Iconemi2016 PAESAGGI DELLA CREATIVITA'

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Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”

QUADERNI 29

ICONEMI alla scoperta dei paesaggi bergamaschi

Paesaggi della creatività L’Arte Pubblica per la rigenerazione sociale e territoriale

BERGAMO UNIVERSITY PRESS

sestante edizioni


Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”

QUADERNI 29

Paesaggi della creatività L’Arte Pubblica per la rigenerazione sociale e territoriale

a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi

BERGAMO UNIVERSITY PRESS

sestante edizioni


Con il contributo

Comune di Bergamo

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Bergamo

Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo

© 2017, Bergamo University Press Collana fondata da Lelio Pagani, diretta da Emanuela Casti ICONEMI 2016. PAESAGGI DELLA CREATIVITÀ. L’ARTE PUBBLICA PER LA RIGENERAZIONE SOCIALE E TERRITORIALE a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi p. 88 cm. 21x29,7 ISBN – 978-88-6642-260-0

Segreteria organizzativa: Renata Gritti www.iconemi.it

In copertina: Immagine di Francesca Perani.


INDICE

MARIA CLAUDIA PERETTI Dentro la spazio pubblico. Arte e creatività per la rigenerazione urbana ....................................

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ALESSANDRA PIOSELLI Pratica artistica, spazio urbano e cittadinanza ..............................................................................

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PAOLA TOGNON Urban space e l’esperienza di Contemporary Locus ......................................................................

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CARLO SALONE Il ruolo ambivalente delle pratiche culturali nella rigenerazione urbana .....................................

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EMANUELE GALESI Vent’anni di Padania .......................................................................................................................

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DAVIDE PAGLIARINI Le città e gli specchi ........................................................................................................................

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MANUELA BANDINI L’arte nello spazio pubblico: esperienze internazionali .................................................................

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ALESSANDRO SCILLITANI - LORENZA FRANZONI Aperto al pubblico - Trasloco Popolare Intervento del Teatro dei Quartieri di Reggio Emilia ....................................................................

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LUCIANO PANTALEONI L’esperienza del Quartiere Coriandoline a Correggio ...................................................................

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DAVIDE PANSERA - PIGMENTI Arte e territorio: spazi e cittadini in trasformazione .....................................................................

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BARBARA VENTURA Occupazioni a tempo determinato / La potenza dell’effimero .......................................................

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STEFANO COZZOLINO Spazio pubblico e periferia. L’esperienza di Boccaleone Open Space nell’area del viadotto a Bergamo ..................................

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FRANCESCA GOTTI Zenith - La città rimossa .................................................................................................................

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VALENTINA CARRARA - MARTA SAVOLDELLI Le esplorazioni urbane di Croce e Punto ......................................................................................

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L’archivio di Iconemi ......................................................................................................................

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MARIA CLAUDIA PERETTI

DENTRO LO SPAZIO PUBBLICO. ARTE E CREATIVITÀ PER LA RIGENERAZIONE URBANA

Cosa intendiamo dire quando usiamo il termine ‘spazio pubblico’? Termine ricorrente nelle discipline che si occupano di città e territorio che se ne servono per indicare uno dei temi portanti delle politiche urbane? È una parola che leghiamo a concetti comuni o che evoca in ciascuno di noi significati diversi, variabili e soggettivi? Che rapporto c’è tra la parola ‘spazio pubblico’ nel linguaggio di un urbanista, di un antropologo, di un giurista o di un artista di strada? Di un senzatetto, di un extracomunitario, di una casalinga, di uno studente pendolare, di un anziano, di un giovane o di un bambino? Dove inizia e dove finisce lo ‘spazio pubblico’? Che forma ha il confine che lo separa dallo ‘spazio privato’? E ancora: a chi appartiene lo ‘spazio pubblico’? È di tutti, di nessuno, di qualcuno? È di chi lo attraversa, di chi risiede, di chi lo usa, di chi lo ricorda? È un problema di appartenenza materiale e giuridica, o di ruolo, di attribuzione? È un luogo di libertà individuale o di regole condivise? Possiamo farci quello che vogliamo oppure soltanto quello che possiamo? Chi se ne prende cura? Tutti, nessuno, qualcuno? Quali sono gli strumenti più adeguati per decidere la forma, i modi, gli usi dello ‘spazio pubblico’? Si può e in che modo costruire lo ‘spazio pubblico’ seguendo processi partecipati e aperti al contributo reale e non formale e burocratico dei cittadini? I centri commerciali che accolgono la folla dei consumatori possiamo considerarli ‘spazio pubblico’? Sono soltanto alcune delle domande che l’edizione di Iconemi 2016 ha posto sollecitando lo sguardo speciale e specifico dell’arte pubblica e in generale dell’azione creativa dentro la città. In realtà, se l’idea di ‘spazio pubblico’ si presta a molteplici declinazioni, anche la parola ‘arte pubblica’

viene usata per catalogare e definire esperienze molto diverse tra di loro, sia per gli strumenti e le forme espressive utilizzate, che per gli obbiettivi e la cornice di senso entro cui l’episodio artistico si esplica. È la stessa parola ‘pubblico’ a trasformarsi nei diversi contesti disciplinari. ‘Pubblico’ può essere un attributo riferito al titolo di proprietà per individuare ciò che non appartiene al ‘privato’ ma, per esempio, alle Istituzioni. ‘Pubblico’ può essere un attributo che qualifica, indipendentemente dal titolo di proprietà, un servizio erogato, il ruolo svolto da uno spazio. ‘Pubblico’ può riferirsi alla committenza e quindi a chi ordina e paga l’azione creativa: anche se per committenza, è possibile e frequente intendere il soggetto sociale allargato al quale l’azione creativa viene rivolta, indipendentemente dal soggetto che paga e promuove. Ma ‘pubblico’ può anche connotare l’appartenenza al sentire comune, la capacità di trasmettere e incarnare simboli riconosciuti, di comporre l’identità che caratterizza i luoghi, di sostanziare gli iconemi dei paesaggi. Assumendo questo punto di vista è ‘pubblico’ ogni segno che compone la ‘scena urbana’, perché appartiene alla percezione di tutti e quindi partecipa (consapevolmente o meno) alla rappresentazione di un sistema di valori allargato, rispetto al quale ogni azione, anche se individuale e privato, si interfaccia, riguardando la collettività. Nel teatro del mondo, ‘pubblico’ è il ruolo degli attori sulla scena, ma anche degli spettatori che, osservando, emozionandosi e ragionando, attribuiscono senso. (Turri, E.) Seguendo questa traccia di ragionamento si tende sempre più spesso a sostituire la definizione ‘bene pubblico’ con quella di ‘bene comune’. Anche il paesaggio (dentro il quale inserisco senza dubbi ciò che sopra ho chiamato ‘la scena urbana’), è un ‘bene comune’ della coscienza collettiva indipendentemente dall’appartenenza proprietaria e superan-


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MARIA CLAUDIA PERETTI

do il diritto individuale e il singolo interesse: questo è implicito nell’art. 9 della Costituzione italiana che pone tra i propri valori fondativi la tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione. Il termine ‘tutela’ contiene la dimensione del rispetto e quella della responsabilità, entrambe basate sulla consapevolezza e sulla cultura: in altre parole propone un modello di attenzione profonda verso qualcosa che è una ricchezza di tutti non sacrificabile per interessi e motivazioni parziali. Lo spazio urbano nel suo complesso è perennemente attraversato da fenomeni e interessi divergenti e in forte tensione reciproca: è quindi inevitabilmente uno spazio di conflitto. Il conflitto che attraversa lo spazio pubblico riguarda diversi livelli, può avere la sua origine nell’attrito tra le regole imposte e la libertà individuale, tra funzioni incompatibili, ma anche tra simboli e rappresentazioni, tra bisogni e desideri antagonisti. In questa fase storica per esempio, diventa sempre più evidente il conflitto tra la necessità di controllo (qualcuno parla di militarizzazione) motivata dal bisogno di sicurezza che tende a selezionare, escludere, catalogare, sorvegliare, regolamentare ogni parte dello spazio urbano e, sul fronte opposto, la forza incontenibile e pervasiva dell’azione dei movimenti dal basso e da fuori le Istituzioni che si riprendono con usi e pratiche alternative la città, la sua fisicità, il diritto ad abitarla con il proprio corpo, con la propria capacità di autocostruzione e con i propri contenuti.1 1

Negli ultimi anni abbiamo visto lo ‘spazio pubblico’ diventare cuore pulsante dei nuovi movimenti, dalla piazza Tahir della rivoluzione araba, allo Zuccotti Park di Occupy Wall Street, al Gezi Park di Instanbul, all’occupazione delle strade di Hong Kong da parte degli studenti e dei loro ombrelli. La riconquista della città può avvenire partendo da situazioni marginali, luoghi abbandonati e rimossi dalla percezione collettiva, oppure da spazi altamente simbolici e centrali, laddove, nella città delle regole, è prevista una fruizione predeterminata e ‘passiva’2 da parte delle persone e dove quindi usi diversi e autoorganizzati sono già di per sé un contenuto capace di generare forti reazioni. L’instabilità e la mutevolezza che caratterizzano lo spazio pubblico lo rendono luogo privilegiato di sperimentazioni finalizzate alla ricomposizione e alla coesistenza equilibrata delle differenze, alla rielaborazione dei diritti e dei doveri, all’aggiornamento costante delle Istituzioni. In generale, l’impatto della crisi che stiamo attraversando ha generato e accellerato l’urgenza di nuove soluzioni e di nuove progettualità alimentate da una rifondata coscienza – sociale e ambientale –, che spesso assume come tema per affermare nuove pratiche e nuovi modelli proprio la riconquista collettiva dello spazio pubblico. L’architettura stessa è chiamata al ripensamento profondo del proprio ruolo, consapevole di non essere una disciplina ‘neutra’ e puramente tecnica, ma uno strumento potente al servizio di qualcosa e di qualcuno: la Biennale di Alejandro Aravena – Reporting from

Mentre l’urbanistica delle prassi correnti rimane sostanzialmente impermeabile alla stratificazione umana dei territori abitati, per raccontare la tensione sociale che percorre lo spazio pubblico contemporaneo sono molto interessanti letture che provengono dal mondo della sociologia e dell’antropologia urbana. Per esempio, mi piace qui ricordare – (per averli sentiti recentemente in due conferenze tenute a Bergamo durante il Festival della Pace-2016) la tesi di Franco La Cecla – che parla di lobotomizzazione progressiva degli abitanti urbani, condannati allo spaesamento continuo nell’ambiente in cui vivono senza poterlo mai determinare –: intrecciata con quella di Saskia Sassen che presentando il suo ultimo libro ha raccontato il processo di espulsione di fasce sempre maggiori di popolazione da diritti fondamentali come quello di abitare la città, all’interno del modello di sviluppo degli ultimi anni affidato all’azione prepotente e vorace dei gruppi del real estate che controllano l’economia e la finanza globale e che si muovono con l’obbiettivo non di creare valore, ma di estrarre valore, soprattutto valore umano e sociale, dietro interventi di ‘belle facciate’ e ‘rigenerazione’ delle città globali. Sassen S. (2015), Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino, Bologna. Tra i numerosi testi di La Cecla F. (1988), Perdersi: l’uomo senza ambiente, Laterza, Bari. (1995), Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare,Elèuthera, Milano. (2008), Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino. (2015), Contro l’urbanistica, Giulio Einaudi Editore, Torino. 2 A proposito di Zuccotti Park e della sua occupazione da parte del movimento Occupy Wall Street è significativo capire che si tratta di un parco che appartiene a una società privata – la Brookfield Properties – concesso in uso al pubblico: questo fu uno dei motivi che all’inizio dell’occupazione impedì alla polizia di sgomberare gli occupanti essendo sull’area in vigore il regolamento voluto dal proprietario che consentiva l’uso pubblico senza limitazione per 24 ore al giorno. È pure significativo leggere il commento della Brookfield Properties al clamore mediatico suscitato dall’occupazione: ‘Zuccotti Park is intended for the use and enjoyment of the general public for passive recreation. We are extremely concerned with the conditions that have been created by those currently occupying the park and are actively working with the City of New York to address these conditions and restore the park to its intended purpose.’ https://www.dnainfo.com/new-york/20110928/downtown/zuccotti-park-cant-be-closed-wall-street protesters-nypd-says Lo spazio pubblico destinato alla ricreazione passiva è proprio ciò che viene negato dai movimenti che contestano.


DENTRO LO SPAZIO PUBBLICO

the front – offre una stimolante e ricca casistica di esempi che operano in questa direzione, spesso marginale e periferica rispetto alle geografie del potere, lontana anni luce dal formalismo autoriferito e di maniera, ma tenacemente e umilmente alla ricerca di senso.3 Su un versante opposto a quello dell’autodeterminazione dal basso e della cittadinanza attiva, lo spazio pubblico, in quanto asse portante della scena urbana, è anche il luogo più significativo ed efficace dove rappresentare e proiettare l’immagine della città ‘forte’, la sua identità mediatica nel circuito della circolazione planetaria: lo story telling in questo caso segue una trama completamente diversa, appoggiata su icone e brand che ignorano le differenze topiche e si espandono in una narrazione che attraversa l’iperterritorio del consumo, della pubblicità e del marketing urbano, spinta da un approccio competitivo finalizzato a conquistare quote di mercato nell’economia globalizzata. Nella gara tra le città per attrarre flussi di persone e di denaro le regole di ingaggio sono quelle dei grandi eventi e dei record, i cicli temporali sono brevi e dettati dalla dimensione del transitorio che alimenta e consente l’eterno presente del consumo. (Augè M.) Immersa nello spazio urbano, a sua volta l’arte pubblica è contesa tra due tendenze fondamentali: – da una parte le pratiche artistiche si schierano e prendono posizione all’interno del complesso sistema delle tensioni sociali, producendo forme di attivismo, di impegno, di ‘resistenza’ caricate di significati politici più o meno accentuati e conflittuali. L’arte tende in questo caso a costruire processi e non oggetti, offre le proprie competenze per ri-generare partecipazione, relazioni, comunità. L’artista lavora quindi in una dimensione locale, minuta, fortemente umana, analizza i contesti spaziali e sociali, pronto a coglierne le patologie, ad evidenziarle con la propria coscienza critica, ma anche a curarle, proponendo alternative attraverso la reificazione di un nuovo immaginario. – dall’altra parte l’arte svolge il compito di dare

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forma e immaginario alle nuove icone globali: in questo caso, seppur con linguaggi contemporanei, l’arte pubblica reinterpreta la dimensione del monumentalismo e del decorativismo per celebrare i nuovi potenti e i loro simboli. Le due tendenze, seppur antitetiche, spesso si intrecciano e si sostengono reciprocamente e sono compresenti nelle politiche urbane della stessa città. A volte la tendenza ‘forte’ è la via possibile per trascinare conseguenze per le fasce ‘deboli’, per attrarre investimenti che possono essere riversati nella realizzazione di infrastrutture e di servizi sociali. E qui si colloca l’ascesa che il tema della cultura e della creatività (e quindi dell’arte in una dimensione più dilatata) ha avuto dentro l’economia postindustriale degli ultimi 15 anni. La classe creativa, per come la definisce Richard Florida nel suo celeberrimo libro ad essa dedicato4, è la risorsa chiave della soft economy, la materia prima dello sviluppo e della crescita e come tale deve essere attirata dalle città che competono per accaparrarsi il meglio del capitale umano. Secondo Florida per alimentare la creatività le città devono rendere facile e accessibile l’interconnessione che è contemporaneamente tecnologica e sociale: reti digitali agili ed economiche, centri di ricerca avanzata e università per produrre scambi di saperi altamente qualificati, ma anche apertura alle differenze, accoglienza e libertà. Perché la creatività si nutre di differenze e di relazioni, nasce dove è possibile l’incontro di linguaggi e di persone. Creatività diventa in generale sinonimo di un approccio trasformativo, progettuale e innovativo dentro il quale le discipline si sovrappongono e gli artisti si intrecciano con i designer, gli architetti, i landscapers, i registi, ma anche con i programmatori di software, gli ingegneri, gli scienziati, gli stilisti e i cuochi. Insomma creatività è l’attitudine a generare idee e innovazione e pure ad interpretare la propria identità, vivendo liberamente anche stili di vita non convenzionali.5 La lettura fatta da Florida ha dovuto via via confrontarsi con contributi e pensieri divergenti6: la crisi

3 Reporting from the front. 15° Biennale di Architettura di Venezia, dal 28 maggio al 27 novembre 2016. Particolarmente significativo rispetto ai temi qui trattati e al panorama nazionale, l’allestimento del Padiglione Italia dal titolo Taking care. Progettare per il bene comune curato dal gruppo TAMassociati. 4 Florida R. ( 2003), L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano. 5 Richard Florida propone uno schema interpretativo della competitività dei sistemi urbani basato sulle 3T ovvero, Talento, Tecnologia e Tolleranza. Per quanto riguarda il termine Tolleranza esso indica l’attitudine ad accogliere diversità sia etniche che culturali e misura quindi l’apertura di un sistema sociale e la possibilità per le idee di trovare spazio e circolare e confrontarsi liberamente senza incontrare resistenze a priori e pregiudizi. Tra i misuratori del grado di tolleranza vengono indicati la presenza di immigrati, di minoranze e di gay: tali presenze non sono in sé sinonimo di una società creativa, ma di una società aperta all’interno della quale è più facile e probabile che la creatività possa svilupparsi. 6 Alberto De Nicola A. / Vercellone C. / Roggero G. (2007), Contro la creative class http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it Niessen B.M., (2007) Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni, working paper UrbEur PhD Università diMilano Bicocca. https://boa.unimib.it/retrieve/handle/10281/12326/14575/Citta%20Creative%20-%20Niessen.pdf


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MARIA CLAUDIA PERETTI

degli ultimi anni ha reso evidente la necessità di ridisegnare complessivamente il modello di sviluppo competitivo in cui siamo immersi per arginarne le conseguenze insostenibili sul piano sociale e ambientale. La classe creativa da lui descritta, sostanzialmente amorale e individualista, ci appare oggi più come la conseguenza di un mondo che non funziona, piuttosto che come la soluzione possibile dei problemi. La centralità dell’azione creativa è comunque la base concettuale e retorica sulla quale si sono moltiplicate (alle diverse scale di programmazione e di governo) le politiche che intendono la cultura come leva per il rilancio delle città e della loro economia, agganciandola alla promozione turistica e alle nuove forme di consumo tra materiale e immateriale. Eventi, festival, rassegne… si susseguono ormai con grande frequenza nella programmazione degli enti territoriali a vari livelli, favoriti dai programmi banditi dagli organismi internazionali e dalla possibilità di ottenere finanziamenti che, a partire dall’attivazione di iniziative culturali, consentono anche di realizzare infrastrutture e politiche sociali. In un clima di crescente penuria delle risorse, il ‘transitorio’ viene interpretato come leva per generare permanenze, per migliorare i sistemi di trasporto, le dotazioni di servizi, la qualità estetica delle città e dei loro quartieri, la partecipazione dei cittadini e le nuove forme di cittadinanza attiva.

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Pensiamo al programma UE per la Capitale europea della Cultura7 e al programma derivato per la Capitale italiana della cultura, oppure al network Città creative dell’UNESCO che nasce nel 2004 con lo scopo di mettere in rete città che hanno fatto della creatività il motore dello sviluppo economico.8 Anche il territorio bergamasco ci appare pienamente immerso nel panorama sopra descritto e nelle sue tensioni: a fronte della crisi strutturale del tessuto produttivo che è sempre stato la fonte principale di ricchezza della città, negli ultimi anni c’è stata una forte accelerazione (resa possibile dal sorprendente sviluppo dell’aeroporto e dei voli low cost) verso una nascente economia culturale e turistica legata all’arte, alla valorizzazione del patrimonio storico, alla comunicazione, al settore enogastronomico.9 A fianco delle iniziative pubbliche, degli eventi che attirano nuovi flussi di folla nel transitorio, si sta ampliando il capitale umano della città, capace di generare iniziative da fuori e dal basso, di sollecitare pensieri e riflessioni, ma anche di attivare azioni e nuove politiche: mobilità culturale e geografica, trasversalità dei contenuti e dei modi, frequentazione del mondo e della globalità e insieme molta attenzione al territorio locale, ai suoi strati umani, alle sue fragilità. Comunità leggere e aperte per capire il presente e costruire nuovo immaginario.10

Vedi l’articolo: Varotto,M (2016), “Capitale europea della cultura” un’opportunità di crescita per le città, in Fare l’Europa, https://maurovarottoblog.wordpress.com/2016/07/08/capitale-europea-della-cultura-unopportunita-di-crescita-per-le-citta/ 8 Delle attuali 69 creative cities soltanto 5 sono italiane (Roma, Parma, Bologna, Fabriano e Torino) rispettivamente per il cinema, la gastronomia,la musica, la folk art e il design). http://en.unesco.org/creative-cities/home 9 basti ricordare tra le moltissime iniziative degli ultimi pochi anni: - la rinascita del polo museale attorno alla Pinacoteca dell’Accademia Carrara riaperta nel 2015 (http://www.lacarrara.it/); - la rinascita del polo di Astino, spinta dopo anni dall’eventoo di Expo 2015, incentrata sul recupero di un iconema straordinario dal punto di vista ambientale e storico (2015) (http://www.fondazionemia.it/it/astino); - la candidatura per l’inserimento delle Mura Veneziane nel patrimonio Unesco (http://whc.unesco.org/en/tentativelists/5844). - Il riconoscimento di Bergamo,insieme a Brescia, Mantova e Cremona, nella Regione Europea della Gastronomia (http://www.eastlombardy.it/it/); - il rilancio della figura di Gaetano Donizetti … - la passerella di Christo (www.thefloatingpiers.com/) che per 15 giorni ha portato migliaia di nuovi turisti nel comprensorio del lago d’Iseo; - il festival annuale dei Maestri del Paesaggio (www.imaestridelpaesaggio.it/); - il festival annuale della Pace (www.bergamofestival.it/); - il festival annuale della Scienza (https://www.bergamoscienza.it/). 10 Il ciclo di Iconemi di quest’anno si propone di fare emergere alcune delle esperienze più significative nel panorama della creatività bergamasca.


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ALESSANDRA PIOSELLI

PRATICA ARTISTICA, SPAZIO URBANO E CITTADINANZA

1. L’8 settembre del 1981 Maria Lai realizza a Ulassai, in Sardegna, l’operazione Legarsi alla montagna. Durante la giornata, l’artista e i suoi compaesani legano tra loro le case del paese con un nastro celeste. L’operazione nasce in seguito alla richiesta avanzata nel 1979 all’artista dal Comune di Ulassai di realizzare un monumento ai Caduti. Maria Lai risponde che il monumento non l’avrebbe fatto ma qualcosa per i vivi sì. L’amministrazione acconsente. Maria Lai si mette alla ricerca di un’idea. L’ispirazione arriva dal recupero di una leggenda orale diffusa in paese.1 Essa narra di una bambina che sfugge al crollo di una grotta, dove si era riparata da un temporale, perché segue incantata un nastro azzurro che sfila in cielo come una cometa. Per l’artista, la parabola è metafora del potere miracoloso dell’arte di suggerire una direzione salvifica, come il nastro. Il filo celeste lega le case ma c’è altro. Le resistenze di parte degli abitanti a stringersi ai propri vicini, per rancori spesso atavici, porta a trovare collettivamente una soluzione. Il filo passa dritto tra le case divise da malumori, mentre viene annodato e decorato con fiocchi e pani delle feste tra quelle abitate da relazioni d’amore o d’amicizia. L’assenza di questi segnali ne evidenzia la mancanza: i rapporti interni alla comunità sono resi evidenti nello spazio pubblico. Tessere e narrare sono pratiche connesse nel lavoro dell’artista. Con Legarsi alla montagna, Maria Lai passa dalla scrittura personale dei libri cuciti a mano a una pubblica, collettiva e spazializzata nell’ambiente. Scrittura e lettura non sono più riconducibili alla cornice intima della pagina. Pani e nastri costituiscono la punteggiatura, le pause e gli accenti del discorso pubblico nello spazio abitato. Non c’è un’idea pacificatoria e ingenua di comunità in questa operazione. L’assenza dei fiocchi e

dei pani lascia vuoti non colmati. Il gesto di stringersi l’uno con l’altro è concreto ma soprattutto simbolico. Come il nastro azzurro, l’arte indica possibili rotte. Bisogna, però, abbandonarsi alla fantasia, come fece la bambina. Attraverso l’arte, si può provare a immaginare un modo diverso di vivere assieme e pensare la comunità in costruzione oltre il presente, oltre gli schemi fossilizzati di una complessa convivenza. Questo è lo sforzo dell’immaginazione che Maria Lai chiede al paese. C’è un altro aspetto inerente alla relazione tra pratica artistica e luogo, che Legarsi alla montagna suggerisce. L’operazione possiede non solo una dimensione spaziale ma anche temporale, che si articola su due livelli, il tempo presente e quello del mito. Il primo livello concerne l’attraversamento dello spazio: è il tempo dell’esperienza fisica della deambulazione, fatta di soste e deviazioni, scandita dal percorso del filo e dalla decodificazione dei suoi segni (fiocchi e pani). C’è, poi, il tempo mitico della fiaba narrata ai bambini attorno cui si coagula la storia di Ulassai. Il nastro celeste annoda idealmente il presente (l’attuale comunità con le sue relazioni e i suoi conflitti) a questa memoria ‘fondativa’. Tale affondo nella sedimentazione memoriale del contesto suggerisce un approccio della pratica artistica volta a considerare i luoghi come “palinsesto da setacciare non solo in orizzontale ma verticalmente”, nella loro “profondità simbolica” (Asmann 2002, p. 333). L’altro elemento memoriale di Legarsi alla montagna è indicato dal titolo: è la montagna che svetta alle spalle del paese, fonte di sostentamento (lassù vi sono i pascoli dei pastori) e di dolore (la vecchia Ulassai fu distrutta da una frana). La bambina della fiaba è, difatti, in montagna a portare il pane ai pastori, e c’è un ‘crollo’ nella storia. La montagna è un

1 Per la genesi dell’operazione, si veda Pioselli A. (2007), Ulassai. L’opera comunitaria, in Pioselli A., Arte e scena urbana. Modelli di intervento e politiche culturali pubbliche in Italia tra il 1968 e il 1981, in Birrozzi C., Pugliese M. (eds.), L’arte pubblica nello spazio urbano, B. Mondadori, Milano, e Pioselli A. (2015), L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi, Johan & Levi, Monza.


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ALESSANDRA PIOSELLI

iconema del paesaggio persistente nell’immaginario di Ulassai: ecco perché legarsi a essa. La complessità riscontrabile in Legarsi alla montagna rivela un approccio della pratica artistica che guarda al sito specifico nei suoi aspetti performativi e etnografici (Rendell, p. 16). Se “l’unica relazione che costituisce la coappartenenza di luogo/territorio e comunità è piuttosto quella elettiva, di scelta e di assunzione consapevole del patrimonio territoriale, dell’identità del luogo” e dunque “dei suoi archivi di saperi, tradizioni, memorialità, potenzialità abbandonate o inespresse, progettualità, che trova la sua forma probabilmente più complessa e insieme visibile nella configurazione paesaggistica”,2 il tema della cittadinanza si pone non solo in chiave giuridica ma nei termini della partecipazione consapevole alla definizione e significazione di questo ‘patrimonio territoriale’. Tale chiave di lettura e di chiarificazione della relazione dinamica ed ‘elettiva’ tra comunità e territorio è utile a illuminare il modo di avvicinarsi al luogo da parte di operazioni come Legarsi alla montagna, che indaga il suo ‘archivio di saperi e memorie’ affidandogli un valore vivificante e costruttivo. In questa operazione, la forma del monumento tradizionale e del modello culturale che si incarna in essa è sostituita da un gesto (quello del legare) che chiama alla responsabilità del singolo e della collettività, a compiere una scelta che riverbera sulla comunità e sull’idea di comunità che si decide di essere. Rimane in sospeso la risposta alla domanda su “come realizzare politicamente quello spazio della relazioni” che l’artista materializza e rende visibile con i suoi nastri (Tagliagambe, 2002, p. 39). A questo interrogativo, l’arte non dà responsi. Essa può avere un ruolo nel fare emergere energie e immaginari sedati nei territori, e possibilità non contemplate dalle politiche istituzionali, perché sganciata da procedure codificate, ma il valore socio-politico dell’azione artistica è eminentemente culturale: il gesto rimane simbolico, emblematico. Non si posso chiedere alla pratica artistica esiti immediati, contabili e quantificabili. 2. Nell’ottobre del 2013 Elisa Vladilo realizza all’interno della Stazione Centrale di Trieste l’operazione Rima d’origine. Il nutrito elenco delle istituzioni pubbliche e private partecipanti attesta la ca-

pacità dell’operazione di coinvolgere in rete differenti risorse territoriali.3 Rima d’origine è un dispositivo di connessione. Rispetto alla stagione storica delle pratiche partecipative degli anni sessanta e settanta, i progetti che nascono da circa il 2000 in avanti trovano in Italia più attenzione anche da parte della pubblica amministrazione, nonché di fondazioni private, associazioni, musei, imprese, reti sociali e altro ancora, contestualmente alla crescita del sistema nazionale dell’arte contemporanea. Nell’era del web, inoltre, spesso i progetti si articolano su più livelli, spazi, tempi e canali di disseminazione. Si può vedere la situazione attraverso il filtro del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno ma la possibilità di costruire reti nei nodi della vita pubblica è sicuramente maggiore. A Trieste su un grande telone colorato di 110 mq. trentuno donne di diversa provenienza geografica si sono avvicendate per scriverci sopra a mano, con un pennarello, alcuni frammenti di poesie sia nella loro lingua madre, sia tradotte in italiano, scelte da loro. Il tappeto è un grande mosaico che dà conto della pluralità culturale di una città come Trieste, paradigma del vivere metropolitano contemporaneo. All’ingresso della Stazione, il telone accoglie i passanti con l’auspicio che la conoscenza del patrimonio poetico dell’’altro sconosciuto sia di aiuto alla convivenza e all’integrazione. La presenza delle donne è anche fisica, reale, fatta di corpi, volti, mani. Differenti sono le grafie. Alle donne si dà un volto che taglia le cornici delle categorie e degli stereotipi. È importante questo aspetto: che i passanti le vedano in azione mentre scrivono, perché la parola poetica perde astrattezza mentre le donne si mettono in gioco in prima persona, senza mediazioni. Perché il colore? Il lavoro di Elisa Vladilo nello spazio pubblico è sempre connotato dall’uso del colore vivace e puro. L’artista pigmenta o riveste con materiali colorati spazi architettonici, oggetti di arredo urbano, pareti di edifici, circoscrive parti di una strada, evidenzia e segnala elementi presenti nel contesto urbano. Il codice visuale del colore è immediatamente comprensibile, non ha bisogno di filtri, può essere compreso da chiunque e in modo diretto. Le tinte accese trasformano lo spazio urbano in modo inaspettato, spiazzante e divertente, suscitando un senso di stupore e di meraviglia che riporta alla condizione spensierata dell’infanzia.

2 Luisa Bonesio, Documento preliminare per la commissione epistemologica in www.societadeiterritorialisti.it/images/ DOCUMENTI/COMMISSIONI/EPISTEMOLOGICA/111127_lbonesio_documento.commissione.epistemologica.sdt.pdf, 26 novembre 2011. 3 Il progetto Rima d’origine è realizzato con il contributo di Regione Friuli Venezia Giulia, Provincia di Trieste, Commissione Pari Opportunità del Comune di Trieste, in collaborazione con Centostazioni, Barcolana, Associazione Donne Africa, Casa Internazionale delle Donne, ICS - Ufficio Rifugiati, M.I.A. Mediatori Interculturali Associati, Giornata del Contemporaneo. Il progetto è realizzato nell’ambito della XIV edizione della manifestazione S/paesati sul tema delle migrazioni, a cura di Sabrina Morena.


PRATICA ARTISTICA, SPAZIO URBANO E CITTADINANZA

Per Elisa Vladilo «Il colore puro apre nella percezione umana la sfera emotiva, che è un canale diretto nell’intimità, privo di sovrastrutture che spesso costituiscono un ostacolo alla disponibilità, ad una apertura verso l’esterno. In questa condizione a nudo, spoglia di zavorre, si ritrova un approccio più sostanziale con se stessi e col mondo circostante».4 Il colore brillante e solare sollecita emozioni non razionali, abbassa le difese dell’individuo facendolo entrare in un mondo gioioso e giocoso, in una dimensione che lo spazio urbano solitamente non offre agli adulti ma neanche ai bambini. La sua grammatica semplice ma universale provoca esperienze sensoriali d’incantamento e di sorpresa. Così emergono risorse ed energie latenti che possono rendere le persone più disponibili, lasciando spazio a sensazioni positive, oltre che condivise. Per questo motivo, per Elisa Vladilo il colore è un mezzo che possiede una forte valenza sociale. Il telone è scandito da righe stampate in toni decisi, rosso, arancio, giallo, viola e rosa. Le trentuno donne vi scrivono sopra a turno, sedute per terra come ‘madonnare’. L’atteggiamento è informale e rilassato. I testi poetici non sono orientati secondo un unico verso. Il tappeto si può leggere e attraversare secondo molteplici direzioni. È un spartito di righe colorate come un pentagramma per una orchestra a più voci. 3. Il 16 luglio del 2008 inaugura in Piazza Dante a Trento il Monumento alla famiglia di Gillian Wearing. È la tappa finale del progetto Family Monument promosso un anno prima dalla Galleria Civica di Arte Contemporanea della città. Sulla base di dati statistici - numero componenti, di figli, età, lavoro, stile di vita, dotazione di beni -, raccolti dal prof. Ivano Bison della Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, viene lanciato a mezzo stampa un concorso finalizzato a selezionare la cosiddetta ‘famiglia tipo’ trentina, quella maggiormente corrispondente ai parametri indicati. Tra le venti famiglie che si candidano rispondendo spontaneamente all’appello, cinque arrivano in finale. Una giuria - formata da una psicologa, un sociologo, un parroco, un politico, un giornalista e una studentessa -, assegna la palma del vincitore alla famiglia Giuliani. Il padre, la madre, il figlio, la figlia e il cane, sono immortalati in bronzo in scala 1:1 nel parco cittadino. La finale che decreta l’affermazione dei Giuliani si svolge al Teatro Sociale di Trento, condotta da Patrizio Roversi. Si tratta di un spettacolo durante il quale i cinque nuclei famigliari 4

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concorrenti si presentano e si raffrontano di fronte al pubblico. Gillian Wearing spesso indaga le relazioni famigliari e i legami sociali attraverso lavori che si connettono al contesto specifico e che chiamano le persone a confrontarsi e a prendere parola, evidenziando disagi, bisogni, desideri, necessità. Sono progetti, come si dice, ‘partecipativi’ e ‘relazionali’. La potenza e la presenza della videocamera, della macchina fotografica, dello schermo televisivo, è affrontata alla luce del rapporto tra autorappresentazione, confessione, narcisismo e adeguamento ai cliché, rivelazione e mascheramento dell’identità. L’uso e la riflessione sui media è un aspetto di Family Monument fin dal momento che il concorso è veicolato da un’immagine promozionale che mostra una tipica famiglia da spot pubblicitario, rassicurante e serena: uno stereotipo cui si sono adeguate le famiglie concorrenti nel rappresentarsi. Tuttavia, l’immagine è ironica. È chiaro che propone di riflettere sul grado di adesione all’immaginario da ‘mulino bianco’. Poi c’è lo scenario da reality del teatro e le scelte che ogni famiglia fa nel modo di rappresentarsi non scevro da riflessi televisivi. Tuttavia, la famiglia Giuliani è scelta in base a dati statistici oggettivi che non esprimono una valutazione dei valori o dei modelli. I dati non dicono che quella tipologia di famiglia sia l’ideale ma solo che è la più diffusa concretamente a Trento: il nucleo composto da padre, madre e due figli, con una certa età, un certo lavoro, un certo grado di benessere. Solo per questo diventa rappresentativa. All’inaugurazione del monumento, una manifestazione di protesta di attivisti Lgbt ricorda che esistono altri modelli di convivenza, oggi, in Italia. Gillian Wearing, artista inglese, sa e non sa che il tema della famiglia nel nostro paese tocca un nervo sensibile di scontro politico e culturale, spesso ammantato di ideologica strumentalizzazione. L’intento per lei è dare modo alla cittadinanza di autodefinire l’idea di famiglia. Questo accade: realizza interviste ai passanti, presso la Galleria Civica di Arte Contemporanea il pubblico può rilasciare una propria definizione di famiglia, la documentazione inviata dai nuclei familiari partecipanti al concorso è esposta in mostra assieme ai dati statistici, i quotidiani locali rilanciano l’argomento, partono riflessioni e sondaggi.5 La famiglia ‘mulino bianco’ emerge come modello dominante. Si scatenano le reazioni. Il progetto di Gillian Wearing critica o rafforza gli stereotipi? Fa questo: solleva un dibattito pubblico che permea ampi spazi della vita mediatica e sociale di Trento. Del resto l’arte pubbli-

Elisa Vladilo, in comunicato stampa del progetto Melting Street, Luka, Pula (Croazia), 2013. La mostra Family Monument si tiene alla Galleria Civica di Arte Contemporanea dal 24 marzo al 10 giugno 2007, a cura di Fabio Cavallucci e Cristina Natalicchio, come l’intero progetto. 5


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ALESSANDRA PIOSELLI

ca ha lo scopo di interrogare e creare sfere pubbliche di discussione più che occupare uno spazio urbano. Rimane il monumento in bronzo. Se deve essere un’opera celebrativa, che lo sia appieno nella forma e nel materiale. Una targa avverte che questa famiglia è quella tipo sì ma nel 2007, come a dire che il modello potrebbe cambiare. Il Monumento alla famiglia è un’operazione complessa e ambigua, volutamente contraddittoria. Affermando il modello della famiglia tradizionale, in realtà, lo sconfessa e lo mette a nudo come costruzione culturale rafforzata dai media. Rimane, però, siglato nel bronzo. La famiglia Giuliani sceglie la posa con cui essere eternata: il padre è in piedi e poggia una mano sulla spalla della moglie seduta, come i figli. Così si figurano con il pater familias in posizione dominante e protettiva. Il monumento consolida lo stereotipo o lo critica? Al pubblico, ai cittadini, la risposta.

BIBLIOGRAFIA Asmann, A. (2002), Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna.

Bonesio L. (2011), Documento preliminare per la commissione epistemologica in www.societadeiterritorialisti.it/images/DOCUMENTI/COMMISSIONI/EPISTEMOLOGICA/111127_lbonesio_documento.commissione.epistemologica.s dt.pdf. Pioselli A. (2015), L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi, Johan & Levi, Monza. Pioselli A. (2007), Ulassai. L’opera comunitaria, in Pioselli A., Arte e scena urbana. Modelli di intervento e politiche culturali pubbliche in Italia tra il 1968 e il 1981, in Birrozzi C., Pugliese M. (eds.), L’arte pubblica nello spazio urbano, B. Mondadori, Milano. Rendell J. (2006), Art and Architecture: a Place Between, I.B. Tauris & Co Ltd, London. Tagliagambe S. (2002), La politica alta cammina su un intreccio di fili colorati, in Aa.Vv. (eds. 2006), Ulassai. Da Legarsi alla montagna alla Stazione dell’arte, A.D. Arte Duchmap, Cagliari.


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PAOLA TOGNON

URBAN SPACE E L’ESPERIENZA DI CONTEMPORARY LOCUS

Il vasto tema della rigenerazione urbana affrontato dall’edizione 2016 di ICONEMI ha visto ruotare intorno al tavolo dell’Urban Center di Bergamo figure portatrici di esperienze diverse per approcci e per analisi, tutte riunite a fronte di un tema di grande rilevanza e di rinnovata attualità: l’arte pubblica per la rigenerazione sociale e territoriale. Lo spazio stesso all’interno del quale si sono svolte queste conferenze, che oggi accoglie funzioni prevalentemente diverse da quelle inizialmente previste quale Urban Center, è caso rappresentativo sia della fluidità necessaria nelle strategie degli spazi pubblici urbani sia della difficoltà nel perseguire la realizzazione di uno spazio pubblico che abbia il compito di rendere esplicita e partecipata la trasformazione in tempo reale e su medi-lunghi periodi di una comunità urbana e delle sue strutture e infrastrutture, reali e virtuali. Significativa e funzionale l’introduzione di Mariola Peretti al tema dell’edizione ICONEMI 20161 – parametro comune per tutti i tavoli – nella quale è stato esplicitato lo spostamento di attenzioni e di pratiche al merito delle politiche territoriali, prima osservate e valutate attraverso criteri prevalente-

mente tecnici, quantitativi e standardizzati oggi invece analizzate con approcci multidisciplinari rivolti al concetto di qualità dell’abitare contemporaneo quale criterio fondamentale di valutazione e sperimentazione. Su questi presupposti nel dibattito è stato innestato e sviluppato il tema dell’arte pubblica, un ‘filone’ che oggi, in un clima di congiuntura economica difficile e di intensi fenomeni migratori, torna ad essere argomento d’attualità tanto da aver spinto una rilettura critica delle molte esperienze

1 Iconemi viene organizzato annualmente da un’equipe di ‘appassionati volontari’ che comprende, oltre a Mariola Peretti, Fulvio Adobati, Marina Zambianchi e Renata Gritti.


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PAOLA TOGNON

sviluppate dagli anni ’60 ad oggi. In questo contesto l’arte pubblica è stata posta e intesa come esperienza che ha costituito e costituisce interpretazioni, risposte, reazioni, provocazioni e ricerche all’interno delle pratiche di coabitazione sociale. È allora necessario registrare nelle indicazioni e nei parametri offerti da questo ciclo di incontri un presupposto fondamentale di orientamento, cioè quello di un’arte pubblica analizzata non solo nel contesto che contraddistingue la sua stessa indicazione nominale, cioè quello pubblico, ma più specificatamente all’interno di un contesto urbano = abitato secondo regole ben precise. Si tratta quindi di un presupposto che, chiaramente esplicitato e motivato, lascia aperta la traiettoria (magari per future edizioni di Iconemi?) verso analisi che osservino e studino esempi attuali di arte pubblica sperimentati sia in dimensioni reali diverse da quelle dei contesti urbani abitativi che seguono regole comuni (qualunque sia la loro scala) sia in dimensioni virtuali, su nodi e reti che rappresentano contesti e flussi di ‘condizioni abitative’ di nuovo tipo, legate al tempo-pensieroimmagine piuttosto che al tempo-spazio-condizione. Presupposto, quello sopra, motivato dalla possibilità di accompagnare tale ricerca con l’analisi e la valutazione dei processi politici indirizzati verso la qualificazione dello spazio urbano o, al contrario, verso il suo consumo inteso come consapevole meccanismo di sviluppo legato a parametri distanti da quelli della qualità. Presupposto che motiva la mia chiamata a questi tavoli di dibattito e di scambio di esperienze con l’obiettivo di proporre il racconto di un’esperienza precisa, quella dell’associazione Contemporary Locus, in una narrazione che ne ha voluto tratteggiare storia e vicende su alcuni focus particolari in grado di restituirne positività e difficoltà, in particolare sul progetto Contemporary Locus 10 con i progetti Passi, Lanterna e Your Steps dell’artista Alfredo Pirri nell’ex Centrale di Daste e Spalenga di Bergamo. Per questo, nel testo che segue, cercherò di fare semplice sintesi di esperienza e sviluppo indicando però quella che ritengo una più diretta possibilità di approfondimento, cioè seguirne le tracce, per parole, immagini fisse e in movimento, nel sito stesso dell’associazione (www.contemporarylocus.it), nell’apposito canale Vimeo, nei social e nelle app che possono essere scaricate gratuitamente in mobilità. Questo perché negli intenti dell’associazione vi è una specifica attenzione, quasi vicina ad una pratica, nel raccontare e diffondere le attività di Contemporary Locus all’interno una concezione dei canali digitali pensati come spazi di approfondimento e di aggiornamento in grado di accogliere e coniugare le

sollecitazioni che si innescano spontaneamente sulle stesse piattaforme a partire dal territorio di azione, da territori più vasti e da comunità specializzate. La nascita di Contemporary Locus, associazione onlus attiva dal 2011, registrata nel 2012, può essere considerata come sviluppo autonomo su intenti e ricerche mirate, basata anche sulla verifica di alcune precedenti esperienze agite personalmente: la fondazione dell’associazione The Blank e il ciclo di progetti espositivi nei Matronei della Basilica di Santa Maria Maggiore, entrambi a Bergamo. Nello specifico la scelta di aprire la sede di The Blank in un’area ben definita della città (via Quarenghi), conosciuta per l’alta percentuale di abitanti provenienti da nazioni extra europee e per la sua ‘reputazione’ di zona problematica situata nel centro della Città. Ciò approfittando della possibilità di usufruire di spazi ad un costo moderato grazie alla positiva accoglienza di un abitante storico della via che già negli anni precedenti aveva avviato progetti di riqualificazione dell’area mediante attività culturali partecipative e con l’intento da parte dell’associazione di favorire e verificare possibili processi di scambio e di riqualificazione in un percorso di condivisione con la città e con gli abitanti dell’area. La sede di The Blank è a tutt’oggi localizzata nello stesso luogo e al suo interno, già dai primissimi anni, sono stati avviate attività di residenza. A ciò si aggiunga che dal 2015/16 l’amministrazione della città ha scelto di proseguire in questa direzione favorendo nella stessa via l’apertura di un doppio spazio, gestito dall’Accademia Carrara di Belle Arti, dedicato ad attività artistiche e culturali (si veda Giacomo, nuova sede espositiva dell’Accademia situato in via Quarenghi 33 e 48b/c). La seconda esperienza fa invece riferimento al ciclo di mostre organizzate nel 2010/11 nei Matronei della Basilica di Santa Maria Maggiore situata nella parte medievale di Bergamo. Luoghi di difficile accesso ma carichi di storia e di antiche vestigia, normalmente inaccessibili al pubblico, i matronei sono stati aperti con continuità durante il ciclo espositivo Ogni cosa a suo tempo (si veda relativa pubblicazione nel 2013 per Mousse edizioni) nel quale artisti contemporanei italiani e stranieri hanno costruito progetti dedicati al luogo. Non è questo lo spazio per descrivere quali siano state le analisi conseguite a queste positive esperienze, ma certamente la missione stessa dell’associazione Contemporary Locus ne è sviluppo nella direzione di alcuni specifici obiettivi individuati come primari: la ricerca nelle arti visuali contemporanee agita in contesti non caratterizzati dallo svolgimento privilegiato di funzioni culturali; l’attività strutturata su sistemi di condivisione e partecipazio-


URBAN SPACE E L’ESPERIENZA DI CONTEMPORARY LOCUS

ne a forte valenza empatica, in rete su obiettivi e non su servizi con altri enti e istituzioni; una operatività aperta all’innovazione digitale. In altre parole una pratica all’interno del sistema dell’arte per suoi specifici ambiti di ricerca e sperimentazione visuale ma predisposta alle connessioni con i cambiamenti del paesaggio urbano contemporaneo e alle necessità di relazioni partecipative ‘catturate all’arte’ mediante processi temporanei di riappropriazione e restituzione. Contemporary Locus è infatti un’associazione culturale onlus che progetta e realizza attività espositive, di ricerca, sperimentazione e formazione. Tra i suoi obiettivi: pratiche di arte contemporanea; studio e interpretazione di luoghi segreti o dismessi; progetti di ricerca e d’innovazione con particolare attenzione all’ambito tecnologico, costruzione di una rete collaborativa multidisciplinare sui territori di azione. La sua progettualità si realizza attraverso la chiamata di artisti internazionali che interpretano, attraverso progetti site specific, luoghi dismessi che conservano un particolare interesse urbanistico, storico, artistico o sociale. I luoghi coinvolti – civili, religiosi, industriali, pubblici e privati – appartengono al territorio di Bergamo inteso come prototipo di una più vasta condizione comune. I cambiamenti di assetto economico e sociale di Bergamo, la sua storica tradizione di mecenatismo culturale, l’attività delle sue istituzioni culturali così come la presenza del terzo aeroporto italiano fanno infatti di Bergamo una geografia di efficace sperimentazione per la missione stessa di Contemporary Locus che ha scelto di operare in collaborazione con enti e istituzioni pubblici e privati, aprendo tutte le sue attività in forma gratuita e che basa la sua sostenibilità esclusivamente su azioni dirette di fundraising su soggetti privati. La riattivazione di luoghi storici, abbandonati e spesso invisibili, con il coinvolgimento dell’arte contemporanea, che ne diviene chiave di riapertura, hanno caratterizzato sino ad oggi la missione principale di Contemporary Locus: circa il 70% degli spazi che sono stati temporaneamente aperti dai progetti espositivi hanno attivato e stanno attivando processi di recupero, restauro o ri- funzionalizzazione. In parallelo parte dei progetti e delle opere realizzate dagli artisti e prodotte da Contemporary Locus sono state esposte in altre istituzioni o manifestazioni artistiche. Nella stessa logica l’associazione cura, promuove e, dove possibile, sostiene gli artisti più giovani che vengono coinvolti nelle sue attività. In parallelo alcuni servizi educativi, laboratori e visite guidate tematiche hanno accompagnato i progetti espositivi. Dedicate all’infanzia e all’età adulta e, con particolare progettazione, ai diversamente

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abili, queste attività stanno costituendo un ambito autonomo rispetto ai progetti espositivi dell’associazione. Dal 2014 l’associazione si dedica anche alla produzione di idee d’artista (primo progetto è manoplà di Diego Perrone), un concept che coniuga la libera progettazione di artisti inserita nell’esperienza di aziende e l’utilizzo di tecnologie e materiali innovativi. Nelle attività dell’associazione Contemporary Locus vi è inoltre sin dall’inizio l’utilizzo e la sperimentazione delle nuove tecnologie, in particolare attraverso le piattaforme sociali in rete e le applicazioni mobili, le ‘app’. Le applicazioni, cataloghi digitali per ogni esposizione – accanto alla produzione di video che raccontano i progetti espositivi, visibili su un apposito canale Vimeo – consentono di sfruttare la mobilità con l’obiettivo di coinvolgere un pubblico allargato e diversificato e di diffondere la conoscenza dei progetti in una dimensione europea e internazionale. Sempre nel campo delle tecnologie digitali l’associazione ha scelto di sviluppare la ricerca per la realizzazione diretta di progetti d’artista: ad esempio the simple combinations di Diego Zuelli è una app gratuita, sviluppata per iOS e Android, che attraverso un algoritmo sviluppato ad hoc trasforma le cifre di giorno, mese e anno in un disegno, rigenerandosi ogni 24 ore potenzialmente fino al 31.12.9999. Oppure in occasione di contemporary locus 10 _ PASSI, con l’artista Alfredo Pirri, quando è stata sviluppata la app YOUR STEP che, mediante un sistema di registrazione dei movimenti, e grazie ad un algoritmo e un’apposita visualizzazione, restituiva il percorso intrapreso da ogni visitatore sull’opera PASSI, ossia la personale partecipazione al farsi dell’opera che, come in una costellazione, rimaneva a sua memoria. Infine tra gli obiettivi fondanti dell’associazione vi è anche lo start-up di network territoriali e virtuali, insieme alla creazione di una rete relazionale e collaborativa che garantisce ai progetti un sostegno multidisciplinare. L’associazione, che già nel 2011 nasce con la collaborazione dell’Ordine degli Architetti e degli Ingegneri della Provincia di Bergamo e quella del Comune di Bergamo e poi della GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, negli anni ha ampliato le sue relazioni con enti ed istituzioni che lavorano negli ambiti della musica, del cinema, del teatro, della danza ma anche della scienza, della tecnologia e dell’impresa industraile. In questa direzione l’avvio a fine giugno 2017 di una residenza che unisce la ricerca di arte, danza e teatro sull’habitat naturale. I principali progetti espositivi di Contemporary Locus dal 2011 ad oggi sono stati: contemporary locus 1 con gli artisti Huma Bhabha e Francesco Carone nel Luogo Pio della Pietà Bartolomeo Colleoni;


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contemporary locus 2 con gli artisti Anna Franceschini e Steve Piccolo nella Cannoniera di San Giacomo; contemporary locus 3 con gli artisti Francesca Grilli e Vlad Nanca nell’ex Hotel Commercio; contemporary locus 4 con l’artista Grazia Toderi nel Teatro Sociale; contemporary locus 5 con l’artista Tony Fiorentino nella Domus Lucina di Casa Angelini; contemporary locus 6 con gli artisti Margherita Moscardini e Jo Thomas nell’ex chiesa di San Rocco; contemporary locus 7 con gli artisti Heimo Zobernig e Davide Bertocchi nel salone della Porta di Sant’Alessandro; contemporary locus 8 con gli artisti Evgeny Antufiev, Berlinde de Bruickere, Etienne Chambaud e il collettivo Atelier dell’Errore nel Monastero del Carmine; contemporary locus 9 con gli artisti Marie Cool e Fabio Balducci nell’ex Area Tesmec; contemporary locus 10 con l’artista Alfredo Pirri nell’ex Centrale Daste e Spalenga; contemporary locus 11 con l’artista Eva Frapiccini nel Chiostro del Carmine. Accanto a questi altri progetti paralleli ma diversamente nominati per l’attivazione di pratiche anche temporalmente differenti come Ora D’aria con l’artista Berna Reale nell’ex Carcere di Sant’Agata o BABEL, con gli artisti Francesca Grilli, Luca Resta, Samuele Menin e Maria Francesca Tassi all’interno dell’ex chiesa di San Michele all’Arco; così Z - studi d’artista aperti al

suono o Welcome to Bergamo, talk e workshop dedicati alla diffusione delle pratiche dell’arte contemporanea e all’accoglienza sul territorio di autori, critici, curatori oltre che operatori della comunicazione. Per concludere questa veloce descrizione della struttura e delle attività dell’associazione Contemporary Locus dal punto di vista del dibattito di aperto da Iconemi 2016 mi preme restituire due riflessioni di fondo: 1) dati gli sforzi e le difficoltà legate ad una progettazione artistica che opera in spazi dismessi (senza acqua, senza luce, in condizioni statiche e clima-


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tiche estreme …) autosostenendosi e garantendo la totale gratuità delle sue attività, solamente l’intensa partecipazione di pubblici allargati e in continua crescita e l’avvio di processi di ri-funzionalizzazione degli spazi coinvolti, hanno motivato e giustificato il proseguo ad oggi delle attività dell’associazione Contemporary Locus 2) Nessuna attività di Contemporary Locus sarebbe potuta avviarsi e proseguire senza l’operato di un team – che oscilla tra le 10 e le 20 persone – che ne condivide strategie e sforzi caratterizzandosi per essere orizzontale nelle responsabilità e trasversale per competenze ed esperienze. Accanto al team, verso il quale l’associazione investe molte delle sue

energie sulla crescita e professionalizzazione, altrettanto sostanziale si è dimostrata la collaborazione orizzontale con altri enti e istituzioni – pubblici e privati – che ha permesso il raggiungimento di pratiche condivise su un approccio multidisciplinare e partecipativo. Su tutto ciò si è sommata la fondamentale e generosa partecipazione degli artisti coinvolti che hanno avviato un processo di passa parola favorevole nei confronti dell’associazione facendosi di volta in volta testimoni di un’interpretazione e di una restituzione della storia, della memoria e della dignità di spazi dismessi dimostrando come la dismissione possa essere considerata una categoria temporanea e non valoriale.


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CARLO SALONE

IL RUOLO AMBIVALENTE DELLE PRATICHE CULTURALI NELLA RIGENERAZIONE URBANA

1. ARTE (PUBBLICA) E SPAZIO URBANO Se in passato l’arte tendeva a manifestarsi nello spazio – non necessariamente urbano - attraverso forme istituzionalizzate e connotate da una localizzazione specifica (il monumento presente in una specifica piazza, l’edificio storico, le opere conservate nelle gallerie e nei musei cittadini ecc.), con le avanguardie storiche prima e con la crisi del Moderno poi si assiste a quella che Stuart Hall descrive come la progressiva espansione dell’arte nella quotidianità del vivere, decretando “la fine del modernismo del museo e la penetrazione delle rotture moderniste nella vita di tutti i giorni” (Hall, 2004: 288, n.t.). A uno sguardo non schiacciato sul presente, non del tutto nuove appaiono in realtà le pratiche di coinvolgimento dello spazio vissuto nella produzione e nella messa in scena dell’arte. Le civiltà classiche coltivavano una concezione dell’arte come pratica intimamente legata all’esercizio e alla pedagogia del potere, e non solo del potere divino incarnato dalle istituzioni politiche, ma anche del potere della tradizione culturale in cui la comunità si riconosce e si radica. La cultura romana sia di età repubblicana sia di età imperiale pratica scientemente questa forma di comunicazione culturale e politica nello e mediante lo spazio urbano. Il fregio della Basilica Aemilia nel Foro Romano, gli archi di trionfo imperiali, l’Ara Pacis, così come, cinquecento anni prima, il fregio fidiaco del Partenone ad Atene, intendono parlare ai cittadini magnificando le radici mitiche della città e delle sue istituzioni. Ma allora che cosa c’è di nuovo nelle pratiche che il contemporaneo sperimenta nello spazio urbano? Che cosa ci dicono queste pratiche rispetto alle domande sulla natura dell’arte pubblica? L’arte pubblica è quella – e solo quella – che si manifesta nello spazio pubblico, oppure l’arte è pubblica quando incarna valori simbolici che appartengono alla sfera morale e politica dell’interesse pubblico?

O la natura pubblica consiste forse nella ‘cura’ che una – presunta – comunità esercita rispetto a un’opera d’arte collocata in una dimensione pubblica? Oppure, più semplicemente, l’arte è sempre pubblica perché ha bisogno di un ‘pubblico’? Dal punto di vista della città e della sua organizzazione spaziale e funzionale, l’irruzione dell’arte nel vissuto quotidiano e nello spazio pubblico esterno implica, prima di tutto, un ripensamento critico dell’idea di museo e galleria come unici contenitori deputati all’esibizione e fruizione dell’opera artistica. In secondo luogo, essa si accompagna a un’evidente “proliferazione dei siti e dei luoghi in cui l’impulso artistico moderno è realizzato, incontrato e fruito” (Whybrow, 2011: 289, n.t.). Coerentemente, nelle modalità di produzione, presentazione e fruizione dell’arte contemporanea si assiste a una sempre maggiore incursione di prassi espressive come performance ed eventi – registrati su supporti audiovisivi o realizzati ‘dal vivo’ – quali mezzi di comunicazione e, soprattutto, condivisione artistica tra soggetti che ‘abitano’ lo spazio urbano. Rispetto alle tecniche di creazione dell’artefatto ‘tradizionale’, che esprime il proprio messaggio attraverso una materialità tangibile, queste prassi si connotano per un’importante componente intangibile, attraverso cui diventa possibile stabilire un’interazione diretta tra il pubblico, l’opera d’arte, l’artista e lo spazio in cui la performance e/o l’evento artistico prende forma e sostanza. Il ricorso sempre più frequente alle tecnologie audiovisive e ‘performative’ nella comunicazione del messaggio artistico contemporaneo è d’altro canto la manifestazione di un preciso “impulso situazionalerelazionale” (Hall, 2004) che rifiuta il concetto stesso di “luogo dell’arte” in favore di un’interpretazione dell’arte come prodotto di un insieme complesso di scambi contestuali che, nelle parole di Bourriaud, intercorrono in modo incessante tra le persone, i luoghi, gli oggetti e i processi (2002: 26). Nel suo


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Relational Aesthetics1 Bourriaud descrive questi scambi nei termini di “microclimi” al cui interno le relazioni con il mondo si fanno concrete attraverso l’opera d’arte (2002: 44). Il ricorso sempre più frequente alle immagini metaforiche dei flussi e delle reti, non soltanto con riferimento alle pratiche artistiche, ma anche e soprattutto con riferimento all’analisi e alla lettura dello spazio e dei fatti che lo attraversano, si configura come una vera e propria ‘svolta relazionale’ che cercherò di descrivere nei suoi tratti essenziali nel paragrafo che segue.

2. RELAZIONALE VERSUS TERRITORIALE: LO SGUARDO SULLA CITTÀ

Nel corso degli ultimi quindici anni la letteratura internazionale di lingua inglese ha ospitato un acceso dibattito circa la natura della spazialità contemporanea. In particolare, Doreen Massey (Allen et al., 1998), Ash Amin (2002, 2004) e altri autori (Amin et al., 2003; Bathelt, 2006) hanno proposto di superare l’ontologia dei luoghi come contenitori chiusi all’esterno e ‘ingabbiati’ entro una gerarchia di scale territoriali rigidamente distinte e compartimentate (quartiere-città- regione ecc.), per adottare, in sua vece, una prospettiva ‘relazionale’, capace cioè di leggere la spazialità attraverso metriche non lineari e non euclidee (una discussione approfondita e criticamente simpatetica è quella contenuta in Castree, 2004). È stato sottolineato (Luca e Salone, 2014) che, pur trattandosi di una posizione complessa e non del tutto organica al proprio interno (Jonas, 2012), la prospettiva relazionale può essere sintetizzata come una critica rivolta alle interpretazioni dello spazio inteso quale somma di tasselli territoriali distinti e incapsulati gli uni dentro gli altri, a favore di concetti come apertura e connettività, i cui elementi fondanti sono le relazioni trans-territoriali, i flussi e le reti. L’opposizione relazionale nei confronti di visioni scalar-territoriali dello spazio è motivata da due principali argomenti (Amin, 2004). Il primo insiste sul fatto che città e regioni sono sempre più immerse in reti e routine organizzative globali. Ne deriverebbe che il ‘nuovo ordine emergente’ è definito attraverso topologie di reti di attori assai dinamiche, contingenti e variegate nella loro estensione

spaziale (Amin, 2002). Il secondo argomento riguarda l’esistenza stessa di nuove immagini – le reti, i flussi, ecc. – in grado di descrivere con efficacia le nuove spazialità della globalizzazione. Il significato concreto di questa prospettiva è chiaro: le città e le regioni non devono e non possono (più) essere rappresentate come entità “organiche” caratterizzate dalla coesione interna come proprietà territoriale fondativa, ma dovrebbero piuttosto essere lette come l’intreccio di connessioni spaziali più ampie basate su flussi, giustapposizioni, porosità e connettività relazionali (ibid.). Ne deriva così una visione dei luoghi, e per noi qui il riferimento è essenzialmente alle città, non già come entità stabili nella loro delimitazione spaziale e nella loro identità sociale e culturale, bensì come “intrecci, aperti e discontinui, di relazioni” (Governa, 2014). Questo rinnovato contesto teorico sembra prestarsi bene come sfondo interpretativo per comprendere la valenza non solo espressiva ma anche conoscitiva di pratiche artistiche che “attraversano” la città, istituendo con i suoi materiali fisici e le sue componenti sociali relazioni che producono nuove forme di descrizione/interpretazione dello spazio urbano. Ricerche come quelle condotte, per esempio, da Stalker/Osservatorio nomade, collettivo di artisti con base a Roma e da tempo impegnato in forme itineranti e non accademiche di conoscenza urbana (www.stalkerlab.org) descrivono con efficacia questa tecnica di ascolto e intervento: “La modalità di intervento proposta è sperimentale, fondata su pratiche spaziali esplorative, di ascolto, relazionali, conviviali e ludiche, attivate da dispositivi di interazione creativa con l’ambiente investigato, con gli abitanti e con gli archivi della memoria. Tali pratiche e dispositivi sono finalizzati a catalizzare lo sviluppo di processi evolutivi auto-organizzanti, attraverso la tessitura di relazioni sociali ed ambientali, lì dove per abbandono o per indisponibilità sono venute a mancare” (www.osservatorionomade.net). Queste e altre pratiche di “transurbanza” (Careri, 2006) sperimentano forme di conoscenza che riscoprono, letteralmente, potremmo dire, la ricerca sul terreno e intendono interrogare risorse, agenti e gruppi sociali che sono abitualmente ignorati dalle indagini scientifiche tradizionali o vengono ‘normalizzati’ ex ante attraverso procedure di definizione e categorie che pre-esistono alla ricerca stessa e che

1 Relational aesthetics è il termine con cui Bourriaud (2002) indica il forte coinvogimento della scena artistica –dominante negli anni in cui egli scrive ma fortemente presente anche oggi- nelle questioni politiche e sociali, sia in termini letterali (l’arte come strumento di denuncia e riflessione critica), sia in termini formali, tematici (nel senso di riconoscere che la materia prima con cui gli artisti lavorano per realizzare le loro opere non è la creta, né il vetro, né i colori, ma è la sfera sociale, sono le relazioni tra le persone.


IL RUOLO AMBIVALENTE DELLE PRATICHE CULTURALI NELLA RIGENERAZIONE URBANA

Fig. 1. Guy Debord, Guide psychogéographique de Paris, copertina, 1957. Fonte: www.macba.cat.

ne cristallizzano la natura complessa e cangiante. La filiazione di questo approccio si colloca lungo un’ideale linea di continuità che lega tra loro esperienze diverse, molte delle quali inaugurate dalle avanguardie storiche – Dada, Surrealismo – e riprese dai lettristi e, soprattutto, dai situazionisti nel secondo dopoguerra. Su questa genealogia non ci soffermeremo ulteriormente, affidando al lavoro di Francesco Careri, dedicato al camminare e al nomadismo come pratica estetica, ogni necessario approfondimento (cit.). Tornando alla svolta relazionale, in questa sede osserveremo che la proposta situazionista risulta forse la più pertinente nel rispondere all’esigenza di sottrarsi alle immagini codificate dei luoghi, per avventurarsi invece senza pregiudizi né schemi preconfezionati nella lettura e nella pratica fisico-percettiva dello spazio urbano. Al suo centro, se così si può dire con riferimento a una logica naturalmente portata all’eccentricità come quella dei situazionisti, e di Debord in particolare, si collocano due concetti-chiave: quello di dérive e quello di psychogéographie (Figura 1). La dérive, ci ricorda lo stesso Debord, “si presenta come una tecnica del passaggio repentino attraverso ambienti diversificati. Il concetto di dérive è indissolubilmente legato al riconoscimento di effetti di natura psicogeografica, e all’affermazione di un comportamento ludico-costruttivo, ciò che lo

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rende diametralmente opposto alle nozioni classiche di viaggio e di passeggiata. Una o più persone che si lasciano andare alla deriva rinunciano, per una durata più o meno lunga, alle ragioni di spostamento e di azione che generalmente seguono, alle relazioni, ai lavori e agli svaghi che sono loro propri, per lasciarsi andare alle sollecitazione del terreno e agli incontri che vi corrispondono. La parte di aleatorio è qui meno determinante di quanto si possa credere: dal punto di vista della deriva, esiste un rilievo psicogeografico delle città, con delle correnti costanti, dei punti fissi e dei vortici che rendono assai ardui l’accesso o l’uscita da certe zone”. Nell’Internazionale Situazionista2, in particolare, le manifestazioni sono concepite come atti di critica allo spettacolo del capitalismo. Come sottolinea lo stesso Debord, “la costruzione delle situazioni ha inizio sulle rovine dello spettacolo moderno. È facile osservare come il principio alla base di questo spettacolo – l’assenza di intervento – si leghi all’alienazione che caratterizza il vecchio mondo. Al contrario, i migliori esperimenti rivoluzionari in campo culturale hanno cercato di rompere la tradizionale identificazione dello spettatore con l’eroe in modo da coinvolgerlo nell’azione […] la situazione viene quindi pensata perché sia vissuta dai suoi costruttori in modo diretto. Il ruolo giocato dal pubblico inteso come soggetto passivo o relegato a giocare ruoli marginali deve diminuire progressivamente, mentre il ruolo giocato da coloro che non sono attori ma ‘livers’ deve crescere progressivamente” (Debord, 1956, n.t.). Certamente, questa partecipazione critica al vissuto urbano, intesa come mezzo attraverso cui svelare i meccanismi capitalistici dello sfruttamento e dell’alienazione (Debord, 1956), è presente anche in molte iniziative artistiche di natura convenzionale, organizzate da musei, gallerie o fondazioni. Tuttavia, come si cercherà di spiegare, è soprattutto nelle esperienze che nascono dal “basso” e che si collocano in posizione critica rispetto al sistema istituzionalizzato dell’arte, che la dimensione partecipativa raggiunge la sua massima espressione artistica, culturale e politica e la più fertile potenzialità creativa (per un’esaustiva ricostruzione del rapporto tra arte pubblica si rinvia a Pioselli, 2015). La necessità di recuperare “spirito critico” nel sistema dell’arte contemporanea, oggi sempre più indebolito da un consumismo feticista che condiziona anche le dinamiche del mercato, pervade anche al-

2 L’Internazionale Situazionista è un movimento politico e artistico che affonda le proprie radici nel marxismo critico, nell’anarchismo e s’ispira, per alcuni aspetti, alle avanguardie artistiche dell’inizio del Novecento. Si costituisce nel 1957 a opera di alcuni intellettuali e artisti riuniti intorno alla figura di Guy Debord ed è attiva in Europa per tutti gli anni Sessanta.


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tre correnti interpretative. Per Butt (2005), per esempio, questa ricerca è ben rappresentata dal theatrical turn basato sulla sperimentazione di nuove prassi ‘performative’ non istituzionalizzate, testimoniate già all’interno della produzione artistica del secondo dopoguerra. In questa dimensione sempre più spesso l’attenzione degli artisti, dei critici e dei fruitori dell’arte contemporanea si sposta dalle pratiche artistiche basate sull’artefatto materiale alle coordinate spaziotemporali dell’evento artistico (2005: 8): da un lato, si esplorano le relazioni tra le pratiche ‘creative’ quotidiane e l’arte, mentre, dall’altro, si indagano le esperienze artistiche contemporanee e come queste influenzino i contorni e l’esperienza del vissuto quotidiano. Riassumendo, l’analisi della relazione tra arte contemporanea e città ci aiuta a comprendere come lo spazio urbano non si limiti al ruolo di contenitore passivo delle manifestazioni artistiche: processi, significati, atmosfere. Al contrario, la città gioca un ruolo di primo piano sotto almeno tre punti di vista: come dimensione preferenziale in cui si manifesta il vissuto quotidiano (l’espace vécu di Lefebvre, 1974), ossia abitudini, pratiche, forme di produzione e consumo, cui l’artista attinge largamente; come attore delle manifestazioni artistiche (la città che si “mette in opera”, costruendo le condizioni necessarie per raggiungere forme realmente integrali di espressione artistica); come ambito territoriale le cui caratteristiche e la cui rappresentazione sono influenzate dalle manifestazioni d’arte in esso contenute. Al di là delle trasformazioni fisiche e economiche determinate dalla concentrazione spaziale di attività e eventi a contenuto artistico, secondo Debord (1956) una valenza cruciale del contemporaneo dilagare delle espressioni artistiche nel contesto urbano è il loro saper cambiare il modo in cui i soggetti guardano ad esso. Oltre ad avere valore in sé, l’arte svolge dunque nella dimensione urbana un’importante funzione sociale di “attivazione” di processi e relazioni nella vita di tutti giorni. In questa logica si muove, per esempio, il progetto di urbanisme unitaire, definito da Debord (1956) come uso integrato delle arti e delle tecniche espressive, finalizzato alla composizione di un milieu unificato. Questo milieu unificato si può raggiungere sia attraverso la creazione di nuove manifestazioni artistiche (architetture e installazioni, elementi di arredo urbano, ma anche eventi, poesie, film ecc.), sia at-

traverso processi di straniamento o détournement3 dalle manifestazioni artistiche esistenti. L’artista persegue “atti politici finalizzati a reinstallare l’esperienza di vita come l’unica mappa della città” (1956: 218, n.t.), così che l’esperienza dell’arte come l’esperienza della città, intrinsecamente connaturata negli individui, assuma valenze diverse a seconda delle relazioni che essa stabilisce con i fruitori dell’opera d’arte e lo spazio urbano circostante, nonché delle relazioni che questi fruitori sviluppano tra loro e con lo spazio. Riprendendo Lefebvre, “l’arte di vivere in città è di per sé un’opera d’arte, così come il futuro dell’arte non si compie nella dimensione artistica ma urbana” (1996: 173, n.t.).

3. LA RIGENERAZIONE URBANA A BASE CULTURALE COME “NARRAZIONE”DI SUCCESSO Un ruolo rilevante in anni recenti ha giocato l’intreccio tra produzione culturale, manifestazioni artistiche nello spazio pubblico e rigenerazione urbana. Nonostante le frequenti oscillazioni semantiche, che vedono talora sovrapporsi concetti e pratiche proprie della riqualificazione e metodi ed esperienze della rigenerazione, assumeremo in questa sede una sostanziale omogeneità di significato che, in termini generali, si riferisce a quelle azioni volte a contrastare l’abbandono, il degrado fisico e il declino economico di determinate aree della città, tipicamente zone industriali in crisi, quartieri poveri o socialmente problematici (su questi temi si vedano Judd e Parkinson, 1990; Couch et al., 2008). Da rimedio urbanistico alla decadenza delle aree residenziali cresciute in stretta connessione con l’espansione industriale, la rigenerazione urbana e i suoi codici sono rapidamente divenuti paradigma cool d’intervento nella logica di portare la valorizzazione immobiliare in aree rimaste ai margini del rilancio urbano. Negli ultimi decenni, il panorama degli interventi pianificati con questo obiettivo è stato quanto mai eterogeneo e dagli esiti differenziati. Spesso, molti programmi sono stati finanziati dall’Unione europea (come ad esempio i programmi di iniziativa comunitaria Urban) e hanno riguardato azioni di natura marcatamente sociale, riferendosi a temi quali l’integrazione tra culture e gruppi sociali e la rivitalizzazione del tessuto economico locale, con l’indispen-

3 Il détournement (trasposizione del termine francese che indica una performance simile alla parodia satirica) è la tecnica, storicamente usata da gruppi politici con fini in genere sovversivi, per rivoltare le espressioni del sistema capitalistico contro se stesso. Più nel dettaglio, consiste in una variazione/modificazione nel sistema di significati comunemente attribuiti a un dato oggetto, testo, immagine o luogo, secondo modalità antitetiche o antagoniste rispetto agli intenti originali.


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sabile corollario della promozione della partecipazione collettiva alle decisioni urbanistiche. Come per tutte le maggiori aree urbane italiane, anche per Torino la stagione di maggiore impegno nel campo della rigenerazione urbana si colloca lungo gli anni Novanta del secolo scorso. Le ragioni sono evidenti. In primo luogo l’inefficacia delle tradizionali forme d’intervento urbano sperimentate fino ad allora nelle prassi urbanistiche dalla cultura tecnica e dalle amministrazioni pubbliche, sia quelle orientate al controllo generale delle trasformazioni urbane – la pianificazione urbanistica di matrice razional-comprensiva affidata al piano regolatore generale – sia quelle settoriali affidate alle agenzie tecniche governative e locali – piani per l’edilizia residenziale pubblica, programmi di infrastrutturazione ecc. In secondo luogo, e con una chiara connessione col primo aspetto menzionato, il graduale affermarsi e diffondersi in buona parte d’Europa di prassi d’intervento ispirate al modello dei Quartiers en crise, poi modellizzate e istituzionalizzate da strumenti come Urban, ispirate a un approccio integrato (riqualificazione fisica, rigenerazione economica, animazione sociale) e a una logica di coinvolgimento multi-attore (Parkinson, 1989; Lawless, 1991). In terzo luogo, la crescente difficoltà degli enti pubblici nel reperire e stanziare risorse finanziarie per l’adeguamento funzionale e infrastrutturale delle città, con la conseguente mobilitazione degli attori privati e del non-profit nel disegno e nella conduzione delle politiche urbane. Sullo sfondo, occorre richiamare l’affermazione di un paradigma di trattamento e soluzione delle problematiche urbane che appare coerente con un’agenda neoliberale che diventa egemonica anche in Europa e che spinge con forza verso un coinvolgimento imponente dei capitali privati nella costruzione e nella ristrutturazione urbana (Harvey, 1989; Thornley, 1991). Nel 1997 l’amministrazione torinese inaugura il Progetto Speciale Periferie, programma antesignano di una stagione d’intervento sul tessuto urbano piuttosto intensa. Sotto il controllo del Progetto Speciale Periferie, poi Settore Periferie, vengono ricondotte tutte le iniziative legate alla rigenerazione urbana finanziate da programmi internazionali e nazionali (Programmi di Recupero Urbano, Contratti di Quartiere, Urban 2, Programmi Integrati di Sviluppo Locale e il Progetto Pilota Urbano The Gate, dedicato a Porta Palazzo: una ricostruzione critica e centrata sulla questione abitativa è fornita da Governa e Saccomani, 2008; per un inquadramento generale delle politiche urbane concertate si veda invece Governa e Salone, 2005).

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In questo quadro, gli interventi legati più o meno direttamente all’industria della cultura, e agli spazi per il consumo e la produzione artistica sono spesso stati visti come catalizzatori della rinascita urbana: talvolta sostituendo un tessuto edilizio compromesso con attrezzature culturali di richiamo, affidate a firme prestigiose della cultura architettonica globale, talaltra mantenendo e risignificando quartieri ed edifici ‘decadenti’ in elementi estetici attrattivi, sorta di ‘rovine’ della tarda modernità che ispirano immagini suggestive e perfino glamour (Edwards, 1997). Oltre alle iniziative di trasformazione fisica di parti più o meno consistenti della città, la rigenerazione urbana può spesso dispiegarsi, in parallelo o in autonomia rispetto agli interventi sul tessuto fisico, attraverso un insieme di eventi artistici e culturali cui si attribuisce una particolare capacità di ridare vivacità ai quartieri. Così, da molto tempo si è ormai consolidata una vulgata ‘evenemenziale’ secondo la quale festival ed eventi pubblici diventano occasioni per mobilitare l’interesse di un pubblico più o meno segmentato e per cogliere obiettivi alquanto eterogenei: attirare visitatori nelle parti più marginalizzate della città, contribuendo così a ridurre lo stigma di determinati quartieri ritenuti poco raccomandabili; restituire o donare ai residenti l’orgoglio identitario e il senso di appartenenza; creare occasioni di festa comune nello spazio pubblico (Richards e Wilson, 2007; Hannigan, 2003). In questo alveo molto variegato s’incanalano progetti e iniziative che vedono nell’organizzazione di eventi artistici spettacolari opportunità di crescita economica che si traducono in forme di imprenditorialismo urbano (Harvey, 1989; Vanolo, 2015) il cui ingrediente essenziale è la cultura che diventa flagship di operazioni aggressive di marketing urbano.

4. LE ‘PRATICHE’ DAL BASSO COME NARRAZIONE ALTERNATIVA DELLA CITTÀ: TORINO, SITUA.TO E PROGETTO DIOGENE Il successo degli interventi di recupero delle cosiddette ‘spine’ che innervano la città industriale e l’irrompere della crisi del 2007-2008 mettono la parola fine alle iniziative di rigenerazione a larga scala e lasciano spazio all’emergere di esperienze che aspirano a costruire rappresentazioni ‘altre’ della città, anche se non esplicitamente finalizzate a decostruire una ‘narrazione’ egemonica che contrappone a un ‘prima’ grigio e passivo di decadenza della capitale industriale un ‘dopo’ immerso nel dinamismo delle reti globali della produzione immate-


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Fig. 2. Situa: NichelinoBase Alpha, da un’idea di Elena Greco, autori Martino Gamper, Collettivo Aut, writer Chiuto. Fonte: http://www.atitolo.it/project/situa-to/

Fig. 3. Casa temporanea per artista alla Gran Madre, Torino; residenza BivaccoUrbano, a cura di Progetto Diogene. (Courtesy www.progettodiogene.it)

Fig. 4. Il tram Diogene, esterno. (Courtesy www.progettodiogene.it)

Fig. 5. Il tram Diogene, interni. (Courtesy www.progettodiogene.it)

riale e del consumo, cui conferiscono una spinta irresistibile il rilancio del sistema culturale della città con i Musei, le fiere di Artissima e gli eventi collaterali e perfino underground, e il potenziamento dell’azione progettuale di attori di primo piano dell’economia della conoscenza come il Politecnico e l’Università. L’esperienza di situa.to appare senz’altro emblematico di questo mutamento di segno: si tratta di “un laboratorio di osservazione urbana, un programma di alta formazione e una piattaforma collaborativa che ha coinvolto, nel 2010, trenta giovani provenienti da diversi ambiti disciplinari (arte, architettura, design, letteratura, cinema, scienze umane e sociali) in un percorso di ricerca sulla città e sulle sue trasformazioni” (http://www.atitolo.it/project/situa-to/). Curato dal collettivo a.titolo e da Maurizio Cilli, architetto, artista e organizzatore culturale, l’iniziativa, ispirata a un’esperienza condotta da Fondation de France, prevedeva una fase formativa con workshop tenuti

da artisti ed esperti, cui è seguita una fase esplorativa nell’area metropolitana di Torino nella quale i partecipanti, sostenuti da un finanziamento della Compagnia di San Paolo, erano chiamati a evocare il potenziale immaginifico e progettuale dei luoghi a partire da un’indagine sulla loro percezione e sull’uso quotidiano che se ne fa (in tutto circa trenta casi, detti “situa”). Quest’azione ‘catalitica’ avrebbe portato all’elaborazione di sette progetti realizzati grazie alla collaborazione tra traceurs, artisti e designer e abitanti. Gli esiti di questa attività sono stati significativi sia sul piano delle azioni concrete di reinterpretazione del senso dei luoghi, con interventi minuti ma rilevanti sul piano degli effetti spaziali (oggi diremmo di urban tactics: Figura 2), sia su quello della costruzione di modalità alternative di lettura della città come spazio delle pratiche del quotidiano. Se questa esperienza non ha avuto seguito nelle attività istituzionali della Città, che anzi ne ha so-


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stanzialmente smarrito il senso, le ricadute sul piano delle esperienze individuali e delle rappresentazioni – non convenzionali – della Torino post-crisi rappresentano senz’altro un patrimonio conoscitivo prezioso e un unicum nel panorama italiano. Un’esperienza peculiare che nasce da analoghe riflessioni sul rapporto tra arte e spazio urbano ‘marginale’ è senz’altro quella che fa capo a Progetto Diogene. Sulla scorta di suggestioni scaturite dall’incontro con la citata realtà di Stalker e con le pratiche degli artisti camminatori (Amish Fulton in particolare), il collettivo di artisti Progetto Diogene decide di innovare le modalità della residenza artistica, campo nel quale era già attivo e noto alla scala internazionale: dopo aver realizzato, a partire dal 2007, case/rifugio d’artista in spazi interstiziali o inusuali della città di Torino, come il cubo di legno alla Gran Madre (figura 3) che ospitò l’artista cinese Pak Sheung Chuen dal 12 ottobre al 2 novembre 2008, il collettivo torinese cerca una localizzazione più stabile e un’interazione non nomadica con la città. L’anno successivo, il 2009, viene identificata in una rotonda situata nel quartiere periferico di Aurora la localizzazione ideale in cui ospitare ‘stabilmente’ la residenza d’artista. La rotonda, un terrain vague su cui corre ancora il sedime di una linea tranviaria, viene occupata con il benestare dell’Amministrazione comunale e con la collaborazione del Gruppo Torinese Trasporti (GTT), che ripristina i binari e concede in comodato gratuito l’uso di un tram dismesso, che viene attrezzato per ospitare gli artisti in residenza (figure 5 e 6). Paradossalmente, da mezzo di trasporto il tram diventa elemento ‘stanziale’ e, soprattutto, diventa strumento di trasformazione di uno spazio abbandonato, inerte, lambito ma non attraversato dalle pratiche del quotidiano, in un luogo vitale, teatro di accadimenti, incontri e scambio sociale. Le attività di cooperazione con il quartiere e i suoi abitanti – anziani, studenti delle scuole dell’obbligo, lavoratori, casalinghe -, dapprima non previste né cercate, diventano uno dei fulcri dell’esperienza e intersecano la ricerca dell’artista in residenza. Uno spazio marginale, pensato per smistare altrove flussi di persone e merci, diventa esso stesso ‘luogo notevole’ in cui il quartiere si identifica: il tram non è mai stato manomesso, né si è sentita mai l’esigenza di garantire una particolare sorveglianza. Nel frattempo Diogene allarga la gamma delle proprie attività, e attualmente lavora su cinque progetti: Residenza-borsa di studio ‘Bivacco Urbano’ (che nel frattempo è diventata un’iniziativa a sostegno della ricerca pura, svincolata dall’abitare nel tram), ‘Serie Inversa’ (un progetto che si prefigge si-

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stematicamente una mappatura della produzione culturale giovane piemontese, attraverso una selezione e delle mostre ad hoc), ‘Solid Void’ (scuola di alta formazione di una settimana per artisti selezionati da Diogene che si confrontano con un artista di chiara fama e un ricercatore), ‘Diogene Lab’ (laboratori con le scuole medie e elementari di corso Regio Parco, tematica sviluppata dall’artista in residenza e tre educatori), ‘Collecting People’ (contenitore che convoglia esperienze che vengono raccontate durante una presentazione pubblica), ‘Diogene edizioni’ (per la pubblicazione di saggi e cataloghi inerenti le attività del collettivo). Le risorse finanziarie provengono principalmente dalla Compagnia di San Paolo, che sostiene annualmente Progetto Diogene al di fuori dei bandi periodici, mentre altri finanziamenti provengono dai bandi proposti da enti territoriali come la Regione Piemonte.

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EMANUELE GALESI

VENT’ANNI DI PADANIA

LA GRANDE MADRE La Padania è una nazione fondata su una delle autostrade più trafficate d’Europa, la A4, che ne unisce i principali centri politici e economici. Ha una capitale, Milano, dove vivono 1,3 milioni di persone. Le due ‘sotto-capitali’amministrative sono Torino, 900mila abitanti, e Venezia, 260mila abitanti. Le altre principali città della Padania, sopra i 100mila abitanti, sono Novara, Monza, Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Padova. Tranne Monza, collocata a nord di Milano, si trovano tutte sull’asse dell’Autostrada A4, la Grande Madre della Padania. Sommando gli abitanti di Milano, Torino e Venezia a quelli delle altre città di medie dimensioni si arriva a circa 6 milioni di persone: i restanti 13 milioni di cittadini della Padania vivono in comuni medio piccoli, piccoli o piccolissimi, nell’estesa urbanizzazione dispersa e diffusa che la caratterizza. Ogni giorno sull’Autostrada A4, nel solo tratto tra Milano e Brescia, circolano 100mila veicoli.

LEGA NORD Il cammino del popolo è verso la Terra Promessa. Verso la Padania, entità territoriale inventata dalla Lega Nord, partito politico nato nel 1989 come federazione dei gruppi indipendentisti di Veneto, Lombardia e Piemonte. L’obiettivo del partito è l’indipendenza dal resto dell’Italia, dall’odiato governo centrale di Roma, attraverso la secessione o il federalismo. Il nome Padania deriva dal fiume Po, che divide il Nord dalla Penisola che si estende nel Mediterraneo. Secondo il partito, il popolo della Padania ha caratteristiche comuni dal punto di vista genetico, linguistico e culturale che lo rendono differente, nonché migliore, rispetto al resto degli italiani. Il progetto ha avuto il culmine simbolico nella dichiarazione di indipendenza della Padania del 15

settembre 1996. Sotto la sua bandiera sono nate tra le altre cose un Parlamento, un gruppo paramilitare, le Camicie Verdi, un concorso di bellezza, Miss Padania, un campionato di calcio. Vent’anni dopo, la Padania non è uno stato riconosciuto, ma è uno stato mentale, unificato dal suo paesaggio. La Lega Nord è attualmente il partito più vecchio presente nel Parlamento italiano, a Roma.

MEGALITI Inventando la Padania, la Lega Nord ha dato un nome a una nazione cresciuta vorticosamente dal Dopoguerra alla Grande Crisi. Una terra ricca, che racchiude poco meno di un terzo del Pil italiano, in cui l’azienda e il fatturato sono ai primi posti nella scala dei valori. L’azienda è un avamposto di una strategia militare di occupazione del territorio, il capannone è la forma di democrazia edificatoria. Con le sue linee semplici è replicabile da chiunque, ovunque. Il capannone è un segno di identità di un territorio che da Torino a Venezia è votato alla produzione. Dalla produzione al consumo: gli altri grandi scatoloni, i centri commerciali, sono una manifestazione più recente dell’economia padana. La loro diffusione è stata massiccia negli ultimi vent’anni, con due caratteristiche: come i cani, invecchiano più rapidamente rispetto agli uomini, un loro anno vale sette dei nostri; come nel gioco della dama, devono essere sempre più grandi per mangiare gli avversari. Capannoni e centri commerciali sono i Monumenti al Fatturato della Padania.

CANTIERI La Padania non esisterebbe senza cantieri. Il popolo della Padania è infastidito dal vuoto, considera il terreno come un bene disponibile e, in


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quanto tale, da occupare. Dagli anni Cinquanta a oggi è stata calcolata una cementificazione pari a otto metri quadrati al secondo. Strade, case, capannoni, centri commerciali: le porzioni di terra non costruite sono diventate ritagli, dato che in sessant’anni le parti edificate sono cresciute del 166%, a fronte di un aumento della popolazione del 28%. Il cantiere è segno di vitalità, è il trionfo dell’edilizia che per anni ha contribuito al benessere materiale della Padania. L’espressione più recente di questa voracità è stata Expo 2015. A Milano, ettari

di terreno agricolo sono stati ricoperti per fare spazio al cemento dell’Esposizione Universale. Il cui tema era “nutrire il pianeta”. Le terre su cui è stata costruita Expo sono però diventate inutilizzabili, incapaci di nutrire chicchessia: non più in grado di dare frutti, servono solo a nutrire gli speculatori. I cantieri si nutrono del materiale estratto dalle cave: nei 3.333 comuni della Padania ne sono state censite circa 7.000. Quando poi l’estrazione di ghiaia, sabbia o argilla termina, la cava si trasforma in una discarica. Il fastidio provocato dal vuoto si risolve anche riempiendo quel vuoto di rifiuti.


VENT’ANNI DI PADANIA

CIANFRUSAGLIA La Padania è il regno della cianfrusaglia. È la nazione dove ogni cosa è sparpagliata secondo la logica del tutto e ovunque. In assenza di regole urbanistiche e paesaggistiche generali per la gestione del territorio, ogni comune, ogni politico, ogni imprenditore, ogni privato cittadino si sente in diritto di contribuire a marchiare la propria porzione di Padania. Lo si vede anche nella comunicazione pubblicitaria. È una giungla in cui vieni schiaffeggiato da messaggi disposti senza alcun ordine per la promozione del prodotto o del

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servizio, di questa o di quell’altra azienda, per la santificazione del fatturato. Il cartellone pubblicitario rivela un’altra grande passione del popolo padano: creare spazio per poi occuparlo. Il cartellone si prende una fetta di orizzonte, la incornicia, delimita un nuovo territorio che poi può essere utilizzato. È un ciclo perfetto, esattamente come accade con le rotatorie stradali. Al posto di un incrocio arriva un cerchio attorno a cui viaggiano le auto. Nel mezzo si crea un vuoto da presidiare. Come? Con un monumento, finanziato dal Comune o più spesso dall’imprenditore locale. Perfetto. Cianfrusaglia, cianfrusaglia e cianfrusaglia.


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PALME La palma è certamente il più misterioso tra i classici padani. Nessuno sa spiegare il motivo per cui la Padania ne sia piena: nelle abitazioni, nelle aziende, ai lati delle strade. La palma è un’erezione perenne, è divina. Ma non bisogna interrogarsi troppo sui perché. Le cose, in Padania, esistono perché esistono. La loro esistenza motiva la loro presenza e la loro presenza motiva la loro esistenza. È una tautologia continua. Capannoni, centri commerciali, autostrade, aree residenziali, compro oro, centri massaggi, palme, cartelloni pubblicitari, chiese che sembrano azien-

de, tralicci, tangenziali, cantieri, rotatorie, monumenti senza significato, parcheggi: ogni cosa è eretta, ogni cosa è piantumata. I classici padani dimostrano che c’è un’identità comune da Torino a Venezia, passando per Milano, dalle Alpi occidentali al Mar Mediterraneo. Un’identità che non ha nulla a che vedere con quanto raccontato dalla Lega Nord, ma che grazie alla Lega Nord da vent’anni ha un nome: Padania.

Fotografie di Filippo Minelli (Padania Classics e Atlante dei Classici Padani, Krisis Publishing 2015).


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DAVIDE PAGLIARINI*

LE CITTÀ E GLI SPECCHI

LA CITTÀ PAESAGGIO La città paesaggio (Librìa Editore, 2016) raccoglie l’esito di un progetto di salvaguardia del patrimonio materiale e immateriale della company town di Dalmine, progettata tra il 1925 e il 1944 dall’architetto Giovanni Greppi (1884-1960) con la coerenza di un disegno unitario portato a compimento in un ventennio. Una città giardino, contraddistinta dalla straordinaria vegetazione arborea dei suoi quartieri, dalla presenza delle sue architetture monumentali e dal paesaggio naturale del fiume Brembo, un ecosistema ancora oggi preservato e frequentato dalla comunità. La città paesaggio è anche un viaggio fotografico, in cui la fotografia permette di planare sui luoghi e sui ricordi e di compiere uno scavo nel tempo. Un racconto per immagini e parole, in cui le testimonianze degli abitanti incontrati, le immagini d’archivio, i disegni originali dei progetti degli anni ’20 e ’30 e le illustrazioni botaniche aprono continui rimandi nel flusso delle fotografie, restituendo così un ritratto vivo ed inedito dell’immagine contemporanea della città, ancora capace di nutrire un immaginario e un’idea di futuro. Curato da Davide Pagliarini e prodotto dal laboratorio new landscapes, il progetto ha visto la partecipazione di un gruppo di ricercatori (Davide Pagliarini, Michela Facchinetti, Paola Linda Sabatti, Vera Teodori) impegnati in una indagine etnografica e fotografica compiuta tra ottobre 2014 e marzo 2015, attraverso numerosi sopralluoghi. Utilizzando linguaggi e strumenti plurimi e complementari, quali l’incontro diretto con le persone – nelle loro dimore o nel paesaggio –, la raccolta delle loro testimonianze, la fotografia e la grafica, le informazioni sono state raccolte adottando due registri: l’uno scientifico, l’altro basato sull’empatia per i fenomeni considerati. * newlandscapes.org / Direttore della rivista di architettura Ark.

La ricerca sul campo ha richiesto e previsto la partecipazione attiva della comunità. Si sono incontrati e sono stati intervistati 14 narratori-testimoni di cui sono stati raccolti i racconti e i documenti da essi custoditi. Sono stati prodotti 17 ritratti fotografici inediti. Ai narratori-testimoni coinvolti sono state poste domande tanto sul passato quanto sul presente della loro relazione con il paesaggio di Dalmine. Con loro si è attraversato, fisicamente, l’ambiente naturale del fiume Brembo e la company town, oltre che la memoria e il ricordo. Con loro si sono osservati documenti d’archivio e selezionato ciò che poteva essere utile al progetto di ricerca. Alcuni testimoni sono stati indispensabili per dar vita ad una rete di conoscenze, per incontrare

Fig. 1. Rosaspina Galizzi davanti a un filare di pini domestici. Quartiere operai Mario Garbagni, via Trieste, 27 marzo 2015 (fotografia di Vera Teodori). La città paesaggio, 2016, p. 69.


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Fig. 3. Argine del fiume Brembo. Dalmine, 16 novembre 2014 (fotografia di Vera Teodori). La città paesaggio, 2016, p. 63.

ESPLORAZIONI SOMMARIE DI UN CONTINENTE INTERIORE

Fig. 2. Alveo del fiume Brembo tra Dalmine e Filago, anni ‘50 (Archivio Evaristo Paris). La città paesaggio, 2016, p. 47.

altri testimoni che altrimenti non si avrebbe avuto la possibilità di conoscere. Le relazioni esistenti nella comunità, l’incontro casuale o premeditato, non solo con gli anziani o gli adulti, ma anche con i più giovani, i nuovi insediati o gli “estranei” hanno permesso di circoscrivere uno sguardo ed un racconto della città e del paesaggio che ha un carattere eterogeneo per provenienza culturale, genere ed età. Le narrazioni, proseguendo l’una nell’altra, hanno dato vita ad un ipertesto. I diversi elementi che compongono e aprono continue finestre nel flusso delle immagini fotografiche – testi, oggetti, documenti, disegni – hanno contribuito a definire un paesaggio culturale percepito come un tutto, come una unità organica. Più che riassumere i contenuti e gli esiti della ricerca, questo testo traccia le coordinate entro le quali si è sviluppata, al fine di articolare la posizione assunta da La città paesaggio rispetto al tema a cui l’edizione 2016 di Iconemi è dedicata: l’Arte Pubblica per la rigenerazione sociale e territoriale.

Se si ammettesse la possibilità di scomporre l’arte in correnti, scuole e ambiti curatoriali autonomi e se tra essi quello dell’arte pubblica fosse contemplato, la ricerca La città paesaggio si collocherebbe tra le forme di esplorazione attiva dei territori, che dell’arte pubblica è un sottoinsieme. Un’esplorazione presuppone che l’oggetto di osservazione sia una regione sconosciuta, in cui raccogliere campioni e compiere rilievi utili a costruire un modello del fenomeno osservato. L’esplorazione è sempre attiva perché implica la raccolta di indizi e testimonianze, l’annotazione di presenze endemiche oppure ubiquitarie, la compilazione di registri che confermino o smentiscano eventi fortuiti, la rappresentazione di mappe come sistemi complessi di dati non lineari. Tale approccio è praticabile anche in presenza di un orizzonte geografico già noto. A consentire nuove scoperte sono gli strumenti impiegati – lo sguardo non è che uno tra essi – e il metodo applicato durante la ricerca. Così gli strumenti presenti ne La città paesaggio sono molteplici perché l’oggetto della ricerca, un sentimento ambivalente di paura per una perdita e di desiderio di fuga, è indefinito e forse inconoscibile. Tutti hanno paura di perdere qualche cosa e allo stesso tempo vogliono essere liberi. Liberi di non essere costretti entro i limiti del proprio cor-


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Fig. 4. La città paesaggio, Librìa Editore, 2016.

po, entro le certezze dei sensi, di ciò che essi registrano, misurano, classificano, entro la rassicurante identità fondata su una reputazione, entro le maglie di un contesto che è stato deciso per noi. La soluzione a questo conflitto consiste nel considerare ciò che ci trattiene, che è in fondo ciò da cui proveniamo, come un orizzonte duttile, come una stazione di partenza, come una pista proiettata verso l’ignoto, quella terra incognita che i cartografi del XVI secolo collocavano oltre i confini delle rocce allora emerse e dei mari attraversati. La città paesaggio è questo. Un imbarco. Chi se ne è separato vi fa ritorno più e più volte, trovandovi reliquie e rifornimenti per ripartire nuovamente con vettori diversi. Ne La città paesaggio la persistenza della memoria e la forza del desiderio si alimentano vicendevolmente. Più i ricordi sono persistenti, più intensa sarà la loro energia propulsiva; maggiore è la loro attrazione gravitazionale e più alta sarà la velocità di fuga da essi. La memoria non paralizza la nostra esistenza, la accende. Il desiderio si nutre della memoria, ne è abitato, in un moto bergsonia-

no in cui passato, presente e futuro sono percepiti come una unità organica. Tra memoria e futuro si compie una relazione vitale, fertile, che produce in noi un fremito. La città paesaggio è una soglia tra questi orizzonti temporali e ciò pone i suoi abitanti e i suoi esploratori in una comune condizione di radicamento e di slancio in avanti. Una eventuale collocazione de La città paesaggio nell’ambito dell’arte pubblica va situata entro questo orizzonte ontologico e solo secondariamente etico ed estetico.

QUALE ARTE PUBBLICA? La valenza pubblica di un’opera, l’utilità e la responsabilità sociale da essa assunte come intenti programmatici, la partecipazione collettiva ai suoi rituali, il coinvolgimento attivo della cittadinanza alla sua costruzione e fruizione chiamano in causa questioni che hanno una risonanza infinitamente più ampia rispetto all’ambito di azione dell’arte contemporanea. Se l’arte è dare forma all’esperienza e


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all’essere nel mondo, le ragioni e le condizioni della sua esistenza vanno cercate al di fuori di essa, nella vita, nei sentimenti che la muovono e nella biosfera.

Fig. 5. Radiotelescopio di Medicina (Bologna). Michelangelo Antonioni, Il deserto rosso (1964), dettaglio.

L’uomo non è il destinatario del messaggio contenuto nell’arte, egli ne è piuttosto uno strumento. Il fine dell’arte è quello di interrogare il mondo nella sua unità cosmica per restituirne un’immagine che ne costituisca il precipitato. La funzione di questa immagine poetica del mondo non si esaurisce nella soddisfazione di un piacere contemplativo, individuale o condiviso ma pur sempre edonistico e in ultima istanza antropocentrico. Scopo dell’arte è riconoscere una legge universale e dare ad essa una forma che possa parlare alla profondità della coscienza, ponendola in una condizione di ascolto più che di appropriazione. In questa prospettiva, dai negativi dei palmi dipinti 18.000 anni fa sulle rocce delle caverne paleolitiche ai trionfi della morte affrescati sulle facciate degli oratori del ‘400, alle tele dipinte da Giovanni Segantini, al cinema di Andrei Tarkovskij, tutta l’arte è pubblica e risulterebbe riduttivo frammentare i suoi territori in ambiti disciplinari specialistici. Persino il quadro, un agile oggetto di piccolo formato nato nella società mercantile del

Fig. 6. Giovanni Greppi, casa bifamiliare per impiegati (1925), il giardino visto dallo specchio di una stanza. Quartiere impiegati, 18 novembre 2014 (fotografia di Davide Pagliarini). La città paesaggio, 2016, p. 172.


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XVI secolo per trovare posto nelle dimore di tessitori, armatori e spedizionieri che avevano fatto fortuna con i commerci, è un manufatto d’arte pubblica, oggetto di scambio e infine reliquia a cui, con l’affermazione della modernità, si associerà la nascita del museo. Giorgio Agamben chiarisce questa riflessione notando come al centro del fare artistico si siano imposte, nel corso della storia, volontà differenti: fino al Quattrocento era l’opera – l’artefatto materiale, l’oggetto tangibile – a costituire il centro della pratica artistica tanto che, se si escludono rarissime eccezioni, i nomi degli artisti non si ricordano. Dal Rinascimento in poi l’artista assume un ruolo primario: egli afferma la propria supremazia sull’opera, che diventa una sua emanazione. Con la modernità industriale la ricerca ontologica dell’arte si sposta sull’evento: la struttura e la tenuta nel tempo dell’opera si indeboliscono, la credibilità dell’artista è una condizione non necessaria e trascurabile, il ruolo della critica e del mercato e l’efficacia dell’azione certificano e determinano il successo del fare arte (si veda anche il libro di Mario Perniola, L’arte espansa, Einaudi, 2015). Rispetto a questo specifico assunto, La città paesaggio si colloca nell’ambito della prima delle concezioni individuate da Agamben, attuandola attraverso linguaggi (la fotografia su pellicola di medio formato, l’ipertesto, il libro stampato industrialmente) contraddistinti da regole e codici espressivi che sono inevitabilmente propri del presente.

Fig. 7. Bruno Brizzoleri nell’orto. Quartiere operai Mario Garbagni, 11 dicembre 2014 (fotografia di Vera Teodori). La città paesaggio, 2016, p. 93.

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UNCOMMON PLACES A partire dagli anni Ottanta, con il tramonto delle ideologie marxiste e dei movimenti di azione politica e di partecipazione popolare, si sviluppano nuove modalità di azione culturale, non più rivolte alla società di massa e alle sue istanze materiali. I warholiani barattoli di pomodori Campbell (1962) e le scatole di detersivo Brillo (1964), l’esplosione del congelatore in Zabriskie point di Michelangelo Antonioni (1970) cedono il campo all’interrogazione di temi più introspettivi, che continuano ad essere comunitari, ma sono però più circoscritti al vissuto e alla storia di luoghi specifici. A mutare è il rapporto con la Storia e con il potere: ci si rivolge a storie minime, domestiche, appartenenti alla dimensione dell’intimità. La fotografia, il linguaggio che struttura La città paesaggio, registra puntualmente questo cambiamento e inizia ad osservare il mondo che si incontra “dietro l’angolo di casa”, soffermandosi sugli episodi più minuti per portarli al centro di una nuova attenzione, di una cura che inizia dai frammenti, riuniti in testi visivi che possano rilanciarli e trasfigurarli attraverso la forza trasformatrice dell’immagine fotografica. Autori come William Eggleston, Robert Adams, Sthephen Shore e Joel Meyerowitz in America, Guido Guidi e Mimmo Jodice in Italia si rivolgono al “paese che vedono tutti”, come lo ha definito Luigi Ghirri nel 1984, trasfigurandolo. Tutto può essere riscattato, dall’apparente banalità dei fenomeni ordinari alle azioni involontarie, dagli scarti della civiltà industriale alle rovine di un’antichità trascurata. Ciò offre una immensa possibilità di interpretazione, anche dove i luoghi ci appaiono per-

Fig. 8. Giovanni Greppi, case d’abitazione con porticati e negozi (1935), particolari degli interni. Quartiere centro, piazzale Risorgimento, 2 dicembre 2014 (fotografia di Davide Pagliarini). La città paesaggio, 2016, p. 130-131.


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duti. In una prospettiva antimonumentale, il fotografo riduce la propria presenza a quella di un osservatore fuori campo, di uno sguardo periferico, di un ospite che nutre un ascolto e un vigile interesse per una realtà che gli viene incontro. Se le modalità espressive sono delicate e antiretoriche, le intenzioni lasciano percepire le inquietudini di un uomo stretto nella propria fragilità e incomunicabilità, respinto dai luoghi – che non riconosce più – e dalle relazioni con l’altro e l’altrove, incapace di decifrare il linguaggio del nuovo che avanza. Una condizione esistenziale che alcune figure solitarie avevano già esplorato nella bulimia consumistica dei due decenni precedenti e che ora trovano un contesto che possa accoglierle al di fuori dei propri confini. Si pensi alla forza anticipatrice dei calchi in gesso di George Segal prodotti dal 1961 e agli abitacoli di Absalon che dal 1990 ne hanno rappresentano la filiazione diretta, o ancora al linguaggio criptato dei radiotelescopi di Medicina ne Il deserto rosso di Antonioni del 1964 o ancora a The New West di Robert Adams (1974) e alla mostra New Topographics: Photographs of a ManAltered Landscape dell’anno seguente. Lo spaesamento prodotto dagli Uncommon places di Stephen

Shore (1982) colonizzerà la pratica del paesaggio tanto negli Stati Uniti quanto in Europa. Se confrontata con il mondo ordinario visto dai Nuovi Topografi americani e dai fotografi di Viaggio in Italia (il progetto collettivo ideato da Luigi Ghirri nel 1984), la Dalmine città paesaggio è un frammento contrassegnato da una aristocratica ed elitaria coerenza rispetto al disordine delle urbanizzazioni deboli che la circondano. La company town progettata da Giovanni Greppi, conservatasi pressoché intatta fino ad oggi, attraversando un secolo di cambiamenti antropologici, sociali ed economici, appartiene ai racconti forti, alle grandi narrazioni che aprono il XX secolo, quelle narrazioni in cui il nuovo che avanza si innesta come una promessa di emancipazione tangibile sui residui di un mondo preindustriale, inconsapevole e stupito. Per questo lo sguardo adottato ne La città paesaggio si rivolge alle cose con un angolo visivo circoscritto all’esplorazione dei dettagli, che assumono così la valenza di indizi. L’intorno non esiste più o è diventato irriconoscibile, la città giardino e l’ambiente naturale della valle del fiume Brembo possiedono la singolare qualità onirica propria di un frammento superstite.

Fig. 9. Pini domestici. Giovanni Greppi, case d’abitazione con porticati e negozi (1935), quartiere centro, via Mazzini, 29 marzo 2015 (fotografia di Davide Pagliarini). La città paesaggio, 2016, p. 118-119.


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ETICA ED ECOLOGIA DEL PAESAGGIO A partire dalla fine degli anni Ottanta l’esperienza artistica si rivolge alla quiete domestica, al racconto di delicate fenomenologie del quotidiano, all’esplorazione di mondi introspettivi. L’orizzonte domestico, della casa e del quartiere, con i suoi rapporti di prossimità, di fiducia, di abitudine, costituisce una formidabile valvola di sicurezza che tuttavia non ha mai smesso di custodire paure mai del tutto risolte o archiviate. Le profonde implicazioni ontologiche ed etiche determinate dalla crisi petrolifera del 1973, dalla minaccia atomica, ancora latente fino agli anni Ottanta, dalla risonanza planetaria prodotta dai disastri ambientali verificatisi tanto nei paesi occidentali (Seveso, 1976) quanto in quelli delle ex colonie europee (Bophal, 1984) o dell’ex blocco sovietico (Chernobyl, 1986) hanno determinato un sentimento di sfiducia nel primato della tecnica (ma potremmo dire della volontà di potenza nietzchiana) e una rivalutazione di modelli sociali ed economici ad essa complementari che potessero orientarne lo sviluppo. A partire dagli anni Settanta l’ecologia del paesaggio si sviluppa e si radica nelle coscienze di una cittadinanza sempre più numerosa, travalicando l’ambito specialistico delle ricerca scientifica e della pubblicistica tecnica. La consapevolezza della fragilità della biosfera e della precarietà della vita sulla Terra diventano temi diffusi che accompagneranno l’immaginario collettivo fino alle soglie del nostro presente. Le istanze sollevate in quel delicato momento storico, lontano dall’essere tramontate, possono oggi avvalersi di un avanzamento tecnologico che si è orientato – per necessità, opportunità e, in alcuni casi, lungimiranza – alla conservazione degli ambienti

Fig. 10. Cedri e pini silvestri. Torre di raffreddamento degli stabilimenti Dalmine (1952), quartiere impiegati, via Mazzini, 1 aprile 2013 (fotografia di Davide Pagliarini). La città paesaggio, 2016, p. 150-151.

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naturali, alla produzione di energia da materie rinnovabili e di beni contraddistinti da una bassa impronta ecologica. L’ecologia del paesaggio non è più un orizzonte idealizzato, circoscritto al mito romantico della Wilderness o riferito ad ambiti marginali quali le aree tutelate delle riserve e dei parchi naturali. È un requisito discusso nei parlamenti, nei tavoli politici, nelle azioni di movimenti che difendono gli ecosistemi. La città paesaggio si colloca entro questo orizzonte e sceglie una città dell’acciaio, scaturita dall’energia termica dei suoi altiforni, per raccontare un nuovo paradigma ambientale. L’industria siderurgica è lo sfondo invisibile della narrazione perché il suo presente è l‘obsolescenza e il suo futuro è già avviato verso una sua trasformazione. “I grandi impianti siderurgici come quello di Dalmine, che per un secolo hanno rappresentato il motore di uno sviluppo industriale poderoso, con l’allentarsi del primato dell’industria pesante nei distretti produttivi dell’Occidente avanzato hanno avviato un processo di trasformazione verso nuovi assetti produttivi e non è difficile immaginare che in futuro l’acciaieria Dalmine tornerà ad essere un bosco, punteggiato di laboratori e officine di vetro con al centro una radura, adibita a campo di volo e di prova per la mobilità del domani. Al loro interno si produrranno semilavorati in materiali compositi e nuove leghe per veicoli elettrici e ultraleggeri ad energia fotovoltaica. Officine sobrie e in armonia con il luogo, proprio come le architetture greppiane” (La città paesaggio, p. 12).

LE CITTÀ E GLI SPECCHI “Dalmine è una città paesaggio, disegnata da un unico progettista in soli vent’anni. (...) Sorte troppo in fretta per essere comprese dai loro stessi abitanti, per produrre un’immagine definita di se stesse e per accogliere contaminazioni ed evoluzioni, le città di fondazione appartengono a quell’insieme di esperimenti rischiosi, che spesso sono andati incontro a fallimenti e abbandoni. È per questo che Dalmine ha sempre cercato nelle immagini un riflesso della propria identità (...). Dalmine rappresenta un caso straordinariamente ricco di iconografia ed è significativo che proprio qui si siano incontrate figure, dalle istituzioni ai singoli cittadini, che hanno fatto dell’archiviazione un impegno civile. Immagini come ormeggi, stive in cui custodire beni preziosi. Recessi mai del tutto esplorabili ed esauribili anche per chi ne è direttamente custode” (La città paesaggio, p. 15). Questa inconoscibilità della città, l’impossibilità di sottrarsi a interpretazioni arbitrarie di essa, fa di ogni sua narrazione un prisma entro i cui


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Fig. 11. Valle del basso Brembo, luglio 1974 (Archivio Evaristo Paris). La città paesaggio, 2016, p. 45.

piani si moltiplicano riflessioni e rifrazioni. Non vi è una unica città, come non vi è una unica lente ad osservarla. Ciascuno dei linguaggi presi in esame nella sua esplorazione – la parola scritta, la testimonianza orale, il documento fotografico e il cinegiornale commissionati dalla propaganda di regime, l’album di famiglia, la fotografia contemporanea, il disegno architettonico – portano con sé indizi di una verità che ci giunge per frammenti, resi opachi dalle stratificazioni della memoria e scardinati dall’energia trasformativa dell’immaginazione. L’immagine di Dalmine che emerge dai racconti degli abitanti incontrati tra il 2014 e il 2015 è indefinita: città di fondazione, città fabbrica, città operaia, città disegnata, città di architetture, città monumento, città giardino, città paesaggio, città infrastruttura, città imprevista. Di queste immagini La città paesaggio esplora quella aerea e rarefatta che ha inizio con la fondazione della company town. Dalmine diventa così luogo dell’infanzia, dell’immaginario, del sogno, del desiderio, della prefigurazione del futuro. A determinare il nostro stare dentro il prisma delle città e degli specchi è una continua oscillazione tra volontà che si riflettono le une nelle altre, le une costruttrici, le altre disgregatrici, le une accentratrici, le altre centrifughe. È su questa soglia indefinibile che si colloca la nostra coscienza, il nostro io polifonico. James Hillmann ha affermato che la coscienza è il risultato dell’interazione tra il cervello, il corpo e il mondo. Henry Bergson l’ha descritta co-

me uno spirito vitalistico, un élan vital. Ma è Jean Paul Sartre ad averne dato la definizione più stupefacente. Se noi siamo corpi, organi, nervi, ossa, citochine, dopamine, serotonine, la coscienza è il nulla che si cela nei recessi della nostra materia. Indefinibile e immateriale, la coscienza è ciò che ci identifica e ci rende diversi; non il corpo, il cui genoma è identico per ciascuno di noi ad eccezione di una percentuale ridottissima del suo codice numerico. La coscienza è nulla e da quell’essere nulla noi ridefiniamo continuamente la nostra esistenza, nel tentativo di afferrarla, di sottrarla al divenire, di fissarla facendoci dire per un istante “io sono”, per poi riconsegnarci al misterioso scorrere dell’esistenza. La coscienza è ciò che ci abita nostro malgrado e ci definisce, che ci consente di comunicare, di parlare un linguaggio comune. Capiamo allora perché sia sempre stata così forte nell’uomo, antico e di oggi, l’attrazione che il nessun luogo e l’altrove esercitano sulla psiche. L’altrove è il contraltare al tutto pieno della vita, è il vuoto che consente alle città-corpi descritte da Giuliana Bruno nel suo Atlante delle emozioni (Bruno Mondadori, 2006 e Johan & Levi, 2015), ricolme di vitalità, di tramestii domestici, di interessi, di affari e traffici, di trovare un senso comune. Ed è qui, dopo questa lunga circonvoluzione, che gli specchi ritornano. Il vuoto come rispecchiamento del pieno, come nulla che dà vita al tutto, il vuoto come non ancora accaduto, come presagio e come destino, il vuoto come possibilità di dare avvio ad un nuovo inizio. Nel 1999, nella sua Lezione di ecologia umana (Dall’angoscia alla speranza. Una lezione di ecologia umana, Mendrisio Academy Press, 1999) Albert Jacquard ci ricordava come tutti i fenomeni fossero interdipendenti, legati tra loro dalla finitudine. Il vuoto è allora una energia latente sottratta al consumo e alla corruzione. Osservare i fenomeni significa fare i conti con il desiderio paradossale di non trasformarli in modo irreversibile, ma di proiettarvi uno sguardo che abbia la leggerezza di un sorvolo, per rileggerli continuamente. È anche per questo che continuiamo a fare fotografie e che riconosciamo tra le pagine di un album di famiglia la stessa forza con cui sono solite commuoverci le opere d’arte.

Questo testo è dedicato alla memoria di Edy Spreafico, anacronistico raccoglitore di immagini, archivista fuori dal tempo e da quella stessa Storia da egli instancabilmente raccolta e conservata.


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L’ARTE NELLO SPAZIO PUBBLICO: ESPERIENZE INTERNAZIONALI

Dalle sperimentazioni delle neo-avanguardie degli anni ’60 alla body art, alle performance e agli happening del decennio successivo, molte direzioni della ricerca artistica approdano negli anni ’90 alle espressioni partecipative, relazionali e contestuali, in cui alla rappresentazione/evocazione/critica della realtà, si affianca il desiderio di prendervi parte e di modificarla attraverso la creazione di situazioni, azioni e manovre che coinvolgono nei modi più diversi il pubblico. Dalla produzione di opere si passa sempre più diffusamente alla costruzione di processi che mettono in discussione il rapporto fra artista e pubblico e, più in generale, tra artista e sistema dell’arte, rendendo la materialità dell’opera effimera, se non inconsistente, e privilegiando la dimensione site specific, situazionale e relazionale della creazione. D’altro canto, e simultaneamente, si assiste alla disseminazione dell’esperienza estetica nella società e all’apparente “democratizzazione” dell’arte: nelle forme del design e del turismo culturale, nelle molteplici coniugazioni del lavoro “creativo” e nella mediaticità garantita dal web. Nelle relazioni precedenti sono state già delineate le coordinate entro cui si muove il complesso scenario dell’arte pubblica, precisando cosa si debba intendere oggi per “pubblico”, e “quali”, e “quante” variabili questa condizione possa prevedere. È anche emersa l’ambiguità dell’arte pubblica, volta a volta assunta come strumento per la soluzione di problemi sociali, o dispositivo di denuncia di contraddizioni economiche o, ancora, rivelatore di squilibri e di devianze comportamentali. In questo complesso quadro anche i musei hanno visto mutare il loro ruolo tornando ad assumere importanza nella veicolazione delle tendenze e negli orientamenti della critica e del mercato: se negli anni

’60 l’obiettivo era stato “uscire dal museo”, in questa fase i musei diventano luoghi di catalizzazione per la rinascita culturale delle città, spesso anche in termini fisici ed urbanistici, come nel clamoroso caso del Guggenheim Museum di Bilbao a metà degli anni ’90. Non è dunque un paradosso se gli artisti selezionati per questa breve antologia sono stati scelti tra quelli che hanno esposto alla Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo nel corso degli ultimi vent’anni: un passaggio non necessario, ma sufficiente a validarne la riconoscibilità e l’attribuzione di un possibile valore condiviso. Si tratta di artisti internazionali che hanno operato anche in Italia, ognuno dei quali esemplifica una specifica e singolare declinazione nel complesso scenario dell’arte pubblica, ma comunque riferibile a due macro categorie di interventi: i progetti privati e individuali con obiettivi pubblici e/o politici e i progetti pubblici con obiettivi pubblici e/o politici.

CHRISTO E JEANNE-CLAUDE O IL VALORE ESPERIENZIALE DELL’OPERA D’ARTE

Christo e Jeanne Claude, protagonisti della Land Art e autori quest’anno del progetto per il Lago di Iseo “The Floating Piers”1, lavorano sullo spazio urbano già negli anni ’60. Concepito come forma di protesta contro il Muro di Berlino, il Mur de barils de pétrole (le rideau de fer) realizzato in Rue Visconti a Parigi è il loro primo importante intervento pubblico. Senza aver ottenuto i necessari permessi delle autorità cittadine, il 27 giugno 1962 i due artisti fanno costruire con 2402 fusti di petrolio vuoti una “cortina di ferro” alta 4,30 metri che blocca la circolazione per otto ore in una stretta via parigina. Il Muro di barili, accatastati

1 The Floating Piers (I pontili galleggianti), 200.000 cubi di polietilene Fondotoce , 160 ancoraggi da 5 tonnellate, 70.000 mq. tessuto Setex (Germania), 5,5 km. percorso, 1.000 kg/mq., 18 giugno-3 luglio 2016. 2 Si veda la ricostruzione delle immagini dell’installazione in: http://www.ruevisconti.com/LaRueEnDecors/Happening/Arts.html


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l’uno sull’altro nel loro stato originario, con le colorazioni industriali, le scritte e la ruggine, realizza una fulminea azione-spettacolo accompagnata da un’esposizione concomitante, organizzata presso la galleria “J”, dove vengono presentate le fasi, i disegni, le descrizioni del progetto, la documentazione prodotta e anche una versione ridotta del Muro. Secondo uno schema che verrà adottato regolarmente, Christo e Jeanne-Claude non si limitano a realizzare installazioni che hanno come esito temporanee e clamorose modificazioni dello spazio urbano e/o del paesaggio. Ciò che interessa loro non è solo la dimensione spaziale dell’opera e la creazione di inediti punti di vista sulle architetture e sul paesaggio, ma l’attivazione dei processi necessari alla sua realizzazione. La documentazione dei momenti di elaborazione creativa, le iniziative promozionali per l’auto-finanziamento, le trattative – estetiche, politiche e anche ecologiche – necessarie alla realizzazione di ogni progetto sono parte integrante e qualificante dell’opera finale. Le imprese artistiche3 di Christo e Jeanne-Claude sono progetti privati e autocommissionati, ma

Fig. 1. Progetto per un muro temporaneo di barili da petrolio, Rue Visconti, Parigi, 1962.

con effetti di grande impatto pubblico, sia nei numeri del pubblico4 coinvolto, sia per la dimensione relazionale raggiunta affrontando problematiche specifiche nel rapporto tra arte e impresa, arte e tecno-scienza, arte e ambiente, in una prospettiva di interazione tra attori diversi che ha come scenario e obiettivo l’influenza dell’arte sul mondo reale.

CARSTEN NICOLAI O DELL’ARTE TOTALE L’intervento di Carsten Nicolai per piazza Plebiscito a Napoli, pur avendo esiti analoghi alle opere di Christo e Jeanne-Claude, segue un percorso radicalmente opposto nella sua realizzazione, inserendosi in una operazione di “istituzionalizzazione” dell’arte pubblica. A partire dal 1995 – per volere dell’allora sindaco Bassolino –, ogni anno tra dicembre e gennaio, un grande artista internazionale scelto dal direttore e curatore del MADRE viene invitato ad installare un’opera nella grande piazza neoclassica. Nel corso degli anni si sono succeduti tra gli altri Mimmo Paladino, Anish Kapoor, Rebecca Horn, Richard Serra, Luciano Fabro, Sol LeWitt con interventi sitespecific il cui tema indotto è sempre comunque la città di Napoli e laddove l’attore promotore dell’opera d’arte è pubblico, come pubblico e politico – se non propagandistico – è l’obbiettivo. Se molti degli artisti invitati hanno proposto lavori riferibili al loro repertorio più icastico – le pareti curve di Serra, l’Italia al palo di Fabro, la montagna di sale di Paladino –, l’artista e performer tedesco Carsten Nicolai, che nei suoi lavori unisce suono, software e scienza, ha rivelato con Pioneer II una grande

Fig. 2. Pioneer II, installazione per Piazza Plebiscito, tre mongolfiere, luci, flussi di suono da dati tellurici, Napoli, 23.12.201010.01.2011.

3 Nel corso di cinquant’anni ne hanno realizzate 22 e ottenuto il permesso per 37e, alcune delle quali hanno richiesto anche 40 anni per giungere a compimento. 4 Si pensi ai 5.000.000 di visitatori per l’”impacchettamento” del Reichstag a Berlino, nel 1995.


L’ARTE NELLO SPAZIO PUBBLICO: ESPERIENZE INTERNAZIONALI

sensibilità al luogo e alla città. Invitato nel 2010, ha trasformato la piazza in un luogo di risonanza dell’energia più intima e spaventosa della città, unendo i movimenti tellurici del Vesuvio – trasformati in flussi di suono da un software di sua invenzione – alla visione aerea di tre mongolfiere illuminate, poi sostituite da fasci di luce e fumo dopo che una tempesta le aveva danneggiate. Destinata ad una piazza tanto monumentale e simbolica, quanto desolatamente disabitata di sera, l’opera era godibile solo con il buio quando suoni onirici e luminosità avvolgenti la rianimavano, restituendole un ruolo pienamente pubblico con semplici elementi di socialità serale.

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zione della creatività sono gli obiettivi e insieme i messaggi che tutti i lavori di queste artiste sembrano auspicare per la donna contemporanea. La strada, scenario privilegiato delle manifestazioni ideologiche della stagione movimentista, ma anche spazio urbano collettivo, viene contrapposta agli spazi privati – la casa, la scuola, la chiesa – che da sempre hanno vincolato lo sviluppo delle donne come individui. L’arte contemporanea si appropria degli spazi pubblici e nessuno, passante o automobilista, può restare indifferente: la città è il contenitore e, allo stesso tempo, l’opera, un paesaggio urbano prima inesistente. Spazio pubblico e opera d’arte diventano fattori necessari e imprescindibili di una interrelazione che plasma una nuova condizione sia per l’arte che per il territorio.

WOMEN IN THE CITY, O DELLA CRITICA ANTROPOLOGICA

FELIX GONÇALEZ-TORRES, ‘Women in the City’, iniziativa nata nel 2008 grazie alle sovvenzioni di Francois Pinault e della Eli Broad At Foudation, è stata riconosciuta come uno dei migliori progetti d’arte pubblica realizzati negli Stati Uniti. Le artiste Jenny Holzer, Barbara Kruger, Louise Lawler e Cindy Sherman, figlie del postfemminismo degli anni ottanta accomunate da una profonda riflessione sulle questioni di genere, hanno realizzato a Los Angeles installazioni in oltre cinquanta location urbane passando dall’utilizzo degli spazi convenzionali legati alla comunicazione pubblicitaria – tabelloni e schermi luminosi – agli adesivi promozionali, alle affissioni selvagge e ai graffiti. Il progetto, curato da Emi Fontana, si prefigge di spingere alla massima potenza la relazione tra arte e spazio pubblico, per sovvertire l’idea di comunicazione e perseguire un obiettivo che fu, e tuttora rimane, uno dei capisaldi del movimento femminista: la conquista della strada, passando dall’utile materiale all’utile intellettuale. La ricostruzione dell’identità, l’esercizio dell’autonomia critica, la libera-

Anche Felix Gonzalez-Torres (1957-1996), artista concettuale cubano naturalizzato statunitense, espone i suoi lavori sui grandi cartelloni pubblicitari nelle strade di New York. Le immagini di Torres sono fotografie di letti vuoti e sfatti, con i segni lasciati dai corpi che ci suggeriscono presenze e assenze: il messaggio pubblicitario viene sostituito con immagini intime e malinconiche, quotidiane tanto quanto private. Utilizzando un supporto al di fuori dallo spazio museale, l’artista ricerca una posizione esplicitamente relazionale: la dimensione privata diviene di dominio pubblico, ma senza clamori e spettacolarità, evocando nell’assenza un sentimento personale, ma condivisibile. Per la maggior parte dedicati al compagno Ross, morto di AIDS, i suoi lavori rimandano al rapporto di coppia e all’immagine nostalgica verso un partner perduto, con forti, ma delicati accenti autobiografici.

Fig. 3. Jenny Holzer, Truisms , Marquee at the Roosevelt Hotel, 7000 Hollywood Blvd, Women in the city, Los Angeles 2008, progetto di Emi Fontana.

Fig. 4. Felix Gonçalez-Torres, It’s Just a Matter of Time, 1991 (manifesti con letto sfatto).

O DELLA RELAZIONE UMANA A TEMPO

“Senza pubblico i miei lavori non sono nulla“.


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Superando l’autoreferenzialità, Felix GonzalezTorres ha esteso però la ricerca sulla dialettica pubblico-privato ampliando il suo vocabolario espressivo con installazioni che affrontano il tema universale della transitorietà della vita e trasformano lo spettatore da passivo ad attivo osservatore dell’opera. Rifacendosi al minimalismo e all’arte concettuale Gonzales-Torres usa materiali poveri, come lampadine, caramelle, fogli di carta e invita il pubblico a utilizzare gli oggetti che compongono l’installazione: i fogli impilati con il calco di una mano possono essere presi, le caramelle scartate e mangiate. Nel lavoro esposto alla GAMeC nel 2011-2012, A corner of Baci, è stata riproposta un’installazione del 1990 in cui in un angolo della sala espositiva erano stati accumulati circa 75 libre di caramelle – poi sostituite anche con cioccolatini Baci Perugina – che il pubblico era invitato a mangiare. Il peso della ‘scultura’ corrisponde nelle intenzioni dell’artista al peso del compagno malato: l’opera-corpo si consuma progressivamente nel corso della mostra, scompare e si trasforma in cibo, mettendo in scena il destino della vita umana con la partecipazione diretta del pubblico.

TIRKRIT TIRAVANIJA, O DELL’ESTETICA RELAZIONALE Il consumo di cibo è spesso al centro anche del lavoro di Tirkrit Tiravanija (1961), che sposta però la sua attenzione sulla dimensione sociale e partecipata della relazione umana, piuttosto che sull’intimismo della sfera privata. Figlio di un diplomatico thailandese, artista nomade nella formazione e nello spirito, Tiravanija cerca nei suoi lavori una costante e multiforme interazione con il pubblico sperimentando i limiti tra spazio istituzionale e spazio privato. Richiamandosi esplicitamente alle correnti concettuali delle neo-avanguar-

Fig. 5. Tirkrit Tiravanija, Soup/no soup, banchetto di 12 ore, Grand Palais, Paris, 2012.

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die come Fluxus, l’artista agisce utilizzando oggetti effimeri e performance come quando espone la ricostruzione del suo appartamento aprendolo al pubblico5, o realizza mattoni6 che vende al pubblico devolvendo il ricavato all’ISCOS, un’organizzazione per i diritti dei lavoratori nel mondo, o propone cibi in spazi istituzionali, dove il pubblico diviene parte dell’opera stessa. è quello che accade in Soup/no Soup, allestita per la prima volta a New York e replicata al Grand Palais di Parigi nel 2012, dove l’artista e la sua equipe hanno trasformato la grande navata del Palazzo in un gigantesco banchetto offrendo gratuitamente al pubblico zuppa tailandese per 12 ore. Indagando il tradizionale valore spaziale dell’arte e sottolineando la nozione di possesso e accumulazione, Soup/no Soup ha trasformato uno spazio istituzionale in un grande raduno dove ciascuno ha potuto vivere un’esperienza transazionale e immateriale, basata sullo scambio, l’incontro, la generosità.

CAN ALTAY, O DELLA DEMATERIALIZZAZIONE DELL’ARTE PUBBLICA Anche l’artista turco Can Altay (1972) agisce sulla relazione tra i soggetti, operando sull’attivazione di processi partecipati piuttosto che sull’organizzazione di eventi performanti. Nei suoi lavori l’artista scompare e ciò che resta sono gli effetti del percorso che egli stesso ha innestato in quanto regista della presa di coscienza di una comunità rispetto ad un dato tema. Riflettendo soprattutto sui sistemi di autoorganizzazione e sui modelli di convivenza urbana, Altay indaga sulle funzioni e i significati, sull’organizzazione e le riconfigurazioni dello spazio pubblico, concretizzando le molteplici attività in mostre, dibattiti e pubblicazioni con il supporto di sculture, fotografie, installazioni. Con il progetto ‘COHAB: un insieme di pezzi di ricambio’ realizzato nel 2011 a Casco, nei pressi di Utrecht, Altay si propone di dare nuova vita a sculture e monumenti della città alla luce di un’indagine sulla “coabitazione” tra cittadini e opere d’arte, concentrandosi in particolare sugli scontri e le sovrapposizioni tra le decisioni di “immissione” e “vivere con” l’arte nello spazio pubblico. ‘COHAB’ è un progetto di studi e ricerche d’archivio, ma anche di interviste e casi di studio fantasiosi o empirici che invita a ricondurre ad unità i componenti urbani, quei ‘pezzi di ricambio’ che sono la gente, gli scarti o gli oggetti abbandonati, come le sculture che, se

Untitled - tomorrow is another day, 1996, Kölnischer-Kunstverein, Colonia. Untitled (14,086), 2015,Biennale di Venezia.


L’ARTE NELLO SPAZIO PUBBLICO: ESPERIENZE INTERNAZIONALI

recuperati, possono creare nuove realtà. Il materiale di ricerca, accompagnato da alcune proposte per sculture pubbliche temporanee a Utrecht, è assemblato dall’artista ed esposto al pubblico: fatto oggetto di dibattito e incontri con i cittadini, l’ obiettivo ultimo è fornire una visione di insieme per orientare le iniziative sulle opere d’arte pubblica nella città.

JOCHEN GERZ, O DELL’ARTE COME FARE L’abbandono dell’oggetto a favore dell’esperienza e dei luoghi, già profetizzato da Land e Body art, va di pari passo all’affermazione dell’arte concettuale a cui attingono molte esperienze di Pubblic Art. Nell’epoca in cui la produzione artistica può tradursi in proposte formulate attraverso codici non esclusivi o specializzati, l’opera può divenire una realizzazione collettiva che coinvolge potenzialmente tutti coloro che secondo un’idea di arte ormai superata sarebbero stati il ‘pubblico’. Il berlinese Jochen Gerz (1940), tra i primi a dichiarare che “il tempo a disposizione degli oggetti è finito”, se da una parte lavora sulla vanificazione del linguaggio artistico, come quando nel 1968 applica un cerotto al David di Michelangelo, dall’altra applica con metodo l’idea dello ‘smontaggio’ in interventi di arte pubblica fondati sui temi della storia e della memoria, dell’identità e dell’appartenenza che utilizzano di volta in volta vie di partecipazione e divulgazione sempre diverse, ma tutte associate all’azione. Fin dagli anni ’60 Gerz elabora i concetti di “monumento invisibile” o “anti-monumento” per cui l’opera non consiste tanto nel risultato finale, quanto nel fare stesso, con la possibilità paradossale che l’opera non esista neppure, se non nella memoria o nella documentazione delle sue fasi ‘visibili’. è il caso di Pietre. Monumento contro il razzismo, opera-

Dia. 6. Esther Shalev-Gerz et Jochen Gerz,, Monumento contro il fascismo, «alla fine soltanto noi stessi restiamo in piedi contro l’ingiustizia», Amburgo, installazione permanente, colonna con struttura in alluminio e copertura in piombo, h. m. 12x1x1,7 tonnellate, 1986-93.

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zione realizzata a Saarbrücken nel 1993, e del suo intervento forse più famoso: il Monumento contro il fascismo, realizzato a Hamburg-Harburg dal 1986 al 1993. Su una colonna con struttura in alluminio e copertura in piombo, inizialmente alta 12 metri, gli abitanti della città erano stati invitati ad apporre la propria firma ‘contro il fascismo’: man mano che la superficie della colonna si saturava di firme, la colonna veniva fatta sprofondare nella fossa sottostante, fino a scomparire. Circa 70.000 persone hanno firmato la condanna al fascismo, mentre si sviluppavano dibattiti e incontri: dopo sette anni il monumento è sparito e sul pavimento Gerz ha posto una targa ad indicare che «alla fine soltanto noi stessi restiamo in piedi contro l’ingiustizia». MARJETICA POTRC, O DELLA COSCIENZA ECOLOGICA

Marjetica Potr (1953) è un’artista e un architetto che si muove in maniera interdisciplinare tra arti visive e scienze sociali, includendo nella sua pratica ricerche e studi sulle problematiche ambientali più scottanti – il clima, l’inquinamento, l’acqua, lo spreco delle risorse, l’agricoltura urbana – e installazioni site-specific il cui tema è la relazione tra l’uomo e la costruzione del suo spazio vitale in una prospettiva di sostenibilità e di partecipazione. La collaborazione con individui, professionisti specialisti, gruppi locali e associazioni è un aspetto significativo di quasi tutti i suoi progetti per i quali è altrettanto fondante la dimensione comunicativa e educativa. Betwin the waters è un progetto realizzato in collaborazione con gli architetti del gruppo Ooze per l’“EMSCHERKUNST.2010“, manifestazione che nell’estate del 2010 ha visto impegnati quaranta artisti nella creazione di venti installazioni sul tema della trasformazione dell’Emscher, inquinatissimo fiume zona della Ruhr, in un corso naturale e sano e della sua valle nel polmone verde della regione.

Dia. 7. Marjetica Potrc e Ooze (Eva Pfannes & Sylvain Hartenberg), Betwin the waters (Tra le acque: La Emscher Community Garden), materiali da costruzione, infrastrutture di approvvigionamento idrico e di energia, orto, Eine Insel für die Kunst“, sull’isola di Emscher tra Oberhausen e Castrop-Rauxel, dal 29 maggio al 5 settembre 2010).


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L’installazione di Marjetica Potrc e Ooze architects è un percorso ‘attrezzato’ che connette un canale artificiale al fiume e nel contempo attiva un processo di depurazione delle acque utilizzando processi a bassa tecnologia per la costruzione di effetti ad alta tecnologia. Il percorso, dimostrativo, ma anche giocoso e efficace, è costituito da due servizi igienici situati sopra il fiume, una pompa che preleva l’acqua dal fiume e la convoglia in una fossa settica, una vasca di fitodepurazione, un tetto di raccolta di acqua piovana, alcune borse di stoccaggio di acqua e una fontana di acqua potabile situata al di sopra del canale Reno-Herne accessibile ai visitatori. A dimostrazione che è possibile recuperare e ripristinare l’habitat naturale con interventi leggeri, il progetto mette in campo non solo il valore della multidisciplinarietà e l’uso consapevole delle tecnologie, ma anche l’idea di un’arte pubblica non esclusivamente performante, quanto piuttosto formativa.

SANTIAGO SERRA, O DELLA CRITICA ALLE ISTITUZIONI

La provocatorietà è un carattere che accomuna la maggior parte degli interventi di Arte Pubblica, ma nel caso di Santiago Sierra (1966) è la cifra identificativa e l’obiettivo dichiarato dei suoi lavori. Spaziando tra scultura minimalista e body art, tra fotografia concettuale e performance, affrontando temi come la prostituzione, l’immigrazione, la povertà, il razzismo, la violenza e la guerra, l’artista spagnolo mette in luce i cardini e i vincoli della società contemporanea rivelandone le contraddizioni. Celebri sono le sue performance sulla marginalità sociale in cui utilizza emigranti, rom o lavoratori clandestini come materiale scultoreo7; o il suo monumento itinerante alla negazione8: una grande scultura a forma di NO, in viaggio da Lucca a Berlino, che intercetta ingiustizie sociali, sfruttamento, degrado e si propaga icastico contro il potere, la violenza e l’ignoranza. In occasione di Manifesta 119, svoltasi nel 2016 a Zurigo, Santiago Sierra ha realizzato “Helmhaus_ Security & Sicurezza” in collaborazione con una società privata di sicurezza specializzata nella valuta-

Dia. 8. Santiago Sierra con Marcel Hirschi, consulente di sicurezza, Helmhaus_ Security & Sicurezza, 2016.

zione delle vulnerabilità degli edifici e nella predisposizione di sistemi di protezione. L‘edificio Helmhaus, una delle principali gallerie di Manifesta 11, è stato protetto e reso sicuro: i visitatori hanno trovato il museo circondato da sacchi di sabbia, con le finestre e le porte sigillate, tranne due punti di accesso con severi filtri di controllo, mentre il lato verso il fiume era circondato con matasse di filo spinato. Utilizzando misure di protezione universalmente riconducibili a situazione di emergenza, Sierra ha trasformato un edificio per esposizioni nell’esposizione di uno stato d’assedio, facile metafora della conflittualità permanente del nostro tempo che può trovare nell’Arte Pubblica una critica e attenta sentinella. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA AA.VV. (2013), TERRITORI INSTABILI. Confini e identità nell’arte contemporanea, Mandragora, Firenze. Baal-Teshuva J. (2016), Christo e Jeanne Claude, Taschen, Berlin. Celant G. (a cura di) (2016), Christo and JeanneClaude. Water Projects, Silvana Editoriale, Milano. Perelli L. (2006), Public Art. Arte, interazione e progetto urbano, Franco Angeli, Milano. Vettese A. (2010), Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea, Laterza, Bari. Scardi G., a cura di, (2011), Paesaggio con figura. Arte, sfera pubblica e trasformazione sociale, Allemandi, Torino.

7 “133 Persons Paid to Have their Hair Dyed Blond”, Biennale di Venezia (2001) ; Studio fotografico di Ponticelli, 18 fotografie b/n, formati vari, Napoli, 2008. 8 NO, Global Tour, scultura in legno marino dipinto in nero, h. m. 3, camion, strade d’Europa, dal 2009. 9 Manifesta è una biennale di arte contemporanea che si svolge ogni due anni in una città diversa. Il motto di Manifesta 11 è stato : “What People Do For Money: Some Joint Ventures” (Quali lavori svolgono le persone per guadagnare soldi?) . 30 artisti internazionali hanno affrontato il quesito, elaborandolo dal punto di vista artistico attraverso la scelta e il confronto con un “host” locale che rappresentasse una determinata categoria professionale.


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APERTO AL PUBBLICO - TRASLOCO POPOLARE INTERVENTO DEL TEATRO DEI QUARTIERI DI REGGIO EMILIA

PREMESSA

prodotto libri, video e altri materiali tra cui molti inediti, poi esposizioni e riflessioni. Ha dato vita anche alla controinformazione ironica dei partigiani urbani sulla cementificazione in una città di colossi cooperativi del calcestruzzo e di mafie con capitali da investire, insomma un territorio che in pochi anni ha costruito più che durante il boom economico.

I quartieri sono il teatro in cui scorre la vita e il Teatro dei Quartieri ha osservato e ascoltato, chiamando il pubblico a guardare quello che ha trovato, capito e scoperto. Ha fatto raccontare le strade, i quartieri e gli appartamenti da chi li abita. Ha aperto musei condominiali, ha sostato nei cortili per parlare e mangiare e portato il cinema negli appartamenti. Ha spedito nel mondo cartoline con gli interni delle case come paesaggi e scritto guide agli abitanti, perché le relazioni sono le principali infrastrutture di una città. Il Teatro dei Quartieri è sempre stato un progetto politico di artisti residenti, un incontro tra concittadini proiettato verso la consapevolezza e per questo non poteva che iniziare dall’urbanistica, cioè lo stratificarsi del progetto gerarchico dello spazio urbano con tutte le sue varianti e variabili. Per questo ha anche promosso Modi Urbani, una riunire di cittadini e architetti per difendere la città, esperienza immediatamente repressa con la minaccia di ritorsioni lavorative per le professioniste che avevano aderito. Il Teatro dei Quartieri ha lavorato contemporaneamente in tutti i quartieri della città di Reggio Emilia per oltre quindici anni, seguendo le trasformazioni sociali e urbanistiche, questa esperienza ha

Nel secondo dopoguerra, è stata completata l’espulsione dei poveri dal centro storico di Reggio Emilia, costruendo per loro case popolari il più lontano possibile. è nato così il quartiere Compagnoni in una zona non urbanizzata, quindi senza servizi, senza verde ma con tante case per famiglie numerose. Gli abitanti arrivavano da zone diverse della città, poi arriveranno anche i migranti dal meridione e la convivenza si andrà costruendo su un’identità contemporaneamente fondata sull’orgoglio e il pregiudizio da cui saranno sempre circondati. Molti di loro, infatti, sono originari di Via Roma dove si erano dati il nome di popolo giusto, cioè un popolo povero ma solidale e antifascista che a volte si prostituiva e spesso rubava galline per fame ma poi distribuiva il brodo agli ammalati e la carne secondo ne-

Fig. 1. Prima della domilizione.

Fig. 2. Dopo la demolizione.

IL POPOLO È GIUSTO


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cessità. Il quartiere Compagnoni, ricco di giovani, assume da subito un carattere vivace ed è anche politicizzato: nascono squadre sportive, le prime a praticare il karate in città, le madri organizzano la lotta per l’autoriduzione delle bollette della luce, in tanti si occupano di piantare alberi e fiori facendone un quartiere verdissimo e tutti insieme impediscono l’installazione di una pompa di benzina nel parco. Al suo posto inaugureranno un piccolo zoo per i bambini, con molti animali da cortile e qualche scimmietta cui saranno assicurati una casetta confortevole e tutte le comodità, compresa la toilette quotidiana presso l’abitazione di una vicina.

LA ‘RIQUALIFICAZIONE’

luoghi della città, si tratta spesso di persone anziane i cui legami sociali sono così recisi. Dopo la riqualificazione, in mezzo a impianti urbanistici piuttosto disordinati e massicci, restano a futura memoria alcune palazzine ristrutturate in cui la maggioranza degli appartamenti erano stati riscattati dagli abitanti tra gli anni ’70 e ’90. Sono gli anni in cui si è cercato di alienare il patrimonio pubblico invogliando all’acquisto per destinare i ricavi alla manutenzione, riducendo così sostanzialmente gli alloggi pubblici. In tutti questi quartieri, dopo la vasta dismissione, gli appartamenti liberi non sono più stati assegnati ma sono stati lasciati nell’abbandono anche per decenni, per poi giustificare la ‘riqualificazione’ resa necessaria dal degrado. In realtà gli appartamenti di edilizia popolare erano stati generalmente ristrutturati a proprie spese dagli affittuari, erano gli esterni e gli spazi comuni a essere lasciati al degrado da ACER, erede dello IACP. Compagnoni, le cui prime case erano state assegnate nel ’59, è stato l’ultimo quartiere raggiunto dai progetti di riqualificazione e il primo a opporre resistenza.

Negli anni successivi, il popolo giusto che aveva inventato l’arsàve, un parlare a rovescio per non farsi capire, diventa un mito cittadino. Gli storici restituiscono loro dignità e la piazza di Via Roma, dove si ritrovavano ogni anno, gli viene dedicata. è una piazza strana, con funzione di parcheggio, che sta come un buco tra le case, un’assenza come se mancasse qualcosa, insomma un monumento involontario ai caseggiati del popolo giusto abbattuti e a Via Borgo Emilio che è stata cancellata. Alla fine degli anni ’90, l’amministrazione decide la ‘riqualificazione’ delle periferie popolari della città. Per ‘riqualificazione’ s’intende l’abbattimento di interi quartieri, poi una parte di case pubbliche sarà ricostruita, mentre il resto delle aree sarà venduta a privati a volte vincolandola come edilizia agevolata. I primi a essere abbattuti saranno i quartieri d’impianto razionalista costruiti durante il fascismo che saranno sostituiti da grandi condomini senza alcuna razionalità. A volte la qualità architettonica delle case in vendita e quelle popolari è stridente, altre volte è discutibile per entrambe. Contemporaneamente è necessario lo spostamento degli abitanti in altri

Dopo la Legge Regionale n. 19 del 1998 – Norme in materia di Riqualificazione Urbana, nel 1999 il quartiere Compagnoni – Fenulli è individuato tra le aree da riqualificare. Nel 2001 il Comune lo acquista a titolo gratuito dalla Stato e nel 2003 approva il progetto di riqualificazione che coinvolge Comune, Regione e Acer e può contare su fondi regionali ed europei. Si parla di degrado sociale e edilizio che sarà sostituito da costruzioni sostenibili. Si annuncia un futuro quartiere caratterizzato dal diradamento urbanistico, più sicuro nella viabilità, attrezzato per la socialità, con più aree verdi, tanti parcheggi, teleriscaldamento e anche la domotica in alcuni appartamenti. Quello che preoccupa gli abitan-

Fig. 3. Compagnoni 2016 a Nord della strada.

Fig. 4. Compagnoni 2016 a Sud della strada.

IL PROGETTO


APERTO AL PUBBLICO - TRASLOCO POPOLARE

ti è che saranno abbattuti centinaia di alloggi popolari e ne saranno ricostruiti circa la metà, mentre parte della superficie sarà venduta a privati e un’altra sarà messa a bando come diritti edificatori per costruire altrove. Nell’ottobre 2004 partono le demolizioni e gli abitanti insorgono, perché s’inizia proprio dalle case da poco ristrutturate in cui era

Fig. 5. Case nuove.

Fig. 6. Case vecchie ristrutturate.

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stato fatto il cappotto esterno, mentre quelle in condizioni peggiori, con le tubature intasate quotidianamente, saranno le ultime. La gente di Compagnoni s’indigna per lo spreco di denaro così come è orgogliosa del patrimonio pubblico costruito con le trattenute GESCAL sulle buste paga dei lavoratori, ha poi sempre contestato l’abbandono in cui erano la-


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sciati interi caseggiati e ha rifiutato l’acquisto degli appartamenti proprio perché voleva che restassero a disposizione di chi ne aveva bisogno. Non è andata meglio a chi aveva acquistato la casa, l’aveva risistemata investendo tutti i propri risparmi per poi scoprire che sarebbe stata abbattuta. Intanto il collettivo sottotetto del centro sociale Aq16, occupa un appartamento e apre uno sportello sul diritto alla casa, poi occuperà alcuni appartamenti vuoti la cui demolizione non è imminente e aiuta famiglie senzatetto e con bambini piccoli a trovare un alloggio. La loro presenza sostiene i vicini, si occupano anche di tagliare l’erba e di attirare l’attenzione della città sul quartiere e sul diritto all’abitare per studenti e fasce deboli. Da quel momento gli appartamenti liberi saranno sistematicamente demoliti a martellate, Acer fa rompere ai suoi addetti: vetri, sanitari, prese di corrente, porte, in modo da renderli inutilizzabili. Persone anziane si troveranno così a vivere per anni in case che sembrano bombardate, alcune diventate rifugio per piccioni. In una di queste case vandalizzate, il collettivo sottotetto organizza un’esposizione coinvolgendo artisti della città. Intanto comincia il trasferimento delle famiglie, torneranno quando le case saranno ricostruite ma molte scelgono sistemazioni definitive altrove, non si fidano dei tempi previsti e hanno ragione. La notte del 13 agosto 2008, quando la città è in ferie e la crisi economica incombe, avverrà lo sgombero delle case occupate. Il collettivo sposta le famiglie e i bambini perché non siano traumatizzati e gli attivisti si legano pacificamente con catene e lucchetti alla ringhiera di un balcone. Lo spiegamento di forze sarà impressionante, arriveranno mezzi e uomini da altre province, la presenza di blindati terrorizza il quartiere. Le catene saranno tagliate dalla polizia municipale, i ragazzi portati fuori a braccia e la palazzina immediatamente de-

Fig. 7. Il Teatro dei Quartieri in Via Compagnoni 2006.

molita. Otto anni dopo al posto di quelle case non c’è niente, non è ricresciuta neanche l’erba ma sfratti, famiglie in difficoltà e senzatetto aumentano in continuazione. LE NUOVE CASE Nel 2008 sono già state costruite alcune delle nuove case, riassumibili in due moduli architettonici che sorgono su garage sotterranei, hanno ascensori, sono calde ma presentano subito alcuni difetti: l’umidità sale dalle pareti e nei garage ci sono infiltrazioni che rovinano le carrozzerie delle automobili, rendendo alcuni stalli inutilizzabili. Gli appartamenti più piccoli sono minuscoli, raggiungono appena il minimo di superficie abitabile e molti per trasferirsi hanno dovuto abbandonare i loro mobili, oppure tagliarne un pezzo, cosa che è accaduta spesso con gli armadi, e le cucine sono angoli cottura con piccolissime finestre poste molto in alto.

I PROGETTI DEL TEATRO DEI QUARTIERI PER COMPAGNONI Il quartiere Compagnoni e Via Roma sono luoghi che abbiamo frequentato a lungo, all’inizio intervistando persone che conoscevamo per poi bussare alle porte dei vicini e parlare con tutti. Abbiamo fatto di loro i protagonisti dei racconti sulla città per un pubblico nomade, poi sono diventati voci e volti dei nostri documentari. Li abbiamo coinvolti nei progetti come Permesso di soggiorno in cui i salotti sono stati fotografati come autoritratti; abbiamo filmato l’ora di pranzo a ogni piano e proiettato gli interni sui muri esterni con la colonna sonora che ogni famiglia aveva scelto, per spiare l’emozione che questa visione produceva. Abbiamo organizzato l’ascolto di radiodrammi nelle cantine, sulle panchine, sotto le finestre, storie nate dai racconti sui dirimpettai e mangiato con loro dopo una biciclettata attraverso i quartieri popolari, soprattutto abbiamo sempre sostenuto le occupazioni e anche le proteste degli abitanti documentandole. Quando è iniziata la grande demolizione nel 2008 siamo stati chiamati dall’Assessorato Lavori Pubblici Progetto Casa. L’assessora Carla Colzi, rappresentante di un piccolo partito di sinistra e alla guida di un assessorato i cui dirigenti sembravano isolarla, ci ha chiesto di aiutare gli abitanti. Siamo andati tra le case e abbiamo chiesto di cosa avevano bisogno per il trasloco. Ci hanno chiesto di portare via tutto quello che non si poteva trasportare: i muri, i pavimenti, i paesaggi dalle finestre. Allora ab-


APERTO AL PUBBLICO - TRASLOCO POPOLARE

biamo chiamato gli artisti legati a Compagnoni perché come noi avevano amici e frequentavano il quartiere e abbiamo cominciato a girovagare tra le case svuotate, strappate, tra gli oggetti abbandonati fotografando e raccogliendo quello che trovavamo. Abbiamo continuato mentre demolivano e finché non è rimasto più niente. è stata un’esperienza intensa che non possiamo dimenticare, avevamo la sensazione di muoverci in un museo in divenire, tra muri dipinti dai bambini quando la casa dei nonni è stata svuotata e le impronte di mobili e quadri diventati fantasmi. Dopo l’esodo, continuamente tornavamo tra le case che avevamo conosciuto abitate e lasciate pulite, con i pavimenti lucidi prima della demolizione. Ci siamo mossi con l’emozione e la delicatezza degli archeologi, con il rispetto che si deve a una grande storia, questa volta non delocalizzata ma dispersa per sempre. Qualcuno di noi c’era sempre, tutti i giorni arrivava in bicicletta e faticava ad andarsene la sera: nei cortili dove ancora non erano arrivate le ruspe, nel pomeriggio ci si trovava come per una veglia anche con chi nel quartiere non abitava da tempo. Raccontavano che uscivano da casa e d’istinto tornavano lì dove erano stati giovani, a guardare le case dove erano stati una famiglia. Chi di noi ha poi frequentato la zona del cratere del terremoto 2012, ha ritrovato gli stessi sentimenti, lo stesso attaccamento e purtroppo anche lo stesso arrendersi degli anziani che si sono lasciati morire ma anche la stessa solidarietà. Marco che viveva solo, dopo lo sgombero, ha ospitato una delle donne che aveva occupato una casa con la sua bambina. Hanno vissuto mediando come due estranei, entrambi preoccupati della felicità della bambina che è diventata il centro della casa e della loro vita. Essere sempre in giro per il quartiere attutiva il lutto e permetteva continui ritrovamenti e quando un venerdì la ruspa si è fermata dopo aver abbattuto il muro che copriva il murale del sindacalista, rendendolo visibile dalla strada, abbiamo avuto tre giorni di tempo per mostrarlo ad altri, filmarlo e fotografarlo. All’inizio, quando entravamo nel cantiere, eravamo autorizzati e scortati da muratori che si occupavano della nostra incolumità, poi ci hanno lasciato girovagare clandestinamente per mesi ignorandoci. Abbiamo riempito cassette d’immagini, stipato fotocamere, portato via carrelli pieni di pezzi di carte da parati, mattoni e mattonelle, lampadari, sedie, valige e li abbiamo ammassati in un appartamento in Via Compagnoni 23. La primavera successiva nelle casette elemosinarie di via Fontanelli, le prime case popolari della città in via di ristrutturazione e incredibilmente somiglianti a Compagnoni per i muri scrostati e l’assenza

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di finestre, ha aperto l’esposizione Aperto al pubblico -trasloco popolare. Alle finestre, in forma di tende stavano i ritratti degli abitanti, i pavimenti di Compagnoni sono diventati ‘tappeti’, i muri ‘carte da pareti’, mentre chi voleva con pennarelli e carta adesiva poteva riparare in fotografia le case popolari di tutta la provincia, creando ‘album ristrutturabili’. Le sedie sono state intrecciate tra loro per una ‘seduta condominiale’ e in ‘uno sguardo ascoltava’, le finestre di Compagnoni con i loro paesaggi sono diventate elementi illuminanti. Alle pareti sono stati esposti grandi poster della ‘nuova edilizia popolare’ ma anche ‘Recuperi’, ritratti degli occupanti per ogni tipo di cornice, anche in formato di figurine appiccicate in giro, mentre le ‘polaroid magnetiche’, appese su elettrodomestici e armadietti da cucina, mostravano particolari delle case, degli oggetti e dei volti. Altre immagini, stampate in tovaglie plastificate stese in cortile, tovagliette e centrini ricamati o arredi, hanno riassunto il concetto di ‘immobili mobili’, così Compagnoni è diventata riproducibile per sempre negli oggetti di uso comune ed è tornata in centro città, visibile a tutti. Soprattutto Aperto al pubblico ha permesso di far conoscere la storia del quartiere dal punto di vista degli abitanti e questo ha significato il riconoscimento delle loro ragioni. L’esposizione abitabile, allestita con l’aiuto e i consigli di un occupante e attivista del sottotetto, ottimo carpentiere che così ha trovato un lavoro, è stata seguita con interesse. Si sono alternate proiezioni di filmini di famiglia, cene in cortile e si poteva sostare a lungo guardando semplicemente i ‘documentari’, i ‘VieW Master’ o ‘gli oggetti per cumoli di affetti’, altarini composti dagli abitanti o loro famigliari e le molte foto esposte anche dai vicini di quartiere e da tutti quelli che avevano qualcosa da dire. Da leggere c’era la Favoletta per tenere okkupati i bambini e si poteva sbirciare o portare a casa Occasioni Compagnoni, il giornaletto pubblicitario infilato nelle cassette delle lettere, infine capitava di ascoltare le straordinarie storie che l’anziano custode della mostra, impeccabile nella sua divisa, inventava anche per chi non chiedeva spiegazioni. L’esposizione degli artisti in collettivo è durata circa un mese, poi tutto è tornato in Via Compagnoni 23, l’idea era quella di reinventare l’esposizione, sempre abitabile, ma soprattutto di costruire un archivio che raccogliesse esperienze e soluzioni abitative utili anche al modificarsi dei rapporti famigliari. Avevamo energie, molte idee e un forte desiderio di confrontarci con nuove realtà, così come per anni hanno funzionato la collaborazione e gli scambi con il Théâtre d’Aujourd‘hui attivo nella città di Gonesse, banlieue di Parigi. Sapevamo dell’esperienza del


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ALESSANDRO SCILLITANI - LORENZA FRANZONI

quartiere Bon Pastor di Barcellona con le sue casas baratas, una storia quasi contemporanea a quella di Compagnoni e avevamo capito che la demolizione dei quartieri popolari è ricorrente e ciclica non solo nella nostra città ma ovunque e non è semplicemente un’operazione immobiliare, ma una forma di umiliazione, impoverimento culturale e di controllo ed espulsione sociale. Mentre ancora stavamo progettando, in giugno la legislatura si è conclusa e tutti i nostri materiali sono poi stati trasportati nei magazzini comunali dove, forse, giacciono ancora. Negli anni successivi ci sono stati chiesti nuovamente progetti per sistemare l’esposizione nel quartiere e abbiamo proposto varie soluzioni, anche presso la biblioteca in fase di ampliamento perché i cantieri del quartiere continuavano a essere fermi. Nel 2013 siamo stati nuovamente chiamati dall’amministrazione che si stava occupando del V e VI stralcio della riqualificazione urbana PRU Compagnoni – Fenulli, in pratica le parti destinate alla ristrutturazione. Abbiamo titolato la nostra proposta Cortile Domestico, portando ancora avanti l’idea di superare la differenza tra interni ed esterni. Abbiamo inoltre proposto di coinvolgere i corsi di progettazione dell’Istituto d’Arte cittadino Gaetano Chierici, portando le classi nel quartiere. Le proposte degli studenti, che avevamo provveduto a informare e motivare, sono risultate varie e interessanti e, presentate pubblicamente in assemblea il dieci aprile 2014, sono state gradite dagli abitanti sempre diffidenti con l’amministrazione. Anche i nostri semplici progetti sono state accolti positivamente e andavano da un lungo tavolo conviviale che comprendeva un orto pensile, capace di altre funzioni, a schermature in grado di creare ombre notturne e un Teatro SoleOmbre invernale diurno. Installazioni semplici ma suggestive, mentre piaceva anche l’idea di lanciare un festival di street art nel quartiere. Tutti interventi dai costi irrisori sia iniziali che successivi ma poi tutto si è nuovamente fermato. Attualmente dei progetti proposti dalle classi, sono stati realizzati i muretti identificativi dei vari caseggiati, anche se ‘normalizzati’, e il tappeto di ceramica.

LO STATO DEI LAVORI I lavori in Compagnoni avrebbero dovuto concludersi nel 2014 ma negli anni il progetto ha subito continue variazioni. A oggi, nel 2016, solo tre quinti del progetto sono sostanzialmente conclusi. I nuovi edifici sono allineati, mentre i precedenti erano a scalare, e formano un blocco squadrato, di scarsa qualità edilizia e, per quanto riguarda lo spazio, sostanzialmente han-

no spostato solo il sedime dei fabbricati. Le estremità del quartiere a est e a ovest sono state ristrutturate abbastanza velocemente con fondi regionali ma il cuore di Compagnoni è una vasta landa desolata e dimenticata, con fondamenta da cui sporgono ferri arrugginiti. è la zona in cui dovevano sorgere il centro polifunzionale e la piazza di quartiere, con funzioni di terziario e commerciali, poi case di edilizia residenziale privata. Da anni tutto è fermo e non si sa se e quando ricominceranno i lavori e quale sarà il risultato definitivo. La scadenza del PUA nel 2015, permette di rivedere il progetto, resteranno sicuramente gli obiettivi iniziali ma non è chiaro se gli interventi privati avranno ancora un ruolo, per il momento regna il silenzio. Di sicuro l’attenzione dell’amministrazione è completamente rivolta al centro storico, cantierizzato il più possibile, sperando che la gentrificazione possa allontanare i migranti e convertire al nuovo mercato quelli che si sono arricchiti dividendo e moltiplicato gli appartamenti, per affollarli di persone. è evidente che vorrebbero espellere nuovamente intere categorie, ‘recuperando’ altri quartieri appetibili mentre il dissenso non ha più spazi per esprimersi. Sappiamo che il progetto Compagnoni è stato citato in diverse pubblicazioni ma sicuramente non è un esempio di progettazione partecipata, così come non lo è stato per nessun quartiere di Reggio Emilia, perché le slide degli architetti hanno sempre presentato una storia che non nasceva da un incontro e non prevedeva un confronto ma solo l’illustrazione di un progetto già approvato. Un quartiere si può modificare solo nella continuità, perché s’interviene su un corpo sociale vivo che può sopportare rimozioni e modifiche, ma la sostituzione completa ne decreta la soppressione. La storia di Compagnoni è tuttavia esemplare per raccontare l’adesione dei cittadini a una sana e democratica idea di pubblico come bene da conservare e trasmettere, per la lucidità e la dignità dimostrata e perché la loro storia racconta una complessità che i tecnici non dovrebbero ignorare. A noi hanno insegnato molto e per imparare è bastato sedersi sulle panchine in compagnia, osservare, chiedere e ascoltare: un lavoro semplice. La storia del popolo giusto, l’abbiamo raccontata soprattutto nella guida Via Roma numero zero, guida agli abitanti scritto da Lorenza Franzoni, fotografie di Lorenzo Franzi, realizzata con il contributo dell’Assessorato Coesione e Sicurezza Sociale. Immagini e storie di Compagnoni sono nei nostri documentari Case molto popolari (2006) e Aperto al pubblico trasloco popolare (2009) regia di Alessandro Scillitani. Altre informazioni possono essere trovate sul nostro sito www.teatrodeiquartieri.it


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LUCIANO PANTALEONI

L’ESPERIENZA DEL QUARTIERE CORIANDOLINE A CORREGGIO

ANDRIA DA COOPERATIVA DI EDIFICAZIONE A COOPERATIVA DI ABITANTI La Cooperativa è stata fondata nel 1975 a Correggio come Cooperativa edilizia di abitazione. Un gruppo di persone si è messo insieme per dare vita al proprio sogno abitativo: la casa in proprietà. I primi anni di attività sono stati caratterizzati da interventi nei piani per l’edilizia economica popolare. Per decenni ha svolto il compito di organizzatore della domanda e di gestore di processi edificativi, ruolo sociale importante, che ha permesso a molte famiglie di acquistare la loro prima casa. In questa sua attività ha maturato esperienze interessanti dotandosi progressivamente di un knowhow originale. La Cooperativa nel 1990 si è trasformata da Cooperativa di Abitazione a Cooperativa di Abitanti, con la volontà di superare il ruolo di ‘costruttore di case’, diventando invece referente per gli abitanti che volevano intervenire sul territorio per migliorare la propria qualità della vita. Da quel momento, al centro del suo lavoro non vi erano più solo le case ma i bisogni, i desideri ed anche un po’ i sogni delle persone: soci, famiglie e comunità. Il nuovo nome, Andria, è stato tratto da una delle città ideali descritte da Italo Calvino ne Le città invisibili: “Del carattere degli abitanti di Andria meritano di essere ricordate due virtù: la sicurezza in se stessi e la prudenza. Convinti che ogni innovazione nella città influisca sul disegno del cielo, prima di ogni decisione calcolano i rischi e i vantaggi per loro e per l’insieme della città e dei mondi.” Questo cambiamento di nome e di missione ha esaltato alcuni mestieri innovativi: l’ascolto, la partecipazione e la condivisione. Perché un sogno si realizzi, l’entusiasmo generato dalla nascita di idee innovative deve essere guida-

to da un progetto valido e indirizzato verso un fine preciso. Per questo, la Cooperativa di Abitanti segue il modello della ‘partecipazione organizzata’: a differenza di un modello ‘spontaneistico di partecipazione’, spesso accompagnato da dispersioni di energie e cocenti delusioni, esso pianifica il proprio lavoro e si adopera per prevedere e prevenire ogni eventuale problema. La parola chiave intorno a cui ruota il ‘modello di partecipazione organizzata’ è ‘certezza’: relativa ai processi decisionali, agli obiettivi strategici, alla quantità e qualità dei risultati. Sono stati elaborati i nuovi riferimenti per la progettazione dei quartieri avendo come priorità la sostenibilità ambientale, urbanistica, sociale ed economica. In questo lavoro di ricerca e innovazione Andria, negli anni, ha attivato collaborazioni con università e con altri centri di ricerca, nazionali ed internazionali. Nei primi anni 2000 le opportunità lavorative del territorio emiliano hanno richiamato nella nostra regione molte famiglie con molti bambini. L’aumento di richieste di servizi educativi ha spinto Andria a farsi carico di questo problema, per dare risposta ai propri soci e alla comunità, qualificando i propri quartieri con servizi educativi di proprietà della cooperativa gestiti con formule innovative sostenendo la nascita di una nuova cooperativa sociale che potesse gestirli in modo efficace: Argentovivo. Per strutturare meglio l’attività e per offrire soluzioni più coordinate e organiche alle Amministrazioni Comunali le cooperative Andria, Argentovivo, Abicoop e Il Piccolo Principe hanno poi costituito il Gruppo Cooperativo Paritetico: CALEIDOSCOPIO, visioni nuove e colorate per il futuro. Negli anni sono stati realizzati 9 centri per l’infanzia progettati avendo come riferimento i parametri e le esigenze delle scuole dell’infanzia e degli asili nido. Attualmente la Cooperativa dispone di 7 centri nelle province di Reggio Emilia e Modena.


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LUCIANO PANTALEONI

Nel 2006 Andria si è dotata di una Carta dei Valori traendo ispirazione da uno scritto del Cardinale Carlo Maria Martini: “Intendiamo lavorare per realizzare una città che sia luogo adatto al riconoscimento di sé come persona, dove ciascuno avverta di ‘abitare’ davvero e la cui storia sia visibile anche nelle sue costruzioni, nelle strade, nei suoi spazi. Una città capace di trarre dal suo tesoro cose nuove e antiche, per custodire ciò che il passato ha di prezioso e proiettarsi coraggiosamente verso un domani ormai alle porte”. Il modello della ‘partecipazione organizzata’ messo in campo da Andria negli anni è stato riconosciuto anche dal Sodalitas Social Award, premio per le aziende responsabili istituito dalla Fondazione Sodalitas con l’intento di favorire la crescita di una cultura della responsabilità sociale tra le imprese italiane che si sono distinte nella realizzazione di programmi di alto contenuto e valore sociale. Nel 2008, con il progetto Coriandoline, Andria ha ricevuto l’attestato di merito nella categoria Iniziative di responsabilità sociale.

CORIANDOLINE Le case amiche dei bambini e delle bambine Il quartiere Coriandoline è il frutto di un lavoro di ricerca iniziato nel 1995. Nell’attuale realtà sociale, molto dinamica, la casa come luogo di vita, è di-

ventata un’importante punto di riferimento. Nessuno ha mai chiesto ai bambini se le case attualmente costruite rispondono alle loro esigenze e alle loro aspettative. Nessuno ha mai ‘scritto il nome dei bambini sul campanello’. Spesso le architetture e le tipologie si piegano a necessità costruttive e ad abitudini abitative ripetute e consolidate. Le esigenze abitative si modellano sugli standard invertendo la corretta impostazione che dovrebbe porre al centro della progettazione i desideri, i bisogni e i sogni delle famiglie. La casa viene suddivisa in ‘zone’ che rispondono alle esigenze di relazione e di privacy delle persone adulte; i bambini sono soggetti marginali ai quali al massimo viene dedicata una camera onnicomprensiva. Se si considera la famiglia come una realtà viva e dinamica, all’interno della quale i figli sono soggetti con pari dignità, con proprie esigenze, propri interessi ed uguali diritti, allora è necessario cambiare all’attuale modo di pensare. Con questo lavoro abbiamo cercato di farlo. Per quattro anni architetti, tecnici e artigiani hanno lavorato con 700 bambini, 50 maestre, una pedagogista e le famiglie. La ricerca ha indagato con molta cura e attenzione le esigenze abitative dei bambini per realizzare abitazioni che rispondessero alle loro aspettative. Destinatari del progetto erano comunque le famiglie che avrebbero vissuto in queste case.


L’ESPERIENZA DEL QUARTIERE CORIANDOLINE

Il ‘parametro bambino’ è stato adottato come misuratore di qualità di una architettura che raramente parte dai bisogni e dai desideri degli abitanti e spesso fa riferimento ad interessi e a necessità esterne all’abitare. Sono stati attivati laboratori di una partecipazione vera e consapevole dove ogni attore è intervenuto in precisi ambiti di competenza e di responsabilità. Al termine della ricerca nel 1999 è stato pubblicato il Manifesto delle Esigenze Abitative dei bambini e delle Bambine (Maggioli Editore), dal quale emergevano 10 indicazioni per la realizzazione delle abitazioni. La casa doveva essere: • TRASPARENTE così guardo fuori • DURA FUORI sicura • MORBIDA DENTRO accogliente • BAMBINA a misura di bambina • GRANDE che possa accogliere gli amici e le idee • GIOCOSA per giocare liberamente • DECORATA dove metto tutte le cose più belle • INTIMA per potermi ritirare • TRANQUILLA non trafficosa • MAGICA per stupirmi È stato subito evidente che si doveva camminare su di un filo sottilissimo sospeso nel vuoto tra due rischi: da una parte la ‘casa delle favole’ dall’altra la ‘banalità’. Si è cercato con pazienza ed impegno di dare forma alle idee realizzando delle abitazioni innovative per tutta la famiglia, con la convinzione che se i bambini avessero potuto vivere meglio tutta la famiglia avrebbe migliorato la propria qualità della vita. I bambini hanno il coraggio e la libertà di chiedere prestazioni che gli adulti gradirebbero ma ormai non riescono nemmeno a sognare. Abbiamo accompagnato al lavoro dei bambini l’opera preziosa di artisti che hanno collaborato al progetto, rendendolo magico e affascinante. Accanto ai disegni dei bambini ci sono le illustrazioni di Emanuele Luzzati e le creazioni di Giulio Taparelli che interpretano ed estendono le idee. Di fianco alle parole dei bambini c’è il racconto di Giuseppe Pederiali e vi sono le riflessioni di architetti e di pedagogiste. Sono state anche attivate interessanti esperienze di progettazione sperimentale con la Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara. Le parole che più ci hanno guidato in questo percorso, dalla ricerca fino alla realizzazione del cantiere, sono state: ascolto, partecipazione, condivisione nell’ottica di una ‘cooperazione di comunità’. Nel 2001 è iniziata la progettazione del quartiere

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in collaborazione con Emanuele Luzzati e dopo alcuni anni di studio e di lavoro nel 2007 si sono conclusi i lavori e le famiglie hanno iniziato ad abitarvi. Il progetto si è dato il tempo necessario per crescere e sedimentare. Gli interventi realizzati si sono articolati nelle seguenti fasi: Ricerca • 1° fase di ricerca: Le case dei sogni quando le idee dei bambini trovano casa - 1995/1996 - Laboratori con le scuole dell’infanzia sulle esigenze abitative dei bambini - Visite - Mostra • 2° fase di ricerca: i bambini (si) occupano (de) la città - 1997/1999 - Riflessione e analisi sui temi proposti dai bambini - Definizione delle strategie e metodologie di prosecuzione - Laboratorio in piazza a Correggio coi bambini impegnati ad esprimersi su “case di cartone” a loro misura. - Approfondimenti e sintesi • Pubblicazione de: Il Manifesto delle Esigenze Abitative dei Bambini - 1999 - I risultati della ricerca diventano un Manifesto. Progettazione • Progetto di massima del quartiere - 2000/2001 - Inizia la progettazione partecipata alla scala urbanistica e architettonica. • Elaborazione del progetto urbanistico e condivisione con la città - 2002 - Plastico di studio in scala 1:100


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• Progetto definitivo del quartiere Coriandoline (20 abitazioni) - 2003 - Plastico in scala 1:25, realizzato con E. Luzzati. - Racconto in musica del quartiere da P. Hindemit: Costruiamo la città gioco per ragazzi. - CD realizzato dall’Emiliano Clarinet Quartet - Video-presentazione (cartone animato) con i disegni di E. Luzzati - Libro Le Case dei Sogni Bambini di G. Pederiali racconto fantastico che ripercorre l’esperienza Realizzazione • Inizio lavori - 2003 • Visite al cantiere (direzione lavori) da parte dei bambini, delle famiglie e degli artisti coinvolti nella progettazione - 2003/2006 • Fine Lavori e Consegna delle abitazioni alle famiglie - 2006 • Semine/Piantumazioni e ultimazione delle sistemazioni esterne - 2007 • Inaugurazione - 2008 Gli elementi che più caratterizzano il quartiere realizzato sono:

La Vigna Parcheggio Luogo delle storie sovrapposte. Verso nord, il quartiere si relaziona paesaggisticamente con il territorio agricolo, con le vigne della campagna. È stato reinterpretato il tema del parcheggio scandendolo con il ritmo della ‘piantata’ tradizionale emiliana. La ‘piantata’ era un impianto colturale che maritava la vite all’olmo. Gli uccelli lampioni Il ‘lampione uccello’ è un lampione tradizionale la cui estremità è stata curvata appositamente per conferire una immagine di movimento. La lampada si trasforma in un uccello dalle ali aperte come se stesse per spiccare il volo; la luce esce dal ventre dell’animale. Le Colline - garages Luogo privilegiato di osservazione e gioco. Le macchine sono seppellite sotto ad una montagna di terra. E così si creano due divertenti colline per giocare. La varietà del paesaggio diventa elemento di pregio, una nuova opportunità.


L’ESPERIENZA DEL QUARTIERE CORIANDOLINE

Sopra una collina sono esaltati, attraverso diverse essenze, gli aspetti sensoriali: il gusto, l’olfatto, il tatto. Sull’altra collina, attraverso la loro fioritura, le piante segnano l’alternarsi delle stagioni realizzando un calendario dei colori. La Caverna / Palestra - corsia dei garages Luogo dalle tante identità. Dal ‘prato dei mostri che ridono’ si può entrare, attraverso le bocche spalancate, in due gigantesche caverne. Sono luoghi misteriosi nascosti sotto alle colline, luoghi con luci strane che entrano dalle bocche, che vengono dall’alto e disegnano i pavimenti. Sono le corsie allargate dei garage per diventare altro. Di solito il garage è un posto che fatica a diventare luogo, ha una identità strana molto spesso notturna (viene abitato dalle macchine di notte), vive quando fuori c’è freddo, piove, c’è bagnato. In questo quartiere vive in altri momenti della giornata assumendo anche altri significati e trasformandosi, luogo di corse, di giochi, di suoni, di rumori. Una strana palestra coperta - aperta.

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Il Prato dei mostri che ridono Luogo fra. È un posto magico nel quale vivono grandi mostri con la bocca spalancata. Sono mostri buoni, mostri simpatici. Nella loro pancia tengono nascoste le macchine e fuori sorridono per rendere il mondo più allegro. È uno spazio di gioco, di incontro situato fra le due colline. È un basso, fra due alti, un vuoto fra due pieni. È un prato fra due caverne, la luce fra due bui. Il Serpente - strada Luogo di incontro, di relazione e di gioco. Quando si entra nel quartiere un serpente mangia le macchine. Le automobili spariscono per ricomparire in garage. Le macchine lentamente possono entrare nella pancia del serpente e silenziosamente procedere e convivere con altre funzioni che sono assolutamente prioritarie. Nel quartiere le automobili non sono più veloci e pericolosi strumenti meccanici, soprattutto non hanno più la precedenza.


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Il ritmo è lento perché non è scandito dalle macchine ma dai nostri sensi. Si cammina su percorsi disegnati da strane figure o da vecchi giochi. Le strade ritornano ad essere luoghi di incontro, di relazione, di gioco. La Corte della Grande Quercia luogo di riferimento La corte centrale del quartiere sulla quale prospettano tutte le abitazioni è caratterizzata dalla presenza di una grande quercia.

La quercia è la pianta più grande e possente dei nostri luoghi, un riferimento certo e sicuro che dura nel tempo. È un perno naturale attorno al quale ruota la vita del quartiere. Per questo motivo è stata posta alla confluenza dei vari percorsi, là dove più forte pulsa il ‘cuore’. Per rafforzare il suo ruolo simbolico è stata dotata di una serie di sedute e di attrezzature che la qualificano anche come luogo di incontro. La Torre (la trappola per i cattivi) Ci sono degli appartamenti dentro alla torre. C’è anche una bella scala con lo scivolo. La torre serve perché si vede da lontano e così le persone sanno dove è il quartiere e non si perdono. E poi sulla torre c’è una struttura con dei ferri e dei fili che è una trappola per i cattivi e per i fulmini. Le Case dipinte Non solo bianche. Le case non sono in fila e non hanno un davanti e un retro. Sono tutte diverse, di tanti colori come i coriandoli. E come i coriandoli portano allegria e entusiasmo. I muri, i vuoti, i pieni accompagnano le idee e offrono emozioni: visive e tattili.


L’ESPERIENZA DEL QUARTIERE CORIANDOLINE

Cambiano i materiali, i colori, i disegni e ogni passo è una scoperta. Le case sono decorate con disegni fantastici. Entrare nel borgo è come entrare in un mondo di magia. Atelier Luogo del possibile, di quello che ancora non c’è ma può diventare. Abbiamo dotato ogni abitazione di un nuovo spazio: l’Atelier. L’atelier è un condensato dei desideri dei bambini. Un luogo insolito: trasparente, magico, giocoso, grande, intimo… È strano per l’ubicazione, per le forme, le dimensioni, i materiali. Può essere in cielo, in terra, di fianco, sopra, sotto… È un laboratorio, un luogo dove è possibile riflettere insieme su intuizioni, concetti, teorie. Alcune ancora non formulate chiaramente, ma tutte alla ricerca di interlocutorietà che consentono all’inespresso di dichiararsi. È il luogo dove si possono costruire magie, dove le idee possono sostare perché il processo di creazione.

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L’Officina dei coriandoli Coriandolinsieme - sala riunioni Luogo della comunità. È stata realizzata una grande sala dove si possono vedere i progetti, il lavoro svolto da Luzzati ed il grande plastico sul quale l’artista è intervenuto direttamente. Si può leggere il racconto scritto da Giuseppe Pederiali ed ascoltare le musiche dell’Emiliano Clarinet Quartet. È un luogo di documentazione aperto a tutti i ricercatori che vorranno approfondire o continuare questo lavoro sperimentale. I residenti saranno testimoni e partecipi dei successi e degli errori dell’esperienza, che non si esaurisce con la costruzione delle case. È una grande officina di idee colorate costituita per ospitare iniziative amiche dei bambini e delle bambine. Negli anni la Cooperativa Andria ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali per il progetto Coriandoline. Il premio Peggy Guggenheim Impresa &Cultura ricevuto nel 2001 esprimeva la seguente motivazione:


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LUCIANO PANTALEONI

“Per la scommessa coraggiosa e poetica di leggere il mondo quotidiano attraverso gli occhi dei bambini e per aver valorizzato, nella concretezza del fare casa, sogni e progetti d’una migliore qualità della vita”. Nel 2014, al concorso ERHIN_European Responsible Housing Iniziative, le Coriandoline hanno ricevuto la menzione d’onore e l’inserimento nel libro d’oro delle buone pratiche con la seguente motivazione: “Un’iniziativa particolarmente creativa. Una metodologia interessante per coinvolgere le future generazioni ed educarle alla partecipazione attiva. Coinvolgimento nel lungo periodo, che ha portato a risultati concreti e tangibili. Un modello di cooperativa basato sui principi di partecipazione e coinvolgimento dei residenti”.

Oggi il quartiere, oltre ad ospitare eventi e momenti di aggregazione delle associazioni e delle famiglie, è meta di numerose delegazioni di visitatori: scuole, università, amministrazioni pubbliche sia italiane che internazionali. Particolarmente significativa è la partecipazione di facoltà universitarie legate all’educazione dell’infanzia insieme alla consolidata presenza di delegazioni giapponesi, soprattutto architetti dell’Università di Tokyo. L’attivazione del sito web www.coriandoline.it e del sito internet della Cooperativa www.andria.it, insieme ad un apposito Canale Youtube in cui si possono trovare i video del progetto in diverse lingue, favoriscono la diffusione e la conoscenza di un progetto a cui Andria ha dedicato competenze, entusiasmo e passione al servizio della comunità per diversi anni.


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DAVIDE PANSERA - PIGMENTI

ARTE E TERRITORIO: SPAZI E CITTADINI IN TRASFORMAZIONE

La street art si colloca su una linea sottile, una pellicola, tra pubblico e privato. I muri su cui si realizzano le opere sono spesso privati ma quello che c’è dalla vernice in poi è spazio pubblico. Questa posizione di confine è complessa. Il conflitto tra queste due entità ci è apparso chiaro a New York, quando Banksy ha dipinto numerosi pezzi in città, diversi dei quali sono stati staccati, messi al sicuro, rivenduti dai proprietari dei muri e delle porte su cui sono stati fatti. O ancora, di recente, a Bologna, con lo stacco dei lavori di Blu per la mostra Street Art. Banksy and Co., con conseguente reazione dell’artista che ha cancellato tutti i suoi pezzi in città.

D’altro canto il limite sul quale si colloca la street art crea una netta differenza con il resto del mondo dell’arte. Per dipingere un muro puoi essere pagato, ci può essere un committente, ma generalmente non c’è nessun compratore. Il muro può essere di proprietà di un privato ma, salvo le rare storture di cui sopra, la fruizione del tuo lavoro non sarà privata ma di tutti: pubblica. Diciamoci che, a meno che tu non sia una super star della street art, nessuno verrà a staccare i tuoi lavori dai muri. Ciò nonostante ci sono dei meccanismi economici che passano sopra la tua testa e che sfruttano il tuo lavoro pur non possedendolo.


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DAVIDE PANSERA

I fenomeni di gentrificazione, per esempio, di cui la street art spesso è uno dei motori, capitalizzano ciò che fai senza nemmeno bisogno di commissionartelo o possedere il muro su cui lavori, tantomeno staccare l’intonaco su cui hai sudato. È una trappola. Puoi avere buoni propositi o non averli, puoi non portarti a casa nemmeno una fetta della torta, ma su quel muro che hai coperto di vernice hai lasciato le impronte di te che entri nel business, molto probabilmente in modo totalmente inconsapevole o quasi. E allora, che senso ha? Beh, dipende da qual è il tuo obiettivo. Pigmenti nasce a Bergamo nel 2013 all’interno della Cooperativa Sociale Patronato San Vincenzo. Questa è la nostra identità, o almeno, una parte fondante di essa. Non nasciamo come collettivo di artisti, né come galleria d’arte, non siamo organizzatori di eventi o urbanisti. Pigmenti nasce come spin off di Serigrafia Tantemani, una serigrafia artigianale che, oltre a stampare su commissione, ospita adolescenti con diversi tipi di disagi permettendo loro il confronto con un ambiente di lavoro protetto. L’obiettivo di Pigmenti è quello di concretizzare un approccio particolare al mondo dell’arte pubblica. La nostra bussola è quella di usare l’arte pubblica come un mezzo e non per forza come un fine

produttivo. In questo modo riusciamo a dare valore ai processi che più ci interessano: di inclusione sociale, partecipativi, creativi, di cittadinanza attiva, di promozione culturale…Spostare il focus dal prodotto finito, che resta comunque fondamentale perché è il sedimento tangibile del percorso che hai fatto in quella comunità, alla qualità con cui arrivi a quel prodotto artistico. Il nostro obiettivo nel maneggiare un linguaggio così scivoloso come la street art è quello di riqualificare i legami di comunità. Per fare questo cerchiamo di piegare a nostro vantaggio il circo che si è costruito negli ultimi anni intorno a questo movimento artistico. C’è attenzione? Bene, sfruttiamo questa attenzione per rivendicare non solo un prodotto artistico, ma un processo sociale. Arrivare alla realizzazione di un’opera per noi vuol dire a monte un percorso di attivazione di relazioni nei contesti più vari: quartieri, piazze, istituzioni culturali, il condominio, la città intera…Ogni percorso ha la sua dimensione e i suoi attori. L’opera conta in funzione di quello che succede prima di lei e di quello che rappresenta dopo di lei. Il valore della street art, per noi, non è economico, ma sociale. Un’opera riuscita è tale perché ha attivato delle relazioni, ha riunito una comunità, che sia una famiglia, una classe, un quartiere, un gruppo di adolescenti, ed è stata strumento di confronto e


ARTE E TERRITORIO: SPAZI E CITTADINI IN TRASFORMAZIONE

di presa in carico del contenuto e del luogo in cui questa viene realizzata. Ha valore se è in grado di interagire anche con le persone di passaggio, colte di sorpresa, che si fermano per un attimo, che provano stupore o che sentono la necessità di un pensiero e la ricercano con lo sguardo quando passano la seconda volta. È questo utilizzo dell’arte pubblica che contribuisce, magari anche solo in piccola parte, a creare nelle comunità gli anticorpi per resistere ai processi speculativi e a ridefinire le priorità sociali rispetto alla progettazione urbanistica del futuro. Vi presentiamo tre esempi di interventi realizzati nel corso dell’ultimo anno che hanno modus operandi, obiettivi e interlocutori diversi e che riescono a mettere a fuoco in modo complesso e composito ma, in definitiva, lineare quello che è, e vorrebbe essere, il nostro impatto sulla città di Bergamo.

L’AZIONE DIRETTA SULLA COMUNITÀ A giugno 2015 abbiamo realizzato una residenza artistica con Joao Samina, artista portoghese under 30 che lavora con la tecnica dello stencil. L’idea della residenza è nata nell’ambito di un progetto di Coesione Sociale sviluppato sul quartiere Malpensata di Bergamo. Il quartiere, a due passi dal centro

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città, ospita diverse comunità più o meno formali molto diverse tra di loro, alcune sono in relazione, altre no, altre ancora fanno parte di quella che categorizziamo come marginalità. Nel corso dell’inverno e della primavera 2015 ci siamo rivolti ad un gruppo di residenti coinvolti dal progetto di Coesione Sociale, abbiamo presentato loro l’artista che sarebbe venuto di li a pochi mesi e loro hanno presentato a noi il quartiere e le sue dinamiche. L’idea iniziale era quella di rappresentare 10 volti su 10 muri del quartiere, il gruppo avrebbe dovuto decidere con la massima libertà di chi dovevano essere questi volti. Potevano essere 10 poeti, 10 partigiani, 10 attori famosi, 10 personaggi di fantasia, 10 leader morali e politici. Il gruppo ha deciso di rappresentare 10 abitanti del quartiere individuandoli tra quelli che, a loro giudizio, si erano spesi negli ultimi anni per il bene comune della zona. Una scelta molto forte, non solo saremmo andati a rappresentare su muro delle persone viventi e residenti in zona, ma si sarebbe fatta anche una selezione di merito. Così abbiamo fatto. A giugno alcuni residenti hanno partecipato ad un laboratorio e con l’artista hanno realizzato i ritratti su muro. Decisioni. Questo è alla fine fare arte, prendere una decisione dopo l’altra: il soggetto, la posizione, i colori, gli strumenti, una pennellata in più o in meno, l’aggiunta di un particolare, l’armonia, il contrasto.


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DAVIDE PANSERA

I residenti che abbiamo coinvolto hanno fatto arte fin dal nostro primo incontro. E l’hanno fatta per la loro comunità prendendosi grosse responsabilità.

L’AZIONE MEDIATA SULLA COMUNITÀ A luglio 2015 abbiamo partecipato al progetto Boccaleone Open Space attraverso il quale si cerca di restituire alla città un luogo abbandonato e in preda al degrado nel quartiere di Boccaleone. L’iniziativa è diventata oggetto di discussione e luogo di incontro. Il progetto coinvolge in prima persona diversi ragazzi di Boccaleone e il quartiere lo sostiene e lo condivide. Il nostro intervento ha visto al lavoro 11 artisti che hanno dipinto 10 colonne che incorniciano il luogo in questione. Qui, a differenza dell’operazione nel quartiere Malpensata non abbiamo agito direttamente sulla comunità ma ci siamo fatti strumento di chi, per la conoscenza del quartiere, perché già inserito nella comunità locale, ha sviluppato un percorso di coinvolgimento e attivazione molto più profondo e autentico di quanto avremmo potuto fare noi. I residenti non hanno dipinto con gli artisti né scelto le opere da realizzare, in questo caso l’obiettivo era portare un contenuto artistico all’interno di un’iniziativa che stava facendo esattamente quel lavoro di riqualificazione di comunità a cui puntiamo.

L’INCROCIO DI LINGUAGGI Nell’ambito del progetto Oltrevisioni di cui Cooperativa Patronato San Vincenzo è partner con Comune di Bergamo, GAMEC e Cooperativa HG80, abbiamo progettato tre interventi con l’obiettivo di creare un dialogo tra street art e forme della cultura considerate alte e a volte elitarie. Questo per sostenere alcune istituzioni culturali del territorio lanciando un messaggio di apertura e sdoganamento. Il primo intervento, svoltosi a giugno 2015, ha visto protagonista l’Accademia Carrara di Bergamo. In occasione della sua riapertura l’artista argentino Francisco Bosoletti ha realizzato sul muro della stazione autolinee di Bergamo una sua reinterpretazione di uno dei ritratti del ‘500 esposti alla pinacoteca. Il murale, grazie anche al grande riverbero mediatico avuto nel momento della realizzazione, è diventato un ‘pro-memoria’ pubblico di quell’importante presidio culturale cittadino che è l’Accademia Carrara. Il messaggio, atto ad intercettare in particolare un pubblico giovane, è quello di un’arte che non sta rinchiusa nei musei, ma che sa anche uscire e trasformarsi, la cui potenza è tale da consentirle un dialogo con il presente. Gli altri due interventi che compongono il progetto saranno sviluppati con Fondazione Donizetti e Festival Bergamo Jazz. La partnership con Fondazione Donizetti vedrà a novembre 2016, la realizzazione di un murale raffigurante il volto di Donizetti realizzato dagli artisti portoghesi Frederico Draw e Contra: verrà inoltre commissionata ai ragazzi di Knobs, realtà bergamasca che si occupa di musica elettronica live, una produzione di musica elettronica ispirata alle note del celebre compositore bergamasco che verrà presentata in un evento dedicato. Nel 2017 con il Festival Bergamo Jazz interverrà l’artista spagnolo Sezar Bahamonte: anche lui realizzerà un murale in città e parteciperà ad un live painting durante un concerto organizzato ad hoc nell’ambito del festival jazzistico.


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BARBARA VENTURA - CODESIGN

OCCUPAZIONI A TEMPO DETERMINATO | LA POTENZA DELL’EFFIMERO

“I liquidi viaggiano con estrema facilità. Essi ‘scorrono’, ‘traboccano’, ‘si spargono’, ‘filtrano’, ‘tracimano’, ‘colano’, ‘gocciolano’, ‘trapelano’; a differenza dei solidi non sono facili da fermare: possono aggirare gli ostacoli, scavalcarli, o ancora infiltrarvisi. Dall’incontro con i corpi solidi escono immutati, laddove questi ultimi, qualora restino tali, non sono più gli stessi, diventano umidi o bagnati. La straordinaria mobilità dei fluidi è ciò che li associa all’idea di leggerezza. … Sono questi i motivi per considerare la ‘fluidità’ o la ‘liquidità’ come metafore pertinenti allorché intendiamo comprendere la natura dell’attuale e per molti aspetti nuova fase della modernità.” (Bauman, 2000)

DALLO SPAZIO PUBBLICO ALLO SPAZIO PRIVATO AD USO PUBBLICO

La ‘liquidità’ è uno stato dell’essere di cui tutti noi, chi più chi meno, siamo oggi permeati. L’essere liquidi è quella modificazione antropologica in atto che si tende spesso a far coincidere con l’idea più negativa di globalizzazione, la manifestazione più vacua e discutibile di una società apparentemente composita nelle sue posizioni ma in realtà dominata da un pensiero unico, quello economico. Del resto

nel passaggio al neoliberismo è la mercificazione globale che ha scandito e scandisce le relazioni tra gli umani, i cui principi dominanti sono diventati essenzialmente competizione, individualismo e consumo. Suona (amaramente) quasi retorico dire che le interazioni fra gli individui si sono fatte provvisorie e precarie e che la società tende ad assomigliare sempre più ad una massa omologata e inconsapevole di consumatori, di soggetti anonimi di facile manovrabilità, compulsivamente alla ricerca di mode e novità. Lo squilibrio che ha preso forma fra la densa vita privata e la vuota vita pubblica si traduce spazialmente nello svuotamento del senso e del significato dello spazio pubblico. I luoghi, o meglio non luoghi, apparentemente eletti ma in realtà più o meno inconsciamente subiti dalla società contemporanea, coincidono sempre più con spazi privati pre-organizzati, omologati e controllati: le piazze pubbliche si svuotano mentre si allungano le code d’ingresso ai ‘divertimentifici’ e ai centri commerciali. Ne scaturisce una città frammentata e sempre più spesso inadeguata ad accogliere istanze alt(r)e. Ne segue che l’opportunità di interazione sociale è ridotta al minimo e in questo scenario il dibattito pubblico e il processo critico di costruzione della cittadinanza si dissolvono.


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BARBARA VENTURA

IDENTITÀ E RAPPRESENTAZIONE DI SÉ: LO SPAZIO DELLA POSSIBILITÀ

Sembrerebbe una situazione talmente annidata e ramificata da non offrire una via d’uscita o la possibilità di un percorso diverso. Ma è proprio nel carattere liquido della città contemporanea che vediamo emergere nuove tensioni, processi altri di trasformazione, azioni di riappropriazione dello spazio pubblico. Negli ultimi anni in particolare, è emersa una nuova attenzione nei confronti della forza propulsiva del locale, che invece di soccombere sotto il peso schiacciante della globalizzazione, riesce a trovare la sua autonomia e la sua importanza come elemento strutturante nella dispersione urbana. Un tentativo di affermare una nuova forma di comunità che rivendica un’identità composita, in particolare attraverso la ri-progettazione, l’occupazione e l’uso dello spazio pubblico. ‘Liquidità’ della società non vuol di fatto dire che l’idea di comunità non esiste più. La comunità continua ad esistere, ma con una dimensione instabile e una realtà aperta e mutevole. In realtà è più corretto parlare di N comunità: prende vita una socialità nuova che potremmo definire ‘socialità leggera’. Le cosiddette comunità leggere sono forme di organizzazione sociale non necessariamente legate da prossimità territoriale ma da interessi e obiettivi comuni, compresa la necessità di ritrovare un radicamento nella realtà locale. L’individuo ha bisogno dello spazio come strumento e come campo per la rappresentazione di se stesso. Ha bisogno di sentire l’appartenenza ad un luogo dove costruire il proprio immaginario e proiettare il suo sistema di valori e di riferimenti.

Ed è proprio attraverso la pratica dello spazio che il soggetto urbano attiva un processo di appropriazione e di recupero del senso del luogo. La pratica operativa, che comprende gli atti del plasmare, del fare da sé, del forgiare nuove configurazioni e propri spazi, contiene al suo interno il senso dell’identità, anche se solo temporaneo. Azioni spaziali seppur minime producono micro-trasformazioni puntuali del territorio. Lasciano traccia. Sperimentando azioni spaziali si attiva un percorso di apprendimento, che consente elaborazioni ed evoluzioni collettive rispetto alla possibilità di autodeterminazione della propria identità di individui e cittadini. I soggetti che abitano lo spazio, superando l’isolamento e l’individualismo, diventano attori sociali capaci di agire in modo collettivo per governare i livelli superiori di complessità. Alla scala più grande ciò genera un approccio flessibile, fatto di tentativi e tattiche che cercano di scardinare le rigide regole del sistema attivando episodi che costituiscono la capacità di autodeterminazione della città. “...definire l’urbanistica complementare, intesa non come una tecnica urbanistica esatta, poiché sarebbe, almeno in parte, una contraddizione di termini rispetto ai suoi presupposti di flessibilità e adattabilità, quanto uno stimolo al cambiamento del punto di vista rispetto ai modi di operare in uno spazio urbano che, allo stato attuale, sembra trovarsi in una condizione fortemente critica. L’urbanistica complementare viene proposta come un modo di pensare pratico, che prevede di affiancare alla strategia urbanistica tradizionale una tattica operativa temporanea capace di sfruttare al meglio sia le risorse e le occasioni disponibili in un determinato momento, sia le sollecitazioni derivanti dai diversi soggetti che agiscono sul territorio urbano. L’urbanistica complementare non si pone, dunque, in una condizione di sterile opposizione rispetto al sistema (solo perché questo esiste, può esistere al contempo un aspetto complementare), ma piuttosto ne sfrutta i limiti per far emergere altre posizioni e modalità volte alla costruzione di beni pubblici. È più opportuno, quindi, parlare di una posizione di resistenza attiva, che si traduce non nella richiesta, ma nella proposta e nello sviluppo di iniziative di trasformazione capaci di mettere in crisi le immagini consolidate prodotte dal dominio pianificato della città e, allo stesso tempo, costruttivamente, di sperimentare le prime pratiche per una spazialità urbana alternativa.” (Saracino, 2012) Se nella città contemporanea è difficile delineare una comunità urbana che corrisponda in maniera biunivoca al territorio di appartenenza, lo spazio ur-


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bano reclamato e auto-progettato dalle comunità leggere non può che definirsi come un insieme di movimenti articolati e in costante mutazione. Citando Benjamin potremmo definirlo uno “spazio urbano poroso”. Ne segue che il termine definitivo riferito alla progettazione degli spazi pubblici appare troppo spesso inadeguato nel ridefinirsi della città post-industriale. Al contrario il progetto temporaneo, rispondendo alle stesse logiche di precarietà e mobilità della società attuale, si rivela uno strumento efficace per muoversi nel sistema e opporvi una certa resistenza dall’interno. Attraverso le esperienze temporanee di riappropriazione dello spazio pubblico si manifesta una forma di partecipazione che è resistenza attiva e dissenso creativo. Questa nuova forma di partecipazione, non è né esclusivamente improntata sul conflitto o sul rifiuto del progetto a priori come spesso in passato. Ma nemmeno è la partecipazione istituzionalizzata promossa dall’alto, il cui obiettivo è il controllo del conflitto. Potremmo definirla, almeno negli intenti, una partecipazione non retorica. La città, si risoggettivizza partendo dal basso: piuttosto che aspettare in maniera vana, le comunità leggere operano direttamente per la produzione della dimensione pubblica, evidenziando così le mancanze delle istituzioni. Il carattere sperimentale dei progetti temporanei consente di fare affermazioni spesso estreme per acquisire nuovi modi di considerare piazze, spazi, parchi, mercati, … La concezione prevede che vengano dissolti i limiti fra architettura, arte, design e intervento sociale: rispetto ai progetti classici, nei progetti temporanei le interazioni aperte con altre discipline sono decisamente più variegate. L’effimero può essere uno strumento potente per mettere in evidenza le potenzialità di un luogo e di un tessuto sociale. “L’aspetto affascinante è la possibilità di modificare i luoghi per un breve periodo: migliorare, disturbare, ignorare, rileggere. Malgrado la sparizione di tali progetti in un secondo momento, questi luoghi non saranno mai più come prima. [...] I progetti temporanei sono come un laboratorio urbano” (intervista a Jan Kampshoff - Studio Modulorbeat) L’interesse per l’effimero si manifesta oggi diffusamente. Ne sono esempio occasioni quali Serpentine Pavillon (Serpentine Gallery ) e il Young Architects Program International (MOMA), che annualmente mostrano come la realizzazione di strutture temporanee diventi fertile occasione per attivare laboratori urbani, di fatto e di pensiero. Queste strutture offrono possibilità di costante sperimentazione, sia di processi costruttivi che di dinamiche di interazione sociale. Il passato poi ci insegna che non di ra-

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do la temporaneità si trasforma in permanenza concreta, basti pensare al padiglione tedesco presentato per l’esposizione internazionale di Barcellona nel 1929 da Mies van de Rohe, divenuto uno dei simboli del movimento moderno. La temporaneità assume un permanenza semantica e concettuale. Le produzioni effimere originano soluzioni e spazialità alternative, che non potrebbero aver luogo se non a queste condizioni e la loro potenza non è da meno quando si opera in contesti e ambiti locali di minor rilievo, che si dimostrano terreni di sperimentazione sorprendentemente fertili. Queste esperienze sono fondamentali per l’evoluzione dello spazio urbano, perché più o meno consapevolmente, sollevano nuove richieste e con esse nuove accezioni di spazi pubblici e di bene comune.

ESPERIENZE D’EFFIMERO “... esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca.” (Calvino, Lezioni americane) • LUZINTERRUPTUS | Pool on a background of Field of Barley | Madrid Nel 2008 nel quartiere La Latina di Madrid la popolata piscina pubblica in Plaza de la Cebada è stata demolita con una ferma promessa da parte del Comune, che in 2 anni ci sarebbe stato un altra struttura con la stessa destinazione al suo posto, più moderna e con più maggiore capacità. Ma con il passar del tempo il cantiere ha preso una piega diversa lasciando intuire il suo carattere puramente commerciale. Per manifestare attivamente il loro dissenso e le loro istanze i residenti e il collettivo hanno collaborato alla realizzazione di un’installazione temporanea. “Per un mese, abbiamo raccolto gli imballaggi trasparenti riciclabili, che i residenti depositavano in contenitori all’interno del campo, … Alla fine, abbiamo ottenuto più di 2.000 contenitori trasparenti che abbiamo lavato e rimesso a nuovo e con l’aiuto di molti piccoli aiutanti, amici e visitatori. Distribuiti in un disordine preordinato i contenitori sono stati riempiti con acqua di colore blu e luci fino per ottenere una luminosa piscina 6 × 4 metri.” Tempo di posa: 12 ore. Danni: nessuno. Durata esposizione: 8 ore. www.luzinterruptus.com


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BARBARA VENTURA

• BOA MISTURA | Luz nas vielas | San Paolo | 2012 Il progetto Luz nas vielas è stato sviluppato in Vila Brasilândia, San Paolo, nel 2012. Boa Mistura segue e realizza progetti di arte urbana intervenendo in comunità degradate e utilizzando l’arte come strumento di cambiamento e ispirazione. Qui ha avuto l’opportunità di vivere in Brasile e avere un contatto diretto con la comunità. Il dialogo con i residenti e la loro partecipazione attiva è stato decisivo nella direzione del progetto: BELEZA, FIRMEZA, AMOR, DOÇURA ORGULHO sono i concetti scelti dal gruppo per gli interventi. www.boamistura.com • CLÉMENCE ELIARD, ELISE MORIN | WasteLandscape | Parigi | 2011 È ben noto che i CD sono condannati a sparire gradualmente dalla nostra vita quotidiana. WasteLandscape è un paesaggio artificiale ondulato di

500 metri quadrati costituito da una corazza di 65 000 CD invenduti o raccolti, che sono stati ordinati e cuciti a mano. La scala monumentale dell’opera d’arte rivela l’aspetto prezioso di un piccolo oggetto quotidiano. Il progetto strettamente artistico si unisce ad un approccio globale, innovativo e impegnato, dai suoi mezzi di produzione, fino alla fine della sua “vita”. Sollevando la coscienza di problemi ambientali attraverso la cultura, stimola un modo alternativo di fare produzione e una valorizzazione del lavoro associativo attraverso la riabilitazione professionale. Nel corso di molteplici mostre, WasteLandscape passerà attraverso numerose di trasformazioni prima di essere completamente riciclato in policarbonato. www.elise-morin.com • MICHIEL VAN DER KLEY | Project EGG | Mondo “Project EGG racconta della stampa 3D, del potere della condivisione e della co-creazione, di


OCCUPAZIONI A TEMPO DETERMINATO

nuovi modi per creare e collaborare. Project EGG è un ampio padiglione, composto da 4760 pietre, tutte diverse che devono essere stampate in 3d una ad una. Una volta raccolte e poste nell’ordine esatto, danno vita all’edificio. Chiunque possieda un 3D del desktop è invitato a stampare una pietra. In questo modo, la comunità della stampa 3d può essere vista come una sorta di una nuova e diffusa fabbrica. Siamo alla ricerca di nuovi orizzonti. Vogliamo collegare l’intera comunità di stampa 3D. Spostiamo i confini.” Il designer olandese Michiel van der Kley ha trascorso tre anni a curare lo sviluppo e la costruzione di questo padiglione a forma di uovo con l’aiuto di stampanti 3D e più di un paio di persone lungo la strada: Il progetto EGG ‘è composto da 4.760 pezzi individuali, che sono state fatti da centinaia di stampanti 3D desktop da tutto il mondo. www.projectegg.org • STUDIO GUM, GIAMPICCOLO, MINALDI | Progetto Cargo | Ragusa | 2012 Nel luglio 2012, nasce Cargo, progetto d’arte urbana. L’omonimo collettivo programma un calendario di eventi espositivi con scadenza annuale da insidiarsi sulla piccola facciata del MET. Il progetto è no-profit: il ricavato di ogni mostra è destinato a finanziare l’installazione successiva. Sotto il profilo sociale, si ritiene che questo meccanismo possa coinvolgere la comunità, sensibilizzandola a sostenere il progetto che sentirà in parte anche suo. … In questo modo quello che inizialmente era un vuoto urbano è divenuto piazza, luogo di aggregazione, con una propria identità e grande forza comunicativa. Uno spazio privato è stato reso fruibile per espressioni artistiche, è diventato un mezzo non convenzionale di comunicazione, capace di cambiare periodicamente immagine e contenuti. Il MET è un ristorante pizzeria. www.progettocargo.it www.metsicilia.it • RAUMLABORBERLIN | Spacebuster | New York | 2009 Definita una “quasi utopica architettura mobile”, Spacebuster è essenzialmente una bolla gigante che si espande dal retro di un furgone. Come è per la natura tipica di tali strutture, la la forma del gonfiabile trasparente si adatta all’ambiente circostante, creando una situazione diversa ma simile ovunque è parcheggiato il furgone, da campo aperto a un lotto stretto sotto la High Line.

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Il materiale della bolla permette agli eventi vari che si svolgono all’interno del rifugio - proiezioni, serie di conferenze, cene o discussioni - di essere interamente visibile dall’esterno e allo stesso modo gli ambienti esterni diventano fondali gli eventi. La bolla si annida in tutto ciò che è già lì, la sua trasparenza permette il dialogo vibrante tra interno ed esterno: tutto sfuma, ma rimane visibile comunque. Esso crea nuova stanza all’interno dello spazio esistente, consentendo nuove qualità di emergere. “Il cavallo di Troia è la metafora che abbiamo preso a utilizzare, un monumento per creare identità urbana. Questa scultura cellulare trasporta identità nella sfera pubblica, consentendo alle persone di co-creare attivamente.” www.raumlabor.net/spacebuster/ • COLLECTIF ETC | Place Au Changement | Saint-étienne | 2011 Dopo aver vinto un concorso commissionato dalla Urbanistica Agenzia Pubblica per l’urbanistica di Saint-Étienne (Francia), il Collectif Etc ha progettato una piazza di 670 mq che ha poi costruito con gli abitanti del quartiere in un processo partecipativo nel luglio 2011. Il progetto simula l’edificio che verrà costruito in un prossimo futuro: l’idea del collettivo è di rappresentare la planimetria degli edifici sul terreno e la loro sezione sulla parete, in questo modo, la gente può immaginare gli edifici futuri e avere un’anticipazione di ciò che sarà. Per realizzare la piazza temporanea sono stati istituiti tre tipi di laboratori della durata di un mese, aperti a tutti, tutti i giorni, coordinati e gestiti dal collettivo. - un laboratorio di falegnameria per costruire tutto l’arredo urbano; - un laboratorio di progettazione grafica per dare vita alle custodie dell’immaginario e per l’ambiente circostante; - un laboratorio di paesaggio e giardinaggio per gestire lo spazio verde e il giardino in comune al centro del sito. Collectif Etc ha fornito tutti gli strumenti, gli ingranaggi di sicurezza e i consigli. Associazioni locali, artisti e musicisti sono stati invitati a organizzare varie attività come pitture murali, concerti, laboratori di circo, cinema all’aperto, tornei sportivi, lezioni di tango, pasti speciali, dibattiti. Una volta completata la costruzione della piazza temporanea gli abitanti del quartiere hanno spontaneamente continuato a prendersi cura del giardino e a programmare l’organizzazione di eventi.


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L’arredamento non è stato danneggiato, il posto è ben tenuto e gli abitanti hanno deciso di chiamare la piazza “Luogo del gigante”, dopo il grande dipinto realizzato da artisti Ella & Pitr. www.placeauchangement.fr • DALLE TAZ ALLE TPZ “La zona temporaneamente autonoma o TAZ è un concetto introdotto nel saggio T.A.Z. Zone temporaneamente autonome (T.A.Z.: The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism) del 1991, l’opera più famosa dello scrittore e anarchico Hakim Bey .... Le zone temporaneamente autonome descrivono la tattica sociopolitica di creare zone temporanee che eludono le normali strutture di controllo sociale. … Durante il processo di formazione di queste zone, Bey sostiene che l’informazione è un concetto chiave, passante attraverso le crepe delle normali procedure istituzionali. Un’informazione permette la possibilità di dubitare del sistema ed è per questo che gli enti cercano di censurarla o di influenzarla. Durante il periodo in cui si insinua il dubbio, nasce un nuovo “territorio mentale”. L’idea di TAZ si sviluppa nel soggetto. Successivamente se questo si sviluppa in più soggetti esso può divenire reale (come l’Utopia Pirata) che si viene a creare sul confine di regioni prestabilite dai meccanismi istituzionali. Qualsiasi tentativo di far permanere una TAZ oltre il breve momento in cui è formata, la fa deteriorare sino a divenire un sistema strutturato, che inevitabilmente debilita la creatività individuale. In questo momento la creatività è veramente potenziata nel tentativo di ricreare una nuova zona. Bey successivamente sviluppò il concetto oltre il “temporaneamente”, affermando che “dobbiamo considerare il fatto che non tutte le zone auto- nome esistenti sono ‘temporanee’. Alcune sono... più o meno ‘permanenti’. “Da qui, il concetto di Zona Permanentemente Autonoma.” (definizione tratta da Wikipedia) • AZIONI LOCALI: CODEsign + Scuola d’arte Fantoni + MICA Market | Progetto allestimento giardino Edonè | Bergamo estate 2016 MICA Market è un progetto di mercato sociale finalizzato alla rivitalizzazione e riattivazione si aree urbane e sub-urbane attraverso attività che coinvolgono il mondo del cibo, dell’intrattenimento, delle arti e del design. Il primo evento avrà luogo a luglio 2016 nello spazio di aggrega-

zione giovanile Edonè. Per l’occasione si intende allestire una parte del giardino con elementi di arredo che possano restare permanentemente per tutta l’estate: il progetto deve integrare sedute, piani di appoggio, superfici inclinate per sdraiarsi, superfici curve da gioco/skate/ bici… Per l’ideazione dell’allestimento è stata lanciata un call agli studenti di design della scuola d’arte Fantoni, con il coordinamento di CODEsign. I partecipanti sono stati invitati ad immaginare soluzioni flessibili e dinamiche occupando lo spazio a disposizione in maniera libera (secondo la combinazione di superfici e forme che meglio sfrutta l’area) e sviluppando le potenzialità delle funzioni richieste: “l’oggetto da produrre deve poter ospitare situazioni molteplici ed essere interattivo, pur mantenendo una struttura semplice. È consigliabile sviluppare un modulo che possa essere combinato e al quale possano essere applicate variazioni. Nella proposta deve essere indicata oltre al design dell’oggetto anche la soluzione tecnologica adottata.” Decretato un vincitore tra una ventina i progetti pervenuti, il passo seguente è stato quello di finalizzare il progetto durante una giornata di workshop aperto a tutti i partecipanti. Definito il progetto esecutivo, gli arredi sono stati realizzati dagli stessi studenti in collaborazione con lo staff organizzativo. To be continued.

BIBLIOGRAFIA Augé M., Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Trento, Elèuthera, 1993. Benjamin, W., One-way street and other writings, London, Penguin, 2009 [1925]. Calvino I., Lezioni americane. Sei proposte per il terzo millennio, Milano, Garzanti 1988. Saracino Eliana, Paesaggi temporanei: tattiche per un’urbanistica complementare: spazi residuali e usi temporanei nella città globale, Roma, Università degli studi Roma Tre, Tesi di dottorato 2012, http://dspace-roma3.caspur.it/handle/2307/3921 Sennett R., Il declino dell’uomo pubblico, Milano, Bruno Mondadori Editori, 2006 (tit. or. The Fall of the Pubblic Man, 1976). Zigmund B., Modernità liquida. Sull’essere leggeri e fluidi, Bari, Laterza, 2002 (tit. or. Liquid Modernity, 2000).


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STEFANO COZZOLINO

SPAZIO PUBBLICO E PERIFERIA. L’ESPERIENZA DI BOCCALEONE OPEN SPACE NELL’AREA DEL VIADOTTO A BERGAMO

“La gente si preoccupa di ciò che è suo, di ciò che può trasformare, alterare, adattare e migliorare in base alle proprie esigenze. Deve poter agire sull’ambiente per renderlo e sentirlo veramente suo. Deve esserne responsabile in prima persona.” (Ward, 2013: 105) “L’idea è che la progettazione urbanistica debba essere pensata perché i cittadini abbiano la possibilità di usare la città, dato che nessuna città è governabile se non alleva dei cittadini che la sentono propria.” (Ward, 2000: 31)

PREMESSA Ogni volta che scrivo o racconto l’esperienza di Boccaleone Open Space, mi sento in qualche modo imprigionato in schemi mentali che vorrebbero distinguere e differenziare la figura dell’esperto dai normali cittadini. Distinzioni spesso rimarcate soprattutto da coloro che passano la propria vita a scrivere o ad impartire lezioni. Sia chiaro, non ho nessuna avversione nei confronti di coloro che intraprendono tale strada che, nei fatti, è la stessa per cui lotto ogni giorno. Tuttavia reputo essenziale, se si vuole fare ricerca, continuare a sporcarsi le mani, abbandonando ogni tanto le librerie e gli uffici per stare in mezzo all’esperienza diretta e sul campo. Magari agendo. A pensarci bene, le maggior parte delle cose che ho imparato a proposito della città derivano proprio dall’esperienza diretta. A loro modo però scrivere, studiare e partecipare a conferenze, sono tutte pra-

tiche essenziali per la riorganizzazione dei pensieri. Sono un modo efficace per passare dall’intuizione alla riflessione logica e metodica. Da questo punto di vista, l’esperienza di Boccaleone Open Space arriva esattamente durante il mio percorso di dottorato in urbanistica. Sia chiaro, questa esperienza non fa parte della mia ricerca di dottorato;1 al contrario, mi ha permesso di prendere le distanze dal rigore tipicamente scientifico con cui si è soliti osservare la città e mi ha dato la possibilità di mischiare le mie idee con quelle di tanti altri ragazzi (spesso non interessati ai temi urbanistici) con cui ho condiviso e condivido molti valori e obiettivi. Valori e obiettivi che, collaborando, abbiamo cercato di rendere operativi con il nostro impegno per il quartiere e per il viadotto di Boccaleone. Dunque, nelle prossime righe, eviterò di assumere quel linguaggio scientifico e formale da cui Open Space mi ha fatto (con piacere) ogni tanto separare, e lascerò scorrere liberamente i miei pensieri. Tuttavia, sappiate che dietro queste parole esistono argomentazioni più approfondite, più rigorose e sentimentalmente più distaccate da una vicenda che mi ha visto coinvolto nel profondo dei miei valori. Infatti, oltre ad essere Boccaleone il quartiere in cui sono nato e cresciuto, la maggior parte delle persone con cui ho intrapreso questa esperienza sono amici con cui condivido buona parte della mia vita privata. Userò pertanto le parole e le espressioni che mi hanno permesso di dialogare con amici, attori, musicisti, artisti, associazioni, comitato di quartiere, politici, sindaco, ragazzi giovani e meno giovani, l’oratorio, kebabbari, pizzaioli, commercianti, amici, condomini, anziani, poliziotti, fornitori, magazzinieri, giardinieri… tutti. Perché la città è un’esperienza quotidiana trasversale, e noi tutti (non solo gli urba-

1 La mia ricerca si intitola “The city as action: the dialectic between spontaneity and rules” e ha come fuoco principale lo studio degli effetti della regolazione urbanistica sull’adattamento progressivo ed incrementale dello spazio urbano, nonché lo sviluppo di metodi per la semplificazione normativa in campo urbanistico.


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STEFANO COZZOLINO

Open Space è un’associazione culturale, nonché un gruppo aperto di associati (e non), interni ed esterni al quartiere di Boccaleone.3 La creazione di un’associazione riconosciuta formalmente ha consolidato un percorso iniziato in maniera informale nel novembre del 2013. Il nostro obiettivo principale è quello di trasformare l’area del parcheggio del viadotto di Boccaleone in uno spazio ‘aperto’ al quartiere e alla città. Il motivo che ci ha spinti ad intraprendere questa strada è stata la volontà di ribaltare la condizione di degrado in cui l’area versava da anni attraverso alcune “azioni dirette” (Ward, 2013). Tale condizione, da molto tempo, veniva denunciata apertamente dal comitato di quartiere senza però ottenere grandi risultati. In poche parole: noi vogliamo trasformare il parcheggio del viadotto (inutilizzato e problematico) in uno spazio pubblico aperto a tutti i cittadini, garantendo loro la possibilità di promuovere usi differenti ed “attività creative e sperimentali”.

Per gli abitanti del quartiere l’area del viadotto è sintomo di problemi e disagi. La nostra idea allora è stata quella di reinterpretare il parcheggio come un grande spazio per manifestazioni temporanee (Inti, 2011): una piazza per l’arte, per la creatività e per la gente. Ovvero, abbiamo smesso di guardare allo spazio come entità definita positivamente dal piano urbanistico (“quello è un parcheggio, e pertanto deve rimanere parcheggio”), per abbracciare una concezione di spazio pubblico maggiormente flessibile, come occasione per l’espressione di riusi spontanei (Franck & Stevenes, 2013). Uno spazio in cui la società si può auto-organizzare per promuovere attività anche di interesse collettivo (Brunetta & Moroni, 2011). Nel tempo abbiamo dimostrato le potenzialità del viadotto organizzando diversi eventi. Ora, consci dell’esperienza acquisita, sappiamo che per attivare l’area è necessario ripensare al modo in cui questo spazio pubblico è gestito e regolato nell’interesse pubblico (Moroni, 2004). Non servono grandi investimenti: un allacciamento idrico e uno elettrico (utilizzabili a ‘gettoni’ da parte dei cittadini) creerebbero quell’infrastruttura necessaria per sperimentare usi alternativi. Dall’altra parte però dovranno esserci gruppi ed individui interessati ad utilizzare il viadotto. Non basta infatti che la città sia pensata, progettata e costruita nei minimi dettagli: se le persone non l’attivano (con grande di-

Fig. 1. Inquadramento territoriale: in rosso è evidenziata l’area del parcheggio e le principali infrastrutture. Sono evidenziati anche i quartieri di “Bergamo sud” Boccaleone, Campagnola, Celadina e Malpensata.

Fig. 2. Il contesto del viadotto. Il parcheggio si trova sotto il sedime della circonvallazione, in prossimità di due edifici abbandonati (ex-Clarisse e centro sportivo) e di fronte ad un nuovo complesso residenziale di social housing.

nisti, men che meno solo gli architetti) in qualche modo contribuiamo a farla funzionare.2 Un’esperienza come quella di Boccaleone Open Space sarebbe semplicemente impossibile senza un coinvolgimento esteso dei cittadini.

NATURA ED OBIETTIVI DELL’ASSOCIAZIONE OPEN SPACE

2 Da questo punto di vista, un buon libro che mi sento di consigliare, facilmente accessibile anche ai meno esperti (ma non per questo meno ricco di contenuti) è “Metropoli per principianti” (Biondillo, 2008). “Metropoli per principianti” è un testo narrativo e non un libro didattico che racconta dell’esperienza urbana quotidiana in rapporto al piano urbanistico. 3 Abbiamo una pagina facebook facilmente consultabile: “Boccaleone Open Space”. Non abbiamo un registro preciso degli associati. Solitamente il gruppo è composto da una decina di persone costantemente attive e si espande fino ad arrivare a sessanta componenti volontari. In tre anni hanno collaborato almeno cento persone differenti.


L’ESPERIENZA DI BOCCALEONE OPEN SPACE

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Fig. 3. La situazione di partenza nel 2013. Nei giorni prima dell’evento abbiamo raccolto un centinaio di siringhe. L’area non veniva curata da molto tempo. Alcuni abitanti del quartiere hanno ammesso che per più di venti anni non hanno più messo piede nel parcheggio.

spiacere per il progettista) allora non funzionerà. Le persone fanno la differenza. Meglio ancora se la fanno spontaneamente e non obbligati da nessuno (Jacobs, 2009). Ciò che la politica può fare oggi per il viadotto, e che in parte sta già facendo, è favorirne (e non ostacolare) il riuso. Non deve metterci il cappello. Non deve cercare di trovare volontari cavalcando la retorica della cura dei beni comuni (Somaini, 2015). Deve solo garantire che la società possa sfruttare in maniera più efficiente lo spazio del parcheggio. Al massimo dovrebbe comunicare ai cittadini che lì, sotto al viadotto, si può fare e si può organizzare qualcosa di nuovo, naturalmente rispettando il contesto in cui si agisce (Cottino & Zeppetella, 2009). La conservazione e la valorizzazione dello spazio infatti ha bisogno di azioni. Per

far ciò si deve superare l’idea consolidata e rigida di standard urbanistico4 che attribuisce all’area la mera funzione di parcheggio e continuare a vedere il viadotto come uno spazio flessibile e aperto all’iniziativa dal basso (Arena, 2006). Per il momento noi di Open Space abbiamo agito già quattro volte, assumendoci sempre la responsabilità diretta delle nostre azioni, sia economicamente sia socialmente (nel senso che ci siamo presi cura degli impatti sociali delle nostre azioni). La prima volta, forse la più bella e la più difficile in assoluto, lo abbiamo fatto il 6 luglio del 2014, concentrando tutti i nostri sforzi in un giorno solo. La seconda volta invece a luglio del 2015, per tre settimane continuative (figure 6 e 7). La terza volta a luglio del 2016 per tre giorni. L’ultima volta lo scorso settembre per un giorno solo (figura 8).

4 Il concetto di standard urbanistico è stato introdotto dallo stato italiano con decreto n. 1444 del 1968. Tale decreto introduce un dimensionamento minimo per “attrezzature di interesse comune” pari 18 m² per abitante (la quantità minima di spazi pubblici viene suddivisa in: 9 m²/ab di “per aree a verde”, 2,5 m²/ab di “parcheggi”, 4,5 m²/ab per “edifici scolastici” e 2 m²/ab per “per altre attrezzature di interesse comune”). Tale rapporto può cambiare in base alle disposizioni regionali che possono aumentare il dimensionamento (Mengoli, 2009). Le aree urbane costruite successivamente a questo decreto (ovvero dopo il 1970) spesso si distinguono facilmente rispetto ad aree costruite precedentemente per l’elevata presenza di spazi pubblici. Questo standard ha un’origine quantitativa. Oggi, diversi sono i tentativi per superare una concezione “meccanica” del fabbisogno di aree a servizio, introducendo l’idea di standard qualitativo (Caldarice, 2013).


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Ci siamo occupati di urbanistica, teatro, cinema, animazione, mostre artistiche, street art, tornei sportivi, concerti, mercati, conferenze, giochi per bambini e tanto altro. Tuttavia, per noi, non è stata importante tanto l’attività in sé promossa, quanto semmai il ‘luogo’ in cui abbiamo agito e il ‘come’ lo abbiamo fatto. In primo luogo, abbiamo agito in uno spazio che fino a tre anni fa era considerato ‘negato’ nonché il più inospitale in assoluto; in secondo luogo, lo abbiamo fatto in maniera creativa (reinterpretando il parcheggio) e aperta (nel senso che abbiamo cercato di aprirci a tutti coloro che avessero voglia di collaborare o esprimersi artisticamente). Abbiamo inoltre lasciato dei segni visibili e concreti con operazioni di street art che hanno ridato un nuovo volto all’intera area.

IL CONTESTO: BREVI CENNI GEOGRAFICI E STORICI DEL VIADOTTO E DEL QUARTIERE

Siamo a metà dell’800 quando viene realizzata la ferrovia che oggi taglia Bergamo in due, distinguendo per sempre un sud e un nord all’interno del territorio. Un tempo la ferrovia divideva soprattutto la città (alta e bassa) dalla campagna. Oggi invece divide la città storica (affascinante, bellissima e preservata) da quella parte di città che, probabilmente, potrebbe provare a sperimentare nuove azioni di rigenerazione urbana. Boccaleone si trova esattamente nella parte più a sud di Bergamo (figura 1). La storia ‘moderna’ del quartiere è fatta di demolizioni, tagli ed infrastrutture. Boccaleone è sempre stato un quartiere ‘diviso’ dalla città a causa della ferrovia. Non solo, intorno agli anni ’50, fu quasi completamente sventrato per la realizzazione della circonvallazione. Con la realizzazione della circonvallazione venne eretto un viadotto che passò ‘cinicamente’ attraverso quello che, all’epoca, era il cuore pulsante del quartiere. Da vecchio borgo, anche un po’ malmesso a dire il vero, Boccaleone passò ad essere improvvisamente un territorio in trasformazione (figura 4). Da quel momento in avanti molti nuovi condomini residenziali vennero costruiti, aumentando esponenzialmente il numero di abitanti del quartiere.5 Attenzione però: oltre all’arrivo di nuove persone, questi nuovi condomini portarono con sé anche

la monotonia dell’urbanistica e dell’architettura moderna, nonché la presenza di moltissime aree pubbliche a standard. Oggi molte di queste aree a standard risultano ‘inutili’ o sovradimensionate, contribuendo a separare gli individui ed annientare la densità tipica della città. Questi effetti sono visibili nella maggior parte degli ambiti urbani costruiti negli ultimi sei decenni (Paba, 1998; Romano, 2010).

VIVERE TRA I VUOTI DEI QUARTIERI RESIDENZIALI CONGELATI PER SEMPRE

Chi vive in questi ambiti urbani un po’ periferici (non per natura periferici, ma per volontà urbanistica)6 conosce bene la monotonia dello spazio in cui abita. Distese e distese di aree inutili che separano – invece che unire – gli sconnessi condomini residenziali e le sconnesse relazioni tra gli abitanti. Aree verdi, parcheggi, strade, ed edifici che raramente vengono adattati nel tempo dai loro abitanti (figura 5). Interi ambiti che, con tutta probabilità, sono stati progettati e costruiti da persone che probabilmente non si ricordano nemmeno dove sia o cosa sia Boccaleone. Questi ambiti sono quasi sempre intoccabili da parte dalle persone che li abitano. Intoccabili, per farla breve, perché immodificabili nella loro materia e nella loro funzione (“quello è un parcheggio”, “quella è l’area cani”, “lì c’è l’area bimbi”, “lì c’è un altro parcheggio”, ecc.) se non attraverso l’intervento burocratico del Comune (Heller, 1998). Non dico che in quanto intoccabili questi spazi siano anche vuoti di senso o di memoria (Lynch, 2013). Tutt’altro: chi vive o ha vissuto in questi quartieri può avere anche ricordi stupendi. Ad esempio l’area del viadotto suscita sicuramente molti ricordi nella testa di tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, si son trovati a frequentare Boccaleone. Per noi, ad esempio, la zona del viadotto rappresenta momenti piacevoli come i ritrovi con gli amici di notte, magari una partitella a calcio, le prime sigarette, i primi appostamenti romantici e altro ancora.

I PROBLEMI DELL’AREA DEL VIADOTTO I ricordi non bastano però quando vedi i luoghi in cui sei cresciuto sgretolarsi e il loro destino di-

5 Ad oggi circa 9.000 persone vivono a Boccaleone. Questo dato però non è lo stesso posseduto dall’amministrazione comunale a causa della sbagliata indicazione del confine del quartiere. Queste informazioni sono state rese pubbliche durante una conferenza dal titolo “Boccaleone, il viadotto e la sua storia” organizzata il 6 luglio 2015, durante la seconda edizione di Boccaleone Open Space. A presentare il lavoro Franco Ravasio (nato e cresciuto a Boccaleone) e la ex-bibliotecaria di quartiere Sandra Savoldelli. 6 La loro staticità infatti dipende in primo luogo dalle regole urbanistiche che non consentono di aumentarne la densità e la complessità (Cozzolino et al., 2016).


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pendere dalle scelte di qualcun’altro che non li ha a cuore (o almeno non li ha a cuore quanto chi li abita). In particolare, ciò che è evidente, è che se questi vuoti (solitamente di proprietà pubblica) dei quartieri residenziali non vengono amministrati bene, presto diventano anche luoghi incontrollati, lasciati a sé stessi, capaci di attirare verso di sé tutti gli scarti della città e catalizzare degrado (Cottino & Tosi, 2003). Ed è proprio da qui che siamo partiti: probabilmente dall’ambito urbano più degradato di Bergamo. Il viadotto nel 2013 era la feccia delle fecce, era il luogo delle siringhe e dei morti di overdose; era l’odore di piscio nauseabondo; era anche la paura e il timore di passarci accanto (figuriamoci attraverso) della gente che abita nei paraggi (figura 3). L’area del parcheggio del viadotto (di proprietà pubblica) era un’area naturale per l’accumulazione di degrado: situata sotto un cavalcavia, a fondo chiuso, circondata da un cantiere (oggi terminato), dall’ex convento delle Clarisse completamente abbandonato (oggetto di incendio doloso nel 2015), dal centro sportivo dell’Atalanta mai inaugurato e anch’esso completamente abbandonato, e dai campi (che qualcuno definisce agricoli) di proprietà della provincia di Bergamo (figura 2). Insomma, un contesto completamente abbandonato diventato nel tempo un posto sicuro per lo spaccio e il consumo di eroina.7 Il problema vero però è che a pochi metri dal viadotto c’è il quartiere abitato di Boccaleone. C’è la chiesa, l’oratorio, la scuola, le case, c’è la vita sociale. Le due cose non possono coesistere senza evidenti frizioni.

LA RILETTURA DEI PROBLEMI E L’OPPORTUNITÀ DEL PARCHEGGIO DEL VIADOTTO

La comunità locale per anni si è lamentata di questa situazione, chiedendo al comune interventi mirati per la riqualificazione dell’area. Oltre a qualche sgombero che ha sempre tamponato il problema, la risposta del Comune era sempre la stessa: “gli edifici abbandonati non sono di nostra proprietà e quindi non ci possiamo fare niente”; oppure “forse abbiamo trovato un investitore”. Ed è esattamente a questo punto che noi di Open Space siamo intervenuti. La nostra idea era molto semplice. Da una parte riconosciamo che il degrado dell’area deriva dallo stato di abbandono degli edifici e degli spazi privati che

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circondano il parcheggio; dall’altra però ci chiediamo perché non si possa fare qualcosa direttamente nel parcheggio, senza aspettare che tutto ciò che sta attorno venga recuperato. Tra l’altro, come sancisce la legge, essendo di proprietà pubblica il parcheggio, dovrebbe rispondere a criteti di interesse pubblico e generale. Vedete, lo spazio è esclusivamente ‘spazio’ e non può essere di per sé un problema. Al contrario, lo spazio è la più grande risorsa per chi ha voglia di fare. Ogni azione ha bisogno di uno spazio per potersi compiere. Avete mai visto un’azione svolgersi senza spazio? (Cozzolino, 2015). Aree pubbliche a standard (come il nostro parcheggio) lasciate vuote e in abbandono, sono un problema, un costo, ma anche una risorsa. Sono un problema perché sono gestiti dalle stanze degli uffici comunali in maniera burocratica (Poggi, 2013) e spesso lontana dai reali bisogni locali (Chiodelli & Moroni, 2013). Sono un costo perché devono essere controllati, puliti e messi in sicurezza. Però sono anche una risorsa per coloro che hanno voglia di fare. Dunque sono una risorsa anche per gli abitanti del quartiere in quanto tali spazi possono ospitare attività in grado di rendere il contesto più vibrante e vivo (e soprattutto più sicuro). Basta poco per migliorare, anche di poco, un posto degradato.

PERCHÉ OPEN SPACE PUÒ ESSERE UN ESEMPIO VALIDO

Cosa sia lo spazio pubblico è una domanda complessa a cui gli esperti volgono spesso molta attenzione. Che cosa sia Open Space invece è più semplice da capire. Vedete, l’area del viadotto è stata aperta più volte, non solo fisicamente ma anche socialmente (e non ‘socialmente’ con quella accezione tipicamente politica del termine). Il viadotto è stato aperto all’incontro, alla voglia di sperimentare, alla voglia di condividere punti di vista diversi. In altre parole, il viadotto è stato aperto spazzando via la monotonia, l’inerzia e l’ordinarietà di chi è abituato a vedere le cose come se fossero già defunte in partenza. Abbiamo agito contro coloro che gestiscono la città mediante la tecnica della tassidermia. Il viadotto di Boccaleone è un esempio semplice che consente di evidenziare tutte quelle contraddizioni create dall’urbanistica, nonché l’inefficacia di quel modo di gestire gli spazi urbani in maniera burocratica, asettica e lontana da chi li abita. Inoltre l’esperienza di Boccaleone Open Space è un esem-

Basta fare una facile ricerca su google e scrivere “viadotto-Bergamo-degrado”: troverete tutta la cronaca del caso.


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Fig. 4. Un’immagine d’archivio procurata da Sandra Savoldelli in cui si nota la conformazione spaziale del quartiere prima della costruzione della circonvallazione. Gran parte degli edifici che vedete in foto oggi non esistono più.

pio che pone l’accento sull’importanza di chi vive tali luoghi. Infatti, come abbiamo dimostrato, se chi abita i contesti locali si sottrae dalla “responsabilità” verso il proprio territorio, nessun altro se ne occuperà direttamente al suo posto. In ultimo, Boccaleone Open Space è anche un esempio a cui fare riferimento perché dimostra che uno spazio aperto e pubblico ‘problematico’, come lo è stato per anni il viadotto, all’improvviso può ospitare in maniera spontanea manifestazioni pubbliche di ogni tipo. Jane Jacobs scrisse che “coloro che migliorano il proprio quartiere, manifestano spesso un profondo attaccamento al proprio vicinato di strada, in cui si svolge gran parte della loro vita e che per essi, a quanto pare, è qualcosa di unico al mondo, d’insostituibile, di prezioso nonostante i suoi difetti” (Jacobs, 2009: 261). Con questo non sto affermando che la cittadinanza all’improvviso si debba sostituire all’amministrazione locale. Questo mai. La proprietà del suolo su cui abbiamo agito è pubblica e pertanto la responsabilità principale è e deve essere dell’ammini-

strazione locale (ci sono funzionari che sono pagati per occuparsi di questi spazi). Tuttavia, credo che l’azione che abbiamo compiuto abbia dimostrato che con pochi accorgimenti (anche radicali, quali ad esempio il modello gestionale del parcheggio), un’area che fino a ieri era problematica, possa offrire cose e spazi molto più interessanti dei problemi.

SPUNTI E SFIDE PER IL FUTURO (NON SOLO PER IL VIADOTTO) Oggi molti spazi aperti e pubblici sono inutilizzati o sottoutilizzati, causando spesso l’emergere di problemi strutturali all’interno di contesti urbani locali abitati.8 Per svariati motivi, ciò accade più frequentemente all’interno dei tipici quartieri residenziali (moderni) costruiti dagli anni ’50 in avanti (Romano, 2010). Una buona sfida oggi può essere quella di rivedere il modo in cui tali spazi sono regolati ed aprire il loro utilizzo alla creatività dei cittadini (Moroni,

8 Sia chiaro, il sottoutilizzo dello spazio aperto non è sempre un problema: la contemplazione di una città stupenda come Venezia ad esempio può essere valorizzata dall’assenza di attività frenetiche nello spazio pubblico.


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Fig. 5. Nel 2013 abbiamo scelto le sette aree pubbliche principali del quartiere. Dopo una consultazione decidemmo che l’area del viadotto era a tutti gli effetti la più interessante e la più complessa da poter reinterpretare per effettuare un evento di rilevanza cittadina.

Fig. 6. L’area dopo aver effettuato le opere di street art in collaborazione con Pigmenti. Questa foto è stata scattata un pomeriggio qualunque durante l’evento del 2015.

Fig. 7. Una serata di festa durante l’evento del 2015.

Fig. 8. La foto ritrae l’ultimo evento effettuato lo scorso settembre 2016 in collaborazione con Utopia.

2013; Cozzolino, 2017). Ad esempio, pur mantenendo la vocazione pubblica dell’area, si potrebbe pensare di porre delle condizioni che facilitano l’azione di privati ed associazioni intraprendenti. Questo però evitando che il comune indirizzi nel dettaglio il contenuto stesso delle azioni da proporre. Piuttosto il comune dovrebbe prestare maggiore attenzione all’individuazione delle performance pubbliche che l’area deve garantire nel rispetto dell’interesse generale lasciando, conseguentemente, maggiore spazio alla creatività di proposte spontanee anche imprevedibili. Il punto, dunque, non dovrebbe essere tanto riassegnare nuove funzioni urbanistiche ogni qualvolta che nuove azioni spontanee propongono nuovi usi (ritenuti migliori) dello spazio pubblico. Questo ci farebbe ricadere nei soliti errori. Piuttosto dovrem-

mo impegnarci a trovare un sistema gestionale e regolativo abbastanza stabile che permetta ampi margini di flessibilità e sperimentazione, senza però snaturare la funzione originaria dello spazio pubblico. Per fare un esempio banale, i marciapiedi in città sono stati costruiti con l’obiettivo di rendere il camminamento dei pedoni più sicuro di quanto altrimenti sarebbe senza. In questa prospettiva, una volta che il passaggio di pedoni e carrozzine viene garantito, sarebbe una buona cosa che i commercianti (o chi, ad esempio, occupa il piano terra), qualora vi sia ulteriore spazio oltre quello da garantire per il passaggio, possano appropriarsi ed utilizzare facilmente e liberamente il marciapiede per le loro attività (magari senza pagare oneri spropositati, soprattutto se tale utilizzo avviene in contesti periferici).


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Ci sono interi ambiti urbani infatti in cui gran parte dei problemi derivano appunto dalla sottoutilizzazione dello spazio aperto. Gli ambiti periferici, come quello del viadotto di Boccaleone, ne sono un classico esempio (Bellè, 2016). In questi casi, pertanto, una buona amministrazione comunale dovrebbe ritenersi soddisfatta se vi sono persone (o gruppi di persone) che promuovo l’utilizzo creativo di tali spazi altrimenti sottoutilizzati. Naturalmente servono regole, questo è chiaro. Ma i vantaggi e le esternalità positive che tali attività possono produrre localmente (compresi quelli relativi alla maggiore sicurezza) dovrebbero incentivare una rapida revisione dell’approccio regolativo odierno. Di certo non basta un semplice regolamento per fare la differenza, così come non bastano dei semplici allacciamenti idrici ed elettrici sotto il viadotto per farlo rinascere. Queste però possono essere alcune delle condizioni di partenza necessarie per favorire un riuso spontaneo. Sicuramente servirà del tempo affinché avvenga questo lento cambiamento culturale (soprattutto interno alle istituzioni). Tuttavia, bisogna fare qualcosa per porre rimedio ai problemi urbani derivati in grossa parte dal modo in cui abbiamo costruito le città negli ultimi decenni. Da questo punto di vista, i recenti regolamenti introdotti per la gestione dei “beni comuni” sono sicuramente un buon punto di partenza ma non sufficiente. A mio modo di vedere infatti servirebbe qualcosa di più o magari addirittura radicalmente diverso. Rimane tuttavia il problema fin qui non discusso del giusto corrispettivo per l’occupazione di suolo pubblico. Stando alla nostra esperienza però verrebbe da pensare al contrario, ovvero a quanto ammontino i danni causati dalla mala gestione del patrimonio pubblico nei confronti di coloro che, abitando in prossimità del viadotto, sono stati costretti per anni a vivere in condizioni al limite della decenza. BIBLIOGRAFIA Arena, G. (2006) Cittadini attivi, Laterza, Bari. Bellè, B. (2016) Difficoltà ed ambiguità della valorizzazione degli immobili pubblici. Il caso di Bergamo, Tesi di laurea, Politecnico di Milano. Biondillo, G. (2008) Metropoli per principianti, Guanda, Parma. Brunetta, G., & Moroni, S. (2011) La città intraprendente. Comunità contrattuali e sussidiarietà orizzontale, Carocci, Roma. Caldarice, O. (2013), La pianificazione dei servizi in Lombardia. Tentativi di innovazione, in “Urbanistica informazioni, 373-375.

Cottino, P., & Tosi, A. (2003) La città imprevista: il dissenso nell’uso dello spazio urbano, Elèuthera, Milano. Cottino, P., & Zeppetella, P. (2009) Creatività, sfera pubblica e riuso sociale degli spazi. Forme di sussidiarietà orizzontale per la produzione di servizi non convenzionali, Cittalia, Fondazione ANCI ricerche. Cozzolino, S. (2015) “Insights and reflections on Jane Jacobs’ legacy. Toward a Jacobsian theory of the city”, in Territorio, FrancoAngeli, Milano. Cozzolino S., Ikeda S., Moroni S. (2016) How urban planning constrains complexity and spontaneous order: the relation between action space and framework rules, Conferenza: Jane Jacobs 100. Her legacy and relevance in the 21st Century, 25 maggio 2016, Delft, The Netherlands. Heller, M. A. (1998) The tragedy of the anticommons: property in the transition from Marx to markets, Harvard law review, 621-688. Lynch, K. (2013) L’immagine della città, Marsilio Editori. Jacobs J. (2009) Vita e morte delle grandi città americane, Einaudi, Torino. Mengoli, G. C. (2009) Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè Editore. Moroni, S. (2004) “Towards a reconstruction of the public interest criterion”, in Planning Theory, 3(2), 151-171. Moroni, S. (2013) La città responsabile. Rinnovamento istituzionale e rinascita civica, Carrocci, Roma. Moroni, S., & Chiodelli, F. (2013) “The relevance of public space: rethinking its material and political aspects” in Ethics, design and planning of the built environment, Springer, The Netherlands. Franck, K., & Stevens, Q. (2013) Loose space: possibility and diversity in urban life, Routledge. Inti, I. (2011) “Che cos’è il riuso temporaneo?” in Territorio, FrancoAngeli, Milano. Paba, G. (1998). Luoghi comuni: la città come laboratorio di progetti collettivi, FrancoAngeli, Milano. Poggi, G. (2013) La burocrazia. Natura e patologie, Laterza, Bari. Romano, M. (2010). Ascesa e declino della città europea, Cortina, Milano. Somaini, E. (2015) I beni comuni oltre i luoghi comuni, Ibl Libri, Torino. Ward C. (2013) Anarchia come organizzazione, Elèuthera, Milano. Ward C. (2000) Il bambino e la città, L’ancora del mediterraneo, Napoli.


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FRANCESCA GOTTI

ZENITH - LA CITTÀ RIMOSSA

Nello smantellamento del vecchio Macello di Celadina sono andati distrutti quasi interamente decine di anni di allestimenti scenografici del Teatro Donizetti (che lo utilizzava come magazzino); con l’imminente demolizione dell’Ex Mangimi Moretti una comunità di senzatetto perderà la sua dimora; con la riqualificazione del piazzale della Malpensata, lo storico mercato di quartiere verrà trasferito; l’operazione edile che procede a tratti nell’ex convento delle Clarisse di Boccaleone impedisce ai senzatetto di tornare a vivere in quella che per loro è unica dimora accessibile. Per guardare al passato, con la costruzione del seminario in Colle Aperto è stato cancellato un intero isolato storico di Città Alta e con l’edificazione della Casa del Fascio è sparito l’antico ospedale San Marco. La città è costantemente attraversata da trasformazioni, grandi interventi di risanamento urbano e demolizioni puntuali, cancellazioni e riscritture, sovrascritture e svuotamenti: le macerie delle distruzioni, gli archivi svuotati e ricollocati, i manufatti persi o dimenticati, i simboli, gli affreschi, le sculture rimossi dalle facciate e dagli interni degli edifici, le strutture e infrastrutture temporanee disassemblate e abbandonate; la materia urbana è duttile e non sempre riesce a registrare o conservare i segni dei suoi cambiamenti, il lento ritmo del degrado e della dimenticanza getta molti luoghi nell’oblio, allontanandoli dalla percezione comune, e facilitando il loro processo di rimozione materica. Quando parliamo di rimosso urbano ci riferiamo a quel contenuto della città che viene cancellato, a diversi livelli, dalla cittadinanza: su un piano cognitivo si tende ad escludere dall’orizzonte quotidiano i

luoghi, le architetture e le situazioni che sono considerate sconvenienti, pericolose, problematiche, vergognose, tutto ciò che viene legato a un fallimento, a un errore, a una complicazione, a una cattiva gestione o all’incuria. La rimozione per Freud era l’atto grazie al quale l’individuo ometteva, cancellava i desideri, i pensieri o i ricordi che generavano dolore, generando per contro delle lacune a livello subconscio.1 Sul piano dell’esperienza fisica diretta, di conseguenza, eludiamo nei nostri attraversamenti urbani quelle aree che percepiamo come pericolose o insignificanti, poiché prive di una funzione, marginali o trascurate; i processi di abbandono producono una graduale rovina materica dei siti e in certi casi una rimozione volontaria dei manufatti, e con essi delle storie e delle memoria che contengono. Si attua quasi inconsapevolmente una sorta di damnatio memoriae, condanna della memoria, una pratica in uso nell’antica Roma che prevedeva la cancellazione della memoria riguardante una persona accusata di gravi crimini: non restava di essa alcuna traccia o testimonianza scritta, figurativa, materiale e la sua storia non poteva essere tramandata.2 Questa relazione tra ambiente urbano e abitanti produce una città nella città, la città rimossa, una costellazione di luoghi indeterminati, che appaiono immobili, quelli che Morales definisce come terrain vague: “i terrain vague sono i margini della città, mancando di ogni effettiva inclusione, sono isole interne svuotate di attività, sono dimenticati, errori e avanzi che sono rimasti esterni alle dinamiche urbane; convertiti in aree che sono semplicemente disabitate, in-sicure, im-produttive.”3

1 Petrini P., Renzi A., Casadei A., Mandese A. (2013) Dizionario di psicoanalisi. Con elementi di psichiatria psicodinamica e psicologia dinamica, F.Angeli, Milano. 2 In architettura questo concetto è stato ed è riferito generalmente alle pratiche di cancellazione dei manufatti legati ad ex regimi totalitari (come nel caso dell’architettura fascista, vedi Ettore Maria Mazzola ,Philip Rand, Contro storia” dell’architettura moderna: il caso di Roma ( 2004), Alinea, Firenze) ed è stato utilizzato recentemente in relazione alle tragiche vicende del patrimonio siriano distrutto dall’ISIS. 3 Ignasi de Solà Morales, (1996) Terrain vague, in Quaderns n. 212, p. 38-39.


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È partendo dall’esplorazione di questi luoghi però che se ne comprende la ricchezza e la complessità: attraversando la città rimossa, con la curiosità con la quale si muovevano i flaneur o i situazionisti nei terrain vague e durante le derive urbane nelle metropoli del ‘9004, indagando la materia malleabile di questi luoghi, interrogandosi sulla sua indeterminatezza, si scoprono le storie che essa accoglie e le trasformazioni che documenta, le testimonianze che preserva pur essendo costantemente attraversata da mutamenti. È proprio il suo essere indefinita a rendere la città rimossa terreno di sperimentazione e manifestazione di dinamiche che non trovano spazio nei contorni definiti del paesaggio urbano formale: è qui che si esprimono i bisogni dei marginalizzati, le necessità di aggregazione spontanea e le anomalie sociali, qui che si ibridano culture e azioni eterogenee, qui che sedimentano tracce storiche, biologiche, umane; è in questi luoghi privi di una funzione che trovano spazio situazioni temporanee, istantanee, itineranti, informali, pratiche esperienziali, di riappropriazione comune e di abitare marginale. Il contenuto di questi luoghi e i luoghi stessi costituiscono una risorsa fondamentale in quanto narrazione delle memorie così come delle metamorfosi in atto della città: narrazione come ‘racconto che crea conoscenza’; il luogo come ‘spazio che lascia accadere’, privo di coordinate e definito da soli indizi, oggetti, segni, frammenti sui quali si costruiscono storie sempre nuove. Il rimosso ci permette di accedere alle memorie dimenticate, alle vite isolate, al

passato trascurato, alla storia sepolta e di farne materiale nuovo per interrogarci su ciò che sta per accadere e per creare nuove situazioni, per generare nuove domande. “Il vuoto ha dunque una sua necessità e utilità che consiste anche e in primo luogo nella possibilità di percepire e dare senso alla materia che circonda il vuoto. In questa relazione il vuoto diviene elemento essenziale della struttura del mondo (della città e del paesaggio) per abitare secondo la cura. In questo moto percettivo, il vuoto diventa lo spazio per eccellenza in cui si esprimono le attività esistenziali del dis-allontanamento dello spazio percepito di cui si fa esperienza, dell’orientamento direttivo rispetto a esso, del posizionamento nel mondo e della presa di possesso dei luoghi.”5 Il vecchio albergo Diurno, la Galleria Conca d’Oro, lo scalo ferroviario, il convento mai completato di Boccaleone, la stanza sopra la porta Sant’Alessandro. Claudia, senzadimora; Fabio, membro del Servizio Esodo; l’Associazione Contemporary Locus; Popi, ex detenuto di Sant’Agata; le Nottole, speleologi urbani; New Landscape, studio di ricerca e progettazione. Luoghi e voci. Nel 2014 l’Associazione Zenith ha avviato un progetto di ricerca sugli spazi rimossi di Bergamo, a partire da un lavoro documentario (diretto dal videomaker Paolo Bianchi) che ha raccolto le storie dietro ai luoghi dimenticati. L’esplorazione dei luoghi ha generato una serie di narrazioni delle voci che abitano il rimosso e con lo strumento del video è stato possibile restituire una documentazione complessiva di questo

Fig. 1. Interno dell’ex macello di Celadina con le scenografie del Teatro Donizetti. Fotografia di Francesca Gotti.

Fig. 2. Demolizione dell’ex macello di Celadina. Fotografia di Francesca Gotti.

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Careri F. (2006), Walkscapes, Einaudi,Milano. Magnier A., Morandi M.,(2013) Paesaggi in mutamento. L’approccio paesaggistico alla trasformazione della città europea, F.Angeli, Milano pp 56. 5


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Fig. 3. Interno di una cella dell’ex carcere Sant’Agata. Fotografia di Giovanni Galanello.

Fig. 5. Disegni di progetto di Ugo la Pietra, Attrezzature urbane per la collettività. Cinquantasette disegni di riconversione progettuale 1977-1979.

sistema, indagando le relazioni e le dinamiche temporanee che si sviluppano al suo interno: la valenza del documentare queste storie risiede nel portare all’attenzione pubblica situazioni poco conosciute o delle quali si ignora il reale rapporto con il contesto urbano, sviscerando non solo le radici dei problemi ad esse legati, ma anche potenzialità e risorse (così nel documentare lo smantellamento del Macello di Celadina è stato possibile recuperare parzialmente alcuni manufatti scenografici, riutilizzati attualmente da alcuni Teatri indipendenti di Bergamo). La produzione del documentario ha permesso di avviare un archivio delle memorie dei luoghi attraversati, facendole conoscere come testimonianze del passato tanto quanto delle dinamiche urbane meno ufficiali: sono emersi i bisogni dei gruppi marginalizzati così come le possibilità di includerli in nuovi im6

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Fig. 4. Spettacolo di teatro all’interno dell’ex Chiesa nel carcere di Sant’Agata durante l’evento ORA D’ARIA. Fotografia di Renato Liguori.

maginari, come per il caso dell’ex carcere Sant’Agata che ha visto il riutilizzo di arredo realizzato da detenuti e la collaborazione di gruppi di immigrati per allestire un evento culturale; si sono manifestate modalità di progettazione informale e partecipativa per il riuso del patrimonio, seguendo i progetti di allestimento d’arte temporanei in diversi luoghi della città; si sono raccontate pratiche di esplorazione del patrimonio rimosso formative e inclusive. Il lavoro video-documentaristico è stato una parte propulsiva e propedeutica per lo sviluppo dei successivi progetti dell’Associazione, fornendo l’input per la produzione di materiale narrativo e di reti di collaborazione: il tentativo di affiancare la ricerca, alla comunicazione e alle pratiche esperienziali per la riattivazione del rimosso urbano si avvicina per i principi guida alla dimensione del placemaking6, al processo di progettazione dei luoghi a partire dalla dimensione umana, negli usi, nell’identità, nelle metamorfosi, lavorando su una piccola scala di intervento che generi occasioni di rigenerazione.7 Interrogando la città si è creata a inizio 2015 una prima occasione, un incontro con un luogo e una necessità: l’ex Carcere Sant’Agata, visitato insieme all’Associazione Maite che ai tempi aveva accesso unicamente a un piccolo locale in prossimità dell’ingresso dell’edificio storico. Il grande valore di questo frammento di patrimonio emanava dagli ambienti chiusi e abbandonati come fosse rimasto in attesa di essere svelato dal momento della sua chiusura negli anni ‘70. Successivamente a incontri e ipotesi è stato sviluppato un progetto per un evento di 3 giorni svoltosi nel mese di Luglio 2015, ORA

“Placemaking is defined as the creation, renovation, and maintenance of the shared physical world through integration of expert professional knowledges with knowledges of place. (…) Jane Jacobs describes placemaking as an ordinary but fundamental human activity that sustains communities. In this vision, people define, construct and control the quality of their own environments. Hirt S. , Zahm D., (2012) The Urban Wisdom of Jane Jacobs, Routledge. 7 Thomas D. (2016), Placemaking: an urban design methodology, Taylor & Francis.


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FRANCESCA GOTTI

D’ARIA, che includeva spettacoli di teatro, visite guidate, concerti e una piccola mostra, attuato con una risistemazione minima degli spazi, ripuliti ed attrezzati con impianto elettrico. L’attenzione generata dall’evento ha permesso di realizzare una seconda situazione nell’ottobre dello stesso anno, della durata di una settimana, espandendo le attività e le collaborazioni e proponendo una breve narrazione della storia e delle memoria dell’ex carcere. Le realtà coinvolte nell’evento si sono dimostrate interessate a proseguire la collaborazione al progetto ed altre si sono unite alla programmazione gestita da Maite per la gestione continuativa dello spazio: in seguito al secondo incontro di ORA D’ARIA l’edificio è stato concesso per un anno alla rete di associazioni guidata da Maite e si sono consolidati gradualmente gli interventi di risistemazione per rendere il luogo utilizzabile nelle molteplici e crescenti situazioni. Sant’Agata ospita ora una piccola scuola di italiano per migranti, un laboratorio di falegnameria, mostre temporanee, aperitivi di architettura, performance itineranti, corsi serali. La riattivazione dell’ex carcere prosegue con la gestione quotidiana dello spazio, l’organizzazione di eventi, la manutenzione, la presenza costante di forze volontarie. Come sostenere la permanenza di questo progetto e alimentare lo sviluppo di interventi e collaborazioni simili intorno ai luoghi rimossi? Dall’inizio del 2016 la raccolta di materiale, la mappatura, la documentazione e il dibattito intorno al rimosso urbano hanno concretizzato un lavoro di ricerca che sta trovando spazio in una rubrica (pubblicata sulla rivista ARK di Bergamo in collaborazione con lo studio Newlandscapes di Davide Pagliarini) e nella produzione di materiale divulgativo: l’obiettivo è comunicare alla cittadinanza le potenzialità dei luoghi rimossi, instaurare un dialogo tra istituzioni e realtà informali che operano sul territorio, facilitare il riutilizzo degli spazi dismessi o compromessi, archiviare le memorie e la storia della città rimossa. La produzione e la condivisione di narrazioni (digitalmente, materialmente, permanentemente o temporaneamente) offre la possibilità di esprimere nuove visioni sulle trasformazioni urbane e sulla partecipazione ai progetti di mutamento: il progetto vuole ricostruire un sistema, La Città Rimossa, che riconnetta memorie perdute, frammenti di paesaggio cancellati, nuove risorse sociali e spaziali. La rubrica di ARK toccherà per l’anno 2016-2017 quattro luoghi differenti in relazione a diversi Sguardi sul paesaggio urbano, declinando il rapporto tra architetture rimosse e città per scala, caratteristiche dei 8

luoghi, tipologie insediative, abitanti, usi informali, allo scopo di mostrare la varietà degli elementi del sistema rimosso e le affinità che li attraversano. Lo studio sul caso dell’ex Carcere Sant’Agata ha permesso di trovare un raffronto con la situazione nazionale delle carceri dismesse, approfondendo le modalità di riattivazione e le potenzialità di recupero di queste strutture seguendo processi per fasi attuative graduali e parcellizzazione degli ambienti. Un ulteriore livello di riqualificazione, anch’esso sviluppato insieme allo studio Newladscapes e che sta richiedendo un lavoro di semplificazione e istituzionalizzazione, è rappresentato dalle “infrastrutture leggere di riattivazione”: partendo dalle memorie (presenti e rimosse) di un luogo, dalle sue qualità e dalle necessità che intorno ad esso si manifestano, ci si interroga sulla possibilità di sviluppare degli strumenti spaziali, dei dispositivi, che consentano di realizzare i bisogni collettivi manifesti utilizzando le risorse del luogo e trasformandole con interventi minimi. Dall’incontro con la responsabile del sistema bibliotecario per la Biblioteca Tiraboschi, è nato un progetto preliminare per la riattivazione degli spazi esterni dell’edificio, al fine di potenziare il giardino e i padiglioni esistenti per attività di studio, incontro, esposizione che non riescono a essere realizzate all’interno della struttura principale: rileggendo le testimonianze architettoniche storiche presenti e quelle non più esistenti (gli edifici demoliti che andavano a completare il sistema ellittico di volumi del mercato), il progetto cerca di definire una struttura essenziale per la realizzazione delle attività che generi al contempo una nuova porzione paesaggio (prodotta dall’architettura storica, dal nuovo innesto infrastrutturale e da una vegetazione rigenerativa). In una serie di tavole prodotte tra il 1977 e il 1979 Ugo la Pietra realizzò 57 “disegni di riconversione progettuale per attrezzature urbane per la collettività”: una serie di visioni nelle quali il riuso di elementi comuni del paesaggio urbano venivano trasformati in oggetti ad uso dei cittadini per riappropriarsi dello spazio pubblico, secondo il concetto espresso dall’architetto “Abitare è essere ovunque a casa propria”.8 Ciò a cui le infrastrutture per la città rimossa tendono è questo concetto, una tensione verso la riconquista dei frammenti rimossi della città pubblica, realizzata attraverso dispositivi essenziali che non oscurano le preesistenze ma mirano invece a esaltare i segni dimenticati e le qualità trascurate, offrendosi come supporto per la manifestazione e la sperimentazione di nuove situazioni e occasioni di incontro, creazione, produzione, esperienza dei luoghi.

Ugo la Pietra, Attrezzature urbane per la collettività. Cinquantasette disegni di riconversione progettuale 1977-1979, 2013.


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LE ESPLORAZIONI URBANE DI CROCE E PUNTO

Croce e punto. Gennaio 2014, noi quattro arriviamo a questo nome senza più indugiare. Ci mette d’accordo l’immagine del ‘rammendo urbano’, che racchiude idee e pensieri di cui ci stiamo occupando da alcuni anni, insieme o da soli, in studio o università, esplicitamente (scoprendo e partecipando a esperienze sperimentali di riqualificazione urbanistica e architettonica, a Milano, Bergamo e dintorni) o quasi senza accorgercene. Discutiamo spesso di progetti di trasformazione urbanistica e architettonica, così come di spazio pubblico, quale luogo di interazione sociale, integrazione e inclusione, aggregazione e condivisione di attività e passioni. Da professionisti, una volta conclusi gli studi universitari, abbiamo deciso di lavorare nel contesto lombardo, sviluppando sia esperienze autonome sia progetti in collaborazione, rafforzando così la nostra intesa e capacità di ricerca e ideazione: Marta Savoldelli, laureata in Lingue e Letterature Straniere a Bergamo, è attualmente progettista nel settore culturale e, per passione, usa la macchina fotografica per guardare e indagare la città; Valentina Carrara, urbanista laureata al Politecnico di Milano, collabo-

ra con enti pubblici e studi professionali, associazioni e cooperative, occupandosi di progettazione urbanistica e strategica e educazione ambientale; Alberto Brigati, architetto laureato all’Università degli Studi di Parma, si è specializzato in progettazione architettonica e urbanistica e analisi di impatto ambientale e paesaggistico; Matteo Rondi, laureato in Architettura U.E. al Politecnico di Milano, esercita la libera professione come architetto e certificatore energetico, conservatore e paesaggista. L’occasione di dar forma a un nostro personale percorso di indagine e ricerca sullo spazio pubblico ci arriva a fine 2013, da un avviso del Comune di Bergamo (Servizio Giovani, Sport e Tempo libero) per la selezione di progetti di protagonismo giovanile da realizzarsi nel laboratorio dello spazio Polaresco, luogo in cui, da qualche anno, l’amministrazione entra in contatto con associazioni giovanili, nonché spazio di orientamento formativo e professionale. Inserendoci in questo contesto, pensiamo quindi a un’associazione no profit come soggetto adatto per indagare le trasformazioni nell’ambito urbano di Bergamo, per conoscere le realtà sociali attive e fare rete, per entrare nel dibattito sulle politiche pubbliche cittadine e sperimentare nuovi approcci creativi allo spazio pubblico. Fin da subito, scegliamo di coinvol-

Fig. 1. A Boccaleone - foto di Francesca Fenili.

Fig. 2. Esplorazione Urbana a Boccaleone - foto di Alberto Brigati.

1. CROCE E PUNTO: CHI SIAMO E COSA FACCIAMO


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gere e aggregare alla nostra esperienza altri giovani, attraverso momenti di incontro e confronto e percorsi di cittadinanza attiva che ruotano intorno al ‘diritto/dovere per i beni comuni’. La volontà di partecipare attivamente alla vita cittadina, prendendosi cura della città e dei suoi spazi pubblici, ci porta a costruire un luogo di ricerca interdisciplinare applicata all’ambito socio-culturale, architettonico e urbanistico. Scegliamo come logo dell’associazione un bottone, che è anche una croce bianca su fondo nero, come a indicare un punto preciso, un luogo su una mappa. E diventiamo Croce e punto. A partire dal gennaio 2014, Croce e punto inizia a promuovere alcune attività dedicate agli spazi pubblici della città di Bergamo, partendo dalla volontà e necessità di conoscere questi luoghi e chi li abita e frequenta ogni giorno. Nel corso del nostro primo anno di attività, proponiamo presso lo spazio Polaresco alcuni incontri/dibattiti con associazioni, comitati di quartiere bergamaschi e con realtà associative di altri territori, come, per esempio, Olinda che ci racconta la rinascita dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano attraverso il teatro e forme di imprenditoria sociale. Sempre nel 2014, si apre il primo ciclo di esplorazioni urbane, in cui i quartieri di Bergamo e i loro spazi pubblici diventano oggetto di narrazione attraverso la fotografia. Da questi primi passi, ne vengono pian piano mossi altri in città. Alcuni quartieri ci attraggono perché particolarmente vivaci dal punto di vista della sperimentazione sullo spazio pubblico: Boccaleone, dove nel luglio 2014 il nostro primo portfolio fotografico viene esposto in occasione della manifestazione Boccaleone Open Space sotto il viadotto, e Malpensata, dove, nel giugno 2015, veniamo coinvolti nelle fasi finali del Progetto Strategico ‘Abitare una Nuova Malpensata’ e promuoviamo un gioco urbano che approccia il quartiere attraverso una modalità ludica. Altri quartieri e luoghi ci vengono svelati dagli abitanti e dalle associazioni stesse con cui entriamo in contatto nel nostro percorso: l’associazione Pezze di Terra ci porta a Loreto, dove nelle estati 2015 e 2016 partecipiamo alla loro ‘Festa dei cortili’ (prima con un’esplorazione urbana, poi con un gioco urbano), il gruppo giovanile Risciò ci invita a Longuelo che esploriamo a giugno 2015 durante la loro prima manifestazione Re-show. 1

Anche nel 2016 le esplorazioni urbane continuano, questa volta a tema: a marzo, con Legambiente e il dott. Ivan Cortinovis raccogliamo lo spunto di seguire il tracciato, spesso non visibile, della Morla in città; a giugno, quale evento collaterale di Iconemi, proviamo a rintracciare l’arte pubblica a Bergamo, quella informale e quella che è strumento di rigenerazione; infine, a settembre, in collaborazione con il Consorzio Solco Città Aperta di Bergamo, partecipiamo alla manifestazione I Maestri del Paesaggio con un’esplorazione urbana dedicata alla città antica e ai suoi colli. Contemporaneamente, costante è la ricerca di nuove opportunità progettuali e, con questo obiettivo, iniziamo a fare rete con altre realtà locali che sentiamo affini per temi e approcci. Condividiamo pensieri e idee con alcune associazioni cittadine attive come noi nella ricerca sullo spazio pubblico, quali Zenith, Pigmenti, Boccaleone Open Space, Pezze di Terra, Radici e Fronde. Cerchiamo inoltre spazi di confronto e possibilità di finanziamento attraverso la partecipazione a bandi e concorsi d’idee. Nel settembre 2014, con il progetto Bergamo, mind your city siamo selezionati tra i finalisti del concorso A New Social Wave II promosso da Iris Network (Istituti di Ricerca sull’impresa Sociale) in collaborazione con Fondazione Italiana Accenture sulla piattaforma digitale ideaTRE60 1.

2. LE ESPLORAZIONI URBANE: COSA SONO E PERCHÉ “Si può passeggiare anche in città… le facciate delle case, i portali, le chiese, le emergenze monumentali, le insegne dei negozi. Ognuno di questi iconemi rimanda a un periodo storico e culturale della città, a cui da spettatori daremo un senso. Ma nel contempo ci muoveremo anche da attori camminando sui marciapiedi, frequentando i bar, i cinema, le case degli amici... Siamo così presenti in duplice modo alla vita della città, esprimendo nel nostro muoverci in essa, nel modo di “usarla”, il nostro piacere o il nostro fastidio di attori-spettatori, che contribuiscono a creare quella tensione di cui la città vive, a farne il territorio del nostro passeggiare… in tal senso passeggiare è vivere.” (Eugenio Turri)

Il progetto presentato vuole affrontare la questione della percezione dell’insicurezza nei quartieri periferici della città, attraverso un intervento sperimentale di arte pubblica, collettivo e partecipato, che supera il classico approccio standardizzato, affermando il ruolo sociale dell’arte applicata a spazi non istituzionali (piazze, giardini, strutture pubbliche, ecc.) con l’obiettivo di migliorare la qualità urbana dell’abitare. Per saperne di più: http://www.ideatre60.it/le-idee-accadono/post/i-finalisti-di-a-new-social-wave-ii-in-unvideo-progetto-bergamo-mind-your-city


LE ESPLORAZIONI URBANE DI CROCE E PUNTO

La città parla, ne siamo convinti da sempre. Così, fin da subito, Croce e punto rivolge lo sguardo a Bergamo, ai suoi quartieri e abitanti. Nessuno di noi quattro è cresciuto o abita in città, siamo della provincia e viviamo o abbiamo vissuto Bergamo da studenti o turisti, utenti di servizi o giovani professionisti. Il nostro sguardo sulla città è quindi, fin da subito, diretto e sperimentale, con un occhio esterno che ci dà la possibilità di nuovi punti di vista. Per quanto riguarda metodi e approcci, ci solleticano alcune pratiche partecipative minime, quali le passeggiate di quartiere e gli strumenti di narrazione, come la fotografia. Ma anche i progetti innovativi di riuso e riattivazione degli spazi pubblici2, promossi da associazioni o comitati locali o autopromossi dal basso, e alcune esperienze di indagine e mappatura3 degli spazi pubblici stessi, più o meno formalizzate (alcune anche in coordinamento con enti pubblici), con l’attenzione spesso rivolta ai vuoti urbani (gli spazi dismessi, abbandonati o sottoutilizzati). In tale direzione, fin da subito, tentiamo una sintesi ragionata di quello che significa per noi quest’approccio all’ambito urbano, arrivando a queste conclusioni (o meglio, punti di partenza): mappare per noi significa esplorare la città, per conoscerla, prima di tutto, condividendo molteplici punti di vista, e poi per costruirne una visione approfondita e una narrazione originale. E, in modo altrettanto concreto, l’atto del conoscere significa per noi (ri)appropriarsi dei luoghi urbani, facendoli diventare “il territorio del nostro passeggiare”. Come associazione, croce e punto si pone quindi l’obiettivo di affiancare alla ricerca e analisi urbana e territoriale tradizionale, alcuni metodi partecipativi di osservazione e interpretazione, di narrazione e restituzione della città e dei suoi spazi pubblici. Tra le tecniche di ascolto attivo del territorio, la camminata di quartiere è uno dei metodi partecipativi che più di altri riteniamo possa creare, attraverso la valorizzazione dei saperi non-esperti, un clima di collaborazione e ascolto reciproco tra la popolazione e gli altri portatori di interesse su un determinato quartiere o progetto pubblico4. Volutamente, abbiamo provato a rileggere questa tecnica formalizzata adattandola al-

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le nostre opportunità di contesto nella città di Bergamo, proponendola in chiave creativa, per renderla avvicinabile e fruibile anche dai cittadini più giovani. Scegliamo quindi di ‘passeggiare’ in città e utilizzare la fotografia per conoscere e narrare l’urbano e riconsegnare alla città stessa il nostro sguardo, la nostra visione; ci guidano idealmente grandi urbanisti e geografi, da Eugenio Turri a Jane Jacobs, così come grandi fotografi, da Gabriele Basilico a Luigi Ghirri. A partire dal 2014, Croce e punto promuove le esplorazioni urbane, itinerari domenicali in diversi quartieri e zone di Bergamo. Ogni volta, in relazione al quartiere o al tema indagato, invitiamo a esercitare l’occhio e l’arte di vagabondare. Questo perché il rapporto quotidiano con la città, i suoi spazi e tempi, spesso è condizionato dalla semplice utilità, nei trasferimenti, nell’accesso a determinati servizi, persino nei momenti di divertimento e tempo libero. Rinnovare il proprio sguardo sulla città attraverso, da un lato, il ritmo lento del passeggiare e, dall’altro, la tecnica del fotografare, offre la possibilità di recuperare il piacere dell’osservare. Le esplorazioni urbane vogliono quindi provare a (ri)stabilire un legame più profondo con lo spazio urbano visitato, andando alla scoperta degli elementi sociali e culturali, architettonici e naturali presenti e delle relazioni quotidiane tra abitanti e spazi. Riteniamo che la possibilità di approcciare lo spazio urbano con strumenti e linguaggi creativi, nonché modalità innovative, possa risultare un approccio interessante per coinvolgere i cittadini nella conoscenza e narrazione dei luoghi della propria città, per ristabilire con essi una speciale relazione affettiva, per riappropriarsene e prendersene cura, sia attraverso pratiche spontanee che in dialogo con gli enti pubblici, anche, quindi, e soprattutto, in ragione dell’amministrare la città stessa e essere protagonisti dei processi decisionali. In una prospettiva più ampia, che possa anche portare a processi e progetti di riattivazione e riqualificazione di spazi pubblici, si identifica la partecipazione della cittadinanza non più come un’opportunità per governare le trasformazioni in atto, ma come fondamento dell’agire nello spazio urbano.

2 Un elenco sarebbe incompleto e sterile rispetto alla vitalità di progetti e organizzazioni esistenti. Ci limitiamo a due bellissime segnalazioni: il Teatro Sociale Gualtieri di Poviglio (RE), rinato grazie alla mobilitazione cittadina, e A di Città che a Rosarno (RC) realizza progetti di comunità. 3 Esperienze interessanti di mappatura si sono diffuse in molte città italiane. Segnaliamo il Catalogo degli Spazi Opportunità a Trieste a cura di Associazione MANIFESTO2020 (www.pso-trieste.eu/#/spaziopportunita) e il lavoro di Spazi indecisi sui luoghi abbandonati nella zona di Forlì e dintorni (www.spaziindecisi.it). 4 La camminata di quartiere è una tecnica di ascolto utilizzata dagli amministratori locali per riuscire a cogliere degli aspetti del proprio territorio che i tecnici (progettisti, urbanisti…) faticano a riconoscere, in un’ottica di rigenerazione urbana che tenga conto anche degli aspetti sociali. Consiste in una o più passeggiate di quartiere, in cui piccoli gruppi di residenti (da 10 a 30) guidano i professionisti o i funzionari in un giro per l’area interessata. Mentre il gruppo cammina si incrociano osservazioni, domande, apprezzamenti, desideri, in modo libero e rilassato, e si raccolgono impressioni e problemi (Bobbio, 2004).


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La scelta di usare la macchina fotografica applicata alla città è stata dettata da una questione di opportunità (quando abbiamo costruito il calendario di eventi, abbiamo spulciato nella rubrica e scovato molti fotografi da coinvolgere), di conoscenze interne all’associazione (derivanti da: un corso di reportage, libri sfogliati, mostre, conversazioni con ottuagenari fotografi amatori/professionisti e pratica sul campo), di fami-

gliarità col mezzo (in fondo premere un pulsante per scattare è un gesto semplice e sempre più quotidiano) e, soprattutto, di metodo: quello del ‘portfolio collettivo’, ovvero l’idea di creare un inventario creativo, istintivo, riassuntivo dei molti modi che le persone hanno di vedere e di narrare lo spazio intorno a loro. Ovviamente non abbiamo inventato nulla, perché la fotografia è al servizio della documentazione urbana da quando ha fatto la sua comparsa nel 1838: la prima immagine della storia è quella di Parigi, una veduta di Boulevard du Temple di Daguerre. Di fronte alla continua metamorfosi delle città, a volte microscopica, a volte radicale, ecco, infatti, intervenire la fotografia (e quindi i fotografi) a offrire un’immagine cristallizzata del presente. Progetti, per citare i più noti, come quello della Mission Photographique de la D.A.T.A.R.5 nella Francia anni ‘80 o Viaggio In Italia curato da Luigi Ghirri sono paradigmi di due opposti e complementari visioni sul paesaggio, l’una oggettiva e l’altra affettiva. La fotografia in tutto ciò serve a raccontare come è la città, come sono i suoi abitanti e come essi usano o non usano gli spazi pubblici; ne abbiamo avuto una conferma guardando, prima di ogni nostra esplorazione urbana, la Milano del Gruppo

Fig. 3. Esplorazione Urbana a Boccaleone - foto di Giuseppe Bartoli.

Fig. 4. Esplorazione Urbana a Boccaleone - foto di Roberto Ramirez.

Fig. 5. Esplorazione Urbana a Longuelo - foto di Marta Savoldelli.

Fig. 6. Esplorazione Urbana a Loreto - foto di Valentina Carrara.

3. LA FOTOGRAFIA COME STRUMENTO PER NARRARE L’AMBITO URBANO “Fotografare la città non vuol dire scegliere le migliori architetture e isolarle dal contesto per valorizzare la loro dimensione estetica, compositiva, ma vuol dire per me esattamente il contrario. Cioè mettere sullo stesso piano l’architettura ‘colta’ e l’architettura ‘ordinaria’, costruire un luogo della convivenza. Perché la città vera, la città che mi interessa raccontare, contiene questa mescolanza tra eccellenza e mediocrità, tra centro e periferia, anche nella più recente ricomposizione dei ruoli: una visione dello spazio urbano che, con un po’ di retorica, una volta avremmo definito democratica.” (Gabriele Basilico)

5 La Mission Photographique de la DATAR è stata una committenza pubblica francese svoltasi tra il 1983 e il 1989 che ha coinvolto 27 fotografi tra cui Gabriele Basilico. Per saperne di più: missionphoto.datar.gouv.fr


LE ESPLORAZIONI URBANE DI CROCE E PUNTO

666, cittadine inglesi riprese da fotografi con molto sense of humor, le strade americane di Stephen Shore e molte altre città di molti altri autori. Il paesaggio urbano è un affastellamento di ‘oggetti’, che comprende la fontana al centro di una piazza così come il cestino dei rifiuti a fianco (anche se c’è sempre una certa resistenza a includerlo nell’inquadratura), è una stratificazione di segni, che lodano la presenza di un benzinaio nelle vicinanze così come un credo sportivo, una sedimentazione di storie collettive e personali, che si commemorano con un busto di bronzo in mezzo alla rotonda così come un fiocco rosa appeso al portone. Con queste premesse, le esplorazioni urbane diventano un esercizio per obbligare l’occhio a adattarsi alla cadenza del camminare, a osservare l’insieme e il particolare, a selezionare porzioni di città, in base a criteri totalmente personali, e a fissare il tutto su carta, o, più spesso, su un file. Sembra un processo facile, ma spesso ci si scontra con alcuni ostacoli più mentali che tecnici: l’automatismo di fare fotografie (colpa degli smartphone), l’esotismo innato del turista-fotografo che lavora solo nei giorni festivi, e, non da ultimo, un certo pregiudizio nei con-

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fronti della propria città, liquidata perché poco fotogenica (centro storico escluso). In attesa che si formi con il tempo la patina color seppia che dà valore alle immagini a prescindere, rendendole testimonianza, memoria e souvenir, le fotografie che ogni volta raccogliamo sono per noi una sorpresa, perché, nonostante tutte le nostre indicazioni e consigli rispetto al punto di fuga o alla composizione, le persone ci mostrano, con il loro linguaggio, diversi punti di vista. Letteralmente. Dal canto nostro, speriamo di creare con questi viaggi minimi un’abitudine a guardare davvero.

4. TRE ANNI DI ESPLORAZIONI URBANE A BERGAMO “Nelle “mie” foto i soggetti sono quelli di tutti i giorni, appartengono al nostro campo visivo abituale: sono immagini insomma di cui siamo abituati a fruire passivamente; isolate dal contesto abituale della realtà circostante, riproposte fotograficamente in un discorso diverso, queste immagini si rivelano cariche di un significato nuovo. Ne possiamo allora fruire attivamente, cioè possiamo iniziare una lettura critica.

Fig. 8. Esplorazione Urbana arte pubblica - foto di Andrea Bernardi.

Fig. 7. Esplorazione Urbana a Loreto - foto di Ivana Lacagnina. 6

Fig. 9. Esplorazione Urbana arte pubblica - foto di Mattia Graziano.

Collettivo milanese nato alla fine del 1965. Per saperne di più: www.centrofotografia.org/mostre/introduzione/4


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Per questo mi interessa soprattutto il paesaggio urbano, la periferia, perché è la realtà che devo vivere quotidianamente, che conosco meglio e che quindi meglio posso riproporre come “nuovo paesaggio” per un’analisi critica e sistematica. Mi piacciono molto i viaggi sull’atlante, ma mi piacciono ancora di più i viaggi domenicali minimi, nel raggio di tre chilometri da casa mia.” (Luigi Ghirri) Nel contesto urbano di Bergamo, la nostra attenzione è stata subito catturata dall’energia dei quartieri considerati periferia: associazioni locali e comitati di quartiere, con la loro spontanea vitalità, hanno saputo coinvolgerci nelle loro attività, raccontandoci il loro vissuto quotidiano, i loro obiettivi e progetti. Ad oggi, dal giugno 2014, abbiamo avuto modo di realizzare esplorazioni e giochi urbani nei quartieri di Boccaleone, Malpensata, Loreto, Longuelo e conoscere i quartieri di Quarenghi, Monterosso e Celadina; in ogni quartiere abbiamo trovato una coscienza collettiva che vede i propri spazi pubblici quali importanti ‘beni comuni’. Nel 2016, inoltre, abbiamo rivolto il nostro sguardo anche al centro urbano, sia di città bassa che nell’antica città alta, trovando motivo di riflessione e stimoli di ricerca su alcuni temi specifici, quali l’arte pubblica e la street art, il rapporto dell’urbano con il torrente Morla, il delicato equilibrio tra la città storica e il paesaggio naturale dei colli. Gli obiettivi espliciti delle nostre esplorazioni urbane sono: i) favorire la conoscenza del quartiere o della tematica proposta, raccogliendo la volontà dei residenti (e non) a osservarne i luoghi e le pratiche in modo nuovo e con approcci differenti; ii) incoraggiare il coinvolgimento attivo dei partecipanti nell’indagare e narrare gli spazi pubblici visitati attraverso l’utilizzo di strumenti, quali macchina fotografica o smartphone, per realizzare fotografie o brevi video e documentare così la propria esperienza nel quartiere. L’osservazione partecipata lungo un itinerario urbano e l’utilizzo della macchina fotografica sono pertanto le componenti fondamentali di ogni esplorazione urbana, che abitualmente si svolge durante un’intera giornata, di domenica in particolare, dalla mattina al tardo pomeriggio con due sessioni fotografiche. La giornata inizia con una breve introduzione sul tema o quartiere indagato e sulla tecnica della street photography, per poi iniziare la camminata in lenta esplorazione. La partecipazione è aperta a tutti, abitanti del quartiere e non, fotografi professionisti o appassio-

nati, ma anche semplici curiosi che possono scattare con lo smartphone. Ogni esplorazione urbana è un’avventura a sé. Per ogni partecipante l’esperienza è diversa, in relazione alla sua conoscenza pregressa del quartiere o della tematica, alla sua personale attitudine al vagabondare e incuriosirsi, al suo background socio-professionale. Ad oggi, abbiamo coinvolto nei nostri ‘viaggi domenicali minimi’ circa 60 persone: architetti e fotografi professionisti, appassionati di fotografia e street photography in particolare, testimoni privilegiati sul tema o suoi luoghi visitati, abitanti e cittadini, educatori e genitori, giovanissimi e non. Ci piacciono i quartieri di Bergamo, la periferia e il suo centro (o i suoi centri). E ci piace attraversarli e ritornarci, incontrare visi noti o fare nuovi amici. Da non-residenti, abbiamo constatato come la realtà cittadina sia caratterizzata dalla presenza di numerosissime associazioni no profit e cooperative, comitati di quartieri e gruppi informali che, in vario modo, ognuno con il suo approccio e le sue competenze, operano sul proprio quartiere o via, sui propri spazi e luoghi dell’abitare. Molte realtà locali agiscono sugli spazi pubblici, anche dismessi o abbandonati, per esempio promuovendone interventi puntuali di riattivazione (a volte temporanea) o di riqualificazione. Allo stesso tempi esiste poi, in città, un più ampio dibattito a livello amministrativo-istituzionale, con focus di ricerca sulla rigenerazione urbana e sul paesaggio: l’approccio è di studio e raccolta di informazioni a scopo di sviluppo programmatico e, in alcuni casi, è posto l’accento su sperimentazioni di comunicazione e coinvolgimento della popolazione. E Croce e punto dove si colloca? Siamo, anche per scelta grafica, un punto di una costellazione di attori che a Bergamo agiscono volontariamente, professionalmente o per passione, per (ri)connettere le persone con gli spazi. Usiamo la narrazione fotografica, architettonica e sociale, per costruire un patrimonio condiviso di informazioni sugli spazi pubblici della città, che li racconti a partire dalla loro identità, così come vissuta e interpretata dai cittadini e dalle comunità locali. E, forse, è arrivato il momento di restituire il lavoro di questi tre anni e creare un primo inventario fotografico sulla città. Probabilmente anche per il nostro essere ‘provinciali’, senza un domicilio in città, ma con buone intenzioni, ci piace molto il concetto di rete. Non quella astratta, senza radici, per convenienza, ma quella che mette in circolo idee e competenze: proprio per questo, sempre più spesso ci capita di creare occasioni per chiacchierare e condividere capacità e progetti.


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L’ARCHIVIO DI ICONEMI

2010 Alla scoperta dei paesaggi contemporanei Quaderno 19, Bergamo University Press – Sestante ed. 2011 Città – Campagna. Incontro o scontro? Quaderno 22, Bergamo University Press – Sestante ed. 2012 Paesaggi della sostenibilità. Come i nuovi bisogni e le nuove tecnologie trasformano i luoghi e il nostro modo di viverci e di concepirli Quaderno 23, Bergamo University Press – Sestante ed. 2013 Nuovi paesaggi verso smart City. La città partecipativa ed ecologica Quaderno 24, Bergamo University Press – Sestante ed. 2014 Alimentare i paesaggi / I paesaggi dell’alimentazione. Nuovi sguardi verso Expo 2015 Quaderno 26, Bergamo University Press – Sestante ed. 2015 Paesaggi abitati. Prove di città e di cittadinanza. Agricoltura per la rigenerazione sociale e territoriale Quaderno 28, Bergamo University Press – Sestante ed. 2016 Paesaggi della creatività. L’arte pubblica per la rigenerazione sociale e territoriale Quaderno 29, Bergamo University Press – Sestante ed.

Tutte le pubblicazioni sono liberamente consultabili nel sito www.iconemi.it


Finito di stampare nel mese di maggio 2017


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