrata, fortemente umanizzata, radicata nei luoghi e negli ecosistemi. Se la parola d’ordine della pianificazione urbana negli ultimi decenni è stata “quantità”, ora le parole su cui scommettere sono “cura”, “manutenzione”, “attenzione alle comunità sociali”, “precauzione”, “riequilibrio”. La città sostenibile deve fare i conti con la “civiltà del riuso”: per la riduzione degli sprechi e del consumo di risorse non rinnovabili dobbiamo tutti reimparare a “riparare, riutilizzare, ridurre”.4 Per conseguire i nuovi obiettivi è necessario lavorare su alcuni temi che sono di grande attualità: 1) il ridisegno della governance, mirato alla partecipazione e alla cittadinanza attiva delle popolazioni; 2) le modalità e le forme dei servizi; le nuove forme del welfare. 3) la qualità dello spazio pubblico inteso come spazio fisico e simbolico dove la prossimità umana si concretizza e prende forma. Nelle fasi di declino, parole come partecipazione acquisiscono una centralità ineludibile. Partecipazione significa nuovo patto sociale dentro un quadro in cui implodono i modelli precedenti e diventa necessario che ogni cittadino si prenda in carico ruoli che fino a qui aveva delegato alle strutture pubbliche. Vale per il welfare, per i servizi essenziali, per la tutela e il buon uso dei beni comuni (acqua, suolo, paesaggio…): vale per le città e i loro spazi, per i quartieri, per le aree verdi, per gli immobili vuoti da curare e reimmettere in flussi vitali di uso e di senso. Partecipazione significa assunzione di consapevolezza, di responsabilità e di ruoli attivi nella gestione della polis e dei suoi spazi fisici. È un percorso difficile, ma assolutamente inevitabile: è la base dell’idea di sostenibilità e del nuovo modello del vivere insieme che ne consegue. Il declino si combatte con risorse e politiche locali (potere di pensare in piccolo), ma deve essere 4

coordinato a livello superiore: le città da sole non possono uscire dalla crisi. All’idea di territorio come competizione tra punti va sostituita quella di un sistema territoriale coordinato dentro il quale i diversi punti cooperano con le rispettive differenze. È quindi indispensabile un’integrazione verticale delle politiche nei diversi settori. Gli strumenti e l’assetto della macchina gestionale appaiono attualmente inadeguati rispetto ai bisogni di questo periodo, che richiederebbero la capacità di attivare in tempi rapidi politiche nuove in risposta a un quadro cangiante e in continua evoluzione. Governare il declino delle città in uno sfondo di penuria di risorse e di instabilità globale, significa per esempio far riferimento a categorie soft, di organizzazione degli usi, di affitto e condivisione degli immobili, ad approcci non standardizzati e a soluzioni non convenzionali di rotazione e progettazione spazio-temporale. Significa coordinamento tra istituzioni e tra istituzioni e società civile in uno sforzo congiunto di nuova progettualità sociale, dove il capitale umano, le competenze e le singole capacità assumono un ruolo centrale. Da questo punto di vista la crisi deve essere colta come una grande opportunità.

“FROM CRISIS TO CHOICE. RE-IMAGING THE FUTURE” Il declino può essere la forza trainante della modernizzazione e può diventare il motore per un miglioramento epocale della città, in direzione della sostenibilità ambientale, della umanizzazione del vivere e di una nuova “giustizia spaziale”.5 La “Shrinking City” diventa quindi il riferimento importante della “Smart City” che vogliamo: una città capace di ri-generare il senso positivo, umano e solidale dell’idea di abitare insieme. Anche Bergamo mostra segni evidenti di contrazione, che ci chiedono di riflettere sulle modalità da attuare per evitare che lo svuotamento di parti significative di città induca fenomeni più gravi di declino generale.

VIALE G., 2011, La civiltà del riuso. Riparare, riutilizzare, ridurre. Ed. Laterza. Il concetto di “giustizia spaziale”è alla base di alcune letture molto critiche nei confronti dell’attuale modello di sviluppo. Lo spazio viene assunto come chiave di lettura della realtà sociale e delle sue disfunzioni: lo spazio è il risultato di azioni sociali e a sua volta condiziona le azioni sociali in un rapporto che è di intreccio e scambio nelle due direzioni. In sintesi, la (in)giustizia spaziale può essere definita come la (in)giustizia sociale che si materializza e rappresenta nello spazio abitato da una comunità. Tra i riferimenti teorici importanti nel dibattito sulla “giustizia spaziale” si deve citare l’opera di E. SOJA e quella di H. LEFEVRE che indagano sullo spazio urbano come prodotto dell’organizzazione sociale. 5


SHRINKING CITY – SMART CITY. OBIETTIVI SMART PER LA CITTÀ DEL “DECLINO”

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Fig. 1. Caserme dismesse.

All’enorme dissipazione di territorio che ha caratterizzato gli ultimi decenni di sprawl verso l’esterno, corrisponde l’abbandono di molte aree dentro la città, che non riescono a trovare un nuovo ruolo e che cominciano a diffondere processi di degrado al loro intorno. Viale Giulio Cesare è un esempio di ambito urbano che presenta i segni preoccupanti di un progressivo “ritiro”. Percorrendolo dalla circonvallazione verso il centro incontriamo la Reggiani e l’Ismes, luoghi produttivi dismessi, il sedime della ferrovia della Val Brembana, non più utilizzata, lo Stadio, che circondato dalle ampie aree asfaltate dei parcheggi è di fatto un grande vuoto urbano per la gran parte della settimana... il torrente Morla in stato di abbandono, spesso sporco e maleodorante, con la cortina edificata verso il viale di piccole attività produttive un tempo attive e ora dismesse... e via via, il Palazzetto dello Sport, che da anni è in attesa di un radicale adeguamento e la Caserma Montelungo... Il percorso è l’eloquente attraversamento di una sceneggiatura del declino. Ma molti altri sono i vuoti che caratterizzano la

nostra città in questo momento: si tratta di aree industriali dismesse (Ex Ote, Reggiani...) di poli pubblici non più utilizzati ( Caserme, Ex Ospedali Riuniti...); di infrastrutture abbandonate (sedime ferrovia Valle Brembana, scalo merci...); ma si tratta anche di un grande quantità di spazi nuovi che rimangono invenduti sia nell’edilizia abitativa che in quella terziaria/industriale e si degradano pur non essendo mai stati abitati; o di edifici immessi sul mercato già “fuori norma” perché realizzati sulla base di disposizioni di legge decadute, che si sommano alla grande quantità di patrimonio edilizio degli anni 60/70/80 da adeguare in maniera sostanziale, perché non più idoneo dal punto di vista delle prestazioni energetiche e antisismiche. C’è poi il fenomeno dello svuotamento diffuso dei piani terra, che si perpetua nel mai avvenuto riempimento dei negozi dei nuovi quartieri e che è la conseguenza dei riassetti del mondo del commercio e della pesantissima crisi che le strutture di vicinato hanno dovuto subire: vuoti e bui i piani terra senza vetrine non sono più presidi per la sicurezza delle strade, che vengono private di quegli “eyes on the street” fondamentali per creare condizioni favorevoli di controllo sociale e vitalità pubblica della città.6

6 La citazione è tratta dal celeberrimo libro di JANE JACOBS, 1961, The death and life of great american cities. Titolo italiano Vita e morte delle grandi città, 2000, Ed. Comunità, con prefazione di Carlo Olmo.


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Se questo è il quadro e non ci rifiutiamo di prenderne atto come il rapporto Urbact ci suggerisce di fare, alcuni degli obiettivi per Bergamo Smart City si delineano conseguentemente. Provo ad elencarli: • Bergamo non può più espandersi, deve migliorare e riorganizzarsi senza consumare territorio inedificato. Il governo del territorio dovrà prevedere il riuso e il miglioramento degli spazi esistenti. • C’è la prioritaria necessità di ricalibrare e riavvicinare l’offerta di spazi alla domanda effettiva: in questo momento abbiamo contemporaneamente una notevole eccedenza di un certo tipo di immobili (con conseguente aumento dei vuoti e degli svuotamenti) e una notevole scarsità di altri tipi di spazi (per esempio per lo svolgimento di attività sociali o per fasce economicamente deboli della popolazione). • C’è l’urgenza di reinserire interi pezzi di città che stanno ammalandosi per la dismissione di alcune funzioni e lo svuotamento (o il mai avvenuto riempimento) degli edifici in un circuito positivo di flussi e di valore: dobbiamo evitare che si propaghi il virus del degrado e cresca la percezione dell’insicurezza. • Dobbiamo imparare a gestire e a governare il “transitorio”, cioè la situazione di passaggio tra uno stato e l’altro. Da sempre la città è luogo di movimento e di trasformazione. Il dinamismo urbano ha inevitabilmente due facce contrapposte: da una parte crea instabilità e quindi tensione e conflitto. Dall’altra crea opportunità, moltiplica le relazioni, è fonte di arricchimento. Nella città contemporanea i cicli della trasformazione sono rapidi, spesso dovuti a fattori esterni e incontrollabili da parte dei poteri decisionali locali: il cambiamento è più veloce della nostra capacità di governarlo e quindi i conflitti diventano acuti, violenti, a volte inaccettabili. Tra la città fisica, le istituzioni che cercano di governarla e i cittadini possono crearsi scollamenti molto forti. Razionalmente e onestamente dobbiamo prendere atto del fatto che la nostra capacità di previsione si è rivelata insufficiente e inadeguata a immaginare i processi di trasformazione dentro cui siamo immersi. In tutti i campi. La storia degli ultimi anni dimostra che non siamo in grado di prevedere quale è il destino delle città. Il PGT di Bergamo, approvato pochi anni fa, è stato letteralmente travolto nelle sue previsioni strategiche dalla realtà che si è sviluppata in

modo completamente diverso da come si era ipotizzato. Dobbiamo abituarci a pensare che il “transitorio” sia la situazione più diffusa e definitiva della città contemporanea e quindi attrezzarci di conseguenza. • Intervenire in un contesto di crisi e di declino significa mettere a punto soluzioni molto specifiche, locali, calzate a misura nei diversi contesti: non valgono quindi formule astratte e rigide applicabili ovunque uguali a se stesse. Ogni luogo, ogni quartiere della città deve essere attentamente analizzato e valutato nelle sue differenze e nelle sue caratteristiche sia fisiche, che sociali e demografiche. È cioè importante avere a disposizione un quadro approfondito dei contesti che consenta di basare le azioni su dati di realtà e non su ipotesi generiche. Si deve passare dall’idea di territorio come entità neutra, indifferenziata, finanziaria e quantitativa a quella di territorio come insieme di eco- sistemi vivi, densi di relazioni, di strati e di differenze, di attribuzioni, di simboli, di valori immateriali. • Diventa fondamentale l’attivazione e il coinvolgimento allargato delle reti sociali come soggetti responsabili e attivi dei progetti di trasformazione e gestione della città: la partecipazione è una necessità del progetto contemporaneo, non un’opzione noiosa come a tutt’oggi la si continua a considerare. La prassi del progetto calato dall’alto appare sempre meno percorribile: il processo di concentrazione della trasformazione territoriale nelle mani di pochi attori economici (che ha caratterizzato i recenti anni della cosiddetta “pianificazione strategica”), aldilà di ogni presa di posizione ideologica, ha dimostrato di essere sbagliato per i risultati che produce, che sono fallimentari dal punto di vista ambientale, dal punto di vista sociale e, paradossalmente, anche dal punto di vista economico e nel complesso danno vita ad un sistema altamente inefficace e insostenibile. • Il ribaltamento del paradigma richiesto dall’attuale situazione riguarda apparati e prassi fortemente radicati, difficilmente riformabili e capaci per questo di opporre forti inerzie e resistenze per mantenere lo status quo e opporsi al cambiamento. Per favorire la diffusione di pratiche e modelli alternativi si può pensare di intervenire con progetti pilota, puntiformi, temporali e sperimentali, concepiti con la volontà di mettere a punto un nuovo lessico e nuove modalità delle discipline urbane. Nella dimensione del “transitorio” e dello “sperimentale” è senz’altro più facile superare la rigidità


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Fig. 2. Degrado e insicurezza degli spazi pubblici.

Fig. 3. Fabbriche abbandonate.

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Fig. 4. I nuovi quartieri vuoti.

delle categorie tipiche della pianificazione consolidata come “standard”, “destinazione d’uso”, “funzione”... Intorno a progetti specifici è inoltre più semplice ipotizzare la formazione di gruppi interdisciplinari dove le diverse competenze lavorino affiancate, superando la frammentazione pulviscolare degli attuali meccanismi amministrativi. Il coordinamento tra settori della PA, la progettualità pluridisciplinare e la costruzione di sinergie positive tra gli attori sociali, sono senz’altro priorità del progetto urbano contemporaneo. Nei progetti sperimentali è necessario lasciare ampio spazio a metodi creativi, agili, che premino la gestione efficace delle risorse e approcci spaziotemporali. Le PA devono svolgere ruoli intelligenti e finalizzati di regia, facilitazione, guida dei processi dentro i quali possa trovare ampio spazio l’operatività e la presa in carico diretta di soggetti esterni, reti sociali, privati cittadini e operatori. • Se nell’attuazione dei processi sono richieste grande capacità adattativa ed elasticità, nella definizione degli obiettivi da perseguire a lungo termine, al contrario, sono necessarie fermezza e continuità, 7

specialmente per quanto riguarda il tema della sostenibilità ambientale, cioè della visione di ciò che la città vuole per il futuro dei propri cittadini: per molti versi, quindi, serve ribaltare la situazione attuale che presenta infinite norme rigide capaci di appesantire e bloccare qualsiasi operatività nel presente e un’insopportabile discontinuità negli obiettivi generali, che cambiano continuamente, in balia dei mandati amministrativi e degli interessi di appartenenza a gruppi di potere. Per affrontare il processo della contrazione e per far fronte ai fenomeni di svuotamento, le amministrazioni di molte città stanno mettendo in pratica nuove modalità e nuove strategie: si tratta di vere e proprie sperimentazioni che fanno leva principalmente sulla messa a punto di reti tra soggetti che abitano i luoghi, ai quali si chiede di farsi parte attiva in processi di riuso degli spazi vuoti, per mantenerli in vita, creando flussi positivi e garantendo manutenzione e controllo dello spazio urbano, in particolare dello spazio pubblico.7 Le modalità di attuazione delle strategie sono molto varie, difficilmente esportabili perché basate sulla

Tra la grande quantità di materiale disponibile relativo al tema del riuso di vuoti urbani si segnala il portale www.urbanreuse.eu/ che fornisce una ricca sintesi di esempi, sia italiani che stranieri. Il portale è l’esito di una ricerca finanziata dal Politecnico di Milano e dal CNR. Il responsabile scientifico è Alessandro Balducci, il titolare del progetto Paolo Cottino.


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Fig. 5. Lo svuotamento dei piani terra.

Fig. 6. Un enorme patrimonio da adeguare.

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specificità dei contesti, sulla capacità e sulla volontà proattiva dei soggetti locali. Quasi sempre l’ente pubblico si riserva il ruolo di regista e promotore delle reti, di facilitatore dell’iniziativa privata, lasciando il compito della gestione reale e operativa a gruppi di cittadini che prendono in carico, adottandolo, un edificio, una sua parte, un’area verde residuale, per svolgervi la propria attività, erogare servizi sociali, culturali, di impresa (startup creative, artigianato, commercio a rotazione), coltivare orti e giardini.8 L’adozione degli spazi avviene sulla base di contratti tra il proprietario del bene (pubblico o privato) e i nuovi occupanti, a costi bassi o in comodato gratuito, spesso per periodi transitori, in attesa che il bene immobiliare trovi un destino finale, senza quindi precludere soluzioni diverse, con l’impegno da parte degli occupanti di attuare a proprio carico le manutenzioni necessarie, di svolgere attività di coinvolgimento del quartiere, di lasciare gli spazi non appena la proprietà ne pretenda l’utilizzo diretto e la messa a rendita. Tra i primi passi operativi, spesso l’Amministrazione pubblica si fa carico di effettuare una mappatura degli spazi in disuso o sottoutilizzati9, con l’ob-

biettivo di facilitare l’incontro tra disponibilità e richiesta, in vista di utilizzi socialmente utili per favorire i quali vengono promossi bandi di assegnazione degli spazi mappati: in tal senso emerge chiaramente che, se uno dei compiti principali della smart city è la capacità di organizzare in maniera efficace i dati di realtà, l’altro, altrettanto importante, è quello di individuare la qualità e il tipo di dati da raccogliere e organizzare rispetto agli obbiettivi che si vogliono perseguire. La costruzione e gestione di banche dati adeguate e soprattutto la capacità di letture pluridisciplinari intelligenti dei dati raccolti, consentono di impostare le azioni e poi, via via, di misurare, monitorare e verificare l’efficacia di ciò che si sta facendo, superando approcci retorici, inefficaci e indimostrabili Le tecnologie della smart city possono aiutare molto. Ovviamente la tecnologia da sola non basta: la Smart City trova il suo senso dentro la Smart Polis capace di dare indirizzi sostenibili e profondamente umani alla ricerca sulle città che dobbiamo ridisegnare.

Questo testo riassume i contenuti di una conferenza che ho tenuto nel corso di Iconemi 2013, in data 7 ottobre. Sarà interessante, già a partire dall’edizione di Iconemi 2014, capire come la città avrà affrontato, nel corso di un anno, il problema dello “svuotamento” di alcune sue parti significative, se sarà riuscita ad attivare nuove politiche, nuovi processi, nuove azioni positive, insomma quel ribaltamento di paradigma di cui abbiamo profondamente bisogno. Oppure se saremo ancora fermi, in attesa che tutto torni come prima della crisi. Il senso dell’iniziativa Iconemi, che si ripete ogni anno, è anche questo: monitorare l’evoluzione dei concetti, delle impostazioni, della cultura che determina i paesaggi. Le città per vivere hanno bisogno di continue rigenerazioni e di anticorpi che impediscano il radicamento di formule e sistemi iperstatici e indeformabili, incapaci per la loro rigidità di adeguarsi al movimento della realtà e allo sciame trasformativo che ogni giorno essa produce. L’unico paesaggio che possiamo aspettarci in una dimensione statica e congelata delle idee è quello delle rovine e delle macerie.

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Tra gli esempi più citati in questo periodo c’è quello dello Spazio Grisù a Ferrara che si riferisce all’utilizzo transitorio di una Caserma dei VV.FF per la creazione di una factory creativa www.spaziogrisu.org/ Estremamente interessante è anche l’esempio di Planimetrie Culturali, progetto sviluppato a Bologna per l’adozione e la custodia temporanea di spazi in disuso. www.planimetrieculturali.org 9 Vedi per esempio l’esperienza milanese di www.temporiuso.org. Oppure il bando del Comune di Modena per l’assegnazione di capannoni vuoti per utilizzi aggregativi e sociali http://www.comune.modena.it/salastampa/comunicati-stampa/2013/6/da-capannonivuoti-a-spazi-aggregativi-ecco-il-bando-2. Sono comunque molti altri gli esempi di Comuni che hanno iniziato la mappatura del patrimonio vuoto o sottoutilizzato con l’obiettivo di reimmetterlo positivamente in un nuovo circolo di utilizzazioni sociali.


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PIANIFICARE LA CONTRAZIONE. PROPRIETÀ, PROGETTO E NATURA NELLE SHRINKING CITIES NORDAMERICANE

La rappresentazione della città come mercato – il mercato urbano – è robustamente radicata nella realtà della città neo-liberale che ha perseguito il sogno, per molti un incubo, di una città di proprietari costantemente impegnati in transazioni atte alla massimizzazione dei vantaggi economici individuali (e quindi, secondo questa visione, collettivi). Nelle pieghe di questo modello, per non poche città di quello che prima dell’era globale era definito il “primo mondo”, il passaggio storico dalla città keynesiana a quella neo-liberale si è risolto viceversa in un ritorno paradossale alla proprietà collettiva. Fra queste ci sono soprattutto le vecchie città industriali della cosiddetta Rust-belt nordamericana, città nelle quali il crollo dell’apparato produttivo, la riduzione demografica e l’impoverimento della popolazione hanno creato condizioni di declino e contrazione del tutto eccezionali. Da queste parti il mercato urbano – a partire dalla sua componente immobiliare – prima si è sfilacciato e poi è completamente collassato trasformando per incanto valori di scambio in valori d’uso, pronti a essere vivificati da pratiche che comunemente non associamo a quella che può essere considerata la “norma” dal punto di vista urbano. A monte di un simile situazione sta il calo vertiginoso di redditività dei terreni e degli immobili urbani che è allo stesso tempo esito e origine di un fenomeno che, scomodando Albert Hirshman, potremmo definire di exit di massa dei proprietari immobiliari da un mercato in agonia. Nel tempo, sempre più proprietari hanno smesso di pagare le tasse, hanno distrutto i loro immobili con incendi dolosi volti a incassare l’indennizzo assicurativo, li hanno lasciati degradare sperando di poterne spremere il valore residuo in modo speculativo fino a infrangere qualsiasi normativa sul decoro e la sicurezza: il risultato è stato il ritorno della proprietà di gran parte della città – e di certo delle sue parti più povere e scarnificate – all’amministrazione pubblica. Progressivamente, con la nascita delle cosiddette Land Bank, sono poi emerse forme sempre più sofisticate di governance di questa terra ricollettivizzata. Decenni di reingegnerizzazione buro-

cratica hanno permesso a queste agenzie speciali di accedere velocemente alla proprietà di case e terreni abbandonati rendendoli disponibili per nuovi usi oppure, ancora più spesso, lasciandoli in una condizione di “attesa”.

COLLETTIVIZZAZIONE BY DEFAULT In queste città la collettivizzazione non è stata quindi l’atto cosciente di una comunità politica come viceversa prospettato da diverse utopie urbanistiche implicanti l’esistenza di un primo motore – politico o tecnocratico – capace di istituire la “città giusta” nella forma di visioni comprensive che si basavano, si pensi alla Garden City di Howard, sulla proprietà collettiva della terra e sulla socializzazione della rendita. In modo del tutto opposto, questa è stata invece l’esito estremo e paradossale di una modalità di produzione e di governo dell’urbano – quella neoliberale – che, fondandosi sulla proprietà e sul mercato quali frame cognitivi e regolativi prevalenti, genera la sottrazione sistematica del territorio a forme di controllo collettivo. La realtà distopica di queste città rappresenta l’esito localmente disastroso di un simile meccanismo e, più in particolare, della sua tendenza a concentrare deprivazione e marginalità in determinati territori nei quali la proprietà e il mercato prima s’indeboliscono per poi, semplicemente, venire quasi completamente a mancare. Un simile esito è tuttavia del tutto funzionale alla vitalità del meccanismo stesso. Da questo punto di vista, possiamo interpretare quello americano come uno spazio che si produce in larga misura per differenza: le strategie di valorizzazione hanno bisogno del rischio della svalorizzazione – propagandato o reale – per trovare legittimità e radicamento fra gli attori urbani e i loro comportamenti. “Bisogna che la nostra città sia competitiva altrimenti faremo la fine di Detroit”, “occorre valorizzare i nostri immobili e i nostri quartieri, altrimenti faranno la fine di quelli di Detroit”, si dicono quotidianamente eletti, esperti,


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imprenditori immobiliari e leader di quartiere in tutto il paese, giustificando con quel riferimento una nuova ondata di politiche e strategie atte a sviluppare il mercato e la competitività urbani.

OLTRE IL NEOLIBERALISMO, NEL NEOLIBERALISMO

Quindi, nonostante da molti punti di vista ne siano le vittime principali, le città in declino non sono estranee alle politiche urbane neoliberali. Queste città sono infatti sede di una dialettica silente che vede giustapporsi radicalizzazione liberista e pratiche che per brevità definiremo “alternative” (per principi e funzionamento): la deprivazione spesso conduce dal lato delle politiche pubbliche al rincrudimento delle ricette darwiniane, dall’altro al radicalizzarsi di pratiche che per usare le parole di André Gorz paiono scegliere la strada dell’ “esodo” dalla società per come la conosciamo verso nuove forme dell’organizzazione sociale. Questa dialettica silente è fatta anche di interessanti cortocircuiti fra moventi delle politiche e delle pratiche e loro esiti finali. A proposito di cortocircuiti – mi viene in mente in particolare il caso di Cleveland – è da notare come una parte importante della collettivizzazione dei terreni sia il frutto dell’applicazione rigida e stringente di uno dei capisaldi del capitalismo: vale a dire la tutela dell’esigibilità dei contratti e dei relativi diritti. Colpite dall’insolvenza di massa determinata dall’esplodere della bolla dei mutui subprime (e non solo), le banche hanno ipotecato migliaia di immobili espellendone gli abitanti – fino a poco prima proprietari – per poi accorgersi che quegli stessi immobili non solo non avevano alcun valore ma che anzi rappresentavano addirittura un costo. A quel punto le banche hanno preferito cedere molte di queste proprietà alla locale land-bank magari contribuendo ai costi di demolizione. In questo caso, immobili e terreni sono ritornati pubblici al costo di sofferenze sociali enormi e soprattutto incomprensibili da un punto di vista di mero buon senso: queste case infatti hanno perso uso e valore in modo così precipitoso anche perché sono state svuotate dei loro abitanti (apparentemente in assenza di altri pronti a sostituirli). In questo caso l’ortodossia capitalista – rispettare i contratti – ha condotto all’estinzione del bene che questa stessa ortodossia teoricamente intendeva tutelare sviluppandone il valore. Le land-bank, infatti, in molto casi – di fronte all’assenza più o meno completa di domanda – procedono alla demolizione di questi immobili ritenendoli un pericolo sia per il valore degli

altri immobili sia più semplicemente per la vivibilità dei quartieri in cui sono collocati. Detroit – e le sue tante, spesso misconosciute, sorelle minori – non rappresentano quindi la nemesi del modello della città liberista bensì uno dei suoi esiti necessari e ancor di più l’idealtipo negativo attorno al quale, per differenza, costruire un discorso che legittimi ulteriormente l’imperativo della competizione per tutte le città e i territori. Tuttavia, queste città possono cessare di essere (completamente) funzionali a tale meccanismo perverso se e quando le popolazioni residue che le abitano prendono a interpretare la propria condizione di marginalità come un’occasione concreta per sperimentare forme alternative di urbanità capaci di incrinare il discorso dominante. Da questo punto di vista, la ripubblicizzazione dei terreni urbani che si è negli anni prodotta in molte città della Rustbelt costituisce senza dubbio un’opportunità di assoluto rilievo. Di certo non molto attraenti per gli immobiliaristi, questi contesti urbani deprivati possono rivelarsi attraenti per gruppi ansiosi di sperimentare nuove modalità di organizzazione sociale, di fatto alternative o quantomeno “critiche” nei confronti di quelle del tardo-capitalismo.

OLTRE LA CITTÀ FORDISTA E MODERNISTA, DALLL’ALTO E DAL BASSO La situazione di eccezionalità determinata dal perdurare e consolidarsi delle condizioni di shrinkage ha condotto ad alterazioni profonde non solo delle forme invalse di accesso e regolazione della proprietà dei terreni urbani ma anche in quelle relative alla previsione e regolazione degli usi. Nelle shrinking cities, prima che altrove, una prima generazione di progetti urbani ha rotto la sintassi della città fordista con l’obiettivo di renderla adeguata al nuovo scenario di competizione inter-urbana determinatosi a partire dagli anni settanta dello scorso secolo. Le città della Rustbelt sono state fra le prime a sperimentare non solo i programmi di Urban Renewal degli anni cinquanta e sessanta ma ancora di più le iniziative di urban regeneration degli anni settanta e ottanta legate all’ascesa del modello della Entrepreneurial City di cui parla David Harvey. Questi progetti hanno introdotto forti discontinuità nella sintassi formale della città fordista – si pensi ai diversi progetti di redevelopment dei water-front con il loro mix funzionale finalizzato a intercettare la nuova domanda organizzata attorno alla commodificazione dell’urbano – come nella sua stessa con l’introduzione di forme di governance neoliberale fondate su dispositivi contrattuali. Lo zoning tradizionale ha lasciato il posto a forme più sofisticate di rego-


PIANIFICARE LA CONTRAZIONE

lazione degli usi nel quadro di progetti che erano ritenuti “strategici”. Successivamente, negli anni novanta, la rivitalizzazione delle città è stata perseguita anche per mezzo di progetti che puntavano nuovamente ad una rottura con il passato modernista e fordista ricorrendo ai principi del new urbanism. Realizzazioni residenziali ispirate a questa tendenza hanno messo in scena – spesso in forme paradossalmente codificate e standardizzate – una supposta nuova urbanità radicata in una visione ingenua se non ingannevole del passato urbano. Contestualmente, il tradizionale regime di uso dei suoli è stato però alterato anche dal basso e non solo dall’alto. L’abbondanza di terreni vacanti si è rivelato nel tempo un’opportunità non solo per progetti di rigenerazione su larga scala messi in opera dagli attori tipici del nuovo corso urbano neoliberale ma anche per una progettualità diffusa messa in opera da singoli individui, reti di attivisti, gruppi più o meno formalizzati di architetti e artisti e organizzazioni di quartiere. Queste due modalità di rottura del vecchio ordine di regolazione fordista degli usi e della sintassi urbana che ne discendeva non vanno presentate come necessariamente alternative anche se, nel farsi concreto della vicenda contemporanea di queste città, spesso chi promuoveva progetti di riuso creativo dei terreni e degli immobili abbandonati vedeva nelle proprie pratiche un’alternativa credibile ai progetti e alle visioni del futuro promosse dall’establishment. Appare corretto affermare come alcuni di questi usi siano cresciuti all’ombra di quelli che le amministrazioni intendevano perseguire al fine di rilanciare la competitività delle città in declino per poi progressivamente divenire, dopo anni di relativa marginalità, oggetti legittimi del confronto pubblico sulle strategie di pianificazione. Diversi fra gli usi innovativi oggi suggeriti dai piani che s’ispirano ai principi dello smart-shrinkage e del right-sizing nascono come pratiche spontanee di resistenza nei confronti delle condizioni di degrado che andavano diffondendosi nei quartieri in transizione: la notevole diffusione dei community garden a partire dagli anni settanta dello scorso secolo rappresenta bene una tale tendenza che vedeva il crearsi di gruppi informali attorno al recupero di terreni vacanti che rischiavano di accelerare ulteriormente il declino di determinati quartieri divenendo talvolta anche sede di attività socialmente indesiderabili.

RINATURALIZZARE NELLA CONTRAZIONE La crisi delle tradizionali forme di regolazione degli usi si é nutrita della crisi del tradizionale equilibrio fra la natura e quelle forze dell’artificializ-

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zazione che sono irrinunciabilmente associate ai processi di urbanizzazione. Nelle condizioni determinate dallo shrinkage questo equilibrio si é ridefinito nettamente a favore della prima. I processi di deurbanizzazione hanno portato prima allo stratificarsi di ambienti e paesaggi eccezionali entro i quali hanno prosperato la “Quarta Natura” – vale a dire la vegetazione che facilmente attechisce nei contesti ruderali – e la sua capacità di dare vita a “ecosistemi ricombinanti” e a nuove “formazioni biologiche”. Successivamente, a una scala più ampia, quegli stessi processi di deurbanizzazione hanno reso nuovamente visibili quelle topografia e idrografia native che – assieme ai rispettivi funzionamenti ecosistemici – erano state progressivamente occultate da quello che sembrava un processo di artificializzazione del territorio destinato a non arrestarsi mai. Comprensibilmente, l’aumento consistente dell’ammontare di spazi aperti resi disponibili dall’avanzare dell’abbandono e delle demolizioni é stato inizialmente trattato come un problema. Amministrazioni locali impoverite hanno dovuto fare fronte non solo al mancato gettito fiscale determinato dal declino dei valori e delle transazioni immobiliari ma anche ai costi aggiuntivi che l’estendersi dell’abbandono determinava – in termini di controllo e messa in sicurezza – per le casse comunali. Ma anche in questo caso, nel contesto del perdurare e consolidarsi delle condizioni di shrinkage, i processi di rinaturalizzazione sono divenuti un’altra fondamentale fonte di risignificazione dell’esperienza urbana per come essa si presenta nelle condizioni di shrinkage: da ennesimo problema, il processo di rinaturalizzazione é divenuto invece un oggetto intenzionale nel contesto di una cultura urbanistica in profonda evoluzione. Prima di tutto, il processo di deurbanizzazione – con il diffondersi degli usi alternativi del suolo – é venuto rappresentando un’opportunità di concreto disvelamento del conflitto latente fra un’organizzazione lineare del metabolismo urbano e una sua organizzazione circolare modellata sui funzionamenti ecologici. Circuiti localizzati di uso e riuso di risorse quali l’acqua, il cibo e i rifiuti si sono radicati – grazie soprattutto al diffondersi di progetti di agricoltura urbana – nei quartieri in contrazione mentre, nel contesto di spazi aperti sempre più ampi, il ruolo dei servizi ecosistemici nella riproduzione della vita si é reso visibile ai residenti. Attraverso questi paesaggi rinaturalizzati, i residenti hanno potuto ricostruire la “memoria socio-ecologica” e “resilienza cognitiva” che era andata perduta nel contesto dell’urbanizzazione contemporanea: l’esperienza di uno spazio urbano inaspettatamente rinaturalizzato ha infatti restituito loro la “conoscen-


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za, l’esperienza e la pratica del funzionamento degli ecosistemi”. La diffusione dell’agricoltura urbana in molte città della Rustbelt ha rappresentato da questo punto di vista una straordinaria forza catalizzatrice, capace di veicolare tutti questi temi – con diverse “aperture” su questioni di giustizia sociale e di modello di sviluppo – attraverso la costruzione di una comunità di pratica che é andata progressivamente identificandosi con le shrinking cities. Grazie ai progetti di sviluppo agricolo, di rinaturalizzazione e di sviluppo dei servizi ecosistemici, queste città sono divenute di fatto la sede del definitivo tramonto di una concezione del verde urbano figlia dell’industrialismo: il verde come risarcimento, come rappresentazione ostentata di un mondo sano e immacolato e più precisamente dell’idea che si potessero avere “questo” e “quello”, la brutale economia lineare scaturita dall’industrializzazione e le aiuole fiorite del verde pubblico, lo sfruttamento capitalistico e la pace sociale.

TEMPORANEO, FLESSIBILE, ADATTIVO: PIANIFICARE LO SHRINKAGE

La diffusione di un nuovo regime degli usi ha poi portato al centro della scena il tema della temporaneità di ogni intervento di pianificazione e progettazione urbana. Da limite connaturato a una progettualità resa inevitabilmente “tattica” e rimediale dall’eccezionalità del contesto – “usiamo questo lotto vacante in questo modo irrituale in attesa di un ritorno a una condizione di normalità” – la temporaneità è divenuta viceversa un oggetto intenzionale della progettazione urbanistica, un’opportunità per criticare la normatività dei meccanismi ordinari di produzione dell’urbano ora disvelati dalle condizioni paradossali dello shrinkage. Se – come afferma l’urbanista Therry Schwartz – flessibilità, fluidità e malleabilità sono le caratteristiche fondamentali dello spazio urbano dello shrinkage, questi sono anche i principi fondamentali che informano il campo degli usi temporanei e dei progetti che li sorreggono. La temporaneità è divenuta la dimensione fondamentale entro la quale questi principi sono diventati pienamente operativi: spesso, a prevalere nei territori dello shrinkage non è la logica previsionale a lungo termine che sostiene gli investimenti ad alta intensità di capitale propria agli attori dell’economia mainstream bensì quella incrementale, a breve termine e bassa intensità di capitale di quegli attori che in una scala micro sono alla ricerca di “modalità personalizzate di produzione culturale”. Gli stessi sforzi di valorizzazione urbana e immobiliare che hanno

visto impegnate molte organizzazioni di quartiere nelle shrinking cities si sono risolti in azioni temporanee e a basso costo volte a “mettere in scena” la desiderabilità reale o potenziale del proprio quartiere attraverso una vasta drammaturgia fatta di iniziative ed eventi aventi l’obiettivo di “persuadere” il mercato. Le pratiche di riutilizzo temporaneo di aree, immobili e infrastrutture abbandonate oppure sottoutilizzate – dagli usi legati alla rinaturalizzazione a quelli di risignificazione degli spazi pubblici e di riattivazione produttiva di quelli privati – propongono forme innovative di urbanità che hanno una particolare risonanza in contesti che paiono aver perso per sempre l’urbanità che era loro caratteristica. Da questo punto di vista, le shrinking cities rappresentano uno dei terreni privilegiati per osservare il passaggio da un urbanesimo programmato a un urbanesimo performativo. Nella costruzione di questo passaggio, l’urbanistica dovrebbe divenire capace di tematizzare esplicitamente una dimensione – quella del tempo – che tradizionalmente non ha adeguatamente trattato, di predisporre dispositivi regolativi tali da permette aggiustamenti continui e una migliore capacità di risposta a domande emergenti, di promuovere forme intervento low-budget che limitino l’investimento economico nel capitale fisso data la sua sempre più necessaria flessibilità, malleabilità e adattabilità, di promuovere forme più diffuse e continue di agency degli abitanti nei confronti dell’ambiente costruito rispetto ai precedenti regimi urbani keynesianio e neo-liberale. Tutte direzioni che sono rintracciabili nella ricerca e nell’attività urbanistica e progettuale che caratterizzano diverse shrinking cities.

AI MARGINI, PREFIGURAZIONI DEL FUTURO URBANO (POSSIBILE) Indulgendo nel romanticismo, possiamo ipotizzare che le città in contrazione abbiano oggi la concreta possibilità di redimere la propria condizione di relitti del novecento trasformandosi in prefigurazioni di alcuni degli esiti che l’urbanesimo potrà avere nel XXI secolo. Un secolo in cui i cambiamenti socio-tecnici e socio-ecologici potrebbero invertire la traiettoria secolare dell’appropriazione proprietaria di massa della terra, della verticalizzazione e standardizzazione delle procedure di produzione dell’ambiente costruito e della divisione traumatica fra natura e urbanità. Le città in contrazione sono realtà marginali in un mondo che corre veloce verso l’urbanizzazione planetaria. Ma si rivelano centrali quando – nell’affrontare le condizioni


PIANIFICARE LA CONTRAZIONE

di eccezionalità determinate dal perdurare e consolidarsi dello shrinkage – cercano di formulare risposte innovative e progressive alle tante crisi che questa stessa urbanizzazione planetaria quotidianamente produce. Riferimenti ALBERS, MANUEL (2011), “Subprime Cities. The Political Economy of Mortgage Markets”, Blackwell; BRENNER, NEIL (2004), “Urban Governance and the Production of New State Spaces in Western Europe, 1960-2000”, Review of International Political Economy, Vol. 11, No. 3; BURKHOLDER, SEAN (2012), “The New Ecology of Vacancy: Rethinking Land Use in Shrinking Cities”, Sustainability, n.4; COLDING, JOHAN; BARTHEL, STEPHAN (2013), “The potential of “Urban Green Commons” in the resilience building of cities”, Ecological Economics, n.86; COPPOLA, ALESSANDRO (2010), “Miraggi dello Sviluppo nel deserto urbano. Community development e weak market cities: i casi di Detroit e Pittsburgh”, in Archivio di Studi Urbani e Regionali, n.96; COPPOLA, ALESSANDRO (2012), “Apocalypse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana”, Laterza, Roma-Bari; COPPOLA, ALESSANDRO (2012b), “Urban Farming nei Food Desert. Giustizia alimentare e alternative food culture nelle città americane”, Territorio, n. 60; KEATING, DENNIS (2010), “Redevelopment of vacant land in the blighted neighborhoods of Cleveland, Ohio, resulting from the housing foreclosure crisis”, Journal of Regeneration and Renewal, no. 1;

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HARVEY, DAVID, HARVEY, D. (2001a). From managerialism to entrepreneurialism: The transformation in urban governance in late capitalism. In D. Harvey (Ed.), Spaces of capital: Toward a critical geography (pp. 345–368). Edinburgh: Edinburgh University Press.; HACKWORTH, JASON (2006), The Neoliberal City. Governance, Ideology and Development in American Urbanism, Ithaca NY, Cornell University Press; HIRSHMAN, ALBERT (1970), Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations, and States. Cambridge, MA: Harvard University Press; HOLLANDER, J.B, PALLANGST, K., SCHWARZ, T. AND POPPER, F. J. (2009),”Planning Shrinking Cities”, Progress in Planning, vol. 72, n.4; OSWALT, PHILIPPE (2005), Shrinking cities. Volume 1: International research, Ostfildern-Ruit, Hatje Cantz Verlag; OSWALT, PHILIPPE (2006), Shrinking cities. Volume 2: Interventions, Ostfildern-Ruit Hatje Cantz Verlag; SCHILLING, J. AND LOGAN, J. (2008) “Greening the Rust Belt: A Green Infrastructure Model for Right Sizing America’s Shrinking Cities”, Journal of the American Planning Association, vol. 74, n.4; SCHWARTZ, TERRY (2008), “The Cleveland Land Lab Experiments for a City in Transition”, in Cities Growing Smaller, Kent State University’s, Cleveland Urban Design Collaborative, Cleveland; SCHWARTZ, TERRY (2012 ), Re-thinking the Places in Between in Mallach, Allan, Rebuilding America’s Legacy Cities: New Directions for the Industrial Heartland, The American Assembly; SMITH, NEIL (1984), Uneven Development: Nature, Capital and the Production of Space, Basil Blackwell.



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CARLO SALONE

URBAN SHRINKAGE. GEOGRAFIE ITALIANE TRA DECLINO E RESILIENZA URBANA

1. INTRODUZIONE Queste brevi note intendono ripercorrere i processi di ristrutturazione verificatisi nei sistemi urbani italiani tra gli anni Novanta del Novecento e gli anni Duemila. Si tratta di un ventennio durante il quale nuove forme di differenziazione spaziale si sono mescolate ai divari territoriali “storici”. Le aree urbane della penisola sono state oggetto di fenomeni che hanno toccato, allo stesso tempo, la struttura e la dimensione politica e ci consegnano oggi un territorio italiano largamente modificato. Questa metamorfosi viene osservata nell’articolo sullo sfondo della “crisi” dei modelli tardo-novecenteschi di crescita urbana, già largamente in difficoltà prima del crollo verificatosi nel 2007 (paragrafo 2.1 e sgg.). La scelta del termine “metamorfosi”, anziché “mutazione”, non è casuale: benché, in natura come nelle società umane, nessun processo di “crisi” si manifesti senza prodromi e senza una certa gradualità, l’idea della crisi come rottura di un ordine pre-esistente porta sempre con sé l’impressione di un “precipitare” degli eventi che dà luogo a una mutazione irreversibile. In questo articolo la prospettiva è, invece, quella di una transizione che, nello scorcio dell’ultimo secolo e, poi, nei primi anni dell’attuale ha condotto a nuove relazioni tra le strutture urbane del territorio italiano e tra gli attori che alle diverse scale vi operano. Andando oltre il pur sempre utile richiamo al significato originario del termine greco antico krísis – “azione del decidere, del dividere, frattura, passaggio” – possiamo riconoscere un acuirsi della percezione – e un moltiplicarsi dei segnali empirici – di una crisi degli assetti sociali ereditati dalla modernità nella fase del più intenso dispiegarsi della globalizzazione, negli anni a cavallo tra i decenni Ottanta e Novanta. Nello scardinamento dell’ordine mondiale bipolare, i sistemi capitalistici occidentali così come i regimi socialisti della vecchia Europa subiscono forti processi di ristrutturazione degli assetti

sociali, dei sistemi economici e dei meccanismi di regolazione politica. Questi processi vengono frequentemente associati a termini come “ristrutturazione” (dello spazio regionale europeo: Keating, 1997), “svuotamento” (dello Stato-nazione: Jessop, 1994) “declino”, “decadenza” e, più di recente, “contrazione” (Dietzsch, 2009: 2), con riferimento alle strutture spaziali, alle istituzioni di governo e alle economie territoriali consolidatesi nella seconda metà del Novecento. Nei paragrafi che seguono, proveremo a verificare l’effettiva natura dei processi di ristrutturazione dei sistemi urbani italiani, collocandoli in una prospettiva storica di medio periodo. Città e Stati-nazione nell’Europa a cavallo del secondo millennio Contraddicendo la vulgata di molta sociologia “pop” (Ohmae, 1995; Friedman, 2011) pubblicata sul crinale del nuovo millennio, i sistemi territoriali sub-nazionali – regioni, metropoli, città – hanno ovunque rivelato un’intensa vitalità che ha continuato a dispiegarsi “malgrado” le spinte della globalizzazione, che si pretendevano omologanti e de-territorializzanti (gli studi sulla persistente centralità dei modelli urbani di organizzazione economica e sociale sono molti e, ovviamente, declinati secondo preferenze ideologiche e approcci disciplinari molto diversi: tra le monografie più recenti, si vedano per es. Glaeser, 2011 e Harvey, 2012, che incarnano due modi diametralmente opposti di accreditare il ruolo delle città nella società contemporanea). Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. L’emergere, soprattutto durante il decennio Novanta, di entità regionali dall’identità non sempre definita, ma assai aggressive nel rivendicare ruoli di supremazia economica, si è accompagnato a un’innegabile crisi delle architetture statuali così come erano venute forgiandosi dalla nascita dello Stato moderno. Il significato di “crisi” appare più che mai in


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questo caso connesso con l’idea di una “rottura”, di una discontinuità storica che non implica, necessariamente, il crollo dell’ordine pre-esistente, quanto un riadattamento delle strutture istituzionali e politiche sulla base dei caratteri dei nuovi soggetti territoriali emergenti. Insieme a una rinnovata spinta all’attivismo regionale, anche molti territori urbani hanno consolidato le proprie funzioni di nodi di reti globali di scambio economico, di relazioni culturali e di dinamiche politiche, dimostrando la vitalità del fenomeno urbano. La de-territorializzazione come effetto dell’estensione degli scambi economici e culturali attraverso e al di là dei tradizionali confini tra gli Stati, da un lato, e la ri-territorializzazione come consolidamento e centralizzazione di funzioni e attività in determinati luoghi dello spazio, dall’altro, sono dunque fenomeni intimamente connessi tra loro. Se è vero, infatti, che il capitalismo delle grandi imprese transnazionali e dei flussi finanziari ha provocato una “denazionalizzazione della territorialità” (Brenner, 1999), è altrettanto evidente, per esempio, che lo spazio geografico resta fortemente incardinato sulle regioni connotate da dotazioni di risorse localizzate particolarmente ricche e stratificate – l’institutional thickness di cui ci parlano Amin e Thrift (1995) – e sulle concentrazioni metropolitane che ospitano le sedi direttive delle attività finanziarie e dei servizi ad alto valore aggiunto, che assumono un ruolo determinante per la remunerazione del capitale transnazionale (Sassen, 1993). In particolare queste città, che coincidono con le world cities descritte per la prima volta da Friedmann e Wolff (1982), non sono più semplicemente componenti territoriali funzionali ai processi di accumulazione capitalistica degli Stati di cui fanno parte, bensì divengono esse stesse motori “regionali” dell’economia globale (Storper e Scott, 1995), assumendo dimensioni e profili funzionali così ampi e articolati da rendere necessario l’utilizzo di definizioni geografiche diverse, come l’uso del termine global city-region suggerisce (Scott, 2001). Questi processi appaiono tuttora dominanti, nonostante la violenta battuta d’arresto provocata dalla grande crisi economico-finanziaria originatasi nel 2007 proprio nelle economie metropolitane drogate dalla bolla immobiliare. Anche gli Stati nazionali, del resto, hanno saputo rispondere con la necessaria “plasticità” alle sollecitazioni globali: contro l’idea di una crisi pre-agonica della loro struttura, essi paiono piuttosto suggerire il manifestarsi di una ridefinizione funzionale, politica ed economica in chiave “post-nazionale” (Keil, 1998) che li rende più adatti

alle condizioni attuali dell’organizzazione capitalistica. La tendenza a emarginare il tema dell’assetto territoriale all’interno del dibattito pubblico italiano risalta con evidenza anche nella debole attenzione prestata alla questione urbana, assente dalla politica nazionale con riferimento sia alle questioni più strettamente “regolative” – trattamento della rendita fondiaria, uso dei beni comuni ecc. – sia a quelle della coalescenza territoriale che vede sistemi urbani ormai consolidati ma privi di organi di governo territoriale adeguati (Calafati, 2009). Eppure, l’insieme dei sistemi urbani italiani appare tuttora una cartina di tornasole delle contraddizioni del processo di sviluppo italiano del dopoguerra. Una lettura dei dati demografici dell’ultimo censimento rivela la recrudescenza di caratteri “endemici”, come gli squilibri Nord-Sud, secondo però modalità innovative che cercheremo di illustrare nei paragrafi seguenti.

2. L’armatura urbana italiana nel decennio 2001-2011 2.1 L’avanzata delle città e il dualismo Nord-Sud Se accogliamo la proposta dell’ISTAT (2008) di riconoscere carattere urbano a 162 sistemi locali del lavoro (sll) sui 686 individuati sulla base dei flussi di pendolarismo casa-lavoro, osserviamo che essi costituiscono il 25% del totale degli sll, comprendono il 40% dei comuni italiani (che sono circa 8100 in tutto), coprono il 30% del territorio nazionale e ospitano il 66,5% della popolazione 2001 (più di 38,9 milioni di abitanti). Al loro interno, sulla base della prevalenza di uno dei tre criteri, distinguiamo tra: 1. 90 ssl morfologicamente urbani, connotati da alta densità abitativa (454 ab/kmq, più del doppio della media nazionale), a prevalente vocazione manifatturiera (es.: Torino, Bergamo, Busto Arsizio) e collocati soprattutto nel Nord-ovest (31) e nel Sud (41); in essi abitano al 2006 circa 14,5 milioni residenti (il 24,5% della popolazione); sono città che hanno esercitato o esercitano tuttora un ruolo preminente nell’apparato industriale del paese, ma presentano una dotazione di servizi “rari” mediamente più bassa rispetto a città di dimensione comparabile; 2. 31 a vocazione urbana: la densità di popolazione (136 ab/kmq) e la densità di urbanizzazione sono sotto la media nazionale, i centri principali sono Parma e Piacenza del Nord, Perugia nel Centro; complessivamente, vi vive il 6,6% della popola-


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zione italiana, pari a 3,9 milioni di abitanti; in questo caso le città hanno una dotazione di servizi “urbani” superiore a quello che la loro taglia dimensionale farebbe presumere; 1. 41 regioni metropolitane: questi sistemi combinano entrambe le caratteristiche della dimensione rilevante e della dotazione di servizi; di dimensione media elevata (500.000 abitanti), con alta densità abitativa (657 ab/kmq), vi abitano più di 20 milioni di italiani, il 34,4 %; essi sono presenti in numero maggiore nel Mezzogiorno, mentre al Nord la popolazione che vi abita è più numerosa (circa 8,4 milioni, contro i 6,8 del Sud); sistemi principali: Roma (3,6 mln), Milano (3,1), Napoli (2,2). Tra il 2001 e il 2011 le diverse famiglie di sll crescono in misura diversa: la crescita più cospicua è quella dei sistemi morfologicamente urbani (+ 6,4%), seguiti assai da vicino dai sistemi a vocazione urbana (+6,2%); le regioni metropolitane crescono del 3,5%, mentre i sistemi non urbanizzati sono quelli che crescono di meno (+3,3%). Le regioni metropolitane, anche se non sono i sistemi più dinamici in assoluto, crescono di più nel Mezzogiorno e nel Centro. Tuttavia la principale regione metropo-

litana del Nord, quella milanese, è praticamente circondata da sistemi morfologicamente urbani: ciò significa che essa ha mantenuto e probabilmente rafforzato la propria centralità quale polo di rango europeo con una dotazione funzionale “superiore”, ma la crescita demografica nell’area ha caratterizzato soprattutto i poli di corona, secondo i ben noti meccanismi di peri-urbanizzazione che hanno assunto in Italia l’etichetta di “città diffusa”. Non diversa appare la situazione di altre regioni metropolitane del Nord Italia. Un altro aspetto interessante riguarda la diversa attrattività dei sistemi rispetto ai flussi migratori: sono i sistemi a vocazione urbana ad attrarre di più (10,5 nuovi arrivi ogni 1000 abitanti), seguiti dalle regioni metropolitane (7,6) e dai sistemi morfologicamente urbani (6,5 per mille). Se nel Centro e nel Nord Est le regioni metropolitane presentano un valore molto alto (rispettivamente 14 e 13,4), nei sistemi urbani del Mezzogiorno i saldi migratori sono deboli e addirittura leggermente negativi nelle realtà più urbanizzate. Inoltre, osservando i dati relativi alla distribuzione della popolazione secondo la taglia demografica dei comuni in Istat (2011), si rileva che in generale l’armatura urbana italiana appare ancora dominata

18.000 Piemonte Valle d'Aosta 16.000

Lombardia Liguria Trentino Altoadige

14.000 Bolzano Trento 12.000

Veneto Friuli-Venezia Giulia Emilia-Romagna

10.000

Toscana Umbria 8.000

Marche Lazio Abruzzo

6.000

Molise Campania 4.000

Puglia Basilicata Calabria

2.000

Sicilia Sardegna 0 1951

1961

1971

1981

Grafico 1. Dimensione media dei comuni nelle diverse regioni (1951-2011). (Nostre elaborazioni su dati del Censimento ISTAT 2011).

1991

2001

2009 (a)


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CARLO SALONE

da una maggioranza di città piccole e medie (> 50.000 abitanti), in cui vive il grosso della popolazione italiana (39 milioni). In seconda battuta, si può notare che le grandi ripartizioni geografiche si comportano in modo piuttosto diverso tra loro: se al Nord si nota un’elevata concentrazione della popolazione nelle città piccole e medie – i luoghi del peri-urbano per eccellenza – al centro la residenza premia soprattutto la grande taglia urbana (ma l’effetto-Roma è chiaramente distorcente), mentre al Sud la taglia media dei comuni aumenta, segno che qui la crescita segue schemi più tradizionali. Uno sguardo all’evoluzione di lungo periodo (1951-2011, Grafico 1) ci dà conto del fatto che la taglia media dei comuni aumenta in modo sensibile in alcune circoscrizioni regionali (Puglia, Lazio, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto), mentre in altre l’incremento è ridotto (Marche, Lombardia, Campania) o addirittura la dimensione media resta pressoché la medesima (Liguria, Molise, Abruzzo, Trentino-Alto Adige, Basilicata). Peraltro, i comuni–centro delle regioni metropolitane mostrano, nel periodo che va dal 1981 a oggi, una perdita generalizzata di popolazione, che molto verosimilmente ingrossa le fila dei residenti delle prime e seconde corone metropolitane (Grafici 2 e 3). Se però allarghiamo lo sguardo alla scala del sistema urbano, i dati per sll calcolati per il decennio 20012011 rivelano che praticamente tutti i sistemi urbani dell’asse padano centrale sono caratterizzati da crescita demografica: i sistemi che contengono i comuni-capoluogo crescono più debolemente, per effetto della perdita di popolazione della città centrale, mentre quelli che costituiscono il ring delle aree metropolitane presentano un bilancio demografico decisamente positivo, in alcuni casi eclatante. Questo aspetto contrasta con la perdita notevole di popolazione che invece affligge i sistemi compresi nelle regioni metropolitane del Mezzogiorno, che quasi ovunque perdono residenti. L’emorragia appare particolarmente forte nelle aree interne del Sud: Calabria e Basilicata sono quasi integralmente in deficit demografico (la situazione lucana conferma le osservazioni condotte da Salaris, 2010), così la Sicilia interna, il nord della Puglia, le aree appenniniche di Abruzzo e Molise (Salone e Besana, 2013). Per i sistemi del Nord e del Centro Italia si conferma l’ipotesi più volte formulata in letteratura secondo cui la tendenza di lungo periodo non è quella di una crisi delle metropoli, bensì quella di un processo di metropolizzazione che amplia la propria scala di influenza (Martinotti, 1993): le

direttrici di crescita interessano le aree che circondano le regioni metropolitane, come si sottolineava più sopra, perché sono quelle che godono di condizioni infrastrutturali favorevoli e offrono condizioni più vantaggiose, in termini di prezzi e di “qualità”, per le preferenze abitative del nuovo ceto medio. Lorenzo Bellicini sottolinea la rilevanza quasi straordinaria di questa intensa crescita di cui hanno beneficiato le aree più dinamiche del paese: “La crescita del centro-nord è un fenomeno che per vastità e proporzioni è comparabile, se non addirittura più intenso, della fase storica di crescita più sostenuta vissuta dal paese nel corso degli anni Sessanta, gli anni del boom economico” ( 2011, p. 95). Questa metropolizzazione, dovuta certamente allo spostamento rilevante di popolazione dalle aree centrali ai ring metropolitani, è anche condizionata dalla crescita della popolazione immigrata, che privilegia le grandi aree urbane del Centro-nord, più ricche di occasioni di lavoro. Tali fenomeni, di matrice indubbiamente diversa, concorrono oggi a esercitare una pressione abitativa senza precedenti dal secondo dopoguerra e, almeno in parte, sono una delle cause che hanno determinato l’espandersi dell’urbanizzazione diffusa (trainata, certo, anche da fattori normativi, fiscali e speculativi). Allo stesso tempo, in sintonia con quanto si è verificato nel corso degli ultimi due decenni in buona parte del mondo industrializzato, una parte dei sistemi urbani italiani ha senz’altro conosciuto un processo di “crisi” demografica e funzionale che potrebbe essere ricondotto a tendenze di lungo periodo che una parte della letteratura internazionale ha classificato come urban shrinkage (Pallagst et alii, 2009; Wiechmann e Pallagst, 2012). In altra sede si è esplorato nel dettaglio, attraverso un’adeguata disaggregazione dei dati censuari 2011, la natura di questi processi e se ne è verificata la coerenza con l’idealtipo della shrinking city, formulando alcune osservazioni critiche al riguardo (Salone e Besana, 2013). 2.2 Uno sguardo retrospettivo L’importanza delle città nella storia territoriale del paese non è, in sé e per sé, una novità, così come non lo è il dualismo che differenzia i sistemi del Centronord da quelli meridionali. Fin dalla fine degli anni Sessanta, nelle Proiezioni territoriali del Progetto ‘80 (Salone, 2004; Renzoni, 2012) s’individuava nel sistema urbano e metropolitano una delle caratteristiche principali della geografia insediativa italiana e, al tempo stesso, una delle leve fondamentali per avviare la


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URBAN SHRINKAGE. GEOGRAFIE ITALIANE TRA DECLINO E RESILIENZA URBANA

50,00

40,00

30,00

1951 1961 20,00 1971 1981 1951 1991 1961 10,00

2001 1971 2009 1981 (d) 2011 1991

,00

2001 Torino

Milano

Genova

Venezia

Verona

Trieste

Bologna

Firenze

Roma

2009 (d) 2011

-10,00

-20,00

Grafico 2. Variazione percentuale della popolazione nei grandi comuni del Centro-nord (nostre elaborazioni su dati ISTAT, Censimento 2011).

40,00

30,00

20,00 1951 1961 1971

10,00

1981 1991 2001 ,00 Napoli

Bari

Palermo

Messina

Catania

Cagliari

2009 (d) 2011

-10,00

-20,00

-30,00

Grafico 3. Variazione percentuale della popolazione nei grandi comuni del Sud (nostre elaborazioni su dati ISTAT, Censimento 2011).


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CARLO SALONE

modernizzazione del paese. Quell’immagine del paese era contraddistinta da un dualismo accentuato tra alcuni sistemi metropolitani forti e il resto del territorio nazionale, caratterizzato da una pluralità di aree e sistemi urbani privi della massa critica per essere protagonisti dello sviluppo di una moderna democrazia capitalistica. Degli 11 “sistemi chiave” ben 5 vantavano una popolazione complessiva di 23 milioni di abitanti (dati 1965): i sistemi torinese, milanese, veneto occidentale, romano e napoletano. Tuttavia, i decenni successivi mostrarono, pur in assenza di serie e incisive politiche di superamento degli squilibri territoriali, una progressiva modificazione di quell’assetto che andava delineandosi in una duplice direzione. Da un lato, la crisi incipiente dell’organizzazione produttiva della grande impresa e i costi crescenti delle vecchie concentrazioni urbano-industriali cominciavano a espellere popolazione e segmenti di attività a minor valore aggiunto, provocando processi di suburbanizzazione e di decentramento produttivo. Dall’altro, soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta, emergevano in aree periferiche del Settentrione e nelle regioni centrali della penisola sistemi di città piccole e medie collocati nel cuore di economie locali dinamiche, caratterizzate dalla presenza di distretti di piccole e medie imprese specializzate nei settori manifatturieri tradizionali. Crisi delle metropoli ed emergere della Terza Italia contribuivano insieme a rendere più complessa la geografia urbana italiana, costringendo gli studiosi a elaborare modelli interpretativi meno schematici di quello fondato sull’interpretazione dicotomica dello sviluppo territoriale italiano. Alle soglie del nuovo millennio, tuttavia, la frattura Nord-Sud sembra nuovamente approfondirsi. Nel suo Rapporto del 2007, il CRESME mette a confronto le dinamiche economiche dei principali sistemi metropolitani italiani, definiti sulla base di una griglia multi-criteri che combina soglie dimensionali relative alla densità della popolazione e agli occupati in attività extra-agricole rilevati nei luoghi di residenza e di lavoro. I sistemi metropolitani così definiti sono parzialmente diversi da quelli dell’ISTAT, ma tali differenze non pregiudicano la possibilità di un raffronto. Il lavoro del CRESME evidenzia in modo eloquente la polarizzazione del dinamismo economico che favorisce nettamente i sistemi metropolitani del Centro-Nord, mentre il Mezzogiorno perde posizioni, eccezion fatta per la regione napoletana. I dati sono quelli del 2001, ma riteniamo che un’esplorazione dei dati 2011 sugli occupati mostrerebbe un’ulteriore accentuazione del divario.

Siamo dunque di fronte a una riedizione del dualismo italiano? 2.3 Profili evolutivi Le dinamiche demografiche ed economiche dell’armatura urbana del paese rivelano, nel periodo 1995-2006, un singolare ricompattamento degli assi dello sviluppo, che sembrano di nuovo riorganizzarsi secondo uno schema dualistico: pur in condizioni radicalmente mutate e non comparabili con il passato, sembra in effetti di assistere a una nuova divaricazione Nord-Sud, che si accompagna anche a una crescente frattura tra sistemi “grandi” e sistemi minori. Sono infatti i sistemi metropolitani più grandi e localizzati nel Nord del paese – se si esclude l’area napoletana – a mostrare, dopo la stagnazione e il declino degli anni Ottanta e Novanta, una ripresa eccezionale che si manifesta in tutti gli indicatori di crescita: il reddito, gli addetti alle attività economiche, la popolazione e il saldo migratorio. Come emerge dal citato Rapporto di ricerca del CRESME, i sistemi metropolitani lombardo, veneto, emiliano, laziale e campano fanno registrare nell’intervallo 1991-2001 una crescita della popolazione del 2,9%, il doppio del dato nazionale (1,4%) e il quadruplo di tutti gli altri comuni. Ma ancora più significativa si dimostra la crescita degli addetti alle attività economiche: di fronte a un aumento complessivo di popolazione pari a 572.000 residenti, i posti di lavoro “metropolitani” raggiungono la quota di 736.000 unità, con un surplus di 165.000 posti di lavoro rispetto ai residenti. È importante aggiungere che a questo primato delle regioni metropolitane si accompagna l’assunzione da parte di esse di un ruolo-guida nelle trasformazioni economiche: in effetti, la crescita di posti di lavoro privilegia i settori a maggior contenuto di conoscenza, i servizi, mentre la produzione manifatturiera registra un significativo arretramento, soprattutto nella regione metropolitana lombarda. Questo dato è confermato anche dal Rapporto ISTAT 2006 (2007), che illustra come il baricentro della produzione industriale si sia gradualmente spostato, nel corso del trentennio 1971-2001, dal Settentrione al Mezzogiorno secondo un’inequivocabile direttrice Sud-Est: questo spostamento è il frutto di complesse spinte insediative, in cui però prevalgono senz’altro i processi di decentramento/delocalizzazione produttiva di molte grandi imprese con sede nelle regioni del Nord e, contemporaneamente, le tendenze alla formazione o al rafforzamento dei sistemi di piccola e media impresa nel Nord-Est-Centro. Nel lavoro sopra ricordato sulla contrazione demografica in atto nei sistemi urbani italiani (Salone


URBAN SHRINKAGE. GEOGRAFIE ITALIANE TRA DECLINO E RESILIENZA URBANA

e Besana, 2013), si delinea una geografia urbana dell’Italia contemporanea che sembra riproporre, con modalità diverse dal passato ma egualmente rilevanti, un vistoso divario macroregionale tra Nord e Sud (Figura 1). Se negli ultimi vent’anni del Novecento la rappresentazione dicotomica dello sviluppo territoriale italiano era stata messa in discussione dall’emergere di aree di crescita in diverse regioni del paese, sulla base di differenti forze motrici – economie distrettuali al Centro-Nord, concentrazioni industriali a prevalente investimento pubblico nel Mezzogiorno – che avevano dato impulso a processi di agglomerazione urbana, oggi essa sembra riprendere vigore. In effetti, quasi tutti i sistemi urbani del Sud, ivi compresi sistemi metropolitani come Napoli, Palermo ecc., perdono larghe quote di popolazione, mentre i sistemi centro-settentrionali si rafforzano, con valori anche molto alti nelle aree delle cinture metropolitane.

3. CONCLUSIONI La scelta di sottolineare gli aspetti di transizione anziché di mutazione delle dinamiche urbane, e dunque i tempi lunghi di una metamorfosi che associa innovazioni e persistenze, invece della crisi che si nutre di accelerazioni repentine, ha senz’altro influenzato i risultati di questo esercizio analitico. Ci sembrava in ogni caso riduttivo individuare nella crisi esplosa nel 2007 il motore primo di una trasformazione della fisionomia dei sistemi urbani italiani, di cui invece si potevano già rintracciare i prodromi in una fase antecedente. L’armatura urbana del paese sembra conservare, anche nelle fasi più convulse di cambiamento economico e sociale, dei caratteri dominanti che in certe fasi si stagliano con maggior nettezza e in altre risaltano con minor nitore: un accentuato policentrismo prevalente nel Centro-Nord, una maggiore presenza di strutture “primaziali” nelle regioni del Mezzogiorno. Per contro, la quasi totale indifferenza nei confronti della “questione urbana” da parte dei decisori pubblici – in primis dello Stato – contrasta con il ruolo giocato dai sistemi urbani nella storia dello sviluppo del Paese. L’armatura urbana italiana, costituita in modo sempre più rilevante da “sistemi intercomunali riconoscibili […], città in nuce create dai processi di coalescenza territoriale” (Calafati, 2009, p. 127) chiederebbe forme di riconoscimento giuridico esplicito e istituzioni di governo adeguate alla struttura più complessa assunta dalle aree urbane.

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Invece, il principale sforzo di innovazione istituzionale compiuto in tempi recenti riguarda in prevalenza l’abolizione delle Province, prevista dal ddl costituzionale del 2 agosto 2013. È pur vero che al suo interno, questo disegno di legge prevede anche un riordino della materia concernente le città metropolitane, la cui normativa sarà affidata alla legislazione ordinaria e che dovrebbero essere operative dal primo gennaio 2014, tuttavia nulla lascia presagire che la città – il sistema urbano – possa in questa fase esser oggetto di un ripensamento normativo complessivo. Eppure, il tema dell’”area vasta”, per altro concettualmente vago, non riguarda esclusivamente i capoluoghi regionali considerati “città metropolitane”, ma molti altri sistemi urbani costituiti da città medie caratterizzate da un forte dinamismo che aggrega al loro intorno areali più o meno vasti di comuni funzionalmente integrati. In definitiva, la debolezza del quadro politicoamministrativo a livello centrale e l’egemonia dei principi della spending review nel dibattito pubblico sembrano oggi combinarsi con una storica incapacità dei decisori pubblici nell’offrire soluzioni innovative al trattamento della questione urbana. Bibliografia AGNEW J. (2000), “From the political economy of regions to regional political economy”, Progress in Human Geography, 24, 1, pp. 101-110. AGNEW J. (2001), “Regions in revolt”, Progress in Human Geography, 25, 1, pp. 103-110. AMIN A. E THRIFT N. (1995), “Globalisation, Institutional ‘Thickness’ and the Local Economy”, In Healey P. et alii (eds), Managing Cities. The New Urban Context, Chichester, pp. 91-108. BADIE B. (1995), La fin des territoires. Essai sur le désordre international et sur l’utilité sociale du respect, Paris, (trad. it. La fine dei territori. Saggio sul disordine internazionale e sull’utilità sociale del rispetto, Trieste). BELLICINI (2011), “Immobiliare, debito, città: considerazioni sui primi dieci anni del XXI secolo”, in Dematteis G. (a cura di), Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre, Padova, pp. 77-116. BRENNER N. (1999), “Globalisation as Reterritorialisation: The Re-Scaling of Urban Governance in the European Union”, Urban Studies, 36, 4, pp. 431-451. CALAFATI A.G. (2009), Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia, Roma, Donzelli.


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CARLO SALONE

Fig. 1. Variazione demografica 2001-2011 nei sistemi locali italiani (Fonte: Salone e Besana, 2013).


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MARIO SALOMONE

I BENI COMUNI NELLA CITTÀ CONTEMPORANEA

Nel corso degli ultimi anni un concetto è uscito dall’ambito della discussione accademica per diventare patrimonio, se non generalizzato, perlomeno di molti movimenti di base, sia nei paesi in via di sviluppo sia nel mondo “ricco”: quello di “beni comuni”. Per l’ambientalista indiana Vandana Shiva (2006), ad esempio, un bene comune è costituito dalle «risorse condivise, amministrate e utilizzate dalla comunità» che incarnano «relazioni sociali fondate sulla cooperazione e sulla dipendenza reciproca». In questo senso, i beni comuni sono il cosiddetto “Pil dei poveri”: acqua, suolo, foreste, biodiversità, da cui le popolazioni più povere e le comunità indigene traggono direttamente i loro mezzi di sostentamento. Anche se i ricchi, in realtà, ne dipendono ancora di più, perché consumano molte più risorse naturali.

I BENI COMUNI COME MEZZO DI SUSSISTENZA Sono, insomma, i mezzi di sussistenza, indispensabili alla vita di quell’ampia parte di popolazione mondiale che dipende direttamente dalle risorse naturali, in cui comprendere anche le conoscenze tradizionali, i semi, il patrimonio genetico. In genere tali beni comuni sono contraddistinti da regimi giuridici di gestione partecipata e collettiva, quindi né pubblici né privati; esprimono, insomma «un modello di organizzazione sociale e produttiva e un modello culturale» (Ricoveri, 2005, p. 11). Tali regimi persistono anche in Italia e più di quanto magari non si creda, nonostante che dopo l’unificazione (quando i beni comuni interessavano forse i due terzi del territorio nazionale) i beni comuni siano stati progressivamente erosi: ammontano ancora oggi, infatti, a un sesto (Parascandolo, 2005). È abbastanza noto che in Europa l’attacco ai beni comuni coincide con i primi passi del nascente

capitalismo e poi con la Rivoluzione industriale, quando le recinzioni (enclosures) privatizzano pascoli, terre collettive e boschi, costringendo grandi masse di contadini ad abbandonare i campi e a trasformarsi in forza lavoro per la nascente manifattura e segnano così l’avvio della “grande trasformazione” (Polanyi, 1974). Nel resto del mondo coincide con il colonialismo e la trasformazione di interi continenti in fonte di risorse per le potenze europee. Nei paesi in via di sviluppo il processo di espropriazione continua tuttora, ad opera sia delle classi dominanti locali e delle multinazionali, sia di altri paesi (tra cui gli stessi paesi emergenti) che tramite l’acquisto o l’affitto a lungo termine di grandi estensioni di terra (il land grabbing) si assicurano approvvigionamenti alimentari in vista di un aggravamento della scarsità di cibo dovuto al cambiamento climatico e alla crescita demografica. Fino alla Rivoluzione industriale, insomma, le forme di gestione controllata delle risorse naturali hanno riguardato una scala locale e hanno portato allo sviluppo di usi civici e di terre collettive di grande importanza per la vita delle comunità umane e di enorme utilità per la conservazione delle risorse: la storia dell’ambiente dimostra che le società che non hanno saputo amministrare con saggezza e lungimiranza le risorse naturali, sovrasfruttandole, sono crollate (Deléage, 1994; Diamond, 2005). Un intreccio di consuetudini comunitarie e previdenti norme dall’alto altrove ha invece conservato per secoli in Europa, ad esempio, la risorsa rinnovabile bosco, che come tutto il capitale naturale resta rinnovabile solo a certe condizioni (Cipolla, 2002). Benché il processo di erosione dei beni comuni per fare posto a dighe, allevamenti industriali, accaparramento di terre fertili e infrastrutture, come si è detto, sia tuttora in corso, i regimi di gestione collettiva delle risorse sono però ancora oggi diffusi in tutto il mondo e fondamentali per la vita di molte comunità.


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NUOVI BENI COMUNI

BENI COMUNI MATERIALI E BENI IMMATERIALI

Paradossalmente, è la modernità a rilanciare in forme nuove il concetto di beni comuni. Dal 1957 le missioni nello spazio, ancor prima della discesa sulla Luna, hanno fatto emergere la necessità di regolamentare utilizzi e comportamenti anche nello spazio esterno al pianeta Terra. I viaggi nello spazio e la moltiplicazione dei satelliti, infatti, ponevano nuovi problemi, dai rifiuti che ruotano intorno al pianeta a come soccorrere eventuali astronauti in pericolo. Così come è accaduto per lo spazio esterno, la globalizzazione ha evidenziato la necessità di regolamentare l’utilizzo di beni globali come l’atmosfera o gli oceani o l’Antartide e sono emersi nuovi conflitti, per la pesca o i giacimenti petroliferi sottomarini (come dimostrano ad esempio le tensioni tra Cina, Giappone, Vietnam). Ciò ha portato alla moltiplicazione di negoziati, conferenze, accordi bilaterali, trattati e convenzioni internazionali. Sono emersi, insomma, nuovi beni comuni globali: il clima, l’aria, l’acqua in tutte le sue forme, la biodiversità, lo spazio esterno. Sui beni globali non è possibile, in quanto appunto “globali”, instaurare regimi comunitari territoriali di gestione; non sempre la distinzione è netta, perché alcuni beni sono sia locali sia globali (come ad esempio la biodiversità). Sempre la modernità fa sviluppare una serie di servizi pubblici che diventano beni comuni o beni pubblici globali: gli acquedotti, la luce elettrica, i trasporti, la scuola, la sanità, la sicurezza sociale, la giustizia, la difesa. L’uso dell’uno o dell’altro termine non è neutrale: la principale differenza tra “comuni” e “pubblici” è il diverso accento, su “comune”, nel primo caso, e “pubblico”, nel secondo. La differenza di accento è importante, perché ne derivano visioni e politiche diverse: la condivisione di tali beni come patrimonio di ogni comunità umana e dell’umanità nel suo complesso, nel primo caso, l’apertura al mercato per stimolare l’offerta di beni pubblici globali da parte dell’iniziativa privata, nell’altro (come vorrebbe l’Organizzazione mondiale del commercio, WTO). In ogni caso, sono detti “globali” (Samuelson, 1955; Kaul et al. 1999) per distinguerli da quelli locali, nazionali o regionali, dunque in senso geografico in alcuni casi e anche in senso multidimensionale, sociale e temporale, in altri. Quando, cioè, hanno la caratteristica di tendere a essere a beneficio dell’intera umanità presente e futura (quindi di tutti i paesi, di tutti i gruppi di persone e di tutte le generazioni).

La nozione di beni comuni dunque è andata progressivamente allargandosi a qualunque luogo, istituzione o elemento che sia visto dalla comunità come un “bene comune” da preservare. Inoltre, il crescente ruolo della conoscenza, anche sull’onda delle tecnologie che diversificano i canali e ne moltiplicano esponenzialmente (anche se non necessariamente qualitativamente) la diffusione, fa sì che oggi si intendano per beni comuni sia beni materiali, locali e territorializzati o globali, sia un’ampia gamma di beni immateriali, culturali, paesaggistici, spirituali, sociali: il sapere, la pace, le telecomunicazioni, il cyberspazio di Internet, il patrimonio culturale e artistico dell’umanità, la creatività. La sensibilità verso il tema, insomma, è in continua crescita, caricandosi sia di valenze etiche sia di aggiornatissime attenzioni alle forme di produzione e condivisione della conoscenza. Da un lato, quindi, in senso lato bene comune non sono solo la terra, i pascoli e i boschi, o l’acqua delle fonti, dei fiumi, delle falde: bene comune è il paesaggio, bene comune sono i pesci nell’acqua, bene comune sono la ricchezza di odori, colori, sapori, forme, suoni, le notti stellate, il tempo, lo spazio, il silenzio. E sono beni comuni i beni relazionali e sociali come la fiducia reciproca, le nostre relazioni, la memoria, le storie, i saperi antichi, il rispetto, l’aiuto disinteressato, la cooperazione, la poesia, la musica, l’arte, i riti, gli affetti, gli incontri, la voglia di comunicare, i linguaggi, l’identità, le appartenenze, insomma tutti quei beni immateriali e relazionali che possono andare a costituire un’idea di benessere non basata sull’avere, sul potere, sull’apparire. Sono “capitale sociale”, di tutti e di nessuno. Dall’altro sono bene comune le produzioni “cooperative”, come Wikipedia o i software “open source”.

IL DIBATTITO SUI BENI COMUNI In letteratura, si suole classificare i beni in base alla possibilità di escludere o non escludere altri dal loro godimento (Buck, 1998), quindi tra regimi ad accesso libero o ad accesso chiuso, e in base alla possibile rivalità tra persone o gruppi. Ad esempio, il godimento di un semaforo a un incrocio non presenta nessuna rivalità e nessuno può essere escluso dal suo utilizzo. Anche i beni comuni, come si è visto, possono però essere privatizzati, monopolizzati o subordinati al pagamento di una tassa o di un canone. Ciò succede quando vi è un’egoistica tenden-


I BENI COMUNI NELLA CITTÀ CONTEMPORANEA

za ad appropriarsi di beni dai quali in teoria nessuno dovrebbe essere escluso o quando un bene comune/pubblico è dato in concessione (come nel caso delle frequenze televisive o di una sorgente di acqua minerale) o addirittura ceduto a privati. L’acqua può essere venduta in bottiglia 1.000 volte più cara di quella del rubinetto (e fino a 10.000 – diecimila – volte più di quanto è stata pagata alla fonte). Il paesaggio può essere lottizzato e cementificato. Il cielo può essere oscurato dall’inquinamento atmosferico e luminoso. Il silenzio può essere cancellato dall’inquinamento acustico. La vita sociale può diventare (e diventa) competizione, apparenza, iniquità, insicurezza, alienazione. Sia i beni naturali, sia i beni immateriali e relazionali in cui un territorio si traduce possono, infatti, essere violentati, disprezzati e deturpati, stravolti (nel senso di volti ad altri fini) o viceversa monetizzati e indirizzati ad un’idea tutta privata, materiale, venale, ingorda di benessere. Considerati, appunto, come “beni” inventariabili, appropriabili, come “cosa” posseduta o da possedere e non come “ciò che è buono” (in sé, e non solo perché “utile” a noi essere umani) e deve essere quindi accuratamente tutelato e fraternamente condiviso (“comune”). Aggiungerei, infatti, alla caratteristica dei beni comuni è che, per quanto riguarda i beni naturali essi vanno intesi non come di proprietà sia pure dell’intero genere umano, ma “in uso” temporaneo, per quel qualche milione di anni (sui vari miliardi passati e futuri del pianeta Terra) in cui è stata e sarà presente la specie umana, prima di declinare e di estinguersi, come accade a tutte le altre specie. Il dibattito più interessante e acceso è proprio sulla gestione dei beni comuni (commons, in inglese), in cui, semplificando, si confrontano due scuole di pensiero. Per la prima (Hardin, 1968) i beni comuni vivono una tragedia: non essendovi un unico proprietario, ognuno tende ad accaparrarsene il più possibile. In un pascolo aperto a tutti, ad esempio, ciascun pastore cercherà di fare pascolare sempre più pecore: per il singolo il comportamento “razionale” è di appropriarsi il più possibile delle risorse disponibili. Occorre quindi un’azione collettiva o un’autorità di governo che in qualche modo si faccia carico di gestire l’utilizzo delle risorse comuni e perfino la loro privatizzazione può essere un modo per conservarle, perché si presuppone che il regime di gestione privata sia più “efficiente”. La logica è che La distruzione dei beni comuni è razionale per gli individui ma non per la società. Prevenirla è quasi

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impossibile se vale l’accesso libero alla risorsa, ma diventa possibile se la risorsa è di proprietà di qualcuno che ne controlli l’utilizzo. In questo caso si parla di “accesso chiuso”. Anche l’accesso chiuso può sortire sovrasfruttamento, ma l’ostacolo si supera se i proprietari della risorsa hanno a disposizione istituzioni sociali, cioè regole certe di comportamento per la comunità, che conferiscono il potere di far rispettare l’uso sostenibile della risorsa stessa. (Marten, 2001, p. 158)

Grande popolarità (e un premio Nobel per l’economia) si è guadagnata Elinor Ostrom (1992), che invece ritiene possibile una gestione dei beni comuni affidata alle comunità stesse. I suoi esperimenti condotti in laboratorio con vari gruppi di persone, poi ripetute da altri ricercatori in vari contesti, e ricerche empiriche come ad esempio sulla condivisione di risorse idriche da parte dei contadini nepalesi (Lam, 1998) o come una ricerca dell’IFRI, International Forestry Resources and Institution program, su oltre 130 foreste in dodici paesi (Coleman & Steed, 2009) hanno dimostrato che gli utilizzatori dei beni comuni sono in grado di elaborare proprie regole, di monitorare l’uso dei beni e di sanzionare i trasgressori, e quindi di assicurare una buona gestione dei beni. Dai sistemi di irrigazione alle foreste, passando per il laboratorio e gli esperimenti sul campo, si è quindi assistito non solo alla confutazione di una teoria prima dominante, ma anche al progressivo accumulo e rafforzarsi di una conoscenza importante tanto per quanto riguarda lo specifico della gestione di risorse naturali quanto, più in generale, per la nostra comprensione del funzionamento di alcuni meccanismi psicologici e sociali generali propri degli esseri umani. (Bravo, 2012, p. 144)

BENI COMUNI E CITTÀ Di fronte ai beni comuni, le città si trovano in una duplice posizione: 1. da un lato consumano la maggior parte di beni comuni globali: pur occupando una esigua parte della superficie terrestre, ospitano più della metà della popolazione umana e consumano tra il 60 e l’80 per cento dell’energia (Kamal-Chaoui e Robert, 2009); da ogni parte del mondo arrivano sulle tavole dei cittadini cibi che hanno percorso migliaia di “chilometri alimentari” e arrivano i materiali e l’energia che alimentano il metabolismo urbano; 2. dall’altro lato, avendo per lo più al proprio esterno i beni comuni naturali e avendo in genere compromesso quelli localmente disponibili (si pensi


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ad esempio al cielo stellato, nascosto dall’inquinamento atmosferico e luminoso), le città sono soprattutto un concentrato di beni comuni immateriali e di beni comuni locali e territoriali, dai quali dipendono il diritto alla città e la qualità della vita urbana. Il concetto di bene comune si rivela insomma molto caro ai cittadini (sono loro i maggiori protagonisti dell’allargamento del concetto a nuovi beni) e molto utile per parlare di sostenibilità delle città e di sostenibilità globale. Si prendano gli spazi pubblici (piazze, strade, giardini,…) o i servizi pubblici come i trasporti collettivi, la casa, l’acqua, la cultura, l’istruzione, la salute,…. La loro maggiore o minore presenza, le soglie di acceso in base al reddito o alla condizione fisica, il regime di gestione pubblico, privato o misto sono tra gli elementi che più caratterizzano un paese e un sistema sociale, la sua qualità della vita, la sua capacità redistributiva della ricchezza ora iniquamente distribuita e dunque il grado di giustizia o ingiustizia sociale e ciò vale specialmente nelle città in cui spazi e servizi pubblici sono l’equivalente dei mezzi di sussistenza delle popolazioni rurali (foreste, acqua, suolo,…). CNEL e ISTAT, ad esempio, per l’elaborazione del BES (l’Indice di Benessere Equo e Sostenibile) hanno preso in considerazione anche i beni comuni, in particolare quelli a livello meso, intermedio, cioè, tra il livello micro dell’individuo e il livello macro della nazione: Sono beni la cui difesa è affidata alla comunità, ai cittadini, perché non rientrano nelle logiche produttive del mercato, ed anzi ne combattono le logiche appropriative. Una difesa che in casi estremi significa gestione diretta, da parte dei cittadini, ma nella maggioranza dei casi invece ricade nel concetto di servizio pubblico. Quel concetto che le statistiche sul Pil particolarmente penalizzano, poiché ne misurano solo il costo in termini di fattori produttivi assorbiti e non il risultato in termini di benefici per i cittadini. I beni comuni sono sia materiali sia immateriali, ma tutti si rifanno ad una idea di società, di collettività, perché è in quella sede che si decide se produrli, difenderli, valorizzarli. (2012, pp. 133-134)

In un’ottica di dialettica locale-globale, i cittadini sono interessati allo stato complessivo del pianeta e dunque ai beni comuni globali, la cui crisi toccherà soprattutto le città: senza energia le città (che ne sono le maggiori consumatrici) non possono esistere, la sicurezza alimentare le riguarda da vicino, perché orti urbani e periurbani e filiere corte possono garantire un certo approvvigionamento ma non la totale auto-

sufficienza (a differenza dalle piccole città preindustriali, legate al loro contado), il clima (che minaccia energia, cibo e approvvigionamenti di acqua potabile) impatta sulle città anche in termini di innalzamento dei mari (sulle cui coste sorgono moltissime città), di ondate di calore e di eventi estremi, perché le popolazioni e le loro infrastrutture sono particolarmente vulnerabili di fronte al cambiamento climatico. Le città, però, possono cercare di prevenire il peggio e di salvaguardarsi dando il loro contributo alla tutela di questi beni comuni globali. D’altra parte, molti beni comuni locali e territoriali fanno parte della vita di tutte i giorni e determinano la qualità della vita urbana. Con l’innovazione sociale, gli stili di vita, l’esercizio dei diritti democratici di cittadinanza e la partecipazione gli abitanti delle città possono difendere e valorizzare anche questo ampio gruppo di beni comuni La partecipazione, di cui molti cittadini sentono il bisogno, riguarda proprio questi beni comuni: il paesaggio urbano, il consumo di suolo, i servizi comunali, il diritto alla mobilità per tutti, i luoghi sentiti come importanti per la vita del quartiere o per l’intera città (uno spazio abbandonato da riqualificare, un’area verde da difendere, un museo, un teatro,…). Dai beni comuni e in generale da logiche mutualistiche, solidali, cooperative, non appropriative può nascere la città sostenibile del futuro, inclusiva ed ecologica. Riferimenti bibliografici BRAVO, G. (2012), Working together. Il framework dei commons’ e le basi del suo successo, “Culture della sostenibilità”, V, 9, pp. 139-148. BUCK, J.B. (1998), The Global Commons. An introduction, Earthscan, Londra. CIPOLLA, C.M. (2002), Storia economica dell’Europa preindustriale, il Mulino, Bologna (nuova edizione). CNEL-ISTAT, Comitato Cnel - Istat sugli indicatori di progresso e benessere, (2012), La misurazione del Benessere Equo e Sostenibile (BES), CNELISTAT, Roma, www.misuredelbenessere.it/fileadmin/upload/docPdf/ BES.pdf. COLEMAN, E., STEED, B. (2009), Monitoring and sanctionning in the commons: An application to forestry, “Ecological Economics”, 68(7), 21062113. DELÉAGE, J.-P. (1994), Storia dell’ecologia. Una scienza dell’uomo e della natura, CUEN, Napoli.


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GIOVANNA RICUPERATI*

UN NUOVO METABOLISMO URBANO

Il mio mestiere è creare ponti tra l’azienda e il mercato, tra l’economia e le città. Questo è il significato del marketing nella sua definizione meno diabolica, più costruttiva.

CERCHIAMO ORA DI COMPRENDERE QUALI SONO I PARAMETRI DI IDENTIFICAZIONE E MISURA DI UNA

SMART CITY

ALCUNI NUMERI Nel 2025 il baricentro economico del pianeta si sarà spostato verso est; tra le prime 25 città del mondo ne troveremo 12 nei paesi emergenti (rispetto alle 4 attuali). Shanghai occuperà la terza posizione in termini di Pil (rispetto alla 25a attuale) e come percentuale di famiglie con un reddito annuo superiore ai 20.000 dollari (oggi non si colloca nemmeno tra le prime 25). New York, Tokyo, Londra e Parigi conserveranno una posizione tra le prime 10, ma Philadelphia, Boston, San Francisco, Toronto, Sidney, Madrid e Milano saranno scomparse dalla top list. Le mega-cities saranno passate da 25 a 60 e in queste città si concentrerà un quarto della ricchezza mondiale. Una città oggi sconosciuta ai più come Tianjin produrrà un Pil pari a quello della Svezia. L’urbanizzazione e l’industrializzazione faranno emergere dalla povertà un miliardo di persone e creeranno una classe di consumatori sempre più globale. Ma le geografie emergenti non rappresenteranno solo nuovi mercati di consumo. Sarà in queste aree che nasceranno migliaia di nuove aziende. Oggi, tre quarti delle 8.000 aziende con oltre un miliardo di dollari di fatturato hanno la propria base nei paesi sviluppati. Nel 2025 saranno quasi raddoppiate (15.000) e la metà avrà sede nei paesi emergenti. Nel mappamondo del 2025 l’Italia e le sue città sembrano destinate – in assenza di una politica economica fortemente innovativa – a una marginalità economica ancor più spinta di quella attuale. Senza fondi, senza denari, non si avanza, non si cresce, non si diventa smart...

MA COSA SIGNIFICA “ECONOMIA INTELLIGENTE”? Ecco una definizione: «Spirito imprenditoriale e innovativo in una città produttiva, con un mercato del lavoro flessibile, capacità di trasformazione e credibilità internazionale, dove da parte delle aziende ci sia un serio impegno a espandere e migliorare la propria attività. Un’economia intelligente nella quale tanto a livello di grandi, quanto a livello di medio-piccole imprese vengano condotte iniziative imprenditoriali volte all’innovazione, dove per innovazione si intende non solo l’introduzione sul mercato di nuovi prodotti e servizi, o nuovi sistemi di produzione o nuovo posizionamento di vecchi prodotti. Innovazione è

* A.d. Multiconsult / Consigliere delegato al Marketing Confindustria Bergamo.


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GIOVANNA RICUPERATI

la capacità di cambiare approccio gestionale, visione dell’organizzazione, valorizzazione delle risorse umane esistenti e capacità di attrarre nuovi talenti, attenzione al lavoratore e ai suoi bisogni tangibili e intangibili» Da arcVISION n.28, La città che pensa: parametri di identificazione e misura della Smart City”. Sembra una pagina del libro dei sogni, all’interno di un sistema dei sogni dove non si deve correre il pericolo che la nuova utopia delle smart cities vada a colmare il vuoto della mancanza di visioni di futuro, introducendo la «tecnica» come panacea contro le annunciate catastrofi dell’umanità (inquinamento, sicurezza, carenza energetica,…). In questo contesto le imprese si trovano in una fase di crisi economica ma soprattutto di valori, che riguarda il modo di fare di una certa impresa, quella basata sull’ingegneria finanziaria, che non riesce ad allontanarsi dal solo obiettivo del profitto. Le imprese devono prendere definitivamente atto della loro posizione nel territorio e devono porsi e riporsi il tema della propria responsabilità sociale e della propria identità come opzione sostenibile, come antidoto contro le crisi. Centrale quindi è il concetto del ruolo dell’impresa nella società. Un ruolo importante perché l’impresa non è un’isola, ma una fonte di relazioni con diversi soggetti che ne determinano anche il profilo competitivo sul mercato. E questo è tanto più vero per il modello culturale italiano caratterizzato dall’impresa diffusa sul territorio. C’è una evoluzione del concetto di responsabilità sociale, quella individuale dell’imprenditore e della singola impresa verso quello di responsabilità sociale del territorio (collettiva) attraverso la creazione di un senso più ampio di “distretto economico responsabile” all’interno del quale si creano sempre nuove relazioni. È proprio la qualità delle relazioni che esse intrattengono con il sistema complesso dei propri stakeholder che rappresenta valore per l’impresa. Le organizzazioni virtuose – siano esse profit, non profit o enti locali – sono sempre più quelle in grado di operare una sorta di rivoluzione copernicana: agire come uno degli elementi parte del tutto, riconoscendo l’esistenza di un network allargato di attori portatori di interesse nei loro confronti. A vincere è dunque “l’impresa collaborativa”, ovvero quella che considera la Responsabilità Sociale non come qualcosa di residuale o “un di più”, ma un nuovo approccio complessivo alla gestione di impresa, uno strumento di controllo e rendicontazione delle performance aziendali. L’impresa per essere socialmente responsabile deve essere attenta al profitto (senza il quale non si genera sviluppo economico e benessere) ma è con-

vinta che il profitto non sia il fine ultimo bensì il mezzo attraverso il quale si raggiungono gli scopi veri di fare impresa che diventano i seguenti: – Dare continuità all’attività, innovando e adeguandosi alle mutate esigenze del mercato; – Generare lavoro di qualità per i propri dipendenti; – Partecipare alla crescita e allo sviluppo del territorio nel quale è collocata; – Rispettare e valorizzare l’ambiente; – Assicurare prodotti di elevata qualità ai propri clienti; – Garantire ai fornitori un puntuale rispetto degli impegni; ecc. Cosa può favorire questo processo? Come creare il sistema virtuoso di relazioni e connessioni di territorio? Servono nuovi ganci, connettori, collanti. Oggi non sempre esiste una piena consapevolezza di Responsabilità Sociale da parte degli attori di un dato Territorio. Esiste semmai una serie puntuale di progettualità e azioni che andrebbero meglio integrate. In questo senso un ruolo da sempre importante è giocato dagli operatori intermedi, quali Camere di Commercio e Agenzie di Sviluppo, ovvero enti multistakeholder per definizione che fanno da cerniera tra il “locale” (ciò che il territorio esprime) e il “globale” (ciò che entra nel territorio), spesso mettendone alla prova la coesione interna. È altresì necessario un cambiamento radicale della visione dell’impresa, un processo di cambiamento profondo che non si limita soltanto ad agire sugli aspetti strettamente materiali della gestione, ma che ne modifica le prospettive, gli obiettivi, i valori che guidano ogni visione all’interno del complesso aziendale. Un processo di ridiscussione dell’impresa in tutti i suoi aspetti, dalla strategia alla struttura organizzativa, dalle risorse umane alla cultura aziendale.

DAL CAMBIAMENTO ALLA TRASFORMAZIONE COSTRUTTIVA: LA RESILIENZA Secondo il rapporto National Building Resilience to Global Risks di Davos infatti, la resilienza è l’unica reazione sana in un mondo sempre più interdipendente e iperconnesso. L’unica via di uscita per riprendersi, più velocemente possibile, dopo i fallimenti ambientali ed economici degli ultimi anni. Ecco perché, più che una semplice parola, resilienza è diventata una definizione operativa, un progetto di trasformazione costruttiva, la ricerca e l’approdo a un nuovo modo di pensare. Bisogna, resiliente-


UN NUOVO METABOLISMO URBANO

mente, come recita il titolo dell’edizione 2013 di Segnavie, avere il coraggio di cambiare rotta. Per essere resilienti, le imprese devono prendersi nuovi rischi. Assumersi una certa propensione al rischio, vissuto come chiave di innovazione e occasione di crescita. Vivere fuori dalla Comfort Zone. Non ci può essere innovazione senza rischi. Che siano tecnologici, di mercato, organizzativi o da eventi esterni e imprevedibili, essi sono intrinseci di tutte le start-up che, proprio per questo, diventano il veicolo più comune di ogni innovazione. Resiliente sarà chi investirà in un maggiore accesso alle tecnologie, chi riuscirà a fare della società civile e delle sue imprese un attivatore di bene collettivo trasmettendo informazioni in modo rapido ed efficace. E sarà sicuramente resiliente chi sarà capace di trovare nuovi modelli di finanziamento favorendo la collaborazione di diversi soggetti (RETI DI IMPRESA) e discipline (VIA LE BARRIERE TRA LE MERCEOLOGIE) e, coltivando l’intraprendenza e la flessibilità, saprà mutare il ruolo del proprio business aprendo la sua impresa alle sfide sociali e ambientali. Non si deve però confondere la resilienza con la resistenza al cambiamento. Al contrario, nel tentativo di evitare cambiamenti e turbative, un sistema riduce la sua resilienza, ma per costruire e conservare la resilienza è necessario sondarne i confini. Il punto sta nel costruire sistemi in grado di mettersi al sicuro nel momento in cui falliscono, non nel cercare di costruire sistemi al sicuro dai fallimenti. Per ragionare in termini di resilienza è necessario passare dal macro al micro. Finora le crisi sono state affrontate attraverso politiche di macroeconomia (incremento di domanda e produttività o diminuzione dei costi), ma ora che non possiamo più crescere sul debito, né pubblico né privato, dobbiamo tornare alle politiche industriali, le politiche mi-

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cro. È necessario trovare settori nuovi su cui investire, rimettere in discussione il nostro modo di concepire l’impresa e l’intervento pubblico, rispondere finalmente a bisogni veri. La conoscenza è vero segreto di resilienza. L’impresa è resiliente quando conosce il mondo che la circonda, quando prende consapevolezza della propria identità nel territorio, nel mondo. Quando sa, quando è orientata al mercato. Quando va oltre le proprie certezza: non esiste più il modo migliore di fare le cose, ma il migliore per quel contesto. Quali sono gli attributi di un’impresa resiliente? – Un elevato grado di diversità, soprattutto la diversità di risposta (diversi modi di fare la stessa cosa, spesso erroneamente considerata come “ridondanza”). – Una struttura relativamente modulare che non sovra-connetta le sue componenti. – Una forte capacità di rispondere rapidamente ai cambiamenti. – Una “apertura” significativa, che consenta l’emigrazione e l’immigrazione di tutte le componenti (i sistemi chiusi rimangono statici). – Il mantenimento di riserve adeguate. – L’incentivazione dell’innovazione e della creatività. – Un elevato capitale sociale, in particolare affidabilità, leadership, e le reti sociali. – Una governance adattiva (flessibile, distributiva e basata su sistemi di apprendimento). Per concludere, un cambiamento non solo delle imprese ma della politica, dei sistemi, delle persone. Essere sostenibili, socialmente responsabili, resilienti: devono cambiare le imprese ma devono contemporaneamente cambiare la politica e i suoi tempi, i grandi sistemi, le Reti. Ognuno è stakeholder di se stesso.



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CRESCITA E RIGENERAZIONE DEI BENI DI COMUNITÀ

La grave crisi che stiamo attraversando, così densa di rischi ed incognite e che probabilmente non lascerà niente com’era prima che iniziasse, può rappresentare “un’opportunità per dare una svolta nel senso del cambiamento al modello sociale che finora abbiamo sperimentato” (Albert Einstein), permettendo al principio di sussidiarietà e a quello di solidarietà, di farsi prassi buona, concreta e diffusa, e valorizzando le importanti risorse materiali e immateriali che esistono nel nostro Paese. E che esistono anche in una città come Bergamo. Sinteticamente possiamo delineare la crisi con quattro facce. Politica, Economica, Sociale, Antropologica. Sul versante politico è evidente da tempo come la democrazia sia alla ricerca di nuove dimensioni che ne rianimino la partecipazione. Voto e fiscalità generale, straordinari vettori di democrazia negli ultimi duecento anni, non bastano più a generare un senso di appartenenza e di partecipazione fra le persone. È come se raggiunto un maggior grado di libertà individuale avessimo bisogno di trovare nuove forme plurali per esprimerci, con degli accenti qualitativi e non solo quantitativi. L’economia come massimizzazione del profitto, ed in tal senso come pratica estesa ad ogni attività umana ha visto il suo collasso nel 2008. È necessario trovare una strada che non si fondi più su un idea infinita di risorse che attivano una produzione infinita di beni sostenuta da consumi infiniti attraverso debiti infiniti. La lezione in corso è pesante in termini di conseguenze sulle persone, ma potrebbe essere l’alba di un sistema economico maggiormente orientato ad un valore condiviso e plurale. Assistiamo da tempo ad un mondo che si fa sempre più piatto nelle relazioni sociali, ma paradossalmente più ingiusto e anomico. Come si produce l’autorità in un mondo piatto, in cui la tecnologia sembra essere la condizione di un linguaggio di eguaglianza? Abituati ad un mondo verticale assi-

stiamo allo spaesamento di un mondo orizzontale. Eppure potrebbero essere i tempi in cui il principio di fraternità possa trovare le sue prime forme sociali compiute. Nuove istituzioni. Cosa c’è oltre la” morte del padre”? Nuove tirannie o nuove e vitali forme di fratellanza? Anche la stagione dell’espansione illimitata dell’io sembra al termine, un io onnivoro poliforme sempre alla ricerca di nuove emozioni. Una dimensione antropologica che ha frantumato ogni legame in nome di una autorealizzazione che non si realizza mai. Un desiderio che si fa pura consumazione di godimento. Alla fine ci consegna persone sempre più isolate e depresse. Che non sanno che farne della loro libertà. È forse giunto il tempo di una esperienza più consapevole e gioiosa dell’essere il tu dell’altro? Dell’essere un noi? Di un esperienza più armonica di sé e quindi comprensiva dell’alterita? Quello che è certo è che senza un nostro contributo fattivo, una ricerca comune che risponda a questi grandi quesiti che stanno informando la trasformazione in corso, ci troveremo sempre più marginalizzati in un mondo che si è fatto più piccolo. Questi brevi accenni spero ci introducano a descrivere un percorso, un compito per questo tempo. Compito delle persone singolari e plurali, delle piccole comunità e delle città. Compito affascinante che ci consegna un impegno di benedizione in questo tempo. Un impegno per noi e per le generazioni future con la certezza che da qualsiasi parte lo si prenda si dovrà fare i conti con le altre componenti del problema. Perché questo è un tempo che richiede di ritrovare una visione di insieme, anche se non totalitaria. È un tempo che richiede di connettere spazi, ambiti, pensieri e competenze che si erano separate. È un tempo buono ed è il nostro tempo. È per questo che di fronte a così grandi sfide è giusto parlare di modello italiano. Perché nel momento della rigenerazione i territori italiani, e la bergamasca non fa eccezione, hanno sempre trovato idee, persone e risorse impensabili. Questo è il


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compito che riguarda il tempo presente, che ci riguarda. Il “modello italiano” da troppo tempo negletto e subalterno rispetto ad altri, quello anglosassone o quello dell’Europa del Nord, presenta certamente delle patologie, come la pervicace resistenza al cambiamento e all’innovazione, il familismo amorale, che lo porta a far prevalere le relazioni parentali rispetto alle competenze, il localismo e campanilismo regressivi, il corporativismo, ma al contempo anche grandi qualità e virtù che altrove mancano, come la vocazione all’apertura e all’accoglienza, la valorizzazione dei rapporti e del contatto, il bisogno di contiguità, la capacità di esaltare i profili positivi della vita, il gusto estetico, la capacità di coniugare il particolare, la comunità locale con l’universale. Alla luce della considerazione iniziale e proprio per fare di un momento di difficoltà un’occasione di crescita e di cambiamento non anarchico, ma governato ed indirizzato verso un percorso consapevolmente scelto, vorremmo contribuire a riproporre il modello italiano, in una forma, ovviamente, aggiornata e corretta, come pietra angolare su cui rifondare la struttura societaria della comunità nazionale, e delle comunità territoriali, a partire dall’ambito più cruciale, cioè quello del welfare e, più in generale, dei beni di comunità. Dai beni culturali all’educazione, dai beni ambientali ai trasporti locali. Questo è il momento da cogliere per avviare una stagione di innovazione istituzionale, centrata proprio sui beni di comunità, parte integrante del modello italiano, e suo autentico patrimonio competitivo, che sconfigga i grandi nemici dello statalismo pervasivo che ne soffoca la vivacità, e dell’individualismo radicale che mina le basi della socialità. Si tratta, più precisamente, di superare la dicotomia pubblico/privato ancora dominante nella rete di protezione sociale, per sviluppare un sistema che faccia spazio al “terzo pilastro”, all’economia civile, consentendo una coabitazione armoniosa e proficua tra tutti gli attori. Per fare ciò, bisogna costruire nuove forme di alleanza e mutualità, per rilanciare le capacità di ritessitura dei legami sociali che si vanno allentando, lavorando sia sul lato della domanda di tutele, attraverso il contrasto alla pura e semplice privatizzazione dei servizi, sia su quello dell’offerta, con il sostegno a nuove forme di ricomposizione del risparmio e dell’assicurazione secondo basi neo-mutualistiche. In Italia il tormentato rapporto con i valori della modernità è la ragione profonda delle patologie a cui rimane esposto che determinano una diffusa resistenza al cambiamento e all’innovazione: il familismo amorale, che fa prevalere la relazione sulla

competenza; il localismo regressivo, che si illude di potersi isolare dal mondo; il corporativiso risorgente che finisce per ipostatizzare il gruppo a danno dell’individuo e della collettivutà, fino ad arrivare alla mafiosità, che non riconosce il valore dell’istituzione. Eppure, in un’epoca di grande travaglio storico come quella nella quale stiamo vivendo, tale modello – sepolto sotto le macerie di un sistema politico completamente autoreferenziale – continua a manifestare una straordinaria vitalità. I soggetti che lo costituiscono – famiglie, associazioni, piccole imprese,cooperative, territori – sono le ali che continuano a far volare il calabrone Italia. Ma, come la storia ci insegna, tutto questo non basta. Lasciati soli, questi mondi sono destinati a deperire di fronte alla potenze che si sprigionano nell’epoca della globalizzazione. Ecco perché lo sforzo deve essere quello di trovare le vie per ri-editare questa nostra specificità, in modi adeguati ai tempi. Cioè agli standard e alle richieste del mondo globalizzato. Per far questo occorre una grande stagione di riforme istituzionali, nazionali e locali, la cui ambizione sia quella di potenziare il modello italiano. Il che significa: alleggerire l’invadenza dello Stato non per privatizzare ma per socializzare; creare strumenti e processi utili per accompagnare i nostri territori all’interno delle reti, dei circuiti, dei mondi globali, che sono quelli dove oggi la ricchezza – economica, culturale, umana – viene allocata. Serenamente ma anche orgogliosamente convinti che l’Italia ha nel suo DNA qualcosa che solo da qui, da questa terra, da questa tradizione può essere detto. Ed è un possibile punto distintivo del modello europeo. In questo modello, la generalizzazione viene dunque bottom-up, dal basso e dall’esperienza, a partire dal rapporto storico con la pluralità e l’alterità, nella prospettiva di un umanesimo integrale trascendente: che non è un ossimoro, ma la declinazione antropologica di un monismo che rifiuta sia le contrapposizioni che i riduzionismi. È in questa radice, più che nell’universalismo astratto delle procedure che ha paura di legarsi a dei contenuti per timore di perdere in autonomia, che la valorizzazione della nostra identità può trovare alimento, neutralizzando nel contempo le derive particolaristiche che sempre stanno in agguato. La “sapienza dei luoghi” (il genius loci) e la sapienza delle pratiche vanno in questa direzione. La testimonianza, la forza dell’esempio anche. In tutti questi casi c’è una “forza” universale e universalizzante (una verità, una tradizione, una tensione etica) che può esistere e continuamente rigenerare il presente, solo se si incarna in una forma che, consa-


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pevole del proprio limite, è però l’unico modo di far esistere l’universale. Nella serena consapevolezza che, senza questa tensione, l’universale resta astratto, dogmatico, violento e il particolare resta chiuso, rattrappito, difensivo e ottuso. L’Italia è ricchissima di esempi di questa universalità incarnata. Lo sanno i turisti stranieri, che trovano qui qualcosa di assolutamente unico, che non incontrano altrove. Nell’arte, nell’urbanistica, ma anche nella qualità di certe forme di vita, fino alla tradizioni culinarie, spesso sviluppate a partire da situazioni di penuria, ma capaci di realizzare qualcosa di valore. Anzi, una delle caratteristiche del genio italico è forse proprio la capacità di rovesciare il limite in una risorsa, lo scacco in uno stimolo, attingendo da forze che eccedono la situazione, per superarne i limiti in modo generativo. Per l’Italia è l’occasione imperdibile per avviare una grande stagione di innovazione istituzionale centrata sui beni di comunità che fanno parte del DNA più profondo del nostro paese. Beni di comunità intesi come nuove forme di governance partecipata a base territoriale che non solo costituiscano una terza via tra statalismo e mercatismo, ma che anche aprano spazi concreti e realistici di esercizio concreto di corresponsabilità democratica. Seguendo questa linea, l’innovazione istituzionale, soprattutto in tema di welfare, potrebbe aiutare a sfuggire alla morsa tra lo stringente vincolo finanziario e la mera rivendicazione di diritti che si scaricano poi sul bilancio pubblico. La sfida che abbiamo davanti riguarda, dunque, il governo e la produzione dei beni di comunità intesi come punti di mediazione tra la partecipazione, il bisogno, e la realizzazione di sé. Sottolineamo solo di sfuggita che è proprio da queste innovazione che si può contribuire ad affrontare strutturalmente il tema dell’occupazione. La crisi finanziaria può costituire l’occasione per l’avvio di ambiziosi programmi di riforma tesi a stimolare e rafforzare le risorse sociali presenti – mediante la riorganizzazione dei flussi finanziari prodotti dalle famiglie attraverso i risparmi, che ancora oggi si disperdono all’interno del mercato finanziario senza lasciare traccia sulla comunità e la valorizzazione delle relazioni e dei legami esistenti, non più considerati come una riserva da spremere per comprimere il costo dei sevizi istituzionalizzati, quanto invece come un’infrastruttura informale preziosa per plasmare, contenere e soddisfare la domanda. In questo modo, si individua una strada sia per contrastare quel senso di demoralizzazione che attraversa le società avanzate, sia per avviare signifi-

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cativi processi di innovazione organizzativa e finanziaria. L’obiettivo è quello di fare in modo che questi beni di comunità siano contemporaneamente produttori e distributori di valore dove nella parola valore si tengono connessi la moneta, il servizio, i legami e i significati. Ciò comporta anche rivisitare la questione dei meccanismi di composizione del risparmio privato e delle forme di assicurazione. Come é noto, nell’era keynesiana, la protezione sociale è stata delegata allo stato che, mediante la tassazione, rastrellava le risorse poi redistribuite attraverso trasferimenti e servizi. Negli ultimi decenni, invece, un ruolo crescente è stato attribuito al mercato, in base al principio di responsabilità e allo scambio tra domanda e offerta, caricando sul singolo individuo il compito di provvedere alla propria protezione. Sono noti pregi e limiti di questi due modelli. Quello che interessa sottolineare è che, per fare un passo in avanti, occorre andare al di là di questa dicotomia, verso la costruzione di un modello a tre pilastri, dove coesistono sistema pubblico, privato e civile. Per superare l’impasse in cui si trova il sistema di welfare prigioniero della dicotomia “lib-lab”, occorre allora sviluppare la gamba “civile”. Non si tratta di negare il ruolo dello Stato, improntato alla logica dell’universalismo. Tuttavia, non si può non riconoscere che la crisi rende più difficile pensare di limitarsi a difendere questa sfera, sia per problemi interni – legati ai livelli di efficienza – sia per problemi esterni – quelli sopra ricordati in relazione allo sbilanciamento tra democrazia e sistema tecnico, problemi che mettono in discussione proprio la capacità dello Stato di farsi garante dell’universalismo. D’altra parte, l’erosione morale e istituzionale tipica delle democrazie avanzate amplia la quota di bisogni non coperti dal welfare, soprattutto presso i ceti medi e medio-bassi. Secondo il senso comune affermatosi negli ultimi decenni, la soluzione andrebbe cercata in qualche forma di privatizzazione; soluzione che, per sua stessa natura, se spinta troppo oltre, si oppone alla logica del welfare, teso ad intervenire in rapporto alla fragilità. Nè, d’altra parte, si può essere sufficiente l’idea di terzo settore così come si è andato formando negli ultimi due decenni (almeno nel modello italiano): prestatore di servizi a basso costo per conto dello Stato. La strada innovativa da percorrere va, piuttosto, nella direzione della creazione di forme nuove di alleanza e mutualità, a livello locale, capaci di sfruttare le pressioni oggi esistenti verso una riorganizzazione del sistema di protezione nella direzione di un rilancio della capacità di ri-tessitura dei legami sociali diffusi. Un tale obiettivo può essere raggiunto


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lavorando dal lato dell’aggregazione tanto della domanda quanto dell’offerta: sul primo versante, contrastando attivamente la privatizzazione della protezione – tendenza che finisce per rendere impossibile l’obiettivo che si prefigge, dato che radicalizza l’individualizzazione in un campo che presuppone socialità – favorendo l’aggregazione nelle forme e nei modi possibili; sul secondo versante, sollecitando nuove forme di ricomposizione del risparmio e dell’assicurazione – secondo uno schema neo-mutualista – che permetta di creare le condizioni, anche economiche, per l’ampliamento di uno spazio interstiziale tra lo Stato (basato sulla tassazione) e il mercato (basato sul prezzo) all’interno del quale l’economia civile possa davvero prosperare. Se ripensati secondo queste due prospettive, i beni di comunità possono trasformarsi da fattore di conservazione, freno alla crescita, in una delle leve strategiche per l’innovazione sociale, un ambito decisivo per la produzione di nuovo valore, luogo di uno scambio positivo tra l’individuo e il suo contesto sociale, snodo del patto sociale intergenerazionale. Tale prospettiva presuppone, in ogni caso, l’at-

tenzione a garantire contemporaneamente l’accessibilità di un bene (sia esso di cura, educativo,abitativo, ambientale, culturale,…) e la sua sostenibilità, attraverso la declinazione di una prospettiva che superi la dicotomia tra pubblico e privato, porti a valore rendite patrimoniali e risorse intangibili quali la reputazione e il volontariato, unisca ciò che abitualmente è separato. Ciò significa in altri termini creare istituzioni nuove, capaci di ristabilire attenzioni antiche quali la mutualità e la solidarietà e al contempo in grado di tenere insieme ‘moneta’, prestazioni e legami sociali. Per raggiungere quanto auspicato si tratterà di declinare strategie, plasmare luoghi e forme sociali, promuovere azioni in cui alcune mediazioni vengano fatte da soggetti aggreganti capaci di rilanciare una dimensione pubblica territoriale. L’orizzonte che si intravede porta ad assumere i beni di comunità quale paradigma per ‘fare nuove tutte le cose’, con autentico spirito innovatore capace di leggere e vivere la modernità, con la consapevolezza che siamo all’interno di una fase istituente e non solo di riforma o di aggiustamento.


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GRAZIA PRATELLA

INFRASTRUTTURE, SPAZI E TEMPI URBANI, TEMPI E ORARI DELLA CITTÀ, SMART CITY. LE BANCHE DEL TEMPO

Valentina è disponibile ad animare alcune nostre iniziative con le sue danze, in cambio chiede piccoli aiuti per appendere quadri o mensole, Roberta ricama a punto croce se devi fare un piccolo regalo o decorare una tenda, in cambio chiede lezioni di computer, Alessandro offre lezioni di computer in cambio di qualche massaggio shiatsu, Rebecca offre conversazione inglese madrelingua in cambio di qualcuno che faccia compagnia a sua madre malata quando lei deve fare la spesa, così via. In questo modo, ogni giorno, arrivano alla banca del tempo richieste e offerte di iscritti che chiedono di entrare nella rete dell’associazione che ha sede nel loro quartiere. Ma come fare a incrociare i bisogni e le offerte? Intanto bisogna chiarire che indipendentemente dal servizio scambiato, un’ora vale un’ora; questa è la rivoluzionaria regola aurea delle banche del tempo che mette tutte le persone e tutte le loro capacità su un piano di parità. Inoltre bisogna che gli iscritti si conoscano fra di loro, ed ecco che è utile l’attività di Valentina che propone momenti di animazione, così come quella di Dino che ci offre le sue foto dell’Australia sulle quali discutere e documentarsi insieme, o quella di Marialuisa che apre la sede tutti i giorni e chiacchiera con chi ci viene a trovare. È fondamentale anche l’attività di Renato o Sergio che ricevono gli “aspiranti” iscritti/soci e li intrattengono per un’ora buona chiedendo cosa sanno fare, come mai sono arrivati alla banca del tempo, di cosa hanno bisogno, …e poi compilano la scheda di iscrizione se entrambe le parti ritengono di condividere questo viaggio insieme. Dopo l’iscrizione, piano piano e con cautela, vengono attivati gli scambi, vengono pagati gli assegni in tempo da parte di chi riceve verso chi dà, gli assegni vengono portati in segreteria e registrati utilizzando

un apposito programma uguale per tutta Italia e offerto dall’Associazione nazionale Banche del Tempo alle banche del tempo iscritte. Una banca del tempo che funziona riesce a far sì che si possano conciliare i tempi di vita delle persone che ne fanno parte, fa emergere il tempo destinato al lavoro di cura gratuito che non rientra nel PIL di una nazione e che generalmente è svolto dalle donne, tesse una rete di relazioni fra persone che imparano a conoscersi, è un sensore di bisogni rispetto alle richieste silenziose dei cittadini all’Ente Locale, sviluppa cittadinanza attiva perché ogni socio/iscritto porta nella banca del tempo sé stesso con le sue potenzialità, la sua storia, le sue competenze. Ma come nasce e cos’è una banca del tempo? Le banche del tempo sono un fenomeno internazionale.1 I sistemi di scambio locale si sono diffusi nel mondo con modelli diversi, il primo modello è stato quello dei LETS canadesi a cui si sono aggiunti quelli sperimentati in Europa (Francia, Germania, Belgio, Scozia, Italia, Spagna, Portogallo ecc) e nel mondo (Argentina, Messico, Australia, Senegal, ecc). Le reti di relazioni tessute dalle banche del tempo non coinvolgono solo persone fisiche ma anche diverse associazioni e istituzioni del territorio con diverse forme d’interazione e collaborazione basate anch’esse sullo scambio del tempo. In Italia le prime banche del tempo risalgono alla seconda metà degli anni ’90, da allora i percorsi sono stati lunghi e non privi di difficoltà. Nel 2007 nasce l’Associazione Nazionale Banche del tempo italiane che viene ufficialmente presentata a Roma nella sala della Protomoteca con un convegno dal titolo “Tempo da tessere” e la partecipazione come relatori anche di molti giovani in quanto animatori

1 A proposito di dono e banca del tempo, può essere utile la lettura del saggio di Susy Zanardo nato in seguito a un corso di formazione a animatori di banche del tempo e riportato nel libro già citato al punto (1) alle pag. 59 – 76.


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GRAZIA PRATELLA

di bdt o coinvolti attraverso la stesura di tesi di economia, sociologia, architettura. Una legittimazione alle banche del tempo in Italia è rappresentata dalla legge 53/2000 che recepisce le istanze dai primi esempi di queste associazioni e che recita all’art. 27. Art. 27. Banche dei tempi 1. Per favorire lo scambio di servizi di vicinato, per facilitare l’utilizzo dei servizi della città e il rapporto con le pubbliche amministrazioni, per favorire l’estensione della solidarietà nelle comunità locali e per incentivare le iniziative di singoli e gruppi di cittadini, associazioni, organizzazioni ed enti che intendano scambiare parte del proprio tempo per impieghi di reciproca solidarietà e interesse, gli enti locali possono sostenere e promuovere la costituzione di associazioni denominate “banche dei tempi”. 2. Gli enti locali, per favorire e sostenere le banche dei tempi, possono disporre a loro favore l’utilizzo di locali e di servizi e organizzare attività di promozione, formazione e informazione. Possono altresí aderire alle banche dei tempi e stipulare con esse accordi che prevedano scambi di tempo da destinare a prestazioni di mutuo aiuto a favore di singoli cittadini o della comunità locale. Tali prestazioni devono essere compatibili con gli scopi statutari delle banche dei tempi e non devono costituire modalità di esercizio delle attività istituzionali degli enti locali. Purtroppo la realtà italiana ci racconta, come descritto nella pubblicazione dell’Ottobre 2011: “Banca del tempo” un quadro diverso rispetto alla proposta della legge (pag. 84) “Generalmente, salvo casi eccezionali, non solo sono mancati interesse e progettualità da parte delle istituzioni, ma anche dove i gruppi di cittadini si sono auto-organizzati e costituiti in associazione Banca del Tempo, spesso le istituzioni hanno mantenuto un atteggiamento distaccato quando non disinteressato. In assenza dell’ente pubblico, i gruppi spontanei di cittadini nati sull’onda della legge e delle diverse esperienze locali hanno assunto caratteristiche spesso molto diverse fra loro, positivo sotto l’aspetto della creatività, ma non altrettanto per quanto riguarda le reali e pressanti esigenze del welfare locale. Un rapporto redatto nel 2009 sulla base delle risposte di circa 120 Banche del tempo italiane il cui maggior numero si registra in Piemonte e in Lombardia (in particolare nella Provincia di Milano) e a Roma (dove rappresenta un fenomeno cit-

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tadino) dimostra chiaramente che alla voce “convenzione con l’ente locale” c’è solo il 50% di risposte positive. Troppo poco per pensare che la loro attività possa andare realmente a sostegno delle famiglie e dei cittadini fragili”.

D’altra parte, nell’anno europeo della cittadinanza attiva (2013), le bdt, con il concetto di scambio, solidarietà e reciprocità attive, possono rappresentare un modello anche per le altre associazioni. Secondo Stefano Zamagni2 (Zamagni, 2011) “la scienza economica ha preso in considerazione oltre al valore d’uso e al valore di scambio una terza categoria, quella del valore di legame. Il valore di legame è oggi una vera sfida intellettuale e sociale poiché la relazione fra le persone è di per sé un bene, che, in quanto tale, genera valore”.

Le banche del tempo sono associazioni che operano nelle città e nei piccoli paesi con l’obiettivo di ricreare la relazione e il senso di comunità che un tempo apparteneva ai territori, attivando lo scambio del tempo utilizzando il meccanismo messo in atto nella grande famiglia di una volta, dove ognuno era disponibile a mettere in circolo le proprie competenze, capacità, risorse. Attraverso le banche del tempo si cerca di ricucire la separazione fra il mondo dell’economia (ma lo stesso etimo dice che economia significa buona amministrazione della casa e della famiglia) e quello degli affetti mentre nel mondo attuale i rapporti fra le persone tendono a diventare freddi e distaccati, sempre più improntati su scambi professionali o commerciali. Al tempo destinato alla famiglia che, come dice Zamagni, è sempre più ridotto, è riservato il campo degli affetti. L’iscrizione alla banca del tempo in primis e successivamente le richieste di piccoli servizi, richiedono che le diverse parti di volta in volta coinvolte entrino in contatto stabilendo una relazione molto simile all’amicizia, non si tratta infatti mai di scambi esclusivamente col segno del dare ma nello scambio è implicito anche il segno dell’avere e viceversa. Chiedere o dare significa che anch’io mi metto in gioco come fruitore o donatore nel momento del bisogno. Gli iscritti sono consapevoli e accettano l’accordo che oltre ad avere una caratteristica di beneficio nel momento in cui si riceve, permette a chi entra nella rete di diventare cittadino attivo, disponibile a sostenere la necessità di un’altra persona nel momento della richiesta.

Stefano Zamagni, economista italiano, ex Presidente dell’Agenzia per il terzo settore (1943).


INFRASTRUTTURE, SPAZI E TEMPI URBANI, TEMPI E ORARI DELLA CITTÀ, SMART CITY.

Parliamo sempre di welfare leggero perché non è previsto l’obbligo di svolgere un’attività quando questo non sia possibile per qualsivoglia motivo, l’unico obbligo è quello della restituzione del tempo attraverso la banca. Diversamente dalle organizzazione di volontariato in cui c’è chi offre o chi riceve, la banca del tempo organizza lo scambio reciproco. Sempre secondo Zamagni: “Per uscire dalla crisi attuale occorre andare oltre l’economia,” Dentro l’economia occorre iniettare degli elementi che hanno a che fare con la categoria dell’amore, della relazione, delle emozioni positive. Va riumanizzata l’economia attraverso l’attenzione alle persone, modificando i meccanismi interni del mercato. Chi capisce questi concetti sono le donne”.

E in funzione di questo cambiamento l’apporto degli studiosi è fondamentale. “Le relazioni tra gli uomini nascono dallo scambio. Scambio che viene avviato con un dono di una delle parti all’altra, la quale si sentirà in obbligo di contraccambiare tale dono, innescando cosí una catena di scambi. Ma non sono solo gli oggetti a circolare, dice Mauss, (1872-1950) anche lo spirito del donatore viaggia insieme al dono, dando cosí vita a un legame tra gli individui che va ben al di là del puro scambio economico. Ecco allora che l’atto del donare non si limita a un passaggio di beni, ma mette in gioco la totalità degli elementi culturali che caratterizzano una società”.3

Le banche del tempo costituiscono una risposta alle dinamiche per certi versi “degenerate” della modernità, mediante il recupero di pratiche premoderne, tradizionali, addirittura antiche con una duplice finalità: scambiare il tempo con altre persone per migliorare la qualità della vita propria e altrui e recuperare comportamenti basati su logiche volontaristiche e non commerciali, incrementando così il capitale sociale4 di una comunità. Le banche del tempo creano e amministrano capitale sociale sia per i singoli aderenti che incrementano il loro patrimonio di relazioni, sia per le comunità in cui esse operano, contribuendo a renderle più amichevoli ed aperte, quindi anche più si-

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cure e tenendo conto del fatto che il tema sicurezza è molto importante per le amministrazioni, la banca del tempo può essere più utile che non il mettere in atto costosi metodi repressivi o di controllo che possono al contrario esacerbare gli animi e comunque non svolgono azione di prevenzione rispetto a comportamenti devianti. Operano all’interno di una diversa economia che continua a cercare nuovi stili di vita, di consumo, di produzione energetica, agricola, di piccola industria, di turismo responsabile. In città grandi e piccole questo semplice strumento può permettere a numerose famiglie di vivere riuscendo a conciliare i tempi della vita con i tempi del lavoro e a sentirsi parte di una comunità locale integenerazionale e multietnica ma sempre più sfilacciata anche a causa dei vincoli spazio-temporali. Francis Fukuyama ha detto: “L’uomo è un animale sociale per natura e, oltre a ciò, creatore di regole culturali. Alla fine sia la natura, sia la razionalità, favoriscono lo sviluppo di virtù comuni quali onestà, affidabilità, reciprocità, che costituiscono le basi del capitale sociale”.5

Dalle ricerche attuate a vari livelli ad esempio sul territorio milanese (Regione Lombardia, Provincia di Milano e enti di ricerca) risalta la necessità di intervenire sulla prevenzione e la cura all’interno della famiglia e del quartiere con politiche trasversali, dal disegno degli spazi urbani alle modalità dell’abitare, dalle condizioni di istruzione ai percorsi culturali di integrazione. In tale contesto uno dei problemi su cui focalizzare l’attenzione è la continuità nella risposta ai bisogni, elemento fondamentale per guadagnare la fiducia. C’è poi l’aspetto che riguarda il mondo del femminile e della conciliazione tempi di lavoro e famiglia. Molte famiglie, anche quelle mononucleari, rispondono al bisogno di tempo, cura familiare e sicurezza attraverso l’assistenza da parte della donna in quanto madre e lavoratrice. Assistiamo però a una frammentazione del lavoro delle donne e del lavoro in generale che rende molto più complessa l’organizzazione della vita quotidiana con conseguenti gravi problemi socio/psicologici all’interno della famiglia. Non si può pensare a una esclusione della donna dal mondo del lavoro laddove il lavoro è possibile averlo sia per motivi di realizzazione personale che per motivi economici; nella realtà questa frammenta-

Marcel Mauss, sociologo francese, (1872 -1950). Capitale sociale è termine usato in sociologia per indicare l’insieme delle relazioni interpersonali formali ed informali essenziali anche per il funzionamento di società complesse ed altamente organizzate. 5 Francis Fukuyama, politologo americano (1952). 4


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zione e la difficoltà di conciliare i tempi porta all’esclusione di fatto della donna dall’attività lavorativa se manca il supporto della famiglia d’origine (nonni). Occorre quindi trovare modalità diverse di intervento integrando i tempi di lavoro e di cura domestica permettendo uno scambio nel tempo e nella relazione che sia di tipo continuativo e non frammentario o addirittura provvisorio come spesso accade, dando un reale sostegno alle famiglie in grave difficoltà sviluppando il concetto di comunità attiva. Occorrerebbe operare in stretta collaborazione con i Comuni attraverso interventi di formazione, ricerca e monitoraggio sul territorio che coinvolgano e rendano partecipe dei problemi e delle soluzioni una larga parte di cittadinanza. “Il fatto che nei comuni delle province dove il numero degli abitanti si aggira dai 9.000 ai 30.000, sostenute spesso dagli enti locali, nascano banche del tempo, indica il bisogno e l’individuazione in questo strumento di un sostegno almeno parziale da parte dell’ente pubblico più vicino alle persone; poco diffuse spesso sono le nuove nascite di questo tipo di associazioni nella città per mancanza in genere di un progetto di città condiviso mentre, quando esistono, possono aiutare a colmare momenti di difficoltà attraverso la rete di relazione che si viene a creare. (Fa eccezione il caso di Roma dove il piano dei tempi e degli orari ha previsto da lungo tempo le banche del tempo come risorsa di quartiere)”. (da una ricerca del 2011 a cura del Coordinamento Banche del tempo di Milano e provincia, Altreconomia 2012)

I NUMERI Oggi le bdt sono più di 400 in Italia (con uno scambio annuale di circa 500.000 ore), quasi 100 in Lombardia e altrettante in Piemonte, ne nascono sempre di nuove anche grazie all’attività di formazione dell’Associazione Nazionale, all’istituzione di una giornata Nazionale delle banche del tempo e a una campagna abbastanza attiva sulla stampa e sui media in generale, tanto che gli amministratori locali cominciano a capirne il valore e sostenere la nascita di queste forme associative. Per i numeri aggiornati e altre informazioni è possibile visitare il sito dell’ANBDT e del Coordinamento di Milano e provincia con i relativi link, citati nella bibliografia.

Bibliografia Libri di autori singoli Marcel Mauss Saggio sul dono 1923, Piccola Biblioteca Einaudi 2002. Stefano Zamagni (a cura di) il libro bianco sul terzo settore, il Mulino Bologna 2011. FRANCIS FUKUYAMA, La fine della storia, BUR 1992. Zygmunt Baumann 2001: Conversations with Zygmunt Bauman. Libri di più autori Maria Luisa Petrucci, Banche del tempo, reti di socialità, p. 11 – 12 “Banca del tempo”, Altreconomia 2011. Susy Zanardo, Il tempo fra dono e scambio, relazione e reciprocità, p. 59 – 76 “Banca del tempo”, Altreconomia 2011. Luigi Agostini, La grande crisi e la banca del tempo, p. 36 - 42 “Banca del tempo”, Altreconomia 2011. Grazia Pratella, Quali sinergie fra istituzioni e banche del tempo in Italia, p. 83 – 86. “Banca del tempo”, Altreconomia 2011. Articoli Marialuisa Petrucci, I correntisti oggi, “La cura del tempo” Marzo 2011 Segni, strumenti interculturali. Da “Mosaico di Pace”: “Stili di vita” Cambio e scambio: Grazia Pratella n. 6 Giugno 2011. Da “No Stop”, periodico FILT – GCIL Lombardia, nr. 68 dicmbre 2010 “Quale ruolo per le banche del tempo? Grazia Pratella pag 35 – 36. Interventi a convegni Tempo da Tessere: primo convegno nazionale delle banche del tempo 28 Febbraio 2008. Siti www.associazionenazionalebdt.it www.banchetempo.milano.it e relativi link. Leggi Legge 53/2000 art 27.


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IVAN MAZZOLENI

BERGAMO SMART: UNA SFIDA VERSO LA CITTÀ INTELLIGENTE

Il Comune di Bergamo ha voluto avviare un percorso interno per definire una propria strategia verso “smart city” attraverso la costituzione di un vero e proprio think tank con gli obiettivi di: – mappare le buone pratiche già esistenti all’interno dell’organizzazione; – individuare i progetti già contenuti negli strumenti di programmazione dell’ente; – ricercare nuove idee, azioni, proposte per il futuro; – definire meccanismi di governance cittadina e di coinvolgimento della “città”. I diversi contributi forniti da questo “pensatoio” sono stati inseriti in una road map riorganizzandoli secondo i 6 fattori che rendono smart una città: people, mobility, governance, environment, living e economy. Per ciascuna dimensione sono poi stati individuati i principali assi strategici di intervento e le relative azioni di dettaglio. Il primo passo, quindi, è stato quello di provare a far funzionare meglio ciò che già c’è, ricomponendo la frammentazione interna alla nostra organizzazione ed avendo chiaro, sin dall’inizio, che il viaggio verso la Città intelligente non potrà mai portare a risultati concreti se intrapreso dalla sola amministrazione comunale. Si tratta di un percorso in cui è fondamentale dare centralità al sistema di “relazioni” tra i diversi protagonisti e creare le opportunità per favorire la partecipazione attiva dei cittadini. Punti di partenza sono quindi l’informazione e la conoscenza e come questi due fattori vengano utilizzati per sviluppare l’innovazione. Si può in qualche modo affermare che il successo o l’insuccesso di una smart city dipende sicuramente da numerosi “fattori abilitanti” (primi fra tutti le tecnologie a disposizione, le infrastrutture digitali e le loro integrazioni), ma ancora prima dipende dalla capacità dei diversi stakeholders di “fare rete” 1 2

http://www.eldy.org/ http://www.equodibergamo.it/?p=7102

e di immaginare una governance cittadina da costruire insieme, in cui certamente il Comune deve giocare un ruolo propulsivo e di coordinamento, sia mettendo a disposizione spazi fisici e virtuali per il confronto, che prendendo spunto da esperienze positive di altre città non solo italiane (copiare bene, fa bene alla smart city!). A seguire alcune esemplificazioni e progetti messi in campo dal Comune di Bergamo per ognuno dei sei fattori che rendono smart una città.

SMART PEOPLE Educazione al Digitale della popolazione senior Dopo il felice esito della prima iniziativa “progetto Eldy”1 realizzata con Regione Lombardia e la Direzione dei Servizi Sociali del Comune di Bergamo nel corso del 2012, per la promozione dell’alfabetizzazione informatica a favore degli anziani e dei centri terza età della nostra città, si può pensare di riproporre l’iniziativa valutando altri target di utenti o altre modalità. Attivazione del laboratorio Smart Green People2 All’interno della rassegna “Teatri Civili”, facente parte del Cartellone della Stagione 2012-2013 di “Casa delle Arti”, è stato attivato, in collaborazione con la compagnia teatrale Erbamil, il laboratorio Smart Green People, un laboratorio di teatro per studenti delle scuole superiori della città di Bergamo ispirato al tema della città del futuro. Bandi e premiazioni Bando K-Idea giovane – sono stati premiati tre progetti di innovazione/invenzione con l’assegnazio-


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ne di borse di studio a giovani tra i 18 ed i 30 anni. Istituzione di premi annuali alle scuole di vario ordine e grado che realizzano progetti di educazione ed attività di sperimentazione scientifica inseriti nei programmi di Bergamoscienza. Accoglienza turistica per una città internazionale Promozione di incontri con associazioni di categoria del commercio e della ristorazione per la definizione di un contrassegno rilasciato dal Comune recante la scritta “ENGLISH SPOKEN HERE” da apporre all’ingresso degli esercizi che assicurano la presenza di personale che parli la lingua inglese. Associazione Bergamo Smart City and Communities3

L’associazione è stata costituita dal Comune di Bergamo, dalla Diocesi, dalla Fondazione Comunità Bergamasca, da KM Rosso e da FASE ed è inoltre prevista la collaborazione con l’Università di Bergamo. L’associazione è finalizzata a creare una rete territoriale con uno scopo comune: migliorare la qualità della vita dei cittadini attraverso iniziative innovative su tematiche ambientali, economiche, culturali, tecnologiche, ecc. Istituzione di momenti partecipativi Urban Center, spazio espositivo, di confronto e partecipazione con la cittadinanza e i professionisti su trasformazioni urbane, architettura e territorio. Ciclo di convegni sul paesaggio all’interno di BERGAMOSCIENZA – ICONEMI “La città sensoriale, partecipativa ed ecologica: nuovi paesaggi verso smart city”.4 3 4

http://www.bergamosmartcity.com/ http://www.iconemi.it/

SMART MOBILITY Progettazione integrata del sistema di trasporto pubblico Partnership tra Servizio Gestione Teatri Comunali e ATB articolata su due livelli: 1. Per gli spettacoli della Stagione di Altri Percorsi che si svolgono presso il Teatro Sociale di Bergamo Alta, gli spettatori possono usufruire di un servizio-navette gratuito con partenza dal Teatro Donizetti e destinazione Città Alta (località Colle Aperto) e ritorno. 2. Per gli spettacoli della Stagione Casa delle Arti che si svolgono presso il Teatro Sociale di Bergamo Alta gli spettatori, presentando al personale ATB il biglietto d’ingresso alle rappresentazioni, avranno accesso gratuito ai mezzi pubblici ATB (funicolare compresa) da e per Città Alta nei giorni di spettacolo, a partire da due ore prima dell’inizio dello stesso e fino a un’ora dopo l’uscita dal Teatro. Diffusione della banda larga Last Mile Con la diffusione dell’infrastruttura della rete NGAN (Next Generation Access Network), oggi oltre l’80% degli armadi stradali di Bergamo è già stato raggiunto dalla fibra ottica in banda ultralarga. Questo importante risultato è stato ottenuto grazie al programma dei lavori e agli obiettivi condivisi da Telecom con il Comune di Bergamo. Si è dato un forte impulso ai lavori per portare la connessione Internet sino a 30 Megabit a famiglie e imprese, rendendo così disponibili a un bacino sempre più ampio i servizi di nuova generazione, già oggi fruibili in alcune aree della città. Bergamo, infatti, è stata tra i primi comuni italiani scelti da Telecom Italia per il lancio dei nuovi servizi in fibra ottica basati sulla tecnologia FTTCab (Fiber to the Cabinet). A Bergamo i programmi di copertura della città sono già in fase avanzata e sono state raggiunte oltre 50


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mila unità abitative a fine 2013, grazie alla posa di circa 100 chilometri di cavo di fibra. Rendere il sistema infrastrutturale intelligente nella sua riprogettazione e gestione La “City Operation” include tutti gli aspetti per la gestione real time delle reti e dei servizi urbani. Include quindi le reti per la distribuzione dell’energia elettrica e del gas, la rete del teleriscaldamento degli edifici, la rete viaria e trasportistica, la rete dell’illuminazione pubblica, dell’acqua e dei rifiuti, la rete per la comunicazione digitale e telefonica, la rete per la sicurezza. Per ognuna di queste reti esistono attori (city utilities) che operano per la corretta gestione delle reti e delle loro funzionalità. L’approccio della smart city è quello di predisporre un’infrastruttura urbana che sovraintenda a tutte queste reti: nella scena urbana (ma anche all’interno di edifici e veicoli) essa è composta da sensor networks, sistemi di trasmissione dei dati, un insieme di server per la raccolta, elaborazione e redistribuzione dei dati (open data, cloud computing) verso le applicazioni verticali delle varie utilities di gestione delle reti. Con questa architettura le utilities sono in grado di operare sulla base di dati relativi alla domanda (“resource on demand”) collegandosi a domini adiacenti che influiscono sulla domanda del bene ripartendo i costi dell’infrastruttura.

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• zone ricarica auto o bici elettriche; • regolazione dell‘intensità luminosa dei punti luce e riduzione della stessa in certe zone cittadine in alcune ore della giornata garantendo quindi un risparmio energetico; • un sistema di videosorveglianza ad integrazione di quello già esistente; • attivare una serie di applicazioni impiantistiche ed edilizie che consentano un efficientamento energetico degli immobili comunali con conseguenti riduzioni di costi di gestione. Stimolare l’utilizzo di nuove tecnologie Promuovere iniziative che invitino all’utilizzo di tecnologie digitali in luoghi frequentati da adulti (centri terza età, biblioteche, ecc.) con la dotazione di accesso ad internet ed istruzione alla consultazione. Implementare le oasi wi-fi pubbliche Sono già attive 20 oasi pubbliche wi-fi che consentono la navigazione internet gratuita h24 con oltre 23.000 utenti iscritti. Va ora sviluppata ed ampliata la rete wi-fi cittadina, con il coinvolgimento degli esercizi pubblici e commerciali, che possono partecipare all’iniziativa promossa dall’Amministrazione. Sviluppare sistemi innovativi di tariffazione Recentemente è stata introdotta la nuova CRS con funzionalità trasporti, che consente di caricare gli abbonamenti ferroviari Trenord e gli abbonamenti regionali “Io viaggio”, nonché di pagare via internet e tramite sportelli bancomat. Tale modalità potrà essere estesa al trasporto pubblico locale ed ai titoli di viaggio di ATB e TEB.

SMART GOVERNANCE

Attivare una serie di applicazioni attraverso la rete della pubblica illuminazione: • controllo del flusso del traffico e informazioni in tempo reale attraverso pannelli (anche quelli già esistenti sulle vie di accesso alla città) di eventuali problemi viabilistici; • la disponibilità dei posti auto nei vari parcheggi dislocati nelle varie zone della città; • stazioni meteo che possano anche dare indicazioni attraverso i suddetti pannelli circa la possibilità di pericolo ghiaccio o allagamenti lungo le strade;

Filodiretto Filodiretto è l’interfaccia al cittadino di Gastone CRM, che il Comune di Bergamo ha acquistato e che è destinato a costituire il canale privilegiato di comunicazione fra il cittadino e gli uffici comunali, consentendo la contabilizzazione e la tracciabilità di


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domande e risposte tra cittadino e P.A. “Con Gastone Citizen Relationship Management, la Pubblica Amministrazione è in grado di comunicare con velocità, rispondere alle critiche, accogliere i suggerimenti, fornire risposte certe e immediate. Superando ogni barriera tecnologica, Gastone CRM rende semplice e immediato il processo di dialogo, un “Filo Diretto” tra cittadini e Amministrazione Pubblica. Ad oggi oltre 5.000 cittadini risultano iscritti al servizio. Dotarsi di adeguati sistemi di supporto alle decisioni Avere la capacità di monitorare ed elaborare tutte le variabili in gioco e disporre di un’ampia serie di modelli tra loro collegati (energia, ambiente, trasporti, urbanizzazioni) che permettano di avere un quadro aggiornato di ciò che sta succedendo, predire gli effetti immediati (per la gestione delle emergenze) e quelli a lungo termine, dare orientamenti sulle possibili scelte. Nell’area del city-modelling si possono mettere in campo soluzioni avanzate per la modellazione e simulazione delle reti energetiche, delle relazioni tra clima ed energia, della rete di trasporto ed in generale dello sviluppo della città. Il modelling assolve sia alla funzione previsionale che a quella di design per lo sviluppo e la crescita. Tali metodi, quindi, unitamente alle metodologie di gestione ambientale ed alle analisi di scenario, sono importanti ai fini del supporto decisionale necessario alle attività di pianificazione. Revisione/integrazione del vigente “Piano dei servizi” e del “Piano dei tempi degli orari” mediante l’inserimento del tema della infrastrutturazione di connettività (sottoservizi e aerea) e la revisione degli aspetti e temi tradizionali del “Piano dei Servizi” alla luce degli impatti che su di essi e sulla loro gestione generano l’innovazione tecnologica e digitale quando gli stessi impattano sulla pianificazione.

Mappatura partecipata e georeferenziata del degrado urbano e suo collegamento con la gestione del piano delle opere pubbliche e dei piani attuativi. Implementare nuovi servizi online Vanno concretizzati e messi a regime i primi servizi on-line di Polis, in modo che si integrino con quelli già in essere del Geoportale. Sviluppare applicazioni Mobile per l’utente con informazioni in real-time. È già disponibile la APP “City User” in cui è possibile ricevere tutte le news in tempo reale da tutti i luoghi di interesse oltre ad un servizio Memo che informa sugli eventi che non si vogliono perdere. Implementare il S.I.G.I. con nuovi servizi L’utilizzo del Calendario Geografico, programma per la prenotazione on-line e gestione delle occupazioni stradali, va reso obbligatorio per gli enti gestori dei sottoservizi (A2A, Enel, Telecom, ecc.). Tra questi nuovi servizi, va promosso un sistema intelligente di infomobilità, che consenta di monitorare i flussi viabilistici sui principali assi viari, un sistema di indirizzamento ai parcheggi in struttura, con informazioni rese in tempo reale sulle disponibilità di sosta, sia mediante pannelli informativi sia mediante sistema mobile. È in via di completamento il Catasto strade informatizzato della città, unificando per la prima volta le banche dati del Territorio e dei Lavori pubblici, con il censimento di tutti i parcheggi pubblici in superficie (divisi per tipologia). È in corso di sviluppo la mappa informatizzata dei parchi e del verde urbano cittadino, con schede informative per ogni area attrezzata. È stato realizzato un progetto di sviluppo informatico della sezione del Geoportale dedicata all’Ecologia/Ambiente, che ha portato alla predisposizione di nuove pagine informative per il cittadino sviluppate in forma più organica e più chiara. Va inserito nel Geoportale il sistema informativo del patrimonio comunale, che è concepito su base cartografica, in modo da incrociare immediatamente le informazioni in esso contenute con le informazioni contenute negli altri strati informativi territoriali. Andrebbe promosso allo stesso modo uno sviluppo su base cartografica dei procedimenti tributari, base interoperabile con gli altri strati informativi del Geoportale, cogliendo l’occasione del lavoro in corso per il nuovo Piano degli Impianti pubblicitari. Va diffuso il pagamento telematico mediante MAV elettronico, o carta di credito o pagobancomat.


BERGAMO SMART: UNA SFIDA VERSO LA CITTÀ INTELLIGENTE

Integrazione dei servizi esistenti per operare in una logica di rete e di unicità: Risulta poi strategico ed urgente individuare l’Ufficio Unico per il Sottosuolo, così come previsto dalla legge regionale n° 7/2012, che si occupi della gestione delle reti e che curi il catasto informatico delle stesse (gas, acqua, elettricità, teleriscaldamento, ecc.) imponendo ai soggetti gestori la restituzione dinamica delle informazioni al Comune, pena il non rilascio dei provvedimenti di manomissione del suolo pubblico. Il PUGSS deve diventare una banca dati dinamica e non una fotografia statica di una situazione ad una certa data. La realizzazione di un unico portale di accesso nella logica dell’integrazione ed unione dei servizi offerti ai cittadini per un easier access alle informazioni ed alla partecipazione della vita pubblica e di interscambio tra cittadini e stakeholders. Si sta lavorando con Regione Lombardia per chiedere di attivare un’interoperabilità con le banche dati regionali, alimentate dai cittadini, dalle imprese e dagli enti locali: in particolare il ritorno di informazioni al Comune, estratte dal CURIT (banca dati regionale sugli impianti termici), dalla CENED (banca dati delle certificazioni energetiche), dalla banca dati degli alloggi comunali. Allo stesso modo, nelle logica dello Sportello Unico Attività Produttive, unico punto di riferimento per i cittadini, si sta promuovendo il pagamento unificato presso il SUAP dei diritti di segreteria o quant’altro dovuto agli altri enti (C.C.I.A.A., ASL, ARPA, VV.FF. ecc.). per procedimenti comunali. Creare reti, tramite la sottoscrizione di protocolli di intesa tra Enti del Territorio. Sono in corso gemellaggi tra comuni italiani per lo scambio delle Best practices. Predisposizione di regolamenti speciali: Predisposizione di un regolamento speciale in materia di sottoservizi di cablaggio in fibra ottica basato su riduzioni Cosap, atto ad attrarre investitori di connettività di larga banda su Bergamo. Predisposizione di un regolamento speciale in materia di impiantistica soprasuolo wi-fi, eventualmente esteso all’utilizzo della rete di illuminazione pubblica, contenente agevolazioni economiche atte ad attrarre investitori di connettività WI-FI su Bergamo. Dematerializzazione delle pratiche Avvio dell’utilizzo del timbro digitale all’interno dei procedimenti relativi agli impianti termici, arrivando, ove il mittente abbia indicato un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC), alla completa

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dematerializzazione della diffida a provvedere, a firma del dirigente, e dei documenti da inviare. Negli obiettivi strategici dell’Amministrazione si dovrà prevederne uno denominato “Agenda Digitale di Ente” idoneo a pianificare le campagne di dematerializzazione degli archivi a schede e dei repertori e ricercare sponsorizzazioni tra i soggetti esterni interessati a finanziarle. Dotazione di un software gestionale unico tra il socio sanitario e il socio assistenziale tra Comune di Bergamo e ASL di Bergamo. Pubblicazioni in E-BooK Sostituzione delle pubblicazioni a stampa degli Istituti comunali con analoghi EBOOK. Riedizioni in versione EBOOK delle pubblicazioni a stampa più richieste del Comune. Accessibilità delle informazioni OPEN DATA Progetto Open Bergamo, finalizzato all’armonizzazione degli orari dei servizi pubblici con gli orari di lavoro, per favorire l’accessibilità delle informazioni e dei servizi della pubblica amministrazione (sportello polifunzionale). Predisposizione di pagine internet sperimentali destinate ad ospitare gli open data di ente ma già articolate come pagine per la gestione degli open data degli enti e delle P.A. della “Grande Bergamo” individuando una partnership pubblico privata. Produzione di statistiche e di indicatori Il servizio di Statistica comunale in una logica da grande Bergamo deve in qualche misura diventare il “motore” per la produzione di dati e informazioni da fornire ai Policy maker.

SMART ENVIROMENT Acquisto di certificati RECS per la compensazione delle emissioni prodotte Tutte le emissioni di anidride carbonica prodotte dai consumi energetici della stagione artistica di “Casa delle Arti” vengono azzerate e compensate da energia rinnovabile certificata RECS, prodotta dalle centrali idroelettriche presenti sul territorio. Il meccanismo che permette l’azzeramento delle emissioni prevede che ABenergie acquisti e annulli una quantità di certificati RECS pari ai consumi che si è stimato verranno generati dalla stagione teatrale. La stagione artistica del teatro rappresenta un’importante occasione per diffondere questa sensibilità presso un numero sempre più ampio di persone.


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Avviare percorsi di confronto Avviati confronti con i diversi stakeholders interessati alle tematiche relative alla programmazione ambientale (Forum, Conferenze, incontri di informazione).

SMART LIVING

Edifici intelligenti per l’efficentamento energetico Nel settore degli edifici intelligenti concorrono tutte le tecnologie per la costruzione efficiente ed eco-sostenibile degli edifici, la gestione efficiente dell’utilizzo dell’energia, le tecnologie domotiche avanzate per il risparmio energetico abitativo e per l’interazione del singolo nucleo con la comunità. In questa area sono essenziali le capacità di progettare, simulare dinamicamente e gestire in modo ottimizzato edifici di nuova generazione (ecobuildings, smart buildings) o riconfigurare edifici esistenti anche affrontando le complesse tematiche degli edifici storici. In questo settore l’approccio è in parte sistemico ma ad un livello inferiore (sottosistema) rispetto ai due casi sopra citati ed in parte si concentra sullo sviluppo di componenti. Tecnologie di produzione energetica per il tessuto urbano Il settore delle Tecnologie di produzione energetica per il tessuto urbano (Supply Technologies) è principalmente rivolto alla componentistica per le varie tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili utilizzabili nel contesto urbano. In questo settore è presente la capacità di sviluppo, modellazione e qualificazione di prototipi, tra cui pompe di calore, solare termico e termodinamico, fotovoltaico intelligente, celle a combustibile, modellazione di sistemi di poligenerazione. SEAP e Patto dei Sindaci Piano di Azione per l’Energia Sostenibile, finalizzato a raggiungere la riduzione minima del 20% delle emissioni di CO2 entro il 2020. Piano Energetico Comunale Analisi dei consumi e delle fonti di produzione energetica del Comune di Bergamo e contestuale programmazione delle azioni per una loro riduzione od ottimizzazione.

Campagne di sensibilizzazione attraverso la missione “Penso in Verde” Il Teatro Sociale di Bergamo, di diretta competenza del Servizio Gestione Teatri Comunali del Comune di Bergamo, ha scelto, a partire dalla Stagione 20112012 di “Casa delle Arti”, di condividere la missione “Penso in Verde” di ABenergie per rispettare le risorse e per proteggere l’ambiente. Intraprendere un percorso di sostenibilità ambientale per il teatro Sociale vuole dire partire da un uso consapevole delle risorse energetiche impiegate e dall’adozione e sensibilizzazione di comportamenti ecologicamente responsabili.

Progetto per uno spettacolo teatrale, ecologico e multimediale realizzato da studenti Il progetto europeo delle Smart Cities invita le amministrazioni delle città di piccole e medie dimensioni a dotarsi di strumenti di comunicazione e organizzazione più efficienti, utilizzando al meglio le nuove opportunità offerte dalla tecnologia più avanzata, e valorizzando il risparmio energetico e l’uso di energie rinnovabili. ESPERIENZA PRINCIPALE: allestimento dello spettacolo teatrale a cura del regista Fabio Comana e liberamente ispirato a “Le città invisibili” di Italo Calvino. ESPERIENZE PARALLELE: laboratorio di scenografia applicata al riutilizzo creativo dei rifiuti, laboratorio di illuminotecnica teatrale e fonti sostenibili, il Teatro Sociale come “teatro verde”, il teatro e il web. Informatizzare l’evoluzione storica della Città di Bergamo Compatibilmente con le risorse a disposizione, potrebbe essere creata una sezione dedicata nel Geopor-


BERGAMO SMART: UNA SFIDA VERSO LA CITTÀ INTELLIGENTE

tale sulla storia urbanistica della città: già ora sono presenti ed interrogabili le mappe catastali del catasto del 1853 e del catasto di inizio ’900. È in corso di verifica con l’autrice della pubblicazione, la possibilità di inserire nel Geoportale la mappa informatizzata della città seicentesca (mappa di Alvise Cima – una delle prime mappe disegnate), in modo sovrapponibile all’attuale, per cogliere in modo immediato le differenze. Valorizzazione dell’Accademia Carrara Progetto per la predisposizione di un archivio digitalizzato on-line dell’Accademia Carrara. Innovazione all’interno dei musei tradizionali Definizione di studi e progetti di fattibilità per l’inserimento di spazi di musealità digitale nei musei di tipo tradizionale, quali il Museo di Scienze Naturali, il Museo Archeologico e l’Accademia Carrara e avvio del relativo fundraising tra soggetti esterni. Politiche sociali per l’assistenza Last Mile Riqualificare la spesa dei servizi sociali per anziani e minori, pianificando modalità smart di gestione dell’assistenza domiciliare (domotica, teleassistenza via PC/skype ecc.). Mappare la sicurezza La mappa della sicurezza stradale e dell’incidentalità, in corso di sviluppo con la Polizia locale, potrà in un secondo momento essere sviluppata e resa interoperabile con gli enti coinvolti nella sicurezza pubblica (Polizia di Stato, Protezione Civile, ecc.). Istituire corsi di formazione gratuiti per l’utilizzo di tecnologie digitali Promuovere corsi organizzati dalle scuole di ogni ordine e grado, aventi accesso gratuito per i cittadini, volto alla formazione ed informazione sulla cultura digitale. Nell’ambito del programma “Vivi Bergamo il Giovedì” mettere a disposizione una sala di Palazzo Frizzoni per ospitare presentazioni didattico/tecniche dei prodotti dell’elettronica di consumo (es. “Cos’è uno Smart-phone”, “Come si accede ad internet dal PC e dal tablet”, “Come si legge un Ebook”). Questa formazione potrebbe avvenire a costo zero, se affidata ad esercenti del settore operanti in centro ed aperti durante i giovedì sera programmati. Attrezzare le scuole con innovativi sistemi di insegnamento Sono stati istituiti degli incentivi di Regione Lombardia per il progetto “Scuola 2.0” e di Regione Lombardia con il MIUR per le LIM (Lavagne interattive multimediali).

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Applicazioni dedicate per il turismo Va messa a regime l’applicazione “Gioca” in corso di sviluppo, che permette di interrogare con supporto mobile i punti d’interesse ed i monumenti della città. Va implementata e bonificata la banca dati di Turismo Bergamo, da cui l’applicazione va a pescare le informazioni. Vanno sviluppate possibilità di accesso per gli stranieri e le traduzioni in lingua straniera delle informazioni culturali e turistiche. Mettere a punto il portale del turismo con Tecnologia 3D. Incrementare la fruibilità dei luoghi turistici Sperimentazione sulla nuova segnaletica stradale indicante siti di interesse turistico mediante l’apposizione di QRCode che rinviano a pagine internet relative ai siti di interesse segnalati. Sviluppo di Apps per smartphone per la messa a disposizione e l’acquisto online a prezzo ridotto di posti invenduti agli spettacoli teatrali. SMART ECONOMY Questa dimensione dovrà essere sviluppata con l’attiva partecipazione dei diversi enti coinvolti in rappresentanza delle imprese (industria, artigianato, commercio, agricoltura e servizi), dei lavoratori e delle agenzia di ricerca e sviluppo oltre che del sistema formativo.

La smart city non può essere considerata come punto di arrivo, ma come percorso in cui i cittadini devono essere considerati come protagonisti; mentre la tecnologia non è il fine del progetto ma solo un mezzo per migliorare la qualità di vita della nostra Comunità. Riferimenti bibliografici – “Smart cities - Gestire la complessità urbana nell’era di internet” di Michele Vianello - Maggioli Editore. – “Il percorso verso la Città intelligente” CITTALIA Fondazione Anci Ricerche – “Smart cities nel mondo” CITTALIA Fondazione Anci Ricerche.



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IL PROGETTO BERGAMO 2.(035) “UN NUOVO CONCETTO URBANO PER UN NUOVO MONDO”

1. GENESI E VISIONE DEL PROGETTO Bergamo 2.(035) è un programma di ricerca frutto della collaborazione tra l’Università degli Studi di Bergamo e la Fondazione Italcementi. Lo studio è motivato dalla necessità di concepire una visione articolata, comparativa e di lungo termine dei più rilevanti sviluppi futuri degli ambienti urbani e dei suoi territori. Questa visione costituirà l’innesco di una discussione volta a definire delle linee strategiche e identificare le leve decisionali per gestire le sfide future di una città. A differenza di altri programmi di ricerca già avviati sull’ampio tema delle smart cities, Bergamo 2.(035) è principalmente focalizzata su un contesto urbano e territoriale che è tipico di una città di medie dimensioni all’interno di un vasto territorio fortemente caratterizzato da un tessuto industriale e commerciale rilevante, ma che ha anche conservato un notevole potenziale di sviluppo dell’economia rurale. La ricerca non mira a perseguire un pensiero visionario della città del futuro, partendo da un foglio bianco, come è invece il caso delle pop-up town tipiche di alcune recenti esperienze di città sorte nella penisola araba o in Estremo Oriente, in ambienti desertici o su preesistenti zone agricole. Al contrario, l’obiettivo è di capitalizzare al meglio il patrimonio economico-industriale, certamente, ma anche quello culturale e sociale, dotazione storica di una città millenaria, che costituisce una risorsa da valorizzare per costruire il proprio futuro. In tal senso, la prospettiva storica non vuole cristallizzare l’organizzazione sociale ereditata dal secolo scorso, ma vuole ripensarla per arrivare a un modello di città concepito, oltre che per soddisfare le esigenze correnti dei propri cittadini, anche per rappresentare il contesto nel quale le nuove e future generazioni possano trovare la loro massima espressione. Bergamo 2.(035) intende mettere al centro dello studio i cittadini del futuro, evitando il rischio di fo-

calizzarsi sull’idea di cyber-city in cui la tecnologia rappresenta l’elemento pervasivo, e per certi versi, invasivo nella vita quotidiana di una comunità condizionandone fortemente le abitudini, azioni e capacità decisionali. Proprio per evitare una deriva futuristica e per certi versi utopica della città del 2035, una base di partenza importante del progetto è partire dalle esperienze, i casi di successo e di insuccesso di altri progetti simili realizzati in ambito nazionale e internazionale focalizzando l’attenzione sui cittadini di oggi: persone dotate sì di dispositivi tecnologici altamente performanti, ma anche di una piena consapevolezza del loro ruolo nella società, come parti attive e partecipative all’interno dei diversi sistemi sociali nei quali essi operano. La figura 1 sintetizza alcune di queste evidenze. Gli ambienti urbani hanno intrapreso una profonda evoluzione negli ultimi decenni: da siti ad alta intensità industriale (cresciuti spesso a dismisura in quanto poli di attrazione di manodopera per le comunità rurali) a luoghi di consumo, dove il valore delle relazioni si concentra principalmente sulla distribuzione e lo scambio di beni e servizi. Qual è il prossimo passo per una città come Bergamo? Come riportato nell’Agenda europea 2020 di Lisbona, è necessario spostare i paradigmi urbani verso un nuovo capitolo della loro evoluzione storica, in cui l’economia è basata sulla conoscenza: una conoscenza che dovrebbe emergere dal continuo sforzo di interazione collettiva di tutti gli attori portatori di interesse (i cosiddetti stakeholder) che operano all’interno di un ambiente urbano, non quindi limitata alle singole eccellenze individuali. Nella visione di Bergamo 2.(035), i cittadini sono quindi parte integrante di una classe creativa consapevole del proprio ruolo nella società, testimoni di un processo evolutivo continuo. Persone in grado di imparare continuamente, adattandosi ai nuovi contesti, cogliendo le sfide del futuro, traducendole in


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opportunità di innovazione. Prendendo come riferimento gli studi di Coe et al. (2001), Hollands (2008), Caragliu et al. (2009), l’obiettivo è quindi costruire “una città la cui comunità ha imparato a imparare, adattarsi e innovare“, un territorio con una elevata capacità di apprendimento e di innovazione, che è fondato sulla creatività della sua popolazione, sulle sue istituzioni deputate alla produzione di conoscenza, sulle infrastrutture di comunicazione tradizionali e moderne, perseguendo una crescita economica sostenibile, attraverso una governance partecipativa e una responsabilizzazione attiva dei suoi cittadini. Caratteristica distintiva di Bergamo 2.(035) è l’adozione di un approccio multi-prospettico e multi-disciplinare che coinvolge una pluralità di soggetti che mettono a fattore comune la loro progettualità, la propria visione, le proprie sensibilità ed interessi. Una città è infatti un “sistema di sistemi” che deriva dalla integrazione di prospettive complementari e dall’interazione di componenti istituzionali, socioeconomiche, e tecnologiche. L’interazione di queste componenti permetterebbe di rompere quei sili di

Fig. 1. Principali evidenze dai progetti di smart city.

conoscenza che ostacolano la creazione di un capitale sociale comune. Per perseguire gli obiettivi descritti, Bergamo 2.(035) può contare sulla presenza equilibrata e complementare di ricercatori trend-setter, con il ruolo di definire i fattori di cambiamento tendenziale che influenzeranno il prossimo futuro, e di un gruppo di ricercatori problem-solver il cui ruolo sarà quello di concretizzare queste tendenze contestualizzandole nella realtà bergamasca attraverso soluzioni sia tecnologiche, sia organizzative, logistiche, o relative a nuovi assetti produttivi o di relazione sociale. Anche se i problemi e le soluzioni indirizzate dal programma sono orientate ad una città generica di medie dimensioni, Bergamo 2.(035) non vuole astenersi dal valutare, analizzare e, infine, prototipizzare e promuovere le sue proposte progettuali anche al di fuori del contesto bergamasco. L’idea è quella di immaginare Bergamo come un laboratorio vivente aperto dove poter ideare, testare e valutare i principali risultati del progetto, rendendolo un modello per altre città di medie dimensioni, con le stesse caratteristiche urbane.


IL PROGETTO BERGAMO 2.(035)

2. I PRINCIPALI TREND Il primo semestre del progetto è stato dedicato ad una condivisione comune della visione della città del futuro. Diverse sessioni di brainstorming hanno animato la discussione tra i ricercatori al fine di trovare un consenso sulle tendenze più rilevanti che potrebbero influenzare positivamente la vita di medio-lungo periodo di un contesto urbano, come quello bergamasco. Dato il focus principale sul ruolo del cittadino nel futuro contesto urbano, quattro principali aree di indagine sono state poste sotto la lente della ricerca. 1. Verso una società urbana ad alta intensità di conoscenza - Le città moderne sono attualmente lacerate da conflitti e contraddizioni, segnate da problemi drammatici, come l’inquinamento, i rifiuti o il traffico. Esse sono caratterizzate da ampie zone di degrado umano e urbano, conseguenze dei cambiamenti drammatici nei rapporti sociali ed economici, che la città non riesce spesso ad assorbire in modo fisiologico. Le relazioni possono essere fragili e dispersive: i contatti tendono ad essere spesso impersonali, superficiali e transitori. Il pensiero critico, la partecipazione, la capacità di immaginare scenari futuri, un accesso libero e condiviso alla conoscenza sono elementi essenziali del cambiamento sociale necessario verso una idea più intelligente di una città. Un’idea di città dove una nuova società impara come utilizzare al meglio le risorse disponibili per soddisfare le proprie esigenze e risolvere i propri problemi. Le città si misureranno quindi sempre più sulla loro capacità di essere fonte di innovazione sociale e di saper attrarre capitale creativo. Ciò sarà possibile solo investendo in una economia basata sulla conoscenza e sui saperi multidisciplinari, che sia messa a sistema tra i diversi attori culturali operanti in un contesto urbano (tra gli altri, università, formazione primaria e secondaria, associazioni culturali, musei). A tal fine, l’Università potrà assumere un ruolo di “catalisi”, andando oltre il tradizionale ruolo di ente di formazione avanzata indirizzata solo ad un limitato numero di persone. 2. L’emergere di una classe di consumatori-produttori - Le aree urbane sono considerate ecosistemi di innovazione e di creazione di capacità collettive delle comunità di cittadini. Gli individui sono entità indipendenti, che mirano a soddisfare i propri bisogni, ed esprimono i propri desideri indirizzando la domanda e i propri modelli di consumo ai produttori. Nel fare questo, trasmettono il loro modo di vivere la società; sempre più oggi i consumatori indirizzano le loro scelte verso prodotti e

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imprese che si rendano interpreti di valori etici, ambientali e sociali. Oltre alle preferenze individuali, diverse forme di collaborazione stanno già emergendo nei processi di acquisto e consumo. Il successo di iniziative di condivisione come il bike sharing, il car sharing, o persino di spazi domestici testimoniano l’importanza dei fattori di sostenibilità e la crescente esigenza di condivisione di spazi e valori tra gli individui. Le città del futuro vedranno quindi sempre di più un ruolo attivo da parte dei consumatori non soltanto nell’utilizzo dei beni e servizi, ma anche nella loro produzione ed erogazione. Il neologismo “pro-sumatore” (dall’inglese “prosumer”) identifica un soggetto che interagisce con l’ecosistema nel quale opera non solo nel suo ruolo di consumatore che riceve e utilizza una soluzione offerta da un fornitore, ma come protagonista di nuove forme attive di partecipazione alla vita socio-economica di una città, attraverso la coprogettazione, la co-produzione e lo scambio di beni e servizi, interpretando al tempo stesso il ruolo di consumatore e fornitore. Esempio tipico è la diffusione dei sistemi distribuiti di micro-generazione di energia, che permettono a una comunità di cittadini di mettere a fattor comune le singole risorse produttive installate per uso domestico. Questo comporterà anche che la produzione ritornerà all’interno delle città, creando nuove forme di industrializzazione e di artigianato evoluto. In questo contesto in continua evoluzione, dove i consumatori manifestano nuove esigenze, le aziende saranno quindi spinte a loro volta a ricercare nuove direzioni per la creazione di valore. 3. Mobilità e multiscalarità - La ricerca sui sistemi di mobilità futuri viene misurata da tendenze globali che attraversano questa fase della storia: lo sviluppo delle economie e degli spazi urbani conduce ad aree urbane densamente popolate; questo fenomeno globale si intreccia con la mobilità degli individui che registra un forte incremento dei flussi migratori di cittadini poveri verso i paesi più agiati. Altro concetto fondamentale è la visione multiscalare, relativa ai diversi gradi di ampiezza di relazioni spaziali vissute da individui, ma che considera anche la rete di informazioni in cui siamo immersi in ogni momento. Modelli di mobilità di tutti i tipi attraversano e segnano i territori su tutte le diverse scale. La mobilità urbana è una zona di straordinaria sperimentazione volta a valutare le opportunità derivanti dalle nuove tecnologie per conciliare le esigenze di mobilità e di un ambiente urbano di alta qualità, che contiene una rinnovata sensibilità per l’inclusione sociale. Il futuro va quindi nella


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direzione dello sviluppo di una società dove la mobilità di beni, persone e informazioni avvenga in modo armonico e alla luce di principi di sostenibilità ambientale e sociale. In questo ambito diventeranno sempre di più pratica comune soluzioni di logistica urbana con la creazione di sistemi integrati di trasporto di beni e persone, quali piattaforme di city logistics, sistemi di condivisione di mezzi trasporto, la coesistenza di una mobilità pesante con una dolce, in una logica appunto multirete e multiscalare. 4. Il ruolo sociale delle imprese – Un’ultima area di indagine del progetto riguarda il ruolo e la responsabilità sociale delle imprese. Per responsabilità sociale si intendono non solo le responsabilità operative relative all’impatto sociale e ambientale diretto delle attività industriali e commerciali (vale a dire salute e sicurezza degli operatori, sicurezza dei prodotti e protezione ambientale), ma anche la “responsabilità di cittadinanza”, relativa al ruolo preminente che un’azienda, nel perseguire il fine di soddisfazione delle attese della propria clientela, può esercitare su questioni sociali ampie e complesse, come il benessere della comunità, la giustizia sociale, la lotta all’emarginazione e alla povertà e la tutela dei diritti umani. La capacità delle aziende di dare una risposta a queste istanze da parte di una comunità è importante al fine di ottenere legittimazione e accettazione sociale. Può generare anche benefici economici e competitivi se le principali parti interessate – quali clienti e investitori – prendono le proprie decisioni di acquisto e di investimento sulla base di valutazioni riguardanti le politiche sociali operate dalle imprese e sulla reale capacità di incorporarle all’interno dei propri processi strategici e di business. A tal proposito un trend emergente interessante è la diffusione di iniziative imprenditoriali finalizzate alla creazione di valore sociale (GEM, 2011). Imprenditori sociali cercano di contribuire alla soluzione di un problema attraverso una iniziativa imprenditoriale il cui scopo principale è quello di massimizzare il suo impatto sociale attraverso un processo di identificazione, valutazione e messa in atto di strategie e politiche finalizzate alla creazione di valore sociale.

tendenze evolutive. Il gruppo di ricerca ha pubblicato un primo report di ricerca disponibile sul sito ufficiale del progetto (www.bergamo2035.it). Il documento riporta anche le evidenze del primo workshop organizzato a ottobre 2013 con primari attori del territorio e fornitori di soluzioni al fine di condividere e discutere i primi risultati della ricerca. Obiettivo delle prossime attività è: • In primo luogo, contestualizzare i concetti individuati in azioni specifiche e contingenti, in modo da misurare il potenziale delle tendenze considerate in contesti urbani reali. • In secondo luogo, coinvolgere in modo proattivo tutti quei soggetti interessati che possano fornire idee, concetti, soluzioni ed esperienze per rendere reale ciò che è attualmente concepito come una visione o una tendenza. Per preservare una visione sistemica del territorio urbano e rurale di Bergamo sarà fondamentale coinvolgere nella discussione sul futuro di Bergamo tre attori principali: • Università, come attore di conoscenza e di ricerca; • Industria, come attore economico e motore di innovazione; • Istituzioni, Enti, Associazioni, nel ruolo di rappresentanti dei cittadini e degli interessi pubblici e privati. L’approccio descritto è incentrato su un modello di “tripla elica”: esso indica il rapporto “università – industria – amministrazione pubblica” come un complesso di sfere istituzionali interdipendenti, che si sovrappongono e si completano a vicenda lungo il processo di innovazione.

3. LE PROSSIME ATTIVITÀ DI BERGAMO 2.(035) Il focus della ricerca si è concentrato in questa prima fase del progetto sulla definizione delle

Fig. 2. I progetti dedicati oggetto della seconda fase del programma di ricerca.


IL PROGETTO BERGAMO 2.(035)

Questo modello mira a progettare una esperienza di governance inclusiva, un sistema in cui la tecnologia non sostituisce la partecipazione fisica, ma piuttosto sostiene e catalizza il coinvolgimento e la responsabilizzazione del capitale sociale degli individui. L’approccio adottato in questo programma di ricerca si basa sulla creazione di living labs, dove saranno coinvolti in modo attivo gruppi di stakeholder al fine di contestualizzare nel territorio la visione e il modello formulato all’interno di Bergamo 2.(035) e di coinvolgere le parti interessate in un processo di creazione strutturato e sistematico. La figura 2 riporta i principali progetti verticali che saranno svolti nel corso del secondo anno del progetto, sulla base delle evidenze risultanti dalla fase di analisi condotta nel primo anno.

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Bibliografia BOTSMAN R. and ROGERS R. (2010), What’s Mine Is Yours: The Rise of Collaborative Consumption, New York, HarperBusiness. CARAGLIU, A., DEL BO, C., NIJKAMP, P. (2009). Smart Cities in Europe, 3rd Central European Conference in Regional Science – CERS, 2009, pp. 45-59. COE, A., PAQUET, G. AND ROY, J. (2001). E-governance and smart communities: a social learning challenge, Social Science Computer Review, 19 (1), pp. 80-93. GEM (2011), Global Entrepreneurship Monitor Report on Social Entrepreneurship. Executive summary, GEM. HOLLANDS, R. G. (2008). Will the real smart city please stand up?, City, 12 (3), pp. 303- 320.



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FRANCESCO VALESINI

BERGAMO SMART CITY: UN SISTEMA INTEGRATO DI RETI

Il concetto di sviluppo urbano che sottende all’idea di Smart City, si fonda su una idea di sistema capace di integrare dimensioni ed elementi materiali e immateriali legati al contesto economico, sociale, infrastrutturale, culturale e tecnologico di un territorio. In quest’ambito, l’insieme integrato di interventi di sviluppo deve essere posto a sistema, per cogliere sinergie e complementarietà, anche al fine di ottenere un effetto moltiplicativo delle risorse impiegate. Con maggiori responsabilità e vincoli, allo stesso tempo, le città devono essere “lette” sempre più come motori di sviluppo nel lungo periodo, parte attiva del processo di cambiamento intelligente, grazie alla possibilità di attuare strategie pienamente integrate. Aumenta sempre più esponenzialmente l’importanza per le città di fare rete, sia attraverso piattaforme di dialogo, sia attraverso sistemi di connessioni intelligenti, per mettere a sistema le opportunità legate ai flussi di persone, dati/informazioni, merci, risorse economiche ecc. Questa capacità, sempre più richiamata anche nel nostro contesto locale, si sostanzia non senza alcune difficoltà che dovranno essere nei prossimi anni affrontate e superate. Oggi l’espressione Smart city rappresenta anche un grande ombrello terminologico che ha accolto fino ad ora soprattutto politiche, pratiche e progetti di carattere prevalentemente ingegneristico. Pensiamo alla realizzazione della rete di banda ultra larga, in via di completamento, che ha visto Bergamo fra le 20 città campione in cui sperimentarla o ad altri progetti, di minor dimensioni, come quello dello sportello telematico polifunzionale e alla rete “Bergamo wi-fi”, una serie di aree cittadine in cui poter accedere gratuitamente ad una connessione web. Lo stesso si può costatare se prendiamo a riferimento altre delle sei aree tematiche con cui si articola tradizionalmente il concetto stesso di Smart 1

city. Pensiamo a quello della Smart Environment, che ha portato alla realizzazione della rete di teleriscaldamento, un servizio di distribuzione urbana di calore, con produzione centralizzata, mediante il quale il calore sia per uso domestico che per riscaldamento, viene distribuito all’utenza direttamente sotto forma di acqua calda, inviata per mezzo di tubazioni interrate, con la conseguente disattivazione, in ciascun edificio, delle relative caldaie. Anche sull’efficientamento energetico degli edifici, altro fondamentale tassello di questa area tematica, il discorso non cambia. Con un patrimonio edilizio formato da circa 11.000 abitazioni, 7.000 delle quali in classe G, 150 in classe A, e 13 in classe A+, l’approccio sembra essere rivolto prevalentemente agli aspetti impiantistici ed infrastrutturali più che ad una visione integrata del miglioramento complessivo della qualità degli immobili stessi. Sulla Mobilità, tema decisivo per il futuro della città, gli sforzi principali sono rivolti a cercare soluzioni più vivibili ed agevoli, compatibili dal punto di vista ambientale, per ripensare il proprio modo di spostarsi nella città attraverso “l’ottimizzazione delle rotte e del trasporto intermodale con sistemi che permettano il pagamento o la prenotazione in mobilità, tecnologie Car-to-Car Communication (C2C) e Car-to-Infrastructure (C2I) ma anche sistemi integrati di gestione di car sharing, bike sharing, van sharing”1. Non sempre questi interventi, nella misura in cui sono stati finora impiegati, stanno però contribuendo al miglioramento della qualità fisica della città, ed il caso di piazzale Marconi, luogo centrale di intermodalità fra diversi mezzi di trasporto pubblico/privato, ne costituisce un eloquente esempio. La mancanza di adeguati investimenti non consente anche di aggiornare una rete infrastrutturale pubblica, su rotaia, che doveva costituire la vera innovazione di questi anni. Pensiamo non solo al collegamento con l’aeroporto di Orio al

ANCI “Osservatorio Nazionale Smart City – Bergamo”, http://osservatoriosmartcity.it/bergamo/.


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FRANCESCO VALESINI

Serio o alla tranvia della val Brembana, ma, ancor di più, al mancato collegamento della città ad una struttura pubblica di scala territoriale come il nuovo ospedale. È arrivato però forse il momento, come ci ricorda provocatoriamente Mario Calderini, presidente del Comitato tecnico delle comunità intelligenti, costituito in seno all’Agenzia per l’Italia digitale, di “rottamare le smart city”, fermare cioè una progettazione quasi esclusivamente tecnologica, per concentrarsi sui processi di innovazione sociale, fondati su una nuova idea di cittadinanza, arrivando a definire un vero e proprio statuto, “uno strumento che “obbliga” a subordinare progetti e impegni ad una visione sociale della comunità che si intende costruire e ad esplicitare quali forme di benessere si intendano garantire ai cittadini. Si tratta di uno strumento politico necessario a realizzare accountability e trasparenza”.2 Un rapporto diverso fra uomo e tecnologia che veda, proprio per la sua stessa natura di insieme di reti di connessioni aperte, in un suo diverso uso l’occasione per incentivare un’idea di governo partecipato basato sulla consapevolezza delle persone e sulla condivisione delle scelte, anche le più difficili. Una diversa idea di governance, altra area tematica che definisce l’arcipelago di termini associati a Smart City, che ponga al centro una maggior chiarezza e trasparenza nel rapporto con i cittadini, partendo proprio da quei temi legati all’urbanistica e al governo del territorio sulla quale, come architetti e pianificatori, siamo ancor più direttamente coinvolti. È auspicabile per questo che si istauri un ruolo più attivo della amministrazione pubblica, spalancando porte e finestre e aprendosi ad un confronto più partecipato su aspetti decisivi e di non facile soluzione. Pensiamo fra questi ai grandi vuoti urbani che punteggiano il tessuto della città e alla loro rigenerazione o ai diversi e numerosi contenitori storici ma anche ai piccoli interventi di quartiere, alle molteplici opere pubbliche di diversa scala, oggi quanto mai al centro della cronaca locale, sia per quanto riguarda i metodi di gestione che per una maggior qualità dei loro progetti. Il confronto non può essere però limitato, come avviene ora nella nostra città, quasi esclusivamente ai giornali. La pos-

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sibilità offerta di utilizzare uno spazio virtuale per favorire un confronto e veicolare un dibattito necessario, costituisce una delle occasioni più positive offerte dalle nuove tecnologie (vedasi l’esperienza di EcoLab) ma a nostro avviso, non sufficienti. Senza essere spinti dalla necessità di dover obbligatoriamente pensare a nuove soluzioni, l’individuazione di spazi reali, che si erano in un recente passato, individuati nella città, possono e devo essere ripristinati alla loro funzione originaria, oggi alquanto compressa. Lo rende necessario la dimensione dei problemi che abbiamo di fronte. Pensiamo in questo senso all’Urban Center e al ruolo che questo spazio può rappresentare nei processi di riqualificazione di molte aree dismesse. Non solo quale luogo di dibattito culturale e di confronto di idee ma anche, attraverso collaborazioni con importanti istituzioni cittadine come l’Università, strumento di mediazione e di prefigurazione dei progetti a scala urbana, di piccole e grandi dimensioni. Una prefigurazione preventiva e non a posteriori come frequentemente avvenuto. Gli esempi in questo senso non mancano: uno su tutti quello di Torino, città che vede una consistente presenza di aree urbane dismesse (si parla di circa 6 milioni di mq), molte delle quali riconvertite, e non a caso, in Italia, riferimento, insieme a poche altre città, sui temi delle Smart Cities. È quindi necessario un cambio di passo, che non assuma l’attuale grave condizione di crisi quale giustificazione per non valorizzare ed incentivare le molte risorse culturali e sociali presenti nel nostro contesto. Le parole di Pascal Maragall, Sindaco per molti anni di una città come Barcellona, diventata proprio sotto la sua guida, in poco tempo, una delle più interessanti realtà urbane europee, sono in questo senso eloquenti: “Non chiedetevi mai, prima di progettare il cambiamento, se ci sono i soldi per realizzarlo. Nelle pubbliche amministrazioni non ci sono mai i soldi nascosti da qualche parte che aspettano di essere spesi. I progetti devono nascere dalle esigenze di una comunità e dalla fantasia delle sue componenti attive. I soldi vengono dopo. Quanto più sarete convinti dei vostri progetti, tanto più sarete capaci di trovare le risorse”³. Questo è forse il modo davvero migliore che abbiamo di intendere una città intelligente.

FEDERICA META, “Corriere delle comunicazioni”, http://www.corrierecomunicazioni.it/smart-city/24477_calderini-rottamiamo-lesmart-city.htm. 3 FIORENZO ALFIERI con STEVE DELLA CASA (2012) “La città che non c’era”, Dino Audino Editore, Roma.


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EMILIA RIVA

TAVOLA ROTONDA: BERGAMO SMART CITY A CHE PUNTO SIAMO Contributo ing. Emilia RIVA – Presidente dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo

Anche gli ingegneri da tempo stanno riflettendo sui possibili scenari di sviluppo della nostra società e quindi anche dalle nostre città. Sono un esplicito esempio i numerosi corsi di laurea recentemente istituiti presso i Politecnici italiani, i quali hanno uno specifico indirizzo verso le Smart City. Essere “Ingegnere” vuol dire affrontare problemi concreti, cioè ideare e progettare prodotti, servizi e sistemi che corrispondano ai bisogni e ai desideri delle persone. Per ottenere questi risultati occorre il sapere e il sapere fare. Ma sono altresì indispensabili la curiosità e le capacità relazionali, cioè la voglia di capire la realtà e la disponibilità al confronto con gli altri, insieme ad una chiara consapevolezza dei vincoli di natura economica, ambientale e sociale che accompagnano il lavoro dell’ingegnere. Pertanto la proposta formativa delle Facoltà di Ingegneria è anche orientata a sviluppare quelle competenze e abilità trasversali che sono necessarie perché i futuri ingegneri possano esercitare con piena responsabilità la loro importante funzione sociale e siano in grado di confrontarsi, con competenza e creatività, con le grandi sfide della società di domani, quali la crescita demografica, la globalizzazione e interdipendenza delle comunità, gli squilibri mondiali e i potenziali scenari d’impatto ambientale e cambiamento del clima. Il concetto di Smart City sta assumendo rilevanza sempre crescente e diverse città, anche in Italia, hanno attivato progetti per accrescere la sostenibilità, offrire servizi sempre più innovativi, consentire la partecipazione attiva dei cittadini, e supportare la loro socialità tramite servizi dedicati. In sintesi: migliorare la vivibilità. Nella realizzazione di questi obiettivi il ruolo di Internet e delle nuove tecnologie ICT (Information & Communication Technology) è, chiaramente, imprescindibile. Diverse città europee hanno già attivi programmi specifici per dotarsi di soluzioni ICT che consentano di fornire tali servizi ai propri cittadini.

Fra queste, Amsterdam (http://amsterdamsmartcity.com/), Barcellona (http://smartbarcelona.cat/en/), Lione (http://www.business.greaterlyon.com/lyonsmart-city-france-europe.346.0.html?&L=1), Birmingham (http://www.digitalbirmingham.co.uk/ city/about/smart-city-commission), e altre (http://www.smart-cities.eu/index2.html). In Italia, il CNR, in collaborazione con l’ANCI, ha recentemente lanciato un programma (http://www.smartcities.cnr.it/) per dotare alcune città delle più recenti tecnologie per Smart Cities. Nel panorama Europeo (e mondiale) le Smart Cities sono quindi una delle principali realtà tecnologiche che si stanno sviluppando, e stanno generando soluzioni innovative nel campo ICT con immediata applicazione, e che, in prospettiva, hanno le potenzialità di rivoluzionare la vivibilità e fruibilità delle città come le conosciamo ora. In questi ultimi anni, soprattutto in Europa e in Italia, le varie istituzioni e i vari policy maker, nella loro ricerca di una nuova visione del futuro capace di garantire un nuovo benessere e un nuovo sviluppo nel terzo millennio, hanno individuato nella costruzione di Smart Cities una concreta e virtuosa soluzione. L’idea di Smart City nasce nel mondo ICT, inizia i suoi passi in Nord America e poi in Europa, dove oggi trova un posto di rilievo nell’Agenda Europa 2020, quindi nella Agenda Digitale Europea e nella imminente Agenda Digitale Italia. Di fatto pur avendo la Smart City un origine legata ai sistemi ICT per la digitalizzazione di una città, sta ormai assumendo un significato molto più ampio, che include l’intero “spazio” e “vita” di una città. Una accettata definizione di Smart City è: una città dove gli investimenti nel capitale umano e sociale, nei processi di partecipazione, nell’istruzione, nella cultura, nelle infrastrutture per le nuove comunicazioni, alimentano uno sviluppo economico sostenibile, ga-


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rantendo un’alta qualità di vita per tutti i cittadini e prevedendo una gestione responsabile delle risorse naturali e sociali, attraverso una governance partecipata. Le ragioni per cui si sta ritenendo importante concentrarsi sulla Smart City nasce dal fatto che tutti gli studi sullo sviluppo urbano indicano che già oggi più di 3,3 miliardi di persone vivono nelle città, che nel 2015 nel mondo ci saranno 60 città con più di 8 milioni di abitanti. Inoltre, già oggi il 45% del consumo energetico e il 50% dell’inquinamento atmosferico mondiale è a carico delle città. In generale per la costruzione di una Smart City vengono considerate le seguenti aree: smart economy, smart mobility, smart environment, smart people, smart living e smart governance. Come si vede, si tratta di aree di intervento che attengono allo sviluppo dell’Economia della Conoscenza e della Società dell’Informazione, della mobilità sostenibile, della sostenibilità ambientale (edilizia sostenibile, energia rinnovabili, gestione integrata rifiuti,ecc.), della formazione permanente, della qualità della vita (inclusione sociale, salute, sicurezza, cultura, turismo, ecc.) e dell’E-government/Wiki-government. La costruzione di una Smart City è un problema molto complesso, perché richiede la realizzazione di un profondo processo di trasformazione e innovazione delle infrastrutture materiali e immateriali, del modo di vivere delle persone, del modo di trasformare o progettare gli spazi urbani, dell’economia e del modo di governare. Il tutto ha l’obiettivo di costruire una comunità in grado di vivere e competere nel mondo globalizzato. Non si tratta, quindi, solo di trovare soluzioni tecnologiche e ingegneristiche che portino alla realizzazione di sistemi in grado di gestire in modo cooperativo tutte le funzioni vitali di una città, ma anche di operare in modo interdisciplinare per dar vita ad una nuova realtà sociale. In altri termini la sfida che si ha davanti è quella di creare delle comunità che hanno nel loro nuovo DNA la Social Innovation. Si tratta di comunità fondate sulla condivisione di valori etici e su una democrazia partecipata, abituata al cambiamento delle regole e capaci di impiegare le innovazioni tecnologiche offerte dalla scienza e dall’ingegneria. Altre volte l’Europa e l’Italia si sono dati obiettivi ambiziosi, raggiungendoli solo in parte. Ma questa volta la sfida è di quelle che segnano la permanenze nel mondo sviluppato e quindi non si può fallire. A tal fine è necessario evitare che la mancanza di una precisa visione strategica, la frammentarietà e la poca sistematicità degli interventi e dei progetti, l’assenza di una governance efficace basata sul coinvolgimento di tutti gli attori interessati, portino a risultati insod-

disfacenti. Sicuramente il contributo dell’ingegneria, e non solo quella legata all’ICT, è di fondamentale importanza. Ma come ha dimostrato lo stesso convegno del CNI e dell’Ordine Ingegneri di Napoli sulle città del futuro del 14/04/2012, gli ingegneri si sentono già impegnati in questa sfida sia sul piano tecnico sia su quello sociale, consapevoli dell’importanza che essa rappresenta per sviluppo socio economico del nostro Paese. L’Ordine degli ingegneri di Bergamo vuole essere parte attiva nel dibattito culturale che si sta sviluppando nella nostra città. Dibattito promosso da ICONEMI in modo lodevole con questo ciclo di conferenze. Organismo ideato dall’arch. Maria Claudia Peretti e sostenuto dal Comune di Bergamo con il patrocinio e contributo di tre ordini professionali, architetti, agronomi, ingegneri e dell’Università di Bergamo. Da questo dibattito ci si aspetta lo sviluppo di una cultura e sensibilità in ogni persona, in ogni cittadino, verso il territorio ed il paesaggio che ci circonda. È per noi importante rivedere il concetto di Smart City anche sotto il punto di vista della donna. Così come è emerso a “Smart Communities, genere, inclusione - Verso una Definizione Operativa Condivisa di Smart City Gender+” tenutosi a Bologna il 29 ottobre 2012”, noi ingegneri pensiamo che “… Le prospettive di trasformazione dei contesti urbani e dei territori propongono modelli di sviluppo nei quali le ICT più avanzate possano ridisegnare i modelli di mobilità, uso del tempo, sostenibilità ambientale, integrazione tra servizi, comunicazione e interazione tra pubblica amministrazione e cittadini. Risulta impensabile andare in questa direzione in assenza di prospettive inclusive e metodi partecipativi proprio nel momento in cui si mettono in cantiere cambiamenti profondi e scenari futuri di nuove vivibilità dello spazio pubblico. Compiere scelte strategiche sui nuovi modelli di città e comunità territoriali interconnesse deve implicare un’attenzione forte ai bisogni reali, ai punti di vista, alle voci e agli interessi di chi la città vive e abita, pena un aumento considerevole dei rischi di scarso impatto o di costose infrastrutturazioni prive di reale utilizzabilità da parte dei cittadini. Un’intelligenza dialogante e inclusiva dovrebbe essere al cuore del concetto di ‘smart’ communitycity e inevitabilmente partire dal porre attenzione ai bisogni e alle prospettive delle donne. Perché Smart&Equal vuol dire partire dalle donne e dalle differenze tra le donne per ricercare la dimensione inclusiva delle comunità intelligenti; ossia:


TAVOLA ROTONDA: BERGAMO SMART CITY A CHE PUNTO SIAMO

• Le donne rappresentano oltre la metà della cittadinanza e sono spesso sottorappresentate sia nei contesti decisionali della politica che in quello ICT, proprio i due mondi che contribuiscono a forgiare il futuro ‘smart’ delle nostre comunità. • La fruizione degli ambienti urbani e dei territori da parte delle donne pone all’attenzione alcune specificità, specie sul piano della modelli di mobilità in relazione a diverse articolazioni dei tempi di vita-lavoro e su quello della sicurezza. • Le donne, sulle quali nel nostro modello ‘mediterraneo’ di società e di welfare purtroppo ricade ancora oggi la maggior parte del carico di lavoro di cura, sono spesso anche i soggetti più vicini ai bisogni della popolazione infantile e delle persone non autosufficienti e sono per questo osservatrici attente oltre che utenti privilegiate dei servizi di e-education e e-health. Per motivi analoghi legati ai ruoli tradizionalmente imposti, le donne italiane e migranti da posizioni differenti, hanno un ruolo chiave nell’orientare i modelli di consumo (energetico e non) dei nuclei familiari. • Una Smart City Gender+ è orientata dalla tensione verso un modello di città e di qualità della vita differenti rispetto a quelli prevalenti: le donne sono nella posizione migliore per aver presenti i limiti dell’ipertrofia della sfera del lavoro remunerato rispetto alle altre dimensioni del vivere. Occorre capovolgere il modo di ripensare la città e la mobilità prendendo il buono che le tecnologie possono mettere a disposizione pensando ad un futuro in cui non dovrà più essere necessario attraversare con lunghi spostamenti la città per lavorare, imparare, accedere ai servizi. Servizi di smart work, smart education and smart e-health devono servire a questo scopo”. Anche gli ingegneri sono consapevoli che devono cominciare ad occuparsi di un luogo definendo i nostri compiti per capirlo, per governarlo, per farlo crescere sempre più in rapporto con le aspettative di chi ci vive e di chi lo visita. Ognuno con le specifiche competenze professionali può e deve partecipare attivamente con le proprie idee e proposte. Senza pregiudizi di campo e/o di competenza. “L’accresciuta attenzione alla dimensione etica in tutti i campi della vita sociale è una conseguenza delle profonde trasformazioni che stanno avvenendo in questi anni: da una parte il processo di democratizzazione fa sì che ciascun cittadino si senta coinvolto in prima persona nei problemi etici che

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riguardano l’umanità intera, dall’altra i principi e le regole etiche tradizionali vengono sottoposti ad un radicale riesame, per stare al passo con i profondi mutamenti introdotti dagli sviluppi delle conoscenze tecnico-scientifiche e biomediche. Politica, relazioni sociali, organizzazioni aziendali, distribuzione delle risorse e degrado ambientale, sono campi investiti dalla riflessione etica poiché il carattere generale e necessario dell’etica obbliga a non escludere dalla sua sfera nessun aspetto della vita umana. Nella situazione attuale non può esistere sviluppo senza un’etica che orienti l’agire umano, poiché lo sviluppo è un processo integrale che riguarda aspetti politici, economici, sociali e culturali. Se tale processo non viene orientato da contenuti e obiettivi etici, lascia questioni insolute e produce risultati controversi”. (Guido Lazzarini, 2007)

Gli ingegneri si sentono in prima fila nel processo di trasformazione delle città, in particolare della nostra città, con un’idea molto chiara e ben definita di eco-sostenibilità. Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri, già dal 2011 aveva preparato un documento: la “Carta ecoetica dell’ingegneria italiana” per segnalare il profondo interesse e la sensibilità del mondo dell’Ingegneria verso i complessi cambiamenti sociali, culturali, economici, energetici e politici che stiamo vivendo. È stato più volte segnalato anche nei vari interventi che, nell’arco di circa un secolo, tutto intorno a noi è cambiato e continua a cambiare ad una velocità tale che quello che è successo ieri ci sembra già antico. Accanto a figure ingegneristiche specializzate in specifici settori tecnologici, aumenta la necessità di ingegneri capaci di fare da interfaccia e far dialogare al meglio la componente tecnologica e quella socio/organizzativa nelle imprese e nelle istituzioni. Le competenze gestionali non sono dunque semplici competenze accessorie o trasversali, ma la loro efficace attivazione richiede una formazione specifica e il presidio da parte di figure professionali ingegneristiche ad hoc. (Mario Raffa, - L’ingegnere oggi tra azienda e società – Atti II° Convegno AISING) Si riporta un assunto contenuto nella “Carta ecoetica dell’ingegneria italiana” che l’Ordine degli Ingegneri di Bergamo ha fatto propria. Al punto 3 di pagina 27, dove si parla di “Ingegneria e sostenibilità” testualmente viene scritto: “... L’ingegneria, in forza dello suo patrimonio di conoscenze teoriche e pratiche, del suo patrimo-


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nio di abilità e del suo potenziale inventivo e creativo, costituisce una delle primarie dorsali attraverso cui è possibile dare concretezza al miglioramento della sostenibilità dello sviluppo umano. E ciò anche in considerazione della circostanza che l’Ingegneria ha la possibilità di operare (al fine di contenere e ridimensionare gli impatti diretti e in-

diretti di opere, beni, processi e servizi) intervenendo sin dalle fasi progettuali sull’efficienza e sulla sostenibilità del loro ciclo completo di vita; ovvero, intervenendo sulle modalità con le quali essi vengono concepiti, realizzati, utilizzati, mantenuti e riparati, modernizzati e infine dismessi e/o demoliti e/o riciclati”...


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SMART CITY, UNA SFIDA CHE PARTE DAI NUOVI CITTADINI

Si fa presto a dire Smart, e ancora prima a rimanere prigionieri di slogan e luoghi comuni. La tentazione di affrontare (e liquidare) il concetto, molto attuale e contemporaneo, di “Smart city” come una città ipermoderna e tecnologica è molto forte, e anche relativamente facile. Quasi automatico. Un po’ di hi-tech qua e là, qualcosa a metà tra “Truman Show” e il “Grande fratello” (anche orwelliano, perché no…) ed il gioco è fatto. Ma sarebbe tanto semplice quanto limitativo. Essere “smart” non può ridursi ad una mera produzione di app utili ad affrontare questo o quel problema: servono anche queste, per carità, ma è necessario uscire da un approccio quasi meccanicistico della questione, un po’ ingegnerizzato, del tipo “problem solving”. Essere smart vuol dire gestire meglio le risorse esistenti, metterle in rete in modo proficuo e funzionale: “Essere smart non vuol dire esserlo più degli altri, ma fare meglio quello che c’è. Quindi, partiamo da un’analisi onesta e modesta dell’esistente, e non parliamo di smart city, ma di citizens” per usare le parole dell’antropologa Cristina Grasseni, docente all’Università di Bergamo. Un approccio, il suo, illuminante: “Smart è un concetto già fin troppo di moda. Ci sono una serie di parole chiave diventate slogan: il problema è quando restano vuoti”. Un rischio assolutamente concreto nel mezzo di meccanismo che, alla ricerca del colpo ad effetto, triturano ogni cosa senza distinzione alcuna: la sfida, in sostanza, è quella di leggere un territorio per permettergli di funzionare meglio. Oscillando, vagamente sospesi, tra due visioni un attimo massimaliste: capire tutto senza fare niente, fare tutto senza capire niente. Invece dobbiamo capire e fare qualcosa, e sarebbe già un grande risultato. E allora partiamo dai numeri, che se da un lato non spiegano tutto, dall’altro cominciano a far intravedere qualcosa. Per esempio il fatto che essere smart va di pari passi con le condizioni socioeconomiche di un Paese da sempre diviso in due. E che si conferma tale anche su questo tema, basti pensare che secondo

i dati dell’ICity Rate (classifica delle città smart elaborata da Forum Pa), la prima città del Sud è Cagliari, posizione numero 47. Sul podio ci sono realtà modelli di efficienza a 360 gradi, per cultura e disponibilità economiche: Trento, Bologna e Milano. L’anno precedente l’ordine di classifica vedeva Bologna, Parma e Trento. Bergamo è al 18° posto, stabile, senza infamia e senza lode: nella parte alta della classifica e nella prima metà delle città del Nord. La seconda in Lombardia dietro Milano e davanti a Brescia, che si colloca in posizione numero 21. Una classifica che, mutuando le parole di Gianni Dominici, direttore generale di Forum Pa, aiuta a capire “quali siano i punti di forza e debolezza di ogni territorio, in un contesto dove la crisi si fa sentire sui livelli occupazionali, la qualità dei servizi e l’economia: dati controbilanciati dal miglioramento dei livelli di governance e del capitale sociale”. Cominciamo con le dolenti note: sul versante ambientale, Bergamo scivola dal 57° al 61° posto: la peggiore performance della classifica. Per quanto riguarda la dimensione economica, meno 4 posti anche qui: dal 19° al 23°. Male anche la governance, ovvero la gestione della cosa pubblica e la trasparenza nei confronti dei cittadini, dove Bergamo scivola dalla posizione 14 alla 21. E peggio ancora al capitolo qualità della vita, dove scivola dalla 25ª alla 33ª, perdendo ben 8 posti. Tutto male, insomma? Non proprio. Fermo restando che nonostante questi risultati parziali negativi, Bergamo resta comunque tra le prime 20 del Paese, la mobilità vede l’ingresso nella top ten: 9° posto con 3 posizioni in più. Meglio ancora, in termini di posizioni scalate, sul capitale sociale: 9 posti in più, dalla 57ª alla 48ª. Tirando le somme, il cammino di Bergamo verso una dimensione “smart” sembra ancora all’inizio, e l’approccio può essere sostanzialmente di due tipi: bottom-up o top-down, ovvero dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso. L’esperienza de L’Eco Lab va nella prima direzione: per circa un anno, L’Eco di Bergamo in collaborazione con l’Università e Ip-


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sos ha invitato gli abitanti del capoluogo e dell’hinterland a far sentire la propria voce, coinvolgendoli in un percorso verso quelle smart cities che l’Ue ha individuato come modello di riferimento per lo sviluppo urbano dei prossimi decenni. Nel 2011 il commissario europeo per l’Energia Günter Oettinger le aveva definite «comunità intelligenti», che tendano a soluzioni «integrate e sostenibili, in grado di offrire energia pulita e sicura a prezzi accessibili ai cittadini, riducendo i consumi e creando nuovi mercati». Qualcosa capace di andare oltre i classici schemi dello sviluppo urbano. Perché queste città comprese tra le 100 e i 500 mila abitanti hanno insite una flessibilità capace di rendere appunto “smart”. Ovvero ecologiche ma moderne, dinamiche ma attente alle nuove realtà sociali, intelligenti e capaci di guardare alla propria storia come patrimonio inalienabile.

Il percorso si è concluso lo scorso novembre con l’elaborazione di una serie di proposte concrete che sono state consegnate ai candidati alle prossime elezioni amministrative. Dalla trasformazione della linea Ponte-Seriate in metropolitana leggera, passando per la necessità di una progettazione sul lungo periodo e a vasta scala, l’incentivazione dei Last minute market, informazioni interattive per i turisti (e non solo) e la mappatura del ricco associazionismo presente: sono solo alcune delle proposte, le più votate, di un percorso che ha toccato la mobilità, l’urbanistica, i temi green, il sociale e la bellezza. Tante citta, una città, ma soprattutto tanti cittadini che L’Eco Lab ha chiamato a dire la loro con un obiettivo ambizioso: scrivere insieme (e non farsi dettare) l’agenda del futuro. Perché prima di una smart city ci sono i cittadini: o meglio, ne sono una condizione essenziale.


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Finito di stampare nel mese di settembre 2014


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