Quaderni Anno X - N 3/2010

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QUADERNI

Sommario

Rivista quadrimestrale dell'ordine degli avvocati • Editoriale di brindisi di Augusto Conte

Anno X - N. 3-2010

Autorizzazione Tribunale di Brindisi n. 10 del 16 maggio 2001 • Speciale decreto ingiuntivo-opposizione - Sentenza 9 settembre 2010, n. 19246 Testata associata all' A.STA.F. - Ordinanza 7 ottobre 2010 ISSN 1972-8956 - Sentenza 8 ottobre 2010, n. 1274 - Ordinanza 11 ottobre 2010 Direttore Responsabile - Ordinanza 14 ottobre 2010 Augusto CONTE - Sentenza 19 ottobre 2010 - Ordinanza 20 ottobre 2010 Comitato di redazione - Sentenza 20 ottobre 2010, n. 625 Pasquale Annicchiarico, Roberto - Sentenza 22 ottobre 2010 Cavalera, Giustina Giordano, Dario - Sentenza 30 ottobre 2010 Lolli, Antonio Maur­ ino, Emanuele - Sentenza 3 novembre 2010 Milone, Carlo Panzuti, Alessandra Sentenza 3 novembre 2010 Portaluri, Paolo Vadacca. - Ordinanza 4 novembre 2010 - Sentenza 23 novembre 2010 Direzione Ordinanza 25 novembre 2010 Ordine degli Avvocati presso - Ordinanza 2 dicembre 2010 il Tribunale di Brindisi - Ordinanza 14 dicembre 2010 Palazzo di Giustizia Via Lanzellotti, 3 - Tel. 0831/586993 72100 BRINDISI www.ordineavvocatibrindisi.it presidente@ordineavvocatibrindisi.it consiglio@ordineavvocatibrindisi.it

Redazione e pubblicità EDIZIONI GRIFO via Sant'Ignazio di Loyola, 37 - Lecce tel. 0832/454358 edizionigrifo@gmail.com Stampa Locopress (Mesagne) Tutti gli iscritti all'Ordine possono collaborare alla rivista del Consiglio con articoli su problemi di interesse generale: la Direzione si riserva la facoltà di non pubblicare gli articoli che pervengono. I dattiloscritti non vengono restituiti.

Tiratura n. 1.000 copie

• Eventi - Relazione per la inaugurazione dell'anno giudiziario 2011 di Mario Buffa - TAR Puglia. Inaugurazione dell'anno giudiziario 2011 di Antonio Cavallari

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• Argomenti di attualità forense - Mediazione e assistenza tecnica facoltativa, ovvero lo scolorire della dimensione costituzionale dell'avvocato di Antonello Denuzzo 228 In copertina: Giorgio Vasari (1511-1574), Allegoria della Giustizia, della Verità e dei Vizi, 1543, Museo Capodimonte, Napoli.


• Consiglio Nazionale Forense - Relazione sull'attività svolta nell'anno 2010 di Guido Alpa • Opinioni e documenti - I limiti dell'accesso alle liste elettorali di Ottavio Carparelli - Avvalimento "esteso" alla certificazione di qualità di Ottavio Carparelli - I prelievi coattivi di materiale biologico per l'identificazione genetica di Gianmichele Pavone • Saggistica e narrativa forense - Remo Danovi - Processo al buio. Lezioni di etica in venti film di Alma Passante

Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi Presidente Avv. Carlo PANZUTI Cons. Segr. Avv. Antonio MAURINO Cons. Tesor. Avv. Alessandra PORTALURI Consiglieri Avv. Pasquale ANNICCHIARICO

Avv. Giuseppe Armando ATTOLINI

Avv. Roberto CAVALERA

Avv. Augusto CONTE

Avv. Ilaria CRESCENZO

Avv. Roberta DE CASTRO

Avv. Mario DE GUIDO Avv. Giustina GIORDANO Avv. Dario LOLLI Avv. Emanuele milone Avv. Francesco SILVESTRE Avv. Paolo VADACCA

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EDITORIALE

EDITORIALE di Augusto Conte

Nel 150° dell’Unità d’Italia il Consiglio Nazionale Forense ha proclamato il 2011 Anno dell’Avvocatura per “rilanciare il nucleo fondante della attività dell’avvocato, il legame con la democrazia e la tutela dei diritti”. Il C.N.F. ha ideato una serie di iniziative volte a sollecitare l’opinione pubblica sul ruolo insopprimibile dei legali, nel recupero della funzione etico-sociale dell’avvocatura, dal ruolo svolto nel sistema giustizia attinente alla rilevanza pubblicistica della professione (difesa di ufficio, patrocinio per i non abbienti, supplenza di personale specie in udienza e della giurisdizione) fino ai compiti, sempre più gravosi e costosi, gravanti sugli Ordini (per ultimo l’istituto della mediazione): funzioni e compiti non percepiti fuori dagli ambiti forensi. Le iniziative scelte riguardano mostre, concorsi nelle scuole, scritti, corsi nelle Università e in quelli di aggiornamento professionale, un sito web, che valgano a far riflettere la collettività sull’essenza della professione forense, e a sfatare le connotazioni negative che l’immaginario collettivo attribuisce ai professionisti legali. La meritoria iniziativa, per essere pienamente valida e proficua, necessita di interventi diretti su tutti e ciascun avvocato sollecitando gli avvocati a una attenta professioQuaderni

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EDITORIALE

nalità, tecnica ed etica e a ritrovare l’orgoglio e la nobiltà della funzione fornendo, nella età contemporanea, alla collettività esempi di comportamenti non eroici, ma di compostezza, moderazione, serietà e competenza, rivendicando l’appartenenza alla categoria forense come un valore attuale e prezioso. è tempo di evitare gli abusi del diritto, le scorciatoie equivoche, gli sfrenati accaparramenti camuffati da impegno sociale, la concorrenza spietata, la maldicenza sui colleghi, l’uso costante di gratuiti insulti nelle difese, l’inghippo o la trappola al collega spacciati per strategie tecniche, le cointeressenze al risultato delle controversie. L’avvocato è depositario e utilizzatore di una grande forza, che è la forza del diritto e le sue battaglie legali costituiscono una lotta per l’affermazione del diritto dei propri assistiti: è su questa forza, è su questa lotta che vanno recuperati gli iscritti per dare idea alla società che l’avvocatura vuole essere e le è vicina al pari di come sono stati professionisti del passato che hanno lasciato i luminosi esempi che l’Anno dell’Avvocatura intende ricordare.

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SPECIALE DECRETO INGIUNTIVO - OPPOSIZIONE SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 9 settembre 2010, n. 19246 Svolgimento del processo Il Tribunale di Lecce, con sentenza del 15 giugno 2000, ha dichiarato improcedibile l’opposizione proposta da **** avverso un decreto ingiuntivo emesso in favore di B. s.p.a., in quanto l’opponente, pur avendo assegnato all’opposto un termine a comparire inferiore ai 60 giorni, si è costituito oltre il termine di cinque giorni dalla notifica della citazione. La Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 1° luglio 2003, ha confermato la decisione di primo grado richiamando l’orientamento espresso da questa corte, tra l’altro, con sentenza n. 37521 del 2001, secondo il quale l’abbreviazione dei termini di costituzione per l’opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a sessanta giorni, risultando del tutto irrilevante che la concessione dello stesso sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo. Il **** ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, illustrati con memoria, al quale ha resistito, con controricorso, la B. s.p.a. Con ordinanza del 12 novembre 2008, la prima sezione ritenendo che il consolidato orientamento della corte presenti aspetti problematici ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione a queste sezioni unite. Quaderni

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SPECIALE DECRETO INGIUNTIVO - OPPOSIZIONE

La prima sezione ha invero ritenuto che non risponde alla sistematica del codice di rito che la disciplina dei termini di un procedimento possa discendere dalla scelta di una delle parti del giudizio, al di fuori di ogni controllo da parte del giudice. Irrilevante sarebbe il richiamo all’art. 645, comma 2, c.p.c., nel quale manca un’espressa prescrizione relativa al dimezzamento dei termini di costituzione che, infatti, viene fatto discendere dall’applicazione degli articoli 165 e 166 c.p.c., i quali tuttavia prevedono la riduzione dei termini di costituzione quale conseguenza della riduzione dei termini di comparizione operata dal giudice a richiesta dell’attore nella ricorrenza dei presupposti indicati nell’art. 163 bis c.p.c. Peraltro, se fosse vero l’assunto della esistenza di un principio di adeguamento dei termini di costituzione a quelli di comparizione la riduzione dei termini di costituzione dovrebbe operare sempre e comunque nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, perché la formulazione del dell’art. 645, c.p.c., comma 2, non consentirebbe alcuna discrezionalità. In realtà se la ratio della riduzione dei termini di comparizione è quella di accelerare la definizione del giudizio di opposizione, la riduzione alla meta dei termini di costituzione non è coerente con tale finalità, posto che il termine di costituzione del creditore opposto decorre non già dalla costituzione dell’opponente, ma dalla data dell’udienza di comparizione, che, tra l’altro, per effetto della modifica dell’art. 163 bis c.p.c., introdotto dall’art. 2 della legge n. 263 del 2005, è ampliato da sessanta a novanta giorni per l’Italia e da centoventi a centocinquanta giorni se il luogo della notificazione si trova all’estero. Pertanto, senza un’apprezzabile utilità per la sollecita definizione del giudizio di opposizione, si finisce per introdurre un onere particolarmente gravoso a carico dell’opponente, che solo formalmente verrebbe bilanciato da analogo onere imposto al creditore opposto, il quale non può in alcun modo essere equiparato al convenuto in un giudizio ordinario, avendo egli, anzi, la qualità di attore in senso sostanziale. In tale situazione, ove si

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ritenga operante la riduzione del termine di costituzione per effetto automatico dell’attribuzione al creditore opposto di un termine inferiore a quarantacinque giorni sarebbe evidente l’irragionevolezza giacché, a fronte di un termine di costituzione per l’opponente di soli cinque giorni, l’opposto dovrebbe costituirsi nel termine di dieci giorni prima dell’udienza di comparizione, venendo così a godere di ben 35 giorni per provvedere alla propria difesa. La pressione che in tal modo grava sull’opponente, mentre non vale ad abbreviare i termini di durata del processo di opposizione risulterebbe ingiustificata tenendo conto che l’opponente è attore solo in senso formale, ma sostanzialmente è convenuto, e che la necessità di intraprendere la causa non è frutto di una meditata scelta in un lasso di tempo discrezionale, ma necessitata dalla notifica dell’ingiunzione, laddove l’opposto dispone di tempi ben più ampi per la costituzione, anche se, attore in senso sostanziale, ha fruito di ampia disponibilità temporale nella decisione di presentare ricorso per decreto ingiuntivo. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce l’omessa e/o insufficiente motivazione circa punti decisivi, in riferimento agli art. 645, 2° comma, 647 c.p.c., sostenendo che la corte d’appello si sarebbe acriticamente adagiata sull’orientamento della giurisprudenza di legittimità, senza considerare il rilievo, formulato nell’atto di gravame, secondo cui perché possa operare l’abbreviazione dei termini di comparizione assegnati al creditore opposto è necessaria una consapevole manifestazione di volontà dell’opponente di avvalersi della facoltà prevista dalla legge, formulata in modo esplicito o desunta da elementi concludenti. Nella specie non sarebbero state adeguatamente valutate le circostanze che il termine di comparizione assegnato era di soli sette giorni inferiore a quello minimo e che la costituzione era avvenuta il nono giorno, il che doveva far propendere per un mero errore materiale nel calcolo del termine di comparizione. A Quaderni

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ritenere irrilevante l’errore si introdurrebbe una presunzione assoluta di esercizio della facoltà di abbreviazione dei termini da parte dell’opponente non prevista dalla legge, trasformando la facoltà in un obbligo. Inoltre, il ricorrente afferma che la previsione della rinnovazione della citazione (art. 164 c.p.c.) nel caso di assegnazione di un termine inferiore a quello di legge dovrebbe trovare applicazione anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, che costituisce un ordinario giudizio di cognizione, essendo insufficiente il riferimento alla specialità del rito per giustificare l’applicazione di una sanzione, quale quella della improcedibilità. Con il secondo motivo, deducendo la violazione o falsa applicazione dell’art. 645, 2° comma, con riferimento all’art. 647 c.p.c., si sostiene che al giudizio di opposizione, come previsto dall’art. 645 c.p.c., deve applicarsi la disciplina del procedimento ordinario e pertanto in caso di costituzione in giudizio, non omessa, ma semplicemente ritardata, non sarebbe giustificata la sanzione processuale dell’improcedibilità, prevista soltanto per il giudizio di appello dall’art. 348 c.p.c., come modificato dalla legge n. 353 del 1990. Viene anche denunciata l’incoerenza consistente nel ritenere inapplicabile, per la specialità del rito, l’art. 164 c.p.c. facendo allo stesso tempo applicazione del disposto dell’art. 165 e 163 bis c.p.c. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce errata o falsa applicazione dell’art. 645, comma 2, c.p.c., in quanto non sarebbe corretta l’estensione della riduzione del termine di costituzione previsto dall’art. 165, per il caso in cui il giudice abbia autorizzato la riduzione del termine minimo a comparire, all’ipotesi in cui la riduzione del termine di comparizione sia conseguenza di una mera scelta di parte. 2. Le ragioni addotte dal ricorrente, in parte recepite e sviluppate nell’ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, non sono idonee a giustificare un mutamento del costante orientamento della corte, anche se, come sarà in seguito precisato, è opportuno procede-

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re a una puntualizzazione. A parte un unico risalente precedente contrario, rimasto assolutamente isolato (Cass. 10 gennaio 1955 n. 8), la giurisprudenza della corte è stata costante nell’affermare che quando l’opponente si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per la sua costituzione è automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione, pari alla metà del termine di costituzione ordinario (principio affermato, nel vigore dell’art. 645, come modificato con l’art. 13 del d.p.r. n. 597 del 1950 a cominciare da Cass. 12 ottobre 1955, n. 3053 e poi costantemente seguito; da ultimo, v. Cass. n. 3355/1987, 2460/1995, 3316 e 12044/1998, 18942/2006). Più recentemente, nell’ambito di tale orientamento, si è ulteriormente precisato che l’abbreviazione del termine di costituzione per l’opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, essendo irrilevante che la fissazione di tale termine sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo (Cass. n. 3752/2001, 14017/2002, 17915/2004, 11436/2009). Contrariamente a quanto ritenuto da una parte della dottrina l’orientamento ora richiamato non è privo della necessaria base normativa. Se, infatti, è vero che nella formulazione originaria del codice del ’42, l’art. 645, 2° comma prevedeva la riduzione a metà dei termini di “costituzione”, mentre nell’attuale formulazione della disposizione la riduzione a metà si riferisce solo ai termini di “comparizione”, dai lavori preparatori non emerge tuttavia che la modifica testuale sia stata introdotta per ridimensionare la funzione acceleratoria della riduzione a metà dei termini di costituzione prevista dalla disciplina previgente, ma solo che la norma era stata imposta come necessaria conseguenza dalla introduzione del sistema della citazione ad udienza fissa. Non esiste, peraltro, nessuna ragione oggettiva che giustifichi l’opposta opinione che reputa che il silenzio del legislatore in ordine alla disciplina dei termini di costituzione, a fronte della espressa preQuaderni

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visione contenuta nella disciplina previgente, sia significativo della volontà di cambiare la regola, espressamente affermata dall’art. 165, 1° comma, c.p.c. che stabilisce un legame tra termini di comparizione e termini di costituzione, al fine di rendere coerente il sistema nei procedimenti che esigono pronta trattazione. Ne deriva che tale regola, non può certo ritenersi di natura eccezionale o derogatoria, ma espressione di un principio generale di razionalità e coerenza con la conseguenza che l’espresso richiamo nell’art. 645 di tale principio sarebbe stata del tutto superflua. Né appare decisivo il rilievo, indubbiamente corretto, della differenza esistente tra la fattispecie di cui all’art. 163 bis, 2° comma, c.p.c., nella quale l’abbreviazione dei termini è conseguenza dell’accertamento da parte del giudice della sussistenza delle ragioni di pronta trattazione della causa prospettate dall’attore, e di quella di cui all’art. 645 c.p.c., nella quale tale apprezzamento è compiuto (non dalla parte, come sostiene l’ordinanza di rimessione, ma direttamente) dal legislatore una volta per tutte, essendo in entrambe le fattispecie identica la funzione del dimezzamento dei termini di comparizione, consistente, da un lato, nel soddisfare le esigenze di accelerazione della trattazione e dall’altro, nell’opportunità di bilanciare la compressione dei termini a disposizione del convenuto con la riduzione dei termini di costituzione dell’attore. Essendo pacifica la sussistenza dell’esigenza di sollecita trattazione dell’opposizione, diretta a consentire la verifica della fondatezza del provvedimento sommario ottenuto dal creditore inaudita altera parte, deve osservarsi che sussiste anche l’esigenza di bilanciamento delle posizioni delle parti, pur tenendo conto della peculiarità del giudizio di opposizione che, come è noto, ha natura di giudizio di cognizione piena che devolve al giudice della opposizione il completo esame del rapporto giuridico controverso, e non il semplice controllo della legittimità della pronuncia del decreto d’ingiunzione. È anche pacifico che, a differenza dalle qualità formali, le posizioni dell’op-

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ponente e dell’opposto sono quelle, rispettivamente, di convenuto e di attore in senso sostanziale. Ora, se è vero che l’opposto ha avuto tutto il tempo di impostare la propria posizione processuale prima di chiedere il decreto ingiuntivo, resta anche vero che, di fronte alle allegazioni e alle prove, prodotte o richieste, dall’opponente, l’opposto ha necessità di valutarle per apprestare le sue difese e a tal fine sussiste l’esigenza di avere a disposizione i documenti sui quali si fonda l’opposizione nel più breve tempo possibile, per riequilibrare il sacrificio del termine a sua disposizione per valutare tali prove e articolare le difese prima della propria costituzione in giudizio. Ciò che è indubbio è che certamente la necessità di sollecita trattazione dei procedimenti di opposizione meglio sarebbe stata soddisfatta se oltre alla riduzione a metà dei termini di costituzione dell’opponente il legislatore avesse anche ridotto in misura congrua i termini di costituzione dell’opposto, che invece restano abbastanza ampi (trentacinque giorni dalla notifica dell’opposizione e cioè dieci giorni prima dell’udienza che deve essere fissata a non meno di quarantacinque giorni dalla notifica stessa, ai sensi dell’art. 166 c.p.c.), ma tale opportunità di assecondare “l’euritmia del sistema” (corte cost. n. 18/2008), non incide sulla fondatezza del rilievo che il dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente, comunque rappresenta una, sia pur parziale e, forse, insoddisfacente, misura di accelerazione del procedimento. 3. Una parte della dottrina, ripresa anche dall’ordinanza della prima sezione civile, ha osservato che la lettera dell’art. 645 c.p.c. induce a ritenere che il dimezzamento dei termini di comparizione sia un effetto legale della proposizione dell’opposizione e non dipenda invece dalla volontà dell’opponente che intenda assegnare un termine inferiore a quello previsto dall’art. 163 bis c.p.c. In effetti esigenze di certezza e quindi di garanzia delle parti, di fronte alla previsione di termini previsti a pena di procedibilità dell’opposizione, ha già portato a introdurre nell’orientamento tradiQuaderni

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zionale, basato sulla facoltatività della concessione da parte dell’opponente di un termine a comparire inferiore a quello legale, il temperamento costituito dall’affermazione dell’irrilevanza della volontà dell’opponente che potrebbe avere assegnato un termine inferiore anche solo per errore. Ritengono le sezioni unite che esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facoltà dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, terzo comma. D’altra parte, se effettivamente il dimezzamento dei termini di costituzione dipendesse dalla volontà dell’opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, non si capirebbe la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sono cumulatali il dimezzamento che deriva dalla astratta previsione legale di cui all’art. 645 c.p.c. con quello che può discendere da un apposito provvedimento di dimezzamento di tali termini richiesto ai sensi dell’art. 163 bis, 3 comma. (Cass. n. 4719/1995, 18203/2008). Né potrebbe indurre a diverse conclusioni l’osservazione che, se si ritiene irrilevante la volontà dell’opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, potrebbe sorgere il dubbio che il sacrificio del suo termine di costituzione possa essere ingiustificato, alla luce dell’art. 24 cost., come potrebbe desumersi da corte cost. n. 38/2008. Infatti, l’effetto legale del dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente, dipendente sia solo fatto della proposizione

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dell’opposizione, è pur sempre un effetto che discende dalla scelta del debitore che non può non conoscere quali sono le conseguenze processuali che la legge ricollega alla sua iniziativa. Infine, la diversa ampiezza dei termini di costituzione dell’opponente rispetto a quelli dell’opposto non appare irragionevole posto che la costituzione del primo è successiva alla elaborazione della linea difensiva che si è già tradotta nell’atto di opposizione rispetto al quale la costituzione in giudizio non richiede che il compimento di una semplice attività materiale, mentre nel termine per la sua costituzione l’opposto non è chiamato semplicemente a ribadire le ragioni della sua domanda di condanna, oggetto di elaborazione nella fase anteriore alla proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo, ma ha la necessità di valutare le allegazioni e le prove prodotte dall’opponente per formulare la propria risposta. 4. È consolidato orientamento di questa Corte che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la tardiva costituzione dell’opponente va equiparata alla sua mancata costituzione e comporta l’improcedibilità dell’opposizione (Cass. n. 9684/1992, 2707/1990, 1375/1980; 652/1978; 3286/1971; 3030/1969; 3231/1963; 3417/1962, 2636/1962, 761/1960, 2862/1958, 2488/1957, 3128/1956). È innegabile infatti, da una parte, che la specialità della norma di cui all’art. 647 c.p.c. impedisce l’applicazione della ordinaria disciplina del processo di cognizione, e dall’altra, che la costituzione tardiva altro non è che una mancata costituzione nel termine indicato dalla legge. Il ricorrente non ha prospettato ragioni decisive che possano indurre la Corte a discostarsi da tale orientamento. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Sussistono giusti motivi, in relazione al dibattito esistente sulle questioni oggetto del presente giudizio, per compensare le spese. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese. Quaderni

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Tribunale di Milano Sezione VI Civile

Ordinanza 7 ottobre 2010 Nella causa civile iscritta al n. r.g. 11035/2010 Il Giudice dott. LAURA COSENTINI, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 5.10.2010, ha pronunciato la seguente ORDINANZA Premesso che parte attrice, notificato al convenuto atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo in data 8.2.2010 e costituitasi in data 17.2.2010, richiamando la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 9.9.10 n.19246 e l’ordinanza della Sezione II 17.6.2010 n. 14627, “chiede la rimessione in termini per la proposizione dell’opposizione con assegnazione del termine per l’impugnazione”; Rilevato che nel presente procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo parte attrice opponente (notificato all’opposto l’8.2.10 atto di citazione a comparire all’udienza del 18.5.2010) risulta quindi avere assegnato a parte convenuta termini liberi a comparire ordinari, ossia non minori di 90 giorni, ai sensi dell’art.163 bis c.1 c.p.c., e risulta essersi costituita il 17.2.2010, entro dieci giorni dalla notificazione della citazione al convenuto, ex art.165 c.p.c., ciò in linea con un pregresso consolidato orientamento giurisprudenziale (già recepito da questo tribunale) secondo il quale l’abbreviazione dei termini di costituzione per l’opponente era da ritenersi conseguen-

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te al solo fatto obiettivo della concessione all’opposto di termini di comparizione inferiori a novanta giorni; Preso atto dell’intervenuta pronuncia della Corte di Cassazione S.U. n.19246/10, la quale, ribadito il legame tra termini di comparizione e termini di costituzione quale sancito dall’art.165 c.1 c.p.c., ha affermato per “esigenze di coerenza sistematica… che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta”, richiamando il disposto di cui all’art. 645 c. 2 c.p.c. che prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà; Ritenuto di uniformarci a tale innovativa interpretazione della norma processuale, norma di natura speciale che, sul presupposto delle ragioni di pronta trattazione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, risponde all’esigenza di bilanciamento delle posizioni delle parti, là dove la riduzione dei termini di costituzione dell’attore opponente bilancia la compressione dei termini a disposizione del convenuto opposto che, anticipandosi la costituzione dell’attore, avrà a disposizione in un tempo più breve i documenti dallo stesso allegati, da inserire nel fascicolo all’atto della costituzione. Ritenuto tuttavia che nel procedimento in esame possa e debba darsi tutela alle aspettative processuali dell’opponente, che ha introdotto il giudizio nella vigenza del pregresso orientamento interpretativo giurisprudenziale, e che, alla luce dell’orientamento medio tempore intervenuto, incorrerebbe in una pronuncia d’improcedibilità dell’opposizione ex art. 647 c. 2 c.p.c. per tardiva costituzione equiparata a mancata costituzione; Ritenuto che sussista nell’ordinamento un valido principio di affidamento sul diritto vivente quale risulta dalla generalizzata interpretazione delle norme regolatrici del processo da parte Quaderni

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della giurisprudenza di merito e di legittimità, principio che, alla luce degli artt. 24 e 111 Cost., posti a garanzia di un giusto processo come effettivo strumento di azione e di difesa, preclude la possibilità di ritenere che gli effetti dell’atto processuale già formato al momento della pronuncia della Corte di legittimità che ha mutato l’interpretazione della norma, siano regolati dalla nuova interpretazione della legge, quantomeno nei casi in cui l’applicazione della stessa secondo la modificata interpretazione viene a compromettere in radice la tutela della parte; Rilevato che in tal senso si è anche di recente espressa la Corte di legittimità (Cass. ord. 2.7.10 n.15811) che, in analoga situazione di mutamento in corso di causa di interpretazione consolidata di norme regolatrici del processo, ha ritenuto che ciò non possa avere effetti preclusivi sulla parte, la cui condotta processuale pur erronea trovi spiegazione e giustificazione nell’affidamento creato dalla giurisprudenza pregressa, richiamandosi la Corte al principio costituzionale del giusto processo che impone di garantire l’effettività del contraddittorio e dei mezzi di azione e di difesa nel processo; Ritenuto che tali principi, se nella fattispecie all’attenzione della Corte inducevano a ravvisare nella rimessione in termini… il mezzo tecnico per ovviare all’errore oggettivamente scusabile (al fine di consentire alla parte di proporre ricorso per cassazione secondo le regole corrette di individuazione del giudice), nel caso di specie non impongono tale rimedio, ove si rilevi che l’opposizione è stata tempestivamente svolta avanti al giudice competente mediante atto di citazione ritualmente notificato e che, se da un lato l’opponente si è costituito nel termine di 10 giorni anziché 5 dalla notifica all’opposto della citazione (come consentito dall’orientamento giurisprudenziale pregresso ove concessi termini a comparire di fatto non abbreviati), dall’altro ciò non sembra avere leso i diritti di difesa dell’opposto (che peraltro nulla ha contestato), cui la citazione era stata notificata

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più di 90 giorni prima dell’udienza, e che quindi ha avuto a disposizione ben più di 45 giorni liberi per la sua costituzione in udienza (e ben più di 35 giorni liberi per la sua costituzione tempestiva, prescritta ex art.166 c.p.c. almeno dieci giorni prima dell’udienza nel caso di abbreviazione di termini); Ritenuto quindi di non procedere a una rimessione in termini dell’opponente, che peraltro non potrebbe mai essere accolta con riferimento al termine di notifica della citazione in opposizione (come intenderebbe l’opponente nell’istanza a verbale), e che, ove riferita al termine di costituzione, comporterebbe un ritardo del giudizio non giustificato da esigenze di difesa e di contraddittorio, in antitesi con il principio costituzionale di ragionevole durata del processo; Ritenuto che, alla luce delle suestese considerazioni, non debba quindi essere rinnovata la costituzione dell’opponente, effettuata il 17.2.2010 secondo i criteri di tempestività di cui al consolidato orientamento giurisprudenziale all’epoca vigente, e in termini non lesivi dei diritti di difesa delle parti e della posizione bilanciata tra le stesse; Ritenuto che il processo possa pertanto proseguire oltre e che, quanto al merito, la causa sia matura per la decisione; fissa udienza di precisazione delle conclusioni ex art. 281 sexies c.p.c. per la data del 11.1.2011 ore 12,30. Si comunichi. Milano, 7 ottobre 2010. Il Giudice dott. LAURA COSENTINI

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Tribunale di Varese Sezione Prima civile

Sentenza 8 ottobre 2010, n. 1274 Fatto L’odierno giudizio trae linfa dall’opposizione al decreto ingiuntivo oggetto di impugnazione mediante la citazione introduttiva del giudizio. La costituzione dell’attore, successivamente alla notificazione del libello di opposizione, è avvenuta entro i dieci giorni dalla notifica ma oltre il quinto giorno. Questo giudice deve interrogarsi, anche in mancanza di sollecitazione di parte, della procedibilità dell’opposizione, trattandosi di questione giuridica rilevabile d’ufficio. Nel caso di specie, tuttavia, trattandosi di causa pendente dal 2005, le parti hanno sollecitato un giudizio sulla questione, onde evitare ulteriore attività processuale da ritenersi poi non utile ai fini della decisione. Hanno, così, chiesto discussione orale della causa ex art. 281-sexies c.p.c. e questo giudice, ritenendo condivisibile la richiesta, ha trattenuto la causa in riserva per deciderla secondo il modulo della trattazione orale. Diritto L’eccezione di improcedibilità non è fondata e va respinta, ma nei termini e per gli argomenti giuridici che seguono, condivisi dalla giurisprudenza civile di questo Tribunale. 1. Mutamento giurisprudenziale: Cass. civ. Sez. Unite, sentenza 9 settembre 2010 n. 19246 A parte un unico risalente precedente, rimasto assolutamente isolato (Cass. 10 gennaio 1955 n. 8), la giurisprudenza della Corte di Cassazione è stata costante nell’affermare che quando l’opponente

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si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per la sua costituzione è automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione, pari alla metà del termine di costituzione ordinario (principio affermato, nei vigore dell’art. 645, come modificato con il D.P.R. n. 597 del 1950, art. 13 a cominciare da Cass. 12 ottobre 1955, n. 3053 e poi costantemente seguito; v. Cass. n. 3355/1987, 2460/1995, 3316 e 12044/1998, 18942/2006). L’indirizzo di legittimità, per effetto della costante conferma nel tempo, ha assunto le fogge di un vero e proprio “diritto vivente” che, come noto, costituisce espressione della norma quale vive nell’ordinamento[1] ovvero il significato giuridico che, tratto dall’enunciato normativo, deve seguirsi come dettato legislativo. Il costume giurisprudenziale di cui si tratta è rimasto controverso solo per quanto concerne la rilevanza o meno della volontarietà dell’opponente, nell’assegnazione all’opposto dei termini a comparire dimezzati o inferiori al termine ordinario, ai fini dell’effetto conseguente del dimezzamento dei termini di costituzione dell’attore[2]. è stata la Corte costituzionale, di recente, a riconoscere in tale interpretazione un “diritto vivente”. Nella ordinanza n. 230 del 22 luglio 2009[3], la Consulta afferma: “è orientamento giurisprudenziale consolidato, costituente diritto vivente, quello secondo cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la riduzione alla metà del termine di costituzione dell’opponente, ai sensi dell’art. 645, secondo comma, cod. proc. civ., consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello previsto dall’art. 163-bis cod. proc. civ., anche se involontaria, e che la tardiva costituzione dell’opponente è equiparata alla mancata costituzione, determinando l’improcedibilità dell’opposizione”[4]. Secondo lo jus receptum, formatosi in calce all’art. 645 c.p.c., dunque, la riduzione alla metà del termine di costituzione dell’oppoQuaderni

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nente, ai sensi dell’art. 645, secondo comma, cod. proc. civ., consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello previsto dall’art. 163-bis cod. proc. civ. In altri termini: i termini di costituzione si dimezzano solo se vengono ridotti i termini a comparire. Il diritto vivente così richiamato è stato più volte nel tempo sospettato di illegittimità costituzionale, ma la Consulta ha escluso la violazione dell’art. 111 Cost. riconoscendo, al contempo, però, nella disciplina ex art. 645 comma II, c.p.c., una “compromissione della euritmia del sistema”, la cui “modifica non può che essere rimessa all’opera del legislatore” (Corte costituzionale, ordinanza 8 febbraio 2008 n. 18). Stando al diritto vivente così richiamato, nel caso di specie l’opposizione dovrebbe essere dichiarata procedibile: l’opponente si è costituito oltre il quinto giorno (ma entro i dieci) avendo, però, concesso all’opposto il termine ordinario per comparire senza alcuna riduzione o dimezzamento. La conclusione che precede sembra perdere, però, di validità alla luce del recentissimo intervento della Suprema Corte di Cassazione, nella sua massima composizione. Infatti, con la sentenza 9 settembre 2010 n. 19246, le Sezioni Unite civili hanno “puntualizzato” che “esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà”. Secondo il Supremo Collegio, dunque, il dimezzamento dei termini di costituzione dell’attore non dipende dal fatto dell’assegnazione all’opposto di un termine a comparire ridotto rispetto al quantum ordinario ma dalla circostanza tout court della opposizione. Seguendo

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la direttrice ermeneutica tracciata dalle Sezioni Unite, l’opposizione dovrebbe essere dichiarata improcedibile. Questo giudice reputa che, per i procedimenti civili instaurati prima del 9 settembre 2010 (data di deposito della sentenza delle Sezioni Unite), il principio di diritto enunciato da Cass. civ. 19246/2010 non sia applicabile, dovendosi tenere fermo il diritto vivente come fotografato da Corte cost. 230/2009. 2. Overruling L’ordinamento civile italiano, perseguendo il fine di deflazionare il contenzioso e al contempo preservando l’esigenza di certezza del diritto, valorizzando l’interesse pubblico alla prevedibilità delle decisioni, ha nel tempo rafforzato l’efficacia vincolante del precedente di legittimità, in particolare di quello autorevole reso a Sezioni Unite, “potenziando” il controllo nomofilattico, valorizzando la peculiare vocazione del giudizio di legittimità, e, così, perseguendo il tendenziale obiettivo di assicurare una esatta ed uniforme interpretazione della legge. In tal senso, dapprima, la legge 2 febbraio 2006 n. 40, modificando l’art. 374 c.p.c., ha previsto che il precedente delle Sezioni Unite non possa essere disatteso tout court dalla Sezione Semplice che, là dove intenda discostarsi dal pronunciamento nomofilattico, deve investire della quaestio juris in riedizione le stesse Sezioni Unite (art. 374, comma III, c.p.c.). Lo stesso saggio di legificazione ha, anche, allargato le maglie procedurali del “principio di diritto nell’interesse della Legge” (art. 363 c.p.c.) sottolineando “una evoluzione legislativa (…) orientata al potenziamento della pura funzione di corretta osservanza della legge ed uniforme applicazione del diritto (su cui cfr. Cass. civ., Sez. Unite, sentenza 1 giugno 2010 n. 13332). Successivamente, la legge 18 giugno 2009 n. 69 ha ulteriormente rafforzato la “tenuta” dalla regola giuridica a formazione nomofilattica introducendo uno scrutinio semplificato (sfociante in rigetto[5] Quaderni

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con motivazione agevolata) in caso di allineamento del decisum del giudice di merito al precedente conforme di legittimità (art. 360-bis c.p.c., su cui cfr. Cass. civ., Sez. Unite, ordinanza 6 settembre 2010, n. 19051). Dalle premesse che precedono si trae una conclusione: la giurisprudenza delle Sezioni Unite non è più semplice espressione degli indirizzi di legittimità di un organo giudiziario ma Giudice che contribuisce a garantire la “certezza del diritto” nell’ordinamento (v. art. 65 ord. giud.) così divenendo il suo precedente tendenzialmente vincolante per il giudice di merito e avvicinandosi il diritto vivente al diritto positivo anche dal punto di vista della “introduzione” delle regole giuridiche e non solo dal punto di vista della loro interpretazione. In tal modo si espresse già a suo tempo l’autorevole Dottrina, allorché segnalò come formalmente l’autorità del principio dello stare decisis in Italia si potesse ritrovare in due principi affermati dalla Cassazione: quello della motivazione semplificata in caso di richiamo al precedente di legittimità che si conferma[6] e quello dell’obbligo di motivazione rafforzata nel caso in cui il precedente venga disatteso[7]. Entro tale cornice – come è stato Autorevolmente scritto – la Suprema Corte diventa «uno dei luoghi essenziali in cui la “legge” si definisce e si manifesta». Ciò, però, vuol anche dire che, in alcuni casi, il revirement giurisprudenziale può avere le stesse fattezze e lo stesso impatto dello jus superveniens, in specie nel caso in cui le Sezioni Unite enuncino un principio di diritto che affiora nella giurisprudenza e tra gli operatori del diritto come regola del tutto nuova, se raffrontata al costume pretorile seguito costantemente sino alla sua emersione. Il fenomeno sin qui descritto è ben noto nei regimi di common law e viene identificato nell’istituto del cd. overruling: un cambiamento delle regole del gioco a partita già iniziata e dunque una som-

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ministrazione al giudice del potere-dovere di giudicare dell’atto introduttivo in base a forme e termini il cui rispetto non era richiesto al momento della proposizione della domanda. L’overruling pone il (serio) problema dell’efficacia nel tempo dell’abrogazione del precedente che è del tutto affine, per effetti, all’abrogazione della norma, soprattutto per il destinatario finale del servizio di Giustizia: in ambo i casi, sopravviene una regola di diritto neofita, in un contesto in cui, sino al nuovo pronunciamento, ne vigeva una diversa o addirittura contraria nell’imperativo che ne costituisce il contenuto. Il problema della limitazione della retroattività del mutamento giurisprudenziale è risolto nel Common Law con il metodo del cd. prospective overruling: il giudice stabilisce che la soluzione adottata dal nuovo precedente varrà solo per il caso deciso e per le future fattispecie ma non per le fattispecie precedentemente disciplinate per le quali avrà sempre valore il precedente overruled. Il sistema qui richiamato riguarda solo casi speciali e particolari come, ad esempio, quelli in cui il mutamento giurisprudenziale modifichi, in senso peggiorativo per il cittadino, le norme di accesso al processo e, dunque, alla Giustizia. In questi casi, la retroattività del nuovo stare decisis andrebbe a vulnerare rapporti quesiti dal punto di vista sostanziale in ragione dell’improvviso mutamento delle regole processuali che ad essi sono sottesi: come avviene esattamente nel caso di specie, quanto al principio di diritto enunciato da Cass. civ. SSUU 19246/2010. Un elevatissimo numero di procedimenti civili dovrebbe essere definito con sentenza di improcedibilità dell’opposizione perché introdotti nel vigore di una norma che abilitava i difensori a costituirsi, per l’opponente, entro i dieci giorni e non anche cinque, in caso di assegnazione all’opposto dell’integralità del suo quantum ordinario per comparire. Da qui, peraltro, le preoccupazioni già espresse dalla classe forense italiana nel comunicato del Consiglio Nazionale Forense del 6 ottobre 2010. Diventa, invero, fisiologico interrogarsi circa la regola della retroQuaderni

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attività nell’ambito della teoria della natura puramente dichiarativa della interpretazione giudiziale. Orbene, dai rilievi che precedono, è evidente come siano condivisibili le osservazioni di Autorevole Dottrina afferma che la retroattività “sorprende gli interessati e quindi attenua o esclude la prevedibilità” del comando legislativo: da qui, invero, una precisa risposta della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[8] che, come noto, impone la “conoscibilità della regola di diritto e la (ragionevole) prevedibilità della sua applicazione” (cfr. Sunday Times c. Regno Unito, sentenza del 29 aprile 1979, §§ 48-49) limitando, pertanto, l’efficacia del mutamento giurisprudenziale “creativo” ai casi futuri o individuandone la data di decorrenza da un dato oggettivo di pubblicità della decisione (cfr., per verificare i principi della CEDU in tema di overruling: Cocchiarella c. Italia, sentenza del 29 marzo 2006, § 44; Di Sante c. Italia, decisione del 24 giugno 2004; Midsuf c. Francia, decisione della Grande Chambre dell’11 settembre 2002. Il punto di partenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è che il termine legge riguarda anche la norma di diritto vivente (“englobe le droit d’origine tant législative que jurisprudentielle”) con conseguente estensione del principio di irretroattività all’ipotesi di mutamento giurisprudenziale imprevedibile con effetti in malam partem (soprattutto nel diritto penale). Anche la Corte di giustizia della CE ha recepito il principio di irretroattività della giurisprudenza creativa (cfr. da ultimo, CGCE, 8 febbraio 2007, C-3/06 P, Groupe Danone c. Commissione) stabilendo che deve essere impedita l’applicazione retroattiva di una nuova interpretazione di una norma nel caso in cui si tratti di un’interpretazione giurisprudenziale il cui risultato non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui l’infrazione è stata commessa. È vero che tali pronunciamenti riguardano in specifico il settore penale, ma il problema investe la problematica generale della principio di Legalità, che salvaguardia lo stesso accesso del cittadino alla

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Giustizia: si pensi al caso di specie. Il giudizio è stato introdotto il 14 luglio 2005 e, dopo intense e onerose attività processuali (come CTU e prove orali) questo verrebbe caducato in rito per improcedibilità sopravvenuta, alla distanza di oltre cinque anni. Una simile conclusione non può che qualificarsi come violento strappo al tessuto connettivo degli artt. 24 e 111 Cost. con manifesta violazione dei soggettivi coinvolti che non troverebbero sbocco in una pronuncia del merito per motivi estranei in modo assoluto alla condotta, volontà o colpa dei litiganti e dei difensori. Da qui la necessità, secondo questo giudice, di applicare una interpretazione conforme a Costituzione. I principi sin qui richiamati sono stati, invero, recepiti anche dalla Corte di Cassazione, con una giurisprudenza che questo giudice intende recepire e fare propria. 3. Contrasto degli effetti patologici dell’Overruling In tempi recenti, l’esigenza di preservare il cittadino dai rischi dell’overruling è stata avvertita anche dalla Suprema Corte, nella importante pronuncia: Cass. civ., sez. II, ordinanza 2 luglio 2010, n. 15811. Nella decisione, la Corte afferma che l’overruling si risolve in un cambiamento delle regole del gioco a partita già iniziata e in una somministrazione all’arbitro del potere-dovere di giudicare dell’atto introduttivo in base a forme e termini il cui rispetto non era richiesto al momento della proposizione dell’atto di impugnazione”. Secondo il Collegio, “allorché si assista, come nella specie, ad un mutamento, ad opera della Corte di cassazione, di un’interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo, la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, ha tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa e perciò è da escludere la rilevanza preclusiva dell’errore in cui essa è incorsa”; Il Collegio riferisce che in questa direzione orienta il principio Quaderni

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costituzionale del “giusto processo”, la cui portata non si esaurisce in una mera sommatoria delle garanzie strutturali formalmente enumerate nell’art. 111 Cost., comma 2, (contraddittorio, parità delle parti, giudice terzo ed imparziale, durata ragionevole di ogni processo), ma rappresenta una sintesi qualitativa di esse (nel loro coordinamento reciproco e nel collegamento con le garanzie del diritto di azione e di difesa), la quale risente dell’“effetto espansivo” dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. Corte cost., sentenza n. 317 del 2009, punto 8 del Considerato in diritto). Il Collegio conclude ritenendo “contrario alla garanzia di effettività dei mezzi di azione o di difesa e delle forme di tutela – la quale è componente del principio del giusto processo – che rimanga priva della possibilità di vedere celebrato un giudizio che conduca ad una decisione sul merito delle questioni di diritto veicolate dall’impugnazione, la parte che quella tutela abbia perseguito con un’iniziativa processuale conforme alla legge del tempo – nel reale significato da questa assunto nella dinamica operativa per effetto dell’attività “concretizzatrice” della giurisprudenza di legittimità – ma divenuta inidonea per effetto del mutamento di indirizzo giurisprudenziale. La Suprema Corte conclude attingendo al bacino della remissione in termini per consentire al ricorrente di proporre l’impugnazione secondo le nuove regole giurisprudenziali (poiché inammissibile secondo le vecchie). Possono, dunque, trarsi delle conclusioni: in caso di radicale mutamento giurisprudenziale che abbia ad oggetto le regole del processo e introduca, di fatto, una regola da ritenersi nuova alla luce del costume giurisprudenziale costantemente seguito sino al pronunciamento neofita (overruling) la parte che abbia posto in essere un’iniziativa processuale conforme al precedente indirizzo, ma divenuta inidonea per effetto del mutamento di indirizzo giurisprudenziale, conserva il

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diritto ad una decisione nel merito. Posta tale premessa in principio occorre verificare quale sia lo strumento giuridico cui attingere per renderlo vitale. In casi del genere, il Collegio ha fatto ricorso all’art. 184-bis c.p.c. (oggi art. 153 c.p.c.). E, però, in genere, l’applicazione dell’istituto de quo impone un sub-procedimento che si conclude con la facoltà concessa all’istante di ripetere l’attività processuale inibita dalla decadenza andatasi a formare. Ma nel caso di specie, essendo i procedimenti come quello in esame già in istruttoria o in fase di trattazione, la remissione si risolverebbe in una lesione del principio di ragionevole durata anche con rischio di perdita delle attività processuali sino ad ora svolte ed espletate e, dunque, comunque con un effetto di sfavore per la parte sostanziale incolpevole in spregio a quanto poc’anzi affermato. E, allora, una interpretazione costituzionalmente orientata, intrisa dei principi della giurisprudenza comunitaria e internazionale richiamata, impone di ritenere che la parte – piuttosto che essere rimessa in termini, con regressione del giudizio e conseguente grave danno alla giurisdizione – deve essere considerata come aver agito correttamente, su mero accertamento del giudice di merito che verifica l’overruling e l’affidamento incolpevole del litigante. Tale approdo è espressione ed applicazione del principio “tempus regit actum” che, come regola e orienta lo jus superveniens, in materia processuale, così deve guidare e disciplinare l’overruling. In altri termini, in caso di decisioni alle quali non può riconoscersi effetto meramente dichiarativo, alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento civile italiano, deve escludersi l’efficacia retroattiva delle nuove regole interpretative in materia processuale e di accesso alla Giustizia. Ovvio che, con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza (9 settembre 2010), tutti i procedimenti civili di nuova instaurazione saranno sottoposti alla nuova interpretazione nomofilattica, ritenenQuaderni

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do questo giudice di dover rispettare e applicare il Supremo pronunciamento per l’avvenire. 4. prosecuzione del giudizio Le spese di lite vanno regolate alla conclusione del giudizio che deve essere proseguito per l’ulteriore corso. A tal fine, si provvede con separata ordinanza ai sensi dell’art. 279, comma II, n. 4, c.p.c. Per questi Motivi Il Tribunale di Varese, Sezione Prima Civile, in composizione monocratica, non definitivamente pronunciando nel giudizio civile iscritto al n. 3527 dell’anno 2005, disattesa ogni ulteriore istanza, eccezione e difesa, così provvede: Rigetta l’eccezione di improcedibilità e dichiara l’opposizione a decreto ingiuntivo procedibile, poiché iscritta in data 14 luglio 2005; Rimette alla separata ordinanza contestuale all’odierna sentenza, le disposizioni per l’ulteriore corso del giudizio. Sentenza letta in udienza in data 8 ottobre 2010 Varese, lì 8 ottobre 2010 Il Giudice dott. Giuseppe Buffone [1] L’espressione è della giurisprudenza della Consulta per segnalare che la “regola pretorile” è di fatto divenuta paragonabile alla norma di Legge (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 8 febbraio 2006 n. 41). [2] Controverso nel senso che è residuato un indirizzo del tutto minoritario secondo cui l’effetto del dimezzamento dei termini doveva ritenersi conseguente al solo caso della assegnazione dei termini ridotti per comparire sorretta dall’elemento della volontarietà: indirizzo su cui v. Cass. civ., sez. I, ordinanza 12 novembre 2008. [3] La Corte viene adita da: Trib. Monza, ordinanza 6 ottobre 2008. [4] www.cortecostituzionale.it. [5] La norma parla di inammissibilità, ma cfr. Cass. civ., Sez. Unite, ordinanza 6 settembre 2010, n. 19051.

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[6] Cfr. sentenza Cass., 13 maggio 1983, n. 3275: Soddisfa l’obbligo della motivazione della sentenza di cui all’art. 132 n. 4, c.p.c., il mero riferimento da parte del giudice del merito alla giurisprudenza della Corte di Cassazione in relazione alla soluzione di una questione univocamente espressa dalla Suprema Corte. [7] Cfr. sentenza Cass., 3 dicembre 1983, n. 7248: Nell’esercizio del suo potere-dovere di interpretazione della norma applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame, il giudice può anche non seguire l’interpretazione proposta dalla Corte di cassazione (salvo che si tratti di giudizio di rinvio). Tale libertà non esclude, peraltro, l’obbligo dello stesso giudice di addurre ragioni congrue, convincenti a contestare e far venir meno l’attendibilità dell’indirizzo interpretativo rifiutato. [8] Come noto, infatti, il 13 dicembre 2007 ha visto la luce il Trattato di Lisbona che ha apportato modifiche al Trattato sull’Unione Europea ed è entrato in vigore in data 1 dicembre 2009 ed è stato ratificato dall’Italia con la legge 2 agosto 2008 n. 130. L’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (post Lisbona) recita: “L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (…). Secondo alcuni Autori e, soprattutto, secondo una già formata giurisprudenza (v. Cons. St., Sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220 e TAR Lazio, Sez. II bis, 18 maggio 2010 n. 11984) la norma avrebbe determinato la cd. comunitarizzazione delle norme CEDU: “non più, pertanto, norme internazionali e parametro interposto di legittimità costituzionale di norme domestiche ex art. 117 Cost., bensì norme comunitarie le quali in virtù del principio di primautè del diritto comunitario” legittimerebbero “la non applicazione di norme interne con esse contrastanti”.

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Tribunale di Torino Sezione I Civile

Ordinanza 11 ottobre 2010 Il Giudice istruttore Sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 6.10.2010. Rilevato che la convenuta opposta ha eccepito preliminarmente l’improcedibilità della opposizione in conseguenza della tardiva costituzione dell’opponente, e cioè oltre il termine dimidiato di cinque giorni di cui al combinato disposto degli artt. 165 e 645, II co., c.p.c., applicabile, alla luce del principio interpretativo stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 19246 del 2010, depositata il 9.9.2010, a tutti i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, indipendentemente dalla effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, in quanto “… non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà” (così Cass. 19246/2010 citata). Considerato che tale interpretazione ha mutato il precedente indirizzo interpretativo della stessa Corte di Cassazione, secondo cui il termine di costituzione dell’opponente era ridotto alla metà solo quando costui si fosse avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario (come spiegato nella stessa sentenza 19246/2010 citata, nella quale è riportato tale costante

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orientamento, da Cass. 12.10.1955 n. 3053 fino a Cass. 3355/1987, id. 2460/1995, 3316 e 12044/1998, 18942/2006). Rilevato che l’opponente non ha assegnato alla opposta un termine a comparire inferiore a quello minimo, avendo notificato l’atto di citazione il 2.4.2010 ed indicato la prima udienza al 5.10.2010, con la conseguenza che la sua costituzione, secondo detto precedente e consolidato orientamento interpretativo, risultava tempestiva. Osservato, alla luce del principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), che non sembra che l’errore della parte che abbia fatto affidamento su una consolidata (al tempo della proposizione della opposizione e della costituzione in giudizio) giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, possa avere rilevanza preclusiva, sussistendo i presupposti per la rimessione in termini (art. 153 c.p.c. nel testo in vigore dal 4.7.2009), alla cui applicazione non osta la mancanza dell’istanza di parte, essendo conosciuta, per le ragioni evidenziate, la causa non imputabile (così, Cass., sez. II, ordinanze interlocutorie nn. 14627/2010, 15811/2010 depositate il 17.6.2010 ed il il 2.7.2010). Ritenuto, pertanto, che la tardiva costituzione dell’opponente e la decadenza che ne è derivata siano riconducibili ad un causa non imputabile all’opponente stesso, con la conseguente sussistenza dei presupposti per rimettere in termini l’opponente, di guisa che la sua costituzione, effettuata oltre il suddetto termine dimidiato ma entro quello ordinario di dieci giorni, deve essere ritenuta tempestiva, e che quindi non occorre assegnare un ulteriore termine per provvedervi, trattandosi di attività già compiuta. Osservato, quanto alla istanza di autorizzazione alla provvisoria esecuzione del decreto opposto, che l’opposizione, fondata sulla interperazione del contratto concluso dall’attore con la P di quello accessorio di finanziamento dallo stesso stipulato con la convenuta N, sia di pronta soluzione, non sembrando richiedere istruzione, con la Quaderni

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conseguenza che non paiono esservi i presupposti per la provvisoria esecutorietà del decreto opposto. Rilevato, infine, che entrambe le parti hanno domandato l’assegnazione dei termini previsti dall’art. 183 c.p.c., di guisa che occorre assegnare loro i relativi termini, invitandole anche ad indicare separatemente i nomi dei testimoni da escutere su ogni capitolo di prova che dedurranno ed a prendere posizione sul calendario del processo, ai sensi dell’art. 81 bis disp. att. c.p.c. P.Q.M. Visto l’art. 153, II co., c.p.c. Rimette in termini l’attore ai fini della sua costituzione. Visto l’art. 648 c.p.c. Respinge l’istanza di autorizzazione alla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo n. …. del 2010 di questo Tribunale. Visto l’art. 183, 6° comma, c.p.c., Assegna a tutte le parti, che ne hanno fatto istanza: - termine perentorio di 30 giorni dal 31.10.2010 per il deposito di memorie contenenti precisazioni e modifiche delle domande, eccezioni, conclusioni rispettivamente proposte; - ulteriore e successivo termine perentorio di 30 giorni per il deposito di memorie di replica alle domande, eccezioni e conclusioni come sopra modificate e precisate, per proporre eccezioni consequenziali a dette domande ed eccezioni, nonché per il deposito di documenti e per la richiesta di mezzi di prova; - ulteriore e successivo termine perentorio di 20 giorni per articolare prova contraria.

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Invita le parti ad indicare separatemente i nomi dei testimoni da escutere su ogni capitolo di prova che dedurranno ed a prendere posizione sul calendario del processo, ai sensi dell’art. 81 bis disp. att. c.p.c. Riserva di provvedere sulle istanze delle parti alla scadenza di tali termini. Si comunichi. Torino, 11.10.2010 IL GIUDICE ISTRUTTORE Giovanni Liberati

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Tribunale di Pavia

Ordinanza 14 ottobre 2010

Il Giudice A scioglimento della riserva assunta all’udienza dell’8.10.2010; LETTI gli atti SENTITA la discussione delle parti all’udienza; CONSIDERATO: che l’odierno opponente ha iscritto la causa a ruolo entro il termine di gg 10 ma oltre il termine di gg 5 dalla notifica della citazione al convenuto; che l’opponente ha fissato l’udienza di comparizione nel termine ordinario e non assegnando all’opposto un termine ridotto a comparire; LETTA la sentenza della Suprema Corte a SS.UU. 19246/2005 secondo cui “esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia sfata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale,

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resta salva la facoltà dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, terzo comma. D’altra parte, se effettivamente il dimezzamento dei termini di costituzione dipendesse dalla volontà dell’opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, non si capirebbe la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sono cumulati il dimezzamento che deriva dalla astratta previsione legale di cui all’art. 645 c.p.c. con quello che può discendere da un apposito provvedimento di dimezzamento di tali termini richiesto ai sensi dell’art. 163 bi=, 3 comma. (Cass. n. 4719/1995, 18203/2008). CONSIDERATO che il nostro sistema giuridico non prevede la vincolatività del precedente giurisprudenziale; che le pronuncie giurisprudenziali, ancorché delle Sezioni Unite, non possono che avere efficacia dichiarativa limitandosi ad interpretare la norma giuridica esistente e non costituendo mai fonte del diritto; che questo ufficio ritiene, conseguentemente, non sia condivisibile il recentissimo e pur apprezzabile orientamento giurisprudenziale secondo cui in caso di c.d. overruling – e cioè allorché si assista ad un mutamento, ad opera della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, di un’interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo – la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della Suprema Corte, successivamente travolta dall’overruling, ha tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa e perciò è da escludere la rilevanza preclusiva dell’errore in cui essa è incorsa. Ciò vuol dire che, per non incorrere in violazione delle norme costituzionali, internazionali e comunitarie che garantiscono il diritto ad un Giusto Processo, il giudice di merito deve escludere la retroattività del principio di nuovo conio (Tribunale di Varese 8.10.2010);

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che questo ufficio ritiene, conseguentemente, non sia condivisibile neppure l’orientamento dottrinale secondo cui per il caso di overruling occorrerebbe distinguere tra norme sostanziali e processuali limitando solo alle prima l’effetto retroattivo della novazione giurisprudenziale per il principio secondo cui non possono mai cambiarsi le regole del processo durante lo svolgimento dello stesso (art. 11 cost e valore della predeterminazione delle regole processuali). RITENUTO, differentemente, sussistere nell’ordinamento l’istituto di carattere generale della rimessione in termini; VISTO l’art. 153 C.P.C. secondo cui “I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull’accordo delle parti. La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e terzo comma”; CONSIDERATO che l’abrogazione dell’art. 184-bis codice procedura civile e lo spostamento del suo contenuto nell’art. 153, cioè nel capo dedicato in via generale ai termini processuali, indica la volontà del legislatore di fare in modo che l’istituto della rimessione in termini sia di applicazione generalizzata e non limitata all’ipotesi in cui le parti siano decadute dal potere di compiere determinate attività difensive nel corso della trattazione della causa (in questi termini Tribunale di Monodì 19.2.2010 in www.ilcaso.it, I, 2029); CONSIDERATO, inoltre che la rimessione in termini presuppone: a) l’inosservanza di un limite temporale assegnato al compimento di un atto processuale; b) il verificarsi di un impedimento di fatto puntuale e tendenzialmente limitato alla parte, non imputabile a quest’ultima; c) l’apprezzabilità dell’impedimento, in quanto tale, con una valutazione già coeva al

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verificarsi di quest’ultimo; d) l’accertamento in concreto dell’impedimento, sulla base degli elementi forniti dall’istanza della parte, che lasci al giudice significativi margini di valutazione circa la sussistenza o meno del fatto che ha impedito il tempestivo compimento dell’atto; che nel caso di specie tutti questi elementi sono presenti: l’opponente non ha rispettato il termine perentorio per costituirsi così come interpretato dal sopra richiamato arresto delle Sezioni Unite; tale comportamento non è imputabile alla parte in quanto, salvo qualche giurisprudenza di merito, l’indirizzo assolutamente maggioritario riteneva sufficiente il rispetto del termine di 10 giorni per provvedere all’iscrizione a ruolo; il mutamento giurisprudenziale è stato riconosciuto dalla Stessa Suprema Corte elemento sufficiente per concedere la rimessione in termini (Cass. 14627/2010); RITENUTO che per il caso di mutamento giurisprudenziale la rimessioni in termini debba essere concessa anche d’ufficio (in senso conforme Cass. 14627/2010); CONSIDERATO da ultimo, che, nel caso di specie l’effetto della rimessione in termini consiste nel ritenere tempestiva l’iscrizione a ruolo della causa per cui nessun ulteriore attività deve essere svolta dall’attore opponente; RITENUTO necessario disporre per l’ulteriore corso dell’istruttoria testimoniale come ammessa; P.Q.M. Il Giudice lo;

Respinge l’eccezione sollevata di tardività dell’iscrizione a ruorimette l’opponente in termini;

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fissa udienza in prosecuzione al 17.11.2010 ore 10,45 per escussione di due ulteriori testi parte opponente; si comunichi anche a mezzo fax ove necessario. Pavia, 14.10.2010 Il giudice Andrea Balba

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Tribunale di Latina Sezione II Civile

Sentenza 19 ottobre 2010

FATTO Con decreto immediatamente esecutivo reso il 21 aprile 2008 il Tribunale di Latina ingiungeva a xxxxxxx il pagamento in favore della Banca xxxxxx della somma di € 125.000,00, oltre interessi al tasso legale vigente pro tempore e spese della procedura, portata dalla fattura n. 1 del 10.2.2003 emessa dalla xxxxxx ed oggetto di cessione di credito in favore della Banca xxxxxx giusto contratto di anticipo contro cessione di credito n. 15731202.33 estinto in data 11.10.2007. L’ingiunta opponeva il decreto e ne chiedeva la revoca, previa sospensione della provvisoria esecutività, contestando sia la fattura sia la cessione di credito. Si costituiva la società opposta rilevando la infondatezza delle ragioni di opposizione e chiedendo la conferma del decreto. Concessa la sospensiva, in mancanza di articolazioni istruttorie all’udienza del 18 maggio 2010 sono state precisate le conclusioni e la causa decisa decorsi i termini per il deposito delle comparse ex art. 190 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE Ritiene preliminarmente il giudicante di dover affrontare d’uffiQuaderni

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cio la questione della procedibilità della presente opposizione a decreto ingiuntivo. Le norme che interessano, in particolare, sono gli artt. 645 e 647 c.p.c. L’art. 645 c.p.c. stabilisce al secondo comma che il seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito, ma i termini di comparizione sono ridotti alla metà. L’art. 647 c.p.c. afferma poi che se non è fatta opposizione nel termine stabilito, oppure l’opponente non si è costituito, il giudice che ha pronunciato il decreto, su istanza anche verbale del ricorrente, lo dichiara esecutivo (primo comma) ed in tale caso l’opposizione non può essere più proposta né proseguita. L’art. 645, secondo comma, c.p.c. è stato in maniera univoca e costante interpretato dalla Suprema Corte nel senso che “Nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo la riduzione alla metà dei termini di comparizione è rimesso alla facoltà dell’opponente e solo nel caso in cui questi se ne sia effettivamente avvalso, risultano conseguentemente ridotti alla metà anche i termini di costituzione, la cui inosservanza comporta, ai sensi del disposto dell’art. 647 c.p.c. la esecutività del decreto ingiuntivo” (così la Sez. I, 1 settembre 2006, n.18942, che ha confermato precedenti pronunce e segnatamente la n. 16332/2002, n. 3752/2001, n. 12044/1998, n. 3316/1998, n. 2460/1995 ed altre ancor più risalenti). In relazione alla ipotesi della mancata costituzione dell’opponente disciplinata dall’art. 647 c.p.c. è opinione pacifica in giurisprudenza che la costituzione fuori termine dell’opponente è equiparata ad ogni effetto alla mancata costituzione, con la conseguente improcedibilità dell’opposizione indipendentemente dalla richiesta e dalla declara-

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toria di esecutività del decreto (così, ex multis, Cass. n. 5039/05, n. 6304/99, n. 849/99, n. 2707/90), da rilevarsi anche d’ufficio in via pregiudiziale rispetto ad ogni altra questione. Forte di tali interpretazioni da parte del Supremo Collegio, la giurisprudenza di merito ha del pari costantemente ritenuto che qualora l’opponente abbia concesso al creditore opposto un termine di comparizione uguale o superiore a quello ordinario di cui all’art. 164 bis, la costituzione dell’opponente avvenuta nei dieci giorni dalla notifica era tempestiva e l’opposizione precedibile. Di qui la ulteriore conseguenza che nella pratica – sempre con riferimento al termine di comparizione ordinario e non dimidiato – vi sono state opposizioni iscritte a ruolo comunque nei cinque giorni dalla notifica della citazione ma, nella maggior parte dei casi, iscritte a ruolo nei dieci giorni e mai per questo ritenute tardive e sanzionate da improcedibilità. In questo contesto che sembrava ormai pacifico sono intervenute le Sezioni Unite Civili con sentenza 9 settembre 2010, n.19246, e ciò a seguito della ordinanza della prima sezione 12 novembre 2008 che ha ritenuto non corrispondente alla sistematica del codice di rito che la disciplina dei termini di un procedimento possa discendere dalla scelta di una delle parti del giudizio, al di fuori di ogni controllo del giudice. Aderendo quindi alla opinione di una parte della dottrina, le Sezioni Unite hanno osservato “che la lettera dell’art. 645 c.p.c. induce a ritenere che il dimezzamento dei termini di comparizione sia un effetto legale della proposizione dell’opposizione e non dipenda invece dalla volontà dell’opponente che intenda assegnare un termine inferiore a quello previsto dall’art. 163 bis c.p.c.”. Di conseguenza “esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effetQuaderni

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tiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti alla metà”. In base poi a consolidato orientamento giurisprudenziale, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la tardiva costituzione dell’opponente va equiparata alla sua mancata costituzione e comporta la improcedibilità della opposizione, essendo “innegabile infatti, da una parte, che la specialità della norma di cui all’art. 647 c.p.c. impedisce l’applicazione della ordinaria disciplina del processo di cognizione, e dall’altra, che la costituzione tardiva altro non è che una mancata costituzione nel termine indicato dalla legge”. Ritiene questo giudicante che tale pronuncia – nonostante la sua particolare autorevolezza siccome assunta dalle Sezioni Unite Civili – non possa comportare la improcedibilità dei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo introdotti in base all’orientamento giurisprudenziale precedente e consolidato che consentiva all’opponente di costituirsi nel termine ordinario di dieci giorni dalla notifica della citazione in caso di assegnazione alla controparte dell’ordinario termine di comparizione. è infatti di tutta evidenza che, altrimenti, sarebbe vanificata la istruttoria svolta nei giudizi in corso, a volte anche particolarmente lunga, complessa e dispendiosa (si pensi, ad esempio, ai giudizi di opposizione ai decreti ingiuntivi ottenuti dalle banche in base a contratti di mutuo o di conto corrente, nonché ai decreti ingiuntivi ottenuti per il pagamento di spettanze professionali o di corrispettivi in materia di contratti d’opera o appalti, in molti dei quali sono state espletate consulenze tecniche che hanno comportato gravosi oneri economici per le parti richiedenti), e ciò senza di fatto vi sia stata lesione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio.

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Uno spunto argomentativo per pervenire ad una soluzione sembra offerto dalla Sezione II della Suprema Corte che, con ordinanza interlocutoria 10 giugno – 2 luglio 2010 n. 15811, ha affrontato la questione che si presenta quando viene introdotta una domanda giudiziale (nella specie un ricorso per cassazione) e successivamente si verifichi un mutamento di indirizzo giurisprudenziale incidente sulla modalità di presentazione della domanda medesima, per effetto del quale se ne avrebbe il rigetto. Invero, a differenza di quanto accade in materia normativa dove, spesso, è proprio il legislatore a dettare delle norme transitorie o a differire l’entrata in vigore della novella, il mutamento di orientamento giurisprudenziale può comportare per la parte che agisce in giudizio delle conseguenze così gravi da limitare il principio costituzionale del giusto processo e quello della certezza del diritto, contenuti nell’art. 111 Cost. Si legge testualmente nella ordinanza in parola “che allorché si assista ad un mutamento ad opera della Corte di Cassazione di un’interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo, la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, ha tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa e perciò è da escludere la rilevanza preclusiva dell’errore in cui essa è incorsa; che in questa direzione si orienta il principio costituzionale del “giusto processo”, la cui portata non si esaurisce in una mera sommatoria delle garanzie strutturali formalmente enumerate nel secondo comma dell’art. 111 Cost. (contraddittorio, parità delle parti, giudice terzo ed imparziale, durata ragionevole di ogni processo), ma rappresenta una sintesi qualitativa di esse (nel loro coordinamento reciproco e nel collegamento con le garanzie del diritto di azione e di difesa)...; che il Collegio ritiene contrario alla garanzia di effettività dei mezzi di azione o di difesa e delle forme di tutela – la quale è componente del principio del giusto processo – che rimanga priva

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della possibilità di vedere… celebrato un giudizio che conduca ad una decisione sul merito… la parte che quella tutela abbia perseguito con una iniziativa processuale conforme alla legge del tempo – nel reale significato da questa assunto nella dinamica operativa per effetto dell’attività “concretizzatrice” della giurisprudenza di legittimità –, ma divenuta inidonea per effetto del mutamento dell’indirizzo giurisprudenziale”. Il richiamo alla attività “concretizzatrice” della giurisprudenza di legittimità consente di affermare, con il supporto di un’autorevole dottrina (...), che il precedente giudiziario è fonte di norme giuridiche che integrano l’ordinamento giuridico di riferimento, carattere questo derivato dal fatto che i precedenti sono principi di diritto individuati in occasione di pronunce di concrete decisioni, istituzionalmente destinate a dare applicazione alle norme derivanti dalla legge o da altre fonti del diritto (...): in quanto fonti di norme interpretative, le pronunce giudiziarie produrrebbero così effetti in senso lato “retroattivi”, in contrasto con il valore della predeterminazione delle regole processuali espresso dall’art. 111 Cost. e dunque con il principio della certezza del diritto. Per il diritto processuale infatti, secondo la richiamata dottrina, la “certezza” deve essere perseguita con intensità maggiore che nel diritto sostanziale – in cui la predeterminazione e la prevedibilità del contenuto delle regole di condotta e delle conseguenze della sua violazione costituisce un tema che muta in conseguenza degli sviluppi legislativi e giurisprudenziali nonché della evoluzione dei diritti fondamentali tutelati – proprio in considerazione del carattere strumentale del processo civile nei confronti di quest’ultimo. In altri termini, il rischio che l’errore processuale cagioni al titolare la perdita del diritto sostanziale dedotto in giudizio deve essere confinato entro il minimo indispensabile e la fisiologica incertezza del diritto sostanziale deve essere compensata dalla certezza del diritto processuale,

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in funzione di garanzia dei doveri delle parti (…). Ed allora, così come il legislatore delle riforme processuali si preoccupa di dettare norme di diritto transitorio da cui generalmente deriva che lo ius superveniens si applica solo ai giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore, altrettanto deve ritenersi con riferimento ai mutamenti di giurisprudenza costante sull’interpretazione di norme relative alle regole del processo. Il principio della economia dei giudizi – spesso richiamato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità a sostegno delle scelte decisionali di volta in volta adottate in concreto – comporta che l’applicazione di una modalità procedurale non deve essere improvvisamente disattesa e sanzionata definitivamente ed irreparabilmente con una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della domanda in forza di uno ius superveniens dato dalla pronuncia giurisprudenziale, mettendosi altrimenti in discussione l’unità e la coerenza dell’intera attività processuale, cioè l’unità e la coerenza dell’attività processuale svolta con quella futura. In forza del dettato costituzionale ritiene pertanto questo giudicante – per scendere al caso in oggetto – che la costituzione in giudizio dell’opponente, tempestiva all’epoca della iscrizione della causa a ruolo, non può diventare tardiva a seguito di una successiva interpretazione della norma da parte della Corte di Cassazione che, qualificata come ius superveniens in materia processuale, non può avere efficacia in senso lato retroattiva. Questa modalità di approccio e di soluzione della questione supera la conclusione cui è pervenuta la Suprema Corte nella ordinanza n. 15811 del 2010, laddove ha affermato l’applicabilità del rimedio restitutorio della rimessione in termini di cui all’art. 184 bis c.p.c., vigente ratione temporis ed abrogato dall’art. 46, comma terzo, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (con l’aggiunta al suo posto dall’art. 45 stessa legge di un ulteriore comma all’art. 153 c.p.c.) con effetto per Quaderni

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i soli giudizi introdotti successivamente all’entrata in vigore della novella (art. 58, comma 1, L. cit.). Il ricorso a tale istituto processuale – secondo cui la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini – che opera con riguardo a tutti i poteri processuali sottoposti a decadenza nel corso del giudizio di primo grado, non appare attuabile nel caso della iscrizione a ruolo del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, essendosi la parte opponente già costituita osservando il termine all’epoca consentito ed avendo quindi compiuto tempestivamente quella condotta processuale dalla quale invece sarebbe decaduta in forza della successiva riduzione del limite temporale. Difetterebbe poi l’ulteriore presupposto della rimessione, costituito da un errore ovvero da un impedimento incolpevole (non è infatti errore né impedimento l’essersi la parte uniformata ad un costante orientamento giurisprudenziale), né vi sarebbe la necessità per il giudice di accertare in concreto l’evento determinativo della incorsa decadenza. Ciò posto in punto di diritto, ritiene il giudicante che la costituzione della odierna opponente, avvenuta il decimo giorno dalla notificazione della citazione alla Banca ricorrente, sia tempestiva e dunque l’opposizione procedibile. Nel merito, l’opposizione è infondata e va respinta. In ordine ai fatti di causa, espone xxxxxx di aver affidato in appalto all’impresa xxxxx con contratto 10.10.1999 l’esecuzione di n. 14 alloggi di sua proprietà da realizzarsi nel Comune di Terracina; di avere poi le parti sciolto anticipatamente il rapporto contrattuale in corso con due distinti atti transattivi, rispettivamente del 27.2.2004 e del 12.4.2005, a fronte dei quali l’impresa appaltatrice aveva emes-

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so alcune fatture, tutte regolarmente pagate, ma non quella azionata in sede monitoria; aggiunge ancora che la Banca xxxxx non ha comunque alcun diritto a pretendere la somma ingiunta per inefficacia dell’atto di cessione di credito, mai notificato ed accettato da essa concludente. Le ragioni di opposizione non sono condivisibili. Come invero già ritenuto dal giudicante nell’ordinanza riservata 27 febbraio 2009, la natura consensuale del contratto di cessione di credito comporta che il credito si trasferisce dal patrimonio del cedente a quello del cessionario per effetto dell’accordo, mentre la efficacia della cessione e la legittimazione del cessionario a pretendere la prestazione dal debitore (in quanto alla semplice conoscenza della cessione da parte di costui si ricollega l’unica conseguenza della non liberatorietà del pagamento effettuato a mani del cedente) conseguono alla notificazione della cessione al contraente ceduto ovvero alla accettazione da parte di questi, “notificazione” ed “accettazione” che non si identificano con gli istituti dell’ordinamento processuale e non sono pertanto soggetti a particolari discipline o formalità, ma sono atti a forma libera; ne deriva che ove la notificazione, consistente in una dichiarazione ricettizia, venga fatta in forma scritta, non deve essere necessariamente sottoscritta dal creditore cedente, essendo al riguardo sufficiente che vi siano in equivoci elementi indicanti la relativa provenienza, in modo che risulti al debitore ceduto pienamente assicurata la prova dell’accordo tra il creditore cedente ed il cessionario e la non problematica conoscenza dell’avvenuta cessione. Nella specie, la cessione del credito oggetto di causa – che attribuisce al cessionario le azioni dirette ad ottenerne la realizzazione – risulta notificata all’opponente mediante lettera raccomandata ricevuta in data 25.2.2003 e pertanto, al momento della sottoscrizione della transazione del 10.5.2004 legittimata ad agire per l’adempimento del credito portato dalla fattura n. 1/2003 posta a Quaderni

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base del decreto ingiuntivo era solo la Banca xxxxxx e non più la società cedente che aveva altresì perso la legittimazione a transigere in ordine al suddetto credito. La fattura – mai contestata in precedenza dalla debitrice – del resto si riferisce ad un acconto S.A.L. in corso e dunque al contratto di appalto richiamato dalla stessa opponente. Ne deriva il rigetto dell’opposizione. Le spese di lite, liquidate d’ufficio come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Giudice Monocratico, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe, rigetta l’opposizione e condanna xxxxxx alle spese di lite, che liquida in favore della Banca xxxxx in complessive € 2.830,00 di cui € 30,00 per esborsi, € 600,00 per diritti ed € 2.200,00 per onorari, oltre rimborso spese generali, cpa e iva come per legge. Latina, 19 ottobre 2010

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Il Giudice Monocratico dott. Carla Menichetti

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Tribunale di Marsala

Ordinanza 20 ottobre 2010 Il Giudice istruttore Rilevato che la convenuta opposta ha eccepito preliminarmente l’improcedibilità della opposizione in conseguenza della tardiva costituzione dell’opponente, e cioè oltre il termine dimidiato di cinque giorni di cui al combinato disposto degli artt. 165 e 645, II co., c.p.c., applicabile, alla luce del principio interpretativo stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 19246 del 2010, depositata il 9.9.2010, a tutti i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, indipendentemente dalla effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, in quanto “ ...non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposzione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà” (così Cass. 19246/2010 citata). Considerato che, come già rilevato da altro giudice di merito (Tribunale di Torino, Ordinanza 11 ottobre 2010 e Tribunale di Varese Sentenza, 8 ottobre 2010), “tale interpretazione ha mutato il precedente indirizzo interpretativo della stessa Corte di Cassazione, secondo cui il termine di costituzione dell’opponente era ridotto alla metà solo quando costui si fosse avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario (come spiegato nella stessa sentenza 19246/2010 citata, nella quale è riportato Quaderni

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tale costante orientamento, da Cass. 12.10.1955 n. 3053 fino a Cass. 3355/1987, id. 2460/1995, 3316 e 12044/1998, 18942/2006)”. Rilevato che l’opponente non ha assegnato alla opposta un termine a comparire inferiore a quello minimo, avendo notificato l’atto di citazione il 28.4.2010 ed indicato la prima udienza al 18.10.2010, con la conseguenza che la sua costituzione, secondo detto precedente e consolidato orientamento interpretativo, risultava tempestiva. Ritenuto che si debba aderire alla ricostruzione evidenziata della giurisprudenza di merito sinora pronunziatasi (ancora Tribunale di Torino, Ordinanza 11 ottobre 2010 e Tribunale di Varese Sentenza, 8 ottobre 2010), secondo la quale, alla luce del principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.) ed dei principi inferibili dalla CEDU (ed in particolare dall’art. 6), non sembra che l’errore della parte che abbia fatto affidamento su una consolidata (al tempo della proposizione della opposizione e della costituzione in giudizio) giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, possa avere rilevanza preclusiva, dovendosi mantenere inalterate, a giudizio in corso, le c.d. regole del gioco; Osservato che tuttavia, come correttamente considerato da parte di tale giurisprudenza (in particolare Tribunale di Varese Sentenza, 8 ottobre 2010) l’applicazione di tali coordinate costituzionali ed internazionali pongono il problema dell’identificazione all’interno del nostro ordinamento giuridico di uno strumento tipico, atto a soddisfare tali esigenze di giustizia sostanziale; Ritenuto che tuttavia tale strumento non possa essere identificato nell’applicazione combinata dei principi dell’irretroattività del diritto vivente (c.d. overruling) e del c.d. “tempus regit actum”; Ritenuto che infatti il principio di irretroattività del diritto

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vivente (c.d. overruling), tipico degli ordinamenti di Common Law, postula il carattere costitutivo e vincolante delle pronunzia delle Corti Superiori (c.d. principio dello “stare decisis verticale”), invero non operante nel nostro ordinamento, ove ogni giudice è libero di interpretare secondo la propria discrezionalità la disposizione di legge, anche discostandosi (pur motivatamente) dalle posizioni della Suprema Corte; ritenuto che pertanto la violazione dei termini di costituzione da parte dell’opponente non potrà mai stimarsi valida sulla scorta del principio tempus regit actum, il quale assume quale unico parametro di riferimento il diritto positivo codificato e non anche quello vivente; ritenuto che dunque lo strumento necessario per far salve le ragioni di giustizia sostanziale che sottendono ai riferiti principi di marca costituzionale ed internazionale debbano essere ricercati altrove; ritenuto che essi possano bene essere identificati nell’istituto ex art. 153 c.p.c., il quale consente di rimettere in termini la parte che abbia incolpevolmente violato un termine perentorio; ritenuto che invero tale incolpevole errore possa bene essere identificato in un improvviso e radicale mutamento da parte della Corte di Cassazione del proprio, consolidato, pregresso orientamento in ordine alle modalità computative di tali termini decadenziali; ritenuto che all’applicazione al caso di specie di tale istituto non osti il timore che il medesimo determini una regressione del processo, già istruito, alla sua fase iniziale, identificata nella costituzione in giudizio delle parti; ritenuto che invero, come rileva ottima dottrina, la rimessione in Quaderni

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termini non comporta necessariamente che il processo regredisca in toto allo situazione in cui si è verificata la decadenza, ma solo una riapertura parziale, con riguardo ai poteri nei quali la parte sia stata restituita in termini e a quelli di controparte che sono la conseguenza dell’esercizio dei primi, della vicenda di contrapposizione degli interessi in causa; ritenuto che dunque non ogni rimessione in termini importi una riattivazione della dialogica processuale, ma solo quella che essa postuli a cagione della necessità di far salvo il c.d. principio di parità delle armi processuali; ritenuto che diretto corollario di tale assioma sia che, in presenza di una rimessione avente ad oggetto attività processuali non importanti innovazioni allegatorie o probatorie all’interno del processo (quali sono invece le memorie ex art.183, sesto comma, c.p.c. o le istanze di disconoscimento di scritture private, etc), alcuna rieditazione dei poteri dialogici delle parti possa configurarsi e, dunque, alcuna regressione processuale possa ipotizzarsi; ritenuto che nel caso di specie oggetto della rimessione in termini richiesta sia un’attività processuale (costituzione) che non innova in alcun modo il plesso allegatorio o probatorio preesistente alla sua realizzazione (essendosi lo stesso cristallizzato nell’atto di citazione notificato, nella comparsa di risposta depositata e nelle successive memorie processuali); ritenuto che dunque alcuna regressione processuale possa configurasi; letta l’istanza di rimessione in termini per la costituzione di parte attrice; ritenuti sussistenti, per i suddetti motivi, la ragioni che valgono a

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qualificare come giustificato il mancato rispetto del termine a costituirsi entro cinque giorni dall’ultima notifica; ritenuta dunque come legittima tale richiesta; rilevato infine che la stessa riguarda un’attività processuale (costituzione) già posta in essere e che pertanto, nel caso di specie, la rimessione intermini possa esaurirsi in una riqualificazione di tale atto come tempestivo; ritento quanto all’istanza di concessione della provvisoria esecuzione che essa non possa essere concessa difettando la prova del ragionevole fumus del credito (cfr. in tal senso: Corte Cost. 4.5.1984 n. 137 in Foro it. 1984, I, 1775; Corte Cost., con ord. 25.5.1989 n. 295 in Foro it. 1989, I, 2391). P.Q.M. Rimette l’opponente in termini e per l’effetto dichiara tempestiva la costituzione da questi già effettuata; Rigetta l’istanza dell’opposta di declaratoria di improcedibilità dell’opposizione; Rigetta l’istanza dell’opposta di concessione della provvisoria esecutività, non ravvisandone i presupposti; Assegna a tutte le parti, che ne hanno fatto istanza: a) termine perentorio di 30 giorni dal 30.10.2010 per il deposito di memorie contenenti precisazioni e modifiche delle domande, eccezioni, conclusioni rispettivamente proposte; b) ulteriore e successivo termine perentorio di 30 giorni per il deposito di memorie di replica alle domande, eccezioni e conclusioni come sopra modificate e precisate, per proporre eccezioni Quaderni

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consequenziali a dette domande ed eccezioni, nonchĂŠ per il deposito di documenti e per la richiesta di mezzi di prova; c) ulteriore e successivo termine perentorio di 20 giorni per articolare prova contraria. Si comunichi. Marsala 20.10.2010.

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Il Giudice Dott. Francesco Lupia

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Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi

Sentenza 20 ottobre 2010, n. 625 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, in persona del dott. Luigi Levita, ha pronunciato, mediante la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione ex art. 132 c.p.c., la seguente FATTO E DIRITTO Con atto di citazione ritualmente notificato, il Comune di XXX proponeva opposizione al decreto ingiuntivo n. 174/2005 emesso dal Presidente del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi in data 25.10.2005, con il quale si ingiungeva il pagamento in favore di YYY Sas della somma di euro 13.783,00 oltre interessi e spese della procedura; deduceva a tal fine l’incompetenza per territorio e, nel merito, di aver concordato telefonicamente con la società opposta una decurtazione del 20 per 100 rispetto al totale delle prestazioni pattuite, trattandosi di debiti fuori bilancio (segnatamente, di noleggio di autocompattatori adibiti al contenimento di rifiuti). Chiedeva pertanto l’accoglimento dell’opposizione, il tutto con vittoria delle spese di lite. Si costituiva in giudizio la YYY Sas, contestando le avverse deduzioni e chiedendo il rigetto dell’opposizione, il tutto con condanna alle spese di giudizio. Espletata l’attività istruttoria, questo Giudice rinviava quindi all’udienza del 5 maggio 2010 per la precisazione delle conclusioni, nel corso della quale la causa veniva trattenuta in decisione, previa Quaderni

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assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. L’opposizione proposta è infondata e va rigettata, per le ragioni che di seguito si espongono. In via assolutamente preliminare ed officiosa, va affrontata la questione afferente l’ammissibilità e la procedibilità del giudizio, a seguito dello scrutinio della tempestività della notifica dell’opposizione al decreto ingiuntivo e della costituzione dell’opponente (verificatasi, per quanto desumibile dagli atti, oltre i cinque giorni dalla notifica della citazione: 10.1.2006 - 18.1.2006). Tale scrutinio si appalesa necessario alla luce del recente e noto dictum delle Sezioni Unite (n. 19246/2010), a mente del quale “esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà”. Orbene, ritiene questo Giudice che i primi orientamenti di merito (cfr. Trib. Velletri, 18 ottobre 2010; Trib. Padova, 14 ottobre 2010; Trib. Torino, 11 ottobre 2010), nel valorizzare ciascuno in diversa misura ed intensità l’istituto della rimessione in termini ex art. 184bis c.p.c., giungano nondimeno ad una dilatazione del medesimo oltre l’area della significanza sua propria, finendo per assegnare alla rimessione la natura di una vera e propria “sanatoria”; il che non appare ineccepibile in punto di corretta esegesi di questo istituto, pur sempre racchiuso nell’ambito delle norme concernenti l’istruzione della causa e non estensibile oltre i confini suoi propri, nemmeno mediante il richiamo ai canoni sovranazionali e costituzionali del “giusto processo”. Tali richiami, nondimeno, si dimostrano congruenti e di particola-

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re decisività qualora conducano a ritenere che la parte – piuttosto che essere rimessa in termini, con regressione del giudizio e conseguente grave danno alla giurisdizione – debba essere considerata come aver agito correttamente, sulla scorta di un mero accertamento del giudice di merito, che verifica l’overruling e l’affidamento incolpevole del litigante (in termini, Trib. Varese, 8 ottobre 2010). Alla luce di siffatte considerazioni e stante l’evidente condizione di affidamento incolpevole dell’opponente, ingenerato da un pronunciamento delle Sezioni Unite – peraltro non sorto dalla necessità di comporre un contrasto giurisprudenziale – del tutto opposto rispetto al consolidato orientamento tradizionale, può quindi procedersi allo scrutinio dei motivi di merito adombrati nell’opposizione. Secondo la giurisprudenza, la conferma o meno del decreto ingiuntivo è collegata nel giudizio di opposizione non tanto ad un giudizio di legalità e di controllo riferito esclusivamente al momento della sua emanazione, quanto piuttosto ad un giudizio di piena cognizione in ordine all’esistenza e alla validità del credito posto a base della domanda di ingiunzione (così Cass. Civ., Sez. I, 17 giugno 1999, n. 5984). Nella vicenda in esame, va in primo luogo data per pacifica l’esistenza del contratto di fornitura fra le parti, sia in ragione delle deduzioni delle parti, sia in ragione di mancate specifiche contestazioni sul punto (rectius, di vere e proprie ammissioni); ciò acquista peraltro uno specifico rilievo ai sensi del novellato art. 115 c.p.c.; cfr. sul punto Trib. Piacenza, 2 febbraio 2010, secondo cui “il principio di non contestazione ora introdotto legislativamente, aveva in realtà già da diversi anni trovato cittadinanza nell’ordinamento, in virtù di un’interpretazione sistematica ormai consolidata da parte della Suprema Corte. Pertanto, l’intervento legislativo del 2009, in parte qua, non può essere ricostruito come una vera e propria modifica normativa, ma piuttosto come una mera ricognizione di un precetto già sancito in via interpretativa sulla base del dato normativo pregresso”. Quaderni

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Tale conclusione si impone altresì sulla base delle deduzioni dell’opponente, in ragione del costante orientamento giurisprudenziale secondo cui la parte convenuta in giudizio per il pagamento di una somma di denaro (nel caso di specie l’opponente, che è convenuto in senso sostanziale) che si limiti a contestare la condotta inadempiente di controparte, sia pur implicitamente, ammette l’esistenza del rapporto su cui si fonda la pretesa creditoria di parte opposta, che è conseguentemente sollevata dall’onere della relativa prova, incombendo sul convenuto il compito di dimostrare il proprio assunto difensivo, in base al principio per cui chi eccepisce l’estinzione del diritto fatto valere nei suoi confronti deve provare il fatto su cui l’eccezione si fonda (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 26 gennaio 2005, n. 1554); nel caso in esame, deducendo l’esistenza di una decurtazione del corrispettivo pattuito, di fatto l’opponente finisce per confermare la sussistenza del rapporto contrattuale nei termini esposti dalla società opposta. In via preliminare, va disattesa l’eccezione d’incompetenza per territorio avanzata dall’opponente giacché, secondo il disposto dell’artt. 20 c.p.c., “è anche competente il giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione dedotta in giudizio”, il che radica la competenza del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi in quanto tale obbligazione va adempiuta al domicilio del creditore in Lacedonia, ex art. 1182 c.c. (cfr. Cass. Civ., sez. III, 30-10-2007, n. 22941; Cass. Civ., sez. III, 14-10-2005, n. 19958; Cass. Civ., sez. III, 15-07-2005, n. 15012; Cass. Civ., sez. III, 30-04-2005, n. 9013; Cass. Civ., sez. III, 13-04-2005, n. 7674), trattandosi peraltro di somma determinata nel suo ammontare (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 24 ottobre 2007, n. 22326) ed alla luce del principio secondo cui, “in tema di competenza territoriale, per «obbligazione dedotta in giudizio», ai sensi dell’art. 20 c.p.c., deve intendersi, in caso di inadempimento, l’obbligazione originaria rimasta inadempiuta o inesattamente adempiuta” (Cass. Civ., Sez. III, 15 luglio 2005, n. 15012).

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Peraltro, sulla scorta dei fax prodotti in giudizio dalla società opposta, che provano il ruolo di soggetto proponente dalla stessa effettivamente rivestito e smentiscono l’assunto di controparte – peraltro indimostrato – quale soggetto proponente, deve ritenersi che il contratto de quo sia stato concluso presso la sede amministrativa di Lacedonia, dal momento che (Cass. Civ., Sez. II, 14 luglio 2009, n. 16417) “nei contratti conclusi per telefono, luogo della conclusione è quello in cui l’accettazione giunge a conoscenza del proponente ed in cui questi, attraverso il filo telefonico, ha immediata e diretta conoscenza dell’accettazione; ne consegue che nel predetto luogo si radica il primo dei fori alternativi previsti dall’art. 20 c.p.c.”. Nel merito l’opponente, con un unico motivo di opposizione, ha dedotto che per le prestazioni oggetto delle fatture azionate in via monitoria era stata pattuita telefonicamente una decurtazione del 20 per 100 sul totale. Tale deduzione – prescindendo da ogni considerazione in merito alle conseguenze potenzialmente scaturenti in punto di diritto – è rimasta nondimeno sfornita di qualsivoglia sostegno probatorio, avendo parte opponente, all’udienza del 17.2.2010, rinunciato all’escussione del teste ammesso e chiesto la precisazione delle conclusioni, con rinuncia accettata da controparte ed acconsentita dal Giudice (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 6 settembre 2007, n. 18688: “In tema di istruzione probatoria nel rito ordinario, spetta alla parte attivarsi per l’espletamento del richiesto mezzo istruttorio che il giudice abbia ammesso; sicché, ove la parte rimanga inattiva, chiedendo la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni senza più instare per l’espletamento del mezzo di prova, è presumibile che abbia rinunciato alla prova stessa”; Cass. Civ., Sez. II, 19 agosto 2002, n. 12241: “Qualora la parte che abbia indicato un teste richieda la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, la stessa manifesta con tale inequivoco comportamento la sua volontà di rinunciare all’audizione del teste stesso e se la controparte aderisce alla Quaderni

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richiesta di remissione della causa al collegio in sostanza accede alla rinuncia al teste; tale rinuncia acquista poi efficacia per effetto del consenso del giudice implicitamente espresso con il provvedimento di chiusura dell’istruttoria e di remissione della causa in decisione”). Né l’invocato regime dei debiti fuori bilancio, involgendo problematiche interne all’Ente comunale, può spiegare alcuna efficacia nell’ambito del rapporto contrattuale con la società opposta, laddove invece – e non pare ultroneo evidenziarlo – altra fattura estranea al presente giudizio (ma afferente al medesimo rapporto) era stata regolarmente saldata dal Comune opponente, senza invocare alcuna decurtazione. La società opposta pertanto, a mezzo delle succitate produzioni documentali, ha fornito la piena prova dell’adempimento dell’obbligazione di cui al non contestato contratto di noleggio di autocompattatori adibiti al contenimento di rifiuti, laddove l’opponente non ha documentato le proprie affermazioni difensive, limitandosi a contestazioni vaghe e generiche, oltre che sfornite di qualsiasi supporto argomentativo. Orbene, poiché è comune insegnamento giurisprudenziale che l’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario e autonomo giudizio di cognizione, esteso all’esame non solo delle condizioni di ammissibilità e validità del procedimento monitorio ma anche della fondatezza della domanda del creditore in base a tutti gli elementi offerti dal medesimo e contrastati dall’ingiunto (cfr. Cass. Civ., sez. III, 10 marzo 2009, n. 5754; Cass. Civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1184), nel caso in esame la società opposta ha fornito la piena prova del rapporto contrattuale sottostante, dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in sede monitoria, oltre che della corretta esecuzione della propria prestazione e dell’ammontare del credito. Alla luce delle suesposte considerazioni, l’opposizione va quindi disattesa. Il decreto ingiuntivo acquista efficacia esecutiva ex art. 653 c.p.c.

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Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 1 febbraio 2007, n. 2217: “Il procedimento che si apre con la presentazione del ricorso e si chiude con la notifica del decreto di ingiunzione non costituisce un processo autonomo rispetto a quello aperto dall’opposizione, ma dà luogo a una fase di un unico giudizio, in rapporto al quale funge da atto introduttivo, in cui è contenuta la proposizione della domanda, il ricorso presentato per chiedere il decreto di ingiunzione; perciò, il giudice che con la sentenza chiude il giudizio davanti a sé, deve pronunciare sul diritto al rimborso delle spese sopportate lungo tutto l’arco del procedimento e tenendo in considerazione l’esito finale della lite”). Va conclusivamente evidenziato in proposito che il rimborso c.d. forfetario delle spese generali costituisce una componente delle spese giudiziali, la cui misura è predeterminata dalla legge, che spetta automaticamente al professionista difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza, dovendosi, quest’ultima, ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte soccombente (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 22 febbraio 2010, n. 4209). P.Q.M. Il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, in composizione monocratica, in persona del Giudice unico dott. Luigi Levita, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa, così provvede: • rigetta l’opposizione e conferma il decreto ingiuntivo n. 174/2005 emesso dal Presidente del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi in data 25.10.2005, che acquista efficacia esecutiva; • condanna l’opponente al pagamento delle spese processuali in favore dell’opposta, che liquida in euro 2.000,00 per onoQuaderni

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rari ed euro 1.300,00 per diritti, oltre rimborso forfetario per spese generali, IVA e CPA come per legge. Così deciso in Sant’Angelo dei Lombardi, in data 20 ottobre 2010. Il Giudice dott. Luigi Levita Depositata in Cancelleria il 20 ottobre 2010.

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Tribunale di Macerata Sezione distaccata di Civitanova Marche

Sentenza 22 ottobre 2010 L’opponente allega l’inesistenza del debito, in quanto tutte le forniture oggetto delle numerose fatture azionate in monitorio sarebbero state già integralmente pagate attraverso il rilascio di assegni. Precisa in particolare l’ingiunta che il pagamento aveva generalmente luogo in contrassegno, ovvero i titoli con scadenza a 90 gg venivano consegnati al momento del ricevimento della merce direttamente nelle mani del corriere. Alcune volte capitava invece, soprattutto quando le fatture erano riferite a forniture di importi ridotti, che il contrassegno venisse annullato ed il pagamento accorpato a quello di altre fatture relative a forniture più consistenti. Si costituiva l’opposta preliminarmente eccependo la nullità dell’atto di citazione in quanto la trasmissione dell’atto tramite mezzi di comunicazione non era avvenuta in conformità alla l. 183/93, siccome l’avvocato ricevente non è munito di procura alle liti ma è mero domiciliatario. Nel merito deduce che alcuni assegni (specificamente indicati) citati dall’opponente non sono mai stati incassati e che gli altri pagamenti si riferiscono a diversi crediti, come emerge dalla evidente discrepanza tra le date e gli importi in essi riportati e quelli recati dalle fatture oggetto della presente causa. Con le note difensive finali l’opposta deduce altresì l’improcedibilità dell’opposizione per tardività nella costituzione dell’opponente, secondo il dictum della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite 19246/2010. L’opposizione è parzialmente fondata, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione. L’atto di citazione non è nullo, come deduce l’opposta, atteso che Quaderni

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con riferimento alla disciplina relativa all’utilizzazione dei mezzi di telecomunicazione tra avvocati per la trasmissione di atti processuali, il conferimento della procura all’avvocato ricevente è prescritta dall’art. 1 l. 7 giugno 1993 n. 183, non ai fini dell’esistenza o della validità dell’atto, ma della possibilità di considerare la copia ricevuta come conforme all’originale inviato con mezzo telematico, con la conseguenza che la mancanza di tale requisito ha rilievo solo nel caso in cui detta conformità venga posta in discussione, ciò che non è dato riscontrare nel caso di specie. (cfr. Cassazione civile, sez. II, 11 marzo 2009, n. 5883; Cass. Civ. 17304/2006). Si osserva inoltre che per effetto dell’art. 1, comma 1, l. 7 giugno 1993 n. – che disciplina l’utilizzazione dei mezzi di telecomunicazione tra avvocati della stessa parte per la trasmissione degli atti relativi a provvedimenti giurisdizionali – nella presunzione, “iuris et de iure”, stabilita dall’art. 2719 c.c., prima parte, di conformità all’originale della fotocopia di un atto, se attestata da pubblico ufficiale, rientrano gli atti del processo trasmessi a distanza da un avvocato all’altro, se: a) l’avvocato trasmittente attesti la conformità della copia all’originale; b) sia l’avvocato trasmittente sia quello ricevente siano, congiuntamente o disgiuntamente, difensori della parte; c) l’avvocato trasmittente abbia sottoscritto in modo leggibile l’atto trasmesso e, se con lo stesso è conferita la procura alle liti, anche la sottoscrizione della parte sia leggibile. In mancanza di tali requisiti la fotocopia dell’atto del processo può tuttavia presumersi conforme all’originale per effetto dell’ultima parte dell’art. 2719 c.c. se nel termine indicato dall’art. 215 n. 2 c.p.c. non è stata disconosciuta (Cassazione civile, sez. II, 17 maggio 2004, n. 9323; Cassazione civile, sez. II, 15 marzo 2010, n. 6237). Come emerge evidente dalla lettura della comparsa di costituzione, tale tempestivo disconoscimento non è avvenuto, avendo (infondatamente) sollevato la convenuta la (diversa) eccezione di nullità dell’atto, asseritamente inidoneo a costituire un valido rapporto processuale.

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Neppure l’eccezione di improcedibilità può essere accolta. Si premette che essa non è soggetta a termini di decadenza potendo essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo. Va altresì precisato che è da rigettare la tesi secondo cui il dictum della sentenza citata sarebbe applicabile solo per il futuro, alla stregua delle norme di legge, atteso che è principio cardine del nostro ordinamento quello secondo cui l’attività giurisdizionale ha natura meramente interpretativa, con la conseguente ed ineliminabile efficacia retroattiva propria di ogni operazione ermeneutica. Operate tali fondamentali premesse, va tuttavia rilevato che l’interpretazione sposata dalla Sentenza delle Sezioni Unite sovverte un costante e pressoché unanime orientamento contrario, che si era consolidato nel tempo quale diritto vivente ed a cui la prassi forense si era conformata. Vi sono pertanto ampi margini per l’attivazione dell’istituto della rimessione in termini, atteso che il mutamento della giurisprudenza che intervenga su di un orientamento consolidato integra senza dubbio la causa non imputabile richiesta dall’art. 184 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla presente controversia (cfr. Cassazione Civile, Sezione II, Ordinanza n. 15811 del 02.07.2010). Né è di ostacolo la collocazione di tale norma nella sezione del codice di rito dedicata alla trattazione: questo giudice infatti ritiene che la modifica intervenuta con la l. 69/ 2009 sul codice di procedura civile ed in particolare l’introduzione del secondo comma dell’art. 153 e la contestuale abrogazione dell’art. 184 bis c.p.c. non abbia soltanto un effetto innovativo, ma ridondi anche un’efficacia interpretativa sullo stesso art. 184 bis c.p.c., nel senso che occorre ritenere che il Legislatore con tale modifica abbia inteso disattendere l’impostazione della pregressa giurisprudenza maggioritaria secondo cui l’istituto della rimessione in termini poteva trovare applicazione solo con riferimento agli atti di istruzione e opinare al contrario che esso esprima una direttiva di sistema. Va sottolineato, infatti, che il ridetto istituto costituisce una delle declinazioni del principio fondamentale Quaderni

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del giusto processo e del diritto di difesa, come espressi dagli artt. 24 e 111 cost., dall’art. 6 CEDU (ormai comunitarizzata) e dalla costante giurisprudenza della CGE. Si aggiunge che, proprio in virtù dei predetti principi, compendiati da quello di ragionevole durata che ne costituisce un corollario, non occorre ripetere tutta l’attività processuale successiva alla costituzione dell’opponente (atto per cui lo stesso viene rimesso in termini), stante l’assenza di qualsivoglia profilo in cui possa ravvvisarsi la lesione del contraddittorio o del diritto di difesa dell’opposto. Venendo al merito della controversia, si premette che, in linea generale, quando il convenuto per il pagamento di un debito dimostri di aver corrisposto una somma di denaro idonea all’estinzione del medesimo, spetta al creditore, il quale sostenga che il pagamento sia da imputare all’estinzione di un debito diverso, provare di quest’ultimo l’esistenza, nonché le condizioni necessarie per la dedotta diversa imputazione, non trova applicazione nel caso in cui il debitore eccepisca l’estinzione del debito per effetto dell’emissione di un assegno bancario negoziato in favore del creditore prenditore o di una cambiale atteso che, implicando tale emissione (o girata) la presunzione di un rapporto fondamentale idoneo a giustificare la nascita di un’obbligazione cartolare, resta a carico del debitore convenuto l’onere di superare tale presunzione, dimostrando il collegamento tra il precedente debito azionato ed il successivo debito cartolare, con la conseguente estinzione del primo per effetto del pagamento delle cambiali. (Cassazione civile, sez. III, 18 ottobre 2005, n. 20134; Cass. Civ. 9784/1997; Cass. Civ. 1121/1985). Nel caso di specie si rileva innanzi tutto che con riferimento agli assegni n. ……. tratti sulla Banca …. l’opponente non ha neppure fornito la prova di aver corrisposto i relativi importi, risultando i predetti titoli non incassati (in tal senso milita la produzione documentale in originale dei titoli effettuata dall’opposta, le risultanze dell’ordine di esibizione e la non contestazione specifica sul punto

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da parte dell’opponente). Di tal che tutte le fatture correlate dalla stessa opponente all’emissione dei predetti titoli vanno senz’altro ritenute non pagate (nn… Con riguardo alle altre fatture si ritiene che in linea generale l’opponente non abbia fornito la prova, su di essa incombente, che la corresponsione degli altri titoli fossero collegati all’estinzione dei crediti azionati dall’opposta con l’ingiunzione di pagamento, in quanto è manifesta la discrepanza tra le somme oggetto dei titoli e gli importi dovuti per le fatture cui l’opponente pretenderebbe di imputarli e tra le date di scadenza delle fatture e quella di emissione e/o negoziazione dei titoli. A tali conclusioni, tuttavia, non può pervenirsi con riferimento ad alcuni dei titoli in oggetto, che si andranno analiticamente ad indicare, in ordine ai quali è stata raggiunta la prova del collegamento con alcune delle fatture oggetto del decreto ingiuntivo, per le quali pertanto il pagamento si ritiene già effettuato. L’assegno n. … del ..2005 dell’importo di € 4.236,48 corrisponde alla fattura n. … di € 4.236,48, con scadenza il ..2005. L’assegno n. … del ..2005 dell’importo di € 2.645,84 corrisponde alla fattura n. …. di € 2.078,53 con scadenza ..2005. Tale imputazione non risulta peraltro neppure contestata dall’opposta, che pure in comparsa di costituzione redige un analitico e specifico elenco di contestazioni. L’assegno n. .. del ..2005 dell’importo di € 1.432,80 corrisponde alla fattura n. …/05 di € 1.432,80, con scadenza il ….2005. L’assegno n. … del 30.2005 dell’importo di € 3.703,81 corrisponde alla fattura n. …/05 di € 3.703,81, con scadenza il ..2005. L’assegno n. … del …2006 dell’importo di € 1.392,00 corrisponde alla fattura n. …./06 di € 850,90, con scadenza il …2006. In tal caso la corrispondenza si ritiene provata, oltre che dalla coincidenza delle date, in virtù della produzione da parte dell’opponente del DDT relativo alla merce di cui alla fattura, da cui risulta espressamente la Quaderni

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modalità in contrassegno del pagamento. L’assegno n. …. del …2006 dell’importo di € 1.094,40 corrisponde esattamente agli importi e agli interessi delle fatture n. …/06, con scadenza il …2006, n. …/06, con scadenza il ...2006 e n. …/06 con scadenza il ..2006. L’importo complessivo dovuto dall’opponente ammonta conclusivamente ad € 33.254,81 oltre agli interessi nella misura stabilita dall’art. 5 D.lgs 231/2002, dalla scadenza delle singole fatture per cui è dovuto il pagamento, fino al saldo effettivo. Le spese di lite seguono la soccombenza sostanziale dell’opponente. P.Q.M. Il Tribunale di Macerata, sezione distaccata di Civitanova Marche, definitivamente pronunciando nella causa promossa come in narrativa, disattesa ogni diversa domanda, istanza, deduzione ed eccezione, così decide: 1) revoca il decreto ingiuntivo n…./08 emesso il ….2008 dal Tribunale di Macerata, Sezione Distaccata di Civitanova Marche; 2) condanna …. s.a.s. di … & C. in liquidazione al pagamento in favore di …. s.p.a., in persona del legale rappresentante, della somma di € 33.254,81, oltre agli interessi nella misura stabilita dall’art. 5 D. lgs 231/02 dalla scadenza delle singole fatture fino al saldo effettivo; 3) condanna … s.a.s. di … & C. in liquidazione alla rifusione in favore di … s.p.a., in persona del legale rappresentante, delle spese di lite, che liquida in complessivi € 2.109,00 di cui € 809,00 per diritti ed € 1.300,00 per onorari, oltre rimborso forfetario per spese generali, CPA e IVA, se dovuta, come per legge. Così deciso in Civitanova Marche il 22 ottobre 2010. Il Giudice Corrado Ascoli

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Tribunale di Belluno

Sentenza 30 ottobre 2010 Oggetto: appalto (opposizione a decreto ingiuntivo) C.F., con l’avv. ** contro C.C., con l’avv. ** Il giudice, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 14.10.2010, osserva quanto segue. Il convenuto opposto ha eccepito preliminarmente l’improcedibilità dell’opposizione in conseguenza della tardiva costituzione dell’opponente, perché avvenuta oltre il termine di cinque giorni previsto dal combinato disposto degli art. 165 e 645, 2° comma, c.p.c, ritenuto applicabile a tutti i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo indipendentemente dall’effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 19246 del 9 settembre 2010, la quale ha ritenuto che “esigenze di natura sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà”. Va innanzitutto osservato che la citata pronuncia delle Sezioni Unite ha ad oggetto una fattispecie in cui il tribunale ha dichiarato improcedibile l’opposizione avverso un decreto ingiuntivo “in quanto l’opponente, pur avendo assegnato all’opposto un termine a comparire inferiore ai 60 giorni, si è costituito oltre il termine di Quaderni

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cinque giorni dalla notifica della citazione”, e la Corte d’appello ha confermato la decisione di primo grado richiamando l’orientamento della Cassazione “secondo il quale l’abbreviazione del termine di costituzione per l’opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a 60 giorni, risultando del tutto irrilevante che la concessione dello stesso sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo”. Così individuata la fattispecie sottoposta all’esame della Corte di Cassazione, la Prima Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite ritenendo che “non risponde alla sistematica del codice di rito che la disciplina dei termini di un procedimento possa discendere dalla scelta di una delle parti del giudizio, al di fuori di ogni controllo da parte del giudice”, ed ha osservato che “se fosse vero l’assunto della esistenza di un principio di adeguamento dei termini di costituzione a quelli di comparizione la riduzione dei termini di costituzione dovrebbe operare sempre e comunque nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, perché la formulazione dell’art. 645, comma 2, c.p.c. non consentirebbe alcuna discrezionalità” (la Prima Sezione ha quindi prospettato la soluzione interpretativa opposta a quella che costituisce l’esito della successiva decisione del Supremo Collegio). Le Sezioni Unite della Cassazione – nel rilevare che “le ragioni addotte dal ricorrente, in parte recepite e sviluppate nell’ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, non sono idonee a giustificare un mutamento del costante orientamento della Corte” – hanno innanzitutto ribadito che “l’abbreviazione del termine di costituzione per l’opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, essendo irrilevante che la fissazione di tale termine sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo”. Poiché nel caso esaminato dalla Cassazione l’opponente aveva ef-

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fettivamente assegnato all’opposto un termine a comparire inferiore a quello ordinario, l’enunciazione di questo principio, conforme all’orientamento consolidato dalla giurisprudenza di legittimità, è di per sé sufficiente a giustificare la conferma della declaratoria di improcedibilità dell’opposizione per tardiva costituzione dell’opponente. Deve quindi ritenersi che l’ulteriore “puntualizzazione” svolta delle Sezioni Unite – secondo cui “non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta” – rappresenti un mero obiter dictum che, sebbene ampiamente motivato, costituisce un’affermazione eccedente la necessitò logico-giuridica della decisione (cfr. Cass. 8.10.1997 n. 9775, Cass. 31.8.2005 n. 17568), ed è quindi privo dell’efficacia di precedente (ancorché soltanto persuasivo, come avviene negli ordinamenti di civil law), in quanto non funzionale alla ratio decidendi, intesa come regola di diritto strettamente connessa alla fattispecie concreta, che costituisce il fondamento logico-giuridico necessario per risolvere la controversia. Tale obìter – qualificato dalla dottrina come “ratio decidendi non necessaria” – può infatti essere espunto dalla motivazione, senza privarla della regola su cui essa si fonda, perché afferma un principio, estraneo al percorso argomentativo, il cui ambito di applicazione è più ampio di quello della norma che attiene ai fatti rilevanti del caso (ove era stato effettivamente assegnato un termine di comparizione inferiore a quello ordinario), e configura soltanto l’anticipazione della possibile (futura) soluzione di un caso ipotetico (in cui sia assegnato un termine di comparizione non inferiore a quello ordinario) diverso da quello in esame. Sul punto la dottrina ha chiarito che soltanto il riferimento diretQuaderni

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to agli specifici fatti di causa rende possibile l’individuazione dell’effettiva ragione giuridica della decisione, la sola ratio che può assumere efficacia di precedente, mentre gli obiter dieta non hanno alcuna efficacia e non possono essere invocati come precedente nella soluzione dei casi successivi proprio in quanto non hanno determinato la decisione del caso anteriore. La sentenza n. 19246 del 9 settembre 2010 delle Sezioni Unite ha applicato alla fattispecie concreta – in cui l’opponente, costituito oltre il termine di cinque giorni dalla notifica della citazione, aveva assegnato all’opposto un termine a comparire inferiore a quello ordinario – il principio, conforme all’orientamento consolidato, secondo cui “i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale”, superando i dubbi della Prima sezione sulla coerenza della riduzione dei termini di costituzione, quale conseguenza della riduzione dei termini di comparizione, rispetto alla finalità di accelerare la definizione del giudizio di opposizione. La Corte non ha annullato con rinvio né ha enunciato il principio di diritto ai sensi dell’art. 384, 2° comma, c.p.c, ma ha invece rigettato il ricorso proposto avverso la sentenza di conferma della dichiarazione di improcedibilità dell’opposizione, in quanto “le ragioni addotte dal ricorrente, in parte recepite e sviluppate nell’ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, non sono idonee a giustificare un mutamento del costante orientamento della Corte” (cfr. § 2 della sentenza). è in questa prospettiva che sembra doversi inquadrare il problema dell’efficacia della richiamata “puntualizzazione”, che non trova precedenti nella giurisdizione della Corte di Cassazione – la quale, a parte un’isolata decisione (v. Cass. 10.1.1955 n. 8, secondo cui “l’art. 645 c.p.c., nel testo modificato dalla legge del 1950, dispone per l’opposizione a decreto ingiuntivo la riduzione a metà dei soli termini per la comparizione stabiliti dall’art. 163 bis, non anche dei

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termini per la costituzione delle parti”) ha costantemente affermato che solo quando l’opponente si sia effettivamente avvalso (anche se per errore) della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario il termine per la sua costituzione è automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione, pari alla metà del termine di costituzione ordinario (cfr. Cass. 15.3.2001 n. 3752, Cass. 29.9.2002 n. 14017, Cass. 4.9.2004 n. 17915, Cass. 1.9.2006 n. 18942, Cass. 18.5.2009 n. 11436). Le diverse soluzioni proposte dai giudici di merito per fronteggiare le immediate conseguenze della ritenuta applicabilità del nuovo principio ai giudizi instaurati prima della data di deposito della sentenza delle Sezioni Unite (9 settembre 2010) – ad es. la rimessione in termini d’ufficio (v. Trib. Torino 11.10.2010, Trib. Milano 13.10.2010, Trib. Pavia 14.10.2010) o irretroattività del ed. overruling (cfr. Trib. Varese 8.10.2010) per il mutamento dell’orientamento costante (v. Cass. 17.6.2010 n. 14627 e Cass. 2.7.2010 n. 15811) – non appaiono dunque aderenti alla questione, perché sottintendono e presuppongono l’immediata efficacia di un’opzione interpretativa che non sembra invece costituire un precedente (cui il giudice non è comunque tenuto ad uniformarsi, ove possa addurre ragioni idonee a giustificare l’adozione di una diversa regola di giudizio: v. Cass. 3.12.1983 n. 7248), tale da poter scalfire il principio di predeterminazione delle regole del processo, ora sancito dall’art. 111 Cost. è peraltro evidente che la parte insoddisfatta della soluzione così prospettata (vale a dire il convenuto opposto, che intenda far dichiarare l’improcedibilità dell’opposizione) avrà interesse a riproporre l’eccezione in sede d’impugnazione; tuttavia, se si procedesse all’immediata dichiarazione di improcedibilità si affronterebbe il rischio, ben più grave, di far gravare sul giudice d’appello, che non condivida la decisione, lo svolgimento dell’attività istruttoria omessa in primo grado. Quaderni

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Poiché nel momento, a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite, le cause di opposizione a decreto ingiuntivo (in cui l’opponente si sia costituito oltre il termine di cinque giorni) sono esposte alla probabile impugnazione della parte soccombente sulla questione dell’improcedibilità, il dubbio interpretativo che è all’origine di tale situazione potrà essere risolto se la Corte di Cassazione, esaminando la specifica questione, confermerà (o meno) il nuovo orientamento preannunciato nella sentenza n. 19246/2010, precisandone l’effettiva portata e l’ambito di applicazione temporale, in particolare chiarendo se esso debba applicarsi anche alle cause già pendenti. Nel caso sottoposto all’esame di questo tribunale – poiché l’atto di citazione in opposizione è stato notificato in data 20.4.2010, con fissazione della prima udienza del 12.10.2010, e quindi con assegnazione di un termine a comparire superiore a quello ordinario – la costituzione dell’opponente, avvenuta il 30.4.2010, appare tempestiva, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (come tale rilevante a norma dell’art. 360 bis n. 1 c.p.c.), che ha superato anche il vaglio di costituzionalità (cfr. C. Cost. 8.2.2008, n. 18, C. Cost. 12.12.2008 n. 407, C. Cost. 22.7.2009 n. 230, C. Cost. 6.5.2010 n. 163). L’eccezione di improcedibilità dell’opposizione può pertanto essere decisa unitamente al merito, ai sensi dell’art. 187, 3° comma, c.p.c.. P.Q.M. dispone che la questione di improcedibilità dell’opposizione sia decisa unitamente al merito; rinvia la causa all’udienza del 18.11.2010 alle ore 9.30 per l’assegnazione dei termini di cui all’art. 183, 6° comma, c.p.c. Si comunichi. Belluno, 30.10.2010 Il Giudice U. Giacomelli

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Tribunale di Milano Sezione I

Sentenza 3 novembre 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Giudice Istruttore del Tribunale di Milano dott. Patrizio Gattari in funzione di giudice monocratico, all’esito della discussione orale e sulle conclusioni precisate nel verbale che precede, pronuncia a norma e nelle forme dell’art. 281 sexies c.p.c. la seguente sentenza nella causa civile iscritta al n. 27550/2009 R.G. Cont. promossa da XXX in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliato in Milano, via XXX, presso e nello studio dell’avv. Riccardo Maria Zanchetta, che lo rappresenta e difende per delega in atti unitamente all’avv. Salvatore Italia del foro di Roma attore/opponente contro YYY convenuto opposto/contumace oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo - pagamento corrispettivo. RAGIONI DELLA DECISIONE L’opponente ha notificato il 3/4/2009 l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo (notificatogli il 24/2/2009), citando la controparte (convenuto formale) a comparire per l’udienza del 20/7/2009 (poi differita ex art. 168 bis comma 5 c.p.c. all’1/12/2009). L’opponente si è poi costituito in giudizio il 14/4/2009 – come risulta dalla nota di iscrizione a ruolo depositata in cancelleria in tale Quaderni

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data – entro dieci giorni dalla notifica dell’atto introduttivo essendo festivo lunedì 13 Aprile 2009, mentre l’opposto non ha ritenuto di costituirsi ed è stato dichiarato contumace. L’opposizione è stata dunque tempestivamente proposta nei quaranta giorni dalla notifica del decreto ingiuntivo (art. 641 comma 1 c.p.c.). Contrariamente a quanto recentemente affermato dalla Suprema Corte, la costituzione dell’opponente avvenuta nel termine di dieci giorni dalla notificazione dell’atto introduttivo va ritenuta tempestiva. Secondo la recente sentenza della Cassazione a Sezione Unite del 9/9/2010 n. 19246, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, per il solo fatto che l’opposizione viene proposta e che il termine di comparizione è ridotto alla metà a norma dell’art. 645 c.p.c., i termini di costituzione delle parti sono automaticamente ridotti alla metà. Ne deriva che l’opponente, secondo l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte nella citata pronuncia, sarebbe sempre tenuto a costituirsi entro cinque giorni dalla notificazione dell’opposizione, per non incorrere nell’improcedibilità dell’opposizione conseguente alla (mancata o) tardiva costituzione in giudizio ex art. 647 c.p.c. Dopo aver richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il termine di costituzione dell’opponente si riduce a cinque giorni dalla notifica dell’opposizione qualora – volontariamente o per mero errore è ininfluente – abbia concesso alla controparte un termine a comparire “ridotto” ex art. 645 c.p.c. (vd, fra le altre, Cass. 1/9/2006 n. 18942; Cass. 15/3/2001 n. 3752; Cass. 30/3/1998 n. 3316), i giudici di legittimità hanno ritenuto di “puntualizzare” (con un “obiter”) che il termine di costituzione delle parti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è sempre automaticamente ridotto alla metà per effetto della riduzione del termine di comparizione prevista dall’art. 645 c.p.c. ed a prescindere dal fatto che in concreto l’opponente (attore formale) abbia citato l’opposto (formalmente

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convenuto) concedendogli il termine minimo di 45 giorni liberi o un termine superiore a quello ordinario (di novanta giorni). Qualora il principio di diritto affermato dalla Cassazione a Sezioni Unite fosse ritenuto applicabile a tutti i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo precedentemente introdotti, ne deriverebbe che andrebbero dichiarate improcedibili – anche d’ufficio e in ogni stato e grado del giudizio, trattandosi di una condizione di procedibilità dell’opposizione – per tardiva costituzione dell’opponente ex art. 647 c.p.c. tutte le opposizioni in cui tale parte si sia costituita dopo il quinto giorno dalla notifica dell’atto introduttivo ed anche nelle cause in cui il termine a comparire concretamente concesso all’opposto sia stato quello “legale” di novanta giorni e non quello “ridotto” ex art. 645 c.p.c. come nel caso di specie. Le conseguenze “dirompenti” che da tale inattesa e imprevista “virata” giurisprudenziale – l’unico precedente in contrasto con l’orientamento costante per oltre mezzo secolo della Cassazione risale al 1955, come ricordato dalle stesse Sezioni Unite – potrebbero derivare sui giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo pendenti (magari già in grado di appello o davanti alla stessa Cassazione) hanno scatenato da un lato viva preoccupazione negli avvocati civilisti (scarsamente inclini ad accettare decisioni “a sorpresa” e a vivere il processo come un “gioco” in cui le regole possono cambiare anche a partita in corso, al punto da sollecitare un intervento legislativo sul punto che ristabilisca certezza) e dall’altro il pronunciamento di taluni giudici di merito contrari a ritenere applicabile il principio di diritto enunciato dalla Cassazione ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo già pendenti. L’enunciato della Suprema Corte – peraltro come detto contenuto in un “obiter” – non può ritenersi applicabile ai giudizi di opposizione introdotti prima del 9/9/2010 e, peraltro, non pare neppure del tutto condivisibile. Giova richiamare quanto affermato dalla stessa Cassazione in Quaderni

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recenti pronunce, secondo le quali “alla luce del principio costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, incorre in errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ai sensi dell’art. 184-bis cod. proc. civ., “ratione temporis” applicabile, anche in assenza di un’istanza di parte, se, esclusivamente a causa del predetto mutamento, si sia determinato un vizio d’inammissibilità od improcedibilità dell’impugnazione dovuto alla diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell’orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso” (Cass. ord. 17/6/2010 n. 14627; conf. Cass. ord. 2/7/2010 n. 15809). Tali pronunce emesse dalla giurisprudenza con riferimento ad un vizio di inammissibilità/improcedibilità del ricorso per cassazione si fondano su principi di diritto che ben possono ritenersi applicabili al caso di specie. A fronte del consolidato orientamento giurisprudenziale anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 19246 del 2010, allorché l’opponente abbia citato in giudizio la controparte prima del 9/9/2010 concedendogli un termine a comparire uguale o superiore a quello ordinario previsto dal comma 1 dell’art. 163 bis c.p.c., e si sia poi costituito ritualmente entro dieci giorni dalla notificazione dell’opposizione, non può ritenersi “tardiva” la sua costituzione in giudizio (e improcedibile l’opposizione ex art. 647 c.p.c.) avvenuta oltre il quinto giorno dalla notifica dell’opposizione. L’attore/opponente ha, infatti, svolto la sua attività difensiva nella fase introduttiva del giudizio di opposizione conformemente alla costante interpretazione delle norme processuali sino ad allora fornita dalla giurisprudenza di legittimità – contraddetta solo dal sopravvenuto e imprevedibile mutamento di indirizzo giurisprudenziale – e l’(asserito) errore in cui la parte sarebbe incorsa per effetto del “revirement” giurisprudenziale deve ritenersi scusabile e non può aver determinato conseguenze pregiudizievoli alla legittima

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domanda di giustizia in precedenza avanzata, nel pieno rispetto della concorde interpretazione delle norme processuali data all’epoca. Il c.d. “overruling”, provocato dal sopravvenuto orientamento della Cassazione, non può dunque comportare per la parte che si è conformata al precedente costante indirizzo giurisprudenziale un vizio di inammissibilità e/o di improcedibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo, pena la violazione del principio del giusto processo consacrato nell’art. 111 della Costituzione. Peraltro, ove pure in ipotesi non si volesse ritenere utilmente applicabile (come pure sostenuto in dottrina) nel caso di specie l’istituto della rimessione in termini ex art. 184 bis c.p.c. – o ex art. 153 c.p.c. per i giudizi introdotti fra il 4 Luglio 2009 e il 9 Settembre 2010 – per affermare che la pronuncia delle Sezioni Unite è ininfluente sulla procedibilità delle opposizioni a decreto ingiuntivo già pendenti e nelle quali l’attore/opponente si è costituito nei dieci giorni dalla notifica dell’opposizione dopo aver concesso al convenuto/opposto un termine a comparire non ridotto ex art. 645 c.p.c., non mancano argomenti per discostarsi dalla recente decisione della Cassazione. A seguito della novella del 1950, l’art. 645 comma 2 c.p.c. si limita, infatti, ad affermare che “in seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito; ma i termini di comparizione sono ridotti a metà” e nulla prevede in merito ai termini di costituzione in giudizio delle parti. In mancanza di una disciplina speciale contenuta nel capo I del libro IV del codice di rito, nel giudizio di opposizione davanti al tribunale per la costituzione delle parti non può dunque che trovare applicazione il disposto degli artt. 165 e 166 c.p.c. Per la costituzione dell’opponente – il quale nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo assume la veste sostanziale di convenuto ma formalmente è attore – deve farsi riferimento all’art. 165 c.p.c., in base al quale “l’attore entro dieci giorni dalla notificazione della citazione al convenuto ovvero entro cinque giorni nel caso di Quaderni

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abbreviazione di termini a norma del secondo comma dell’art. 163 bis, deve costituirsi in giudizio (…)”. Come sostenuto da parte della dottrina e contrariamente a quanto affermato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 19246 del 2010, non pare rinvenibile nell’ordinamento il principio generale secondo cui alla previsione della riduzione dei termini di comparizione ex art. 645 comma 2 c.p.c. debba necessariamente conseguire come inevitabile corollario la “automatica” riduzione anche dei termini di costituzione in giudizio per le parti dell’opposizione a decreto ingiuntivo. Il richiamo fatto dalle Sezioni Unite al disposto dell’art. 645 comma 2 nell’originaria formulazione del 1942 – laddove come noto era prevista la riduzione dei “termini di costituzione” – nonché ai lavori preparatori della novella del 1950, per evidenziare la intrinseca immutata funzione “acceleratoria” del disposto di tale norma, risulta scarsamente significativo. Prima della novella del 1950 il codice di rito non prevedeva dei termini a comparire (ma unicamente dei termini di costituzione delle parti) e il legislatore del 1950 – allorché ha deciso di adottare come sistema generale di introduzione del processo civile quello della citazione a udienza fissa indicata dall’attore – ha necessariamente dovuto modificare l’art. 645 comma 2 prevedendo che “i termini di comparizione sono ridotti alla metà”, per consentire al debitore ingiunto, destinatario di un provvedimento di condanna emesso nei suoi confronti senza il preventivo contraddittorio, di poter adire il giudice in un tempo inferiore a quello “ordinario” e per far valere le sue ragioni opponendosi alla domanda di condanna avversaria già accolta “inaudita altera parte”. Il legislatore del 1950 non ha ritenuto di prevedere espressamente la riduzione dei termini di costituzione (oltre che di quelli di comparizione) né nello stesso art. 645 comma 2 c.p.c., né negli artt. 165 e 166 c.p.c. (pure modificati dall’art. 10 della L. n. 581 del 1950), ma ha invece previsto la riduzione dei termini di costituzione di entrambe le parti processuali unicamente nel caso in cui il termine a comparire venga ri-

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dotto a norma dell’art. 163 bis comma 2 c.p.c., quindi solo nel caso in cui il presidente del tribunale abbrevia con decreto motivato e “fino alla metà” i termini a comparire su istanza dell’attore ritenendo che la causa meriti una “pronta spedizione”. Nel silenzio del legislatore (e senza voler ricorrere all’antico brocardo “ubi lex voluit dixit…”) non pare doveroso far discendere dalla sola riduzione “a metà” dei termini a comparire prevista dall’art. 645 co. 2 c.p.c. la automatica riduzione a cinque giorni del termine di costituzione dell’opponente (e a dieci giorni quello dell’opposto). Se infatti, come comunemente ritenuto, la riduzione a cinque giorni del termine di costituzione dell’attore nel caso di abbreviazione del termine a comparire disposta dal presidente ex art. 163 bis comma 2 c.p.c. si giustifica con l’esigenza di garantire al convenuto di poter compiutamente esercitare il proprio diritto di difesa avendo un termine congruo per esaminare i documenti prodotti dalla controparte all’atto della costituzione in giudizio, tale esigenza non è affatto ravvisabile tutte le volte in cui l’opponente non citi in giudizio l’opposto concedendogli un termine a comparire “ridotto” ma fissi per la prima comparizione delle parti un’udienza lontana almeno novanta giorni dalla data di notificazione dell’opposizione a decreto ingiuntivo. Non si dubita che la previsione della riduzione alla metà del termine a comparire prevista dall’art. 645 co. 2 c.p.c. ha funzione acceleratoria e costituisce espressione di una preventiva valutazione fatta dal legislatore di consentire al debitore ingiunto di poter sempre citare il creditore opposto – il quale ha magari ottenuto un provvedimento monitorio provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c. – nel termine ridotto di 45 giorni liberi e finanche di chiedere al presidente del tribunale l’ulteriore riduzione del termine a comparire ex art. 163 bis c.p.c. qualora l’opposizione richieda pronta spedizione (vd Cass. 3/7/2008 n. 18203; Cass. 28/4/1995 n. 4719). Se non vi è dubbio, a fronte dell’esplicito dettato dell’art. 165 c.p.c., che in caso di “abbreviazione” del termine a comparire conseguente al provvedimento del Quaderni

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giudice ex art. 163 bis co. 2 anche il termine di costituzione dell’opponente è ridotto a cinque giorni e seppure potrebbe forse condividersi che lo stesso termine di costituzione per l’opponente discenda in via interpretativa dalla concreta ed effettiva “riduzione” del termine a comparire concesso alla controparte ex art. 645 co. 2 c.p.c. (come ritenuto dalla Cassazione fino al settembre 2010), ciò non pare trovare adeguata giustificazione quando la riduzione del termine di costituzione non sia funzionale al rispetto del contraddittorio e a garantire il diritto di difesa dell’opposto. Affermare che la riduzione a cinque giorni del termine di costituzione dell’opponente consegue automaticamente dalla riduzione “ex lege” del termine a comparire prevista dall’art. 645 comma 2 c.p.c. – ed a prescindere dal termine a comparire in concreto concesso dall’attore/opponente alla controparte – determina da un lato il dovere per il debitore ingiunto di costituirsi in giudizio in un tempo più breve di quello “ordinario” previsto espressamente dall’art. 165 c.p.c. anche quando ciò non sia funzionale a soddisfare un interesse dell’opposto (il quale avrebbe un tempo ampiamente congruo per organizzare la sua difesa per essere stato citato a comparire nel rispetto del termine ordinario dell’art. 163 bis comma 1 ed avendo comunque la possibilità di “reagire” all’eventuale tattica dilatoria del debitore chiedendo a norma del comma 3 del medesimo art. 163 bis l’anticipazione della prima udienza fissata oltre il termine minino di 45 giorni) e dall’altro finisce per “anticipare” il verificarsi di una condizione di improcedibilità dell’opposizione. Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, infatti, la tardiva costituzione dell’opponente è equiparata alla mancata costituzione in giudizio della parte e determina ex art. 647 c.p.c. l’improcedibilità dell’opposizione (rilevabile anche d’ufficio dal giudice) e la esecutività/definitività del provvedimento monitorio opposto. Mentre nell’ordinario giudizio di cognizione la tardiva costituzione dell’attore non impedisce l’esame nel merito della sua domanda qualora il convenuto si costituisca tempestiva-

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mente (art. 171 c.p.c.), per effetto della speciale previsione contenuta nell’art. 647 c.p.c. richiamato la tardiva costituzione dell’attore/opponente nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo determina invece l’improcedibilità dell’opposizione a prescindere dalla circostanza che l’opposto si sia o meno costituito tempestivamente (cfr., tra le altre, Cass. 14/7/2006 n. 16117). L’applicazione del principio di diritto affermato dalla Suprema Corte nella recente sentenza più volte richiamata, comporta di dichiarare improcedibili di tutte le opposizioni a decreto ingiuntivo in cui l’opponente si è costituito oltre il quinto giorno dalla notificazione della citazione, a prescindere dal fatto che abbia concesso alla controparte un termine a comparire dimidiato oppure no. Siffatta interpretazione finisce, come detto, per determinare una anticipazione della condizione di improcedibilità dell’opposizione in senso sfavorevole al debitore – destinatario di un provvedimento di condanna emesso “inaudita altera parte” – il quale si vedrebbe definitivamente preclusa la possibilità di agire in giudizio per far accertare nel contraddittorio con il creditore l’infondatezza della domanda di condanna avversaria. Ove pure si voglia continuare a ritenere – pur nel silenzio del legislatore – che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, per effetto della previsione contenuta nell’ultima parte dell’art. 645 comma 2 c.p.c., la riduzione dei termini di costituzione sia automatica conseguenza della effettiva concessione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello ordinario previsto dal primo comma dell’art. 163 bis c.p.c., ciò non trova alcuna soddisfacente giustificazione in tutti i casi in cui non va salvaguardato il diritto di difesa dell’opposto. L’interpretazione dell’art. 645 comma 2 c.p.c. data dalla Suprema Corte nella recente pronuncia se applicata alle controversie in cui l’opponente ha citato il creditore opposto senza avvalersi della riduzione legale del termine a comparire (e senza ovviamente l’abbreviazione del termine ex art. 163 bis comma 2) comporta un’ingiustificata anticipazione della condizione di improcedibilità dell’opposizione e pare scarsamente rispettosa del Quaderni

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diritto di azione, del principio del giusto processo e del principio del contraddittorio garantiti dagli artt. 24 e 111 della Costituzione. Per le ragioni esposte ci si discosta dalla riferita interpretazione della Cassazione, ritenendo tempestiva nel caso di specie la costituzione in giudizio dell’opponente avvenuta entro dieci giorni dalla notifica dell’atto di citazione introduttivo - conformemente a quanto previsto dall’art. 165 c.p.c. – nel quale è stato concesso all’opposto un termine a comparire superiore a novanta giorni. Venendo al merito dell’opposizione proposta, come detto, il creditore opposto non ha ritenuto di costituirsi nel presente giudizio di cognizione. Sin dalla citazione introduttiva il debitore opponente ha contestato la pretesa creditoria azionata da controparte con l’originario ricorso alla procedura monitoria. In particolare, pur non contestando la conclusione dei contratti in base ai quali le parti avevano predeterminato il corrispettivo dovuto nel periodo novembre 2006/ottobre 2008 per il servizio alberghiero usufruito da clienti dell’opponente presso l’Hotel Amadeus di Milano, la società opponente ha analiticamente contestato la corrispondenza fra il costo del servizio fatturato e quello pattuito in relazione ai vari periodi (con maggiorazione del costo solo per i periodi di “fiera”) ed ha eccepito l’estinzione parziale del credito risultante dalle fatture n. 236/2008 e n. 582/2008. In siffatta situazione, a fronte delle esplicite contestazioni sollevate dal debitore opponente era onere del creditore opposto fornire la prova dei fatti costitutivi del credito azionato. Il creditore opposto non ha ritenuto di costituirsi, per cui manca qualsiasi prova del diritto di credito azionato con il ricorso per decreto ingiuntivo. Per le ragioni esposte l’opposizione va dunque accolta e va revocato il provvedimento monitorio opposto. Infine, in virtù del principio della soccombenza, la società opposta va condannata a rifondere le spese di lite liquidate come in dispositivo.

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P.Q.M. Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando sull’opposizione proposta, con citazione notificata il 3/4/2009, da XXX nei confronti di YYY, avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Milano il 28/1/2009 e notificato il 24/2/2009, nella contumacia del convenuto/opposto, contrariis reiectis, così provvede: 1) accoglie l’opposizione e, per l’effetto, revoca il decreto ingiuntivo opposto; 2) condanna la convenuta YYY a rifondere all’opponente le spese di lite liquidate in complessivi euro 2.262,07, di cui euro 162,07 per esborsi, euro 700,00 per diritti, euro 1.400,00 per onorario, oltre al rimborso di spese generali, I.V.A. e C.P.A. sulle componenti imponibili come per legge. Così deciso in Milano il 3/11/2010. Il Giudice dott. Patrizio Gattari

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Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi

Sentenza 3 novembre 2010 FATTO E DIRITTO Con atto di citazione ritualmente notificato XXX e YYY proponevano opposizione al decreto ingiuntivo n. XX/2009 emesso dal Presidente del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi in data 11.3.2009, con il quale si ingiungeva il pagamento in favore di Banco di Napoli SpA della somma di euro 10.938,76 oltre interessi e spese della procedura; deducevano a tal fine la nullità della procura; la carenza d’interesse ed il difetto di legittimazione; la prescrizione del presunto diritto di credito. Chiedevano pertanto l’accoglimento dell’opposizione, il tutto con vittoria delle spese di lite. Si costituiva in giudizio il Banco di Napoli SpA, contestando le avverse deduzioni e chiedendo il rigetto dell’opposizione, il tutto con condanna alle spese di giudizio. Concessa l’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo con ordinanza del 7.4.2010 e ritenuta la causa matura per la decisione, in ragione della sottoposizione di questioni di mero diritto, questo Giudice rinviava all’odierna udienza per la discussione della causa ex art. 281-sexies c.p.c. L’opposizione proposta è infondata e va rigettata, per le ragioni che di seguito si espongono. In via assolutamente preliminare ed officiosa, va affrontata la questione afferente l’ammissibilità e la procedibilità del giudizio, a seguito dello scrutinio della tempestività della notifica dell’opposizione al decreto ingiuntivo e della costituzione dell’opponente (verificatasi, per quanto desumibile dagli atti, oltre i cinque giorni dalla notifica della citazione: 24.4.2009 - 30.4.2009).

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Tale scrutinio si appalesa necessario alla luce del recente e noto dictum delle Sezioni Unite (n. 19246/2010), a mente del quale “esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà”. Orbene, ritiene questo Giudice che i primi orientamenti di merito (cfr. Trib. Marsala, 20 ottobre 2010; Trib. Velletri, 18 ottobre 2010; Trib. Padova, 14 ottobre 2010; Trib. Pavia, 14 ottobre 2010; Trib. Tivoli, 13 ottobre 2010, n. 1416; Trib. Torino, 11 ottobre 2010; Trib. Pordenone, 2 ottobre 2010), nel valorizzare ciascuno in diversa misura ed intensità l’istituto della rimessione in termini, giungano nondimeno ad una dilatazione del medesimo oltre l’area della significanza sua propria, finendo per assegnare alla rimessione la natura di una vera e propria “sanatoria”; il che non appare ineccepibile in punto di corretta esegesi di questo istituto (la cui applicazione, a rigore, dovrebbe consentire alla parte il nuovo compimento di un atto processuale tardivo, e non la sanatoria dell’atto invalido anteriormente compiuto), nemmeno mediante il richiamo alla nuova collocazione testuale nel corpo dell’art. 153 c.p.c. ed ai canoni sovranazionali e costituzionali del “giusto processo” (cfr. Trib. Milano, 13 ottobre 2010). Tali richiami, nondimeno, si dimostrano congruenti e di particolare decisività qualora conducano a ritenere che la parte – piuttosto che essere rimessa in termini, con regressione del giudizio e conseguente grave danno alla giurisdizione – debba essere considerata come aver agito correttamente, sulla scorta di un mero accertamento del giudice di merito, che verifica l’overruling e l’affidamento incolpevole del Quaderni

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litigante (in termini, Trib. Varese, 8 ottobre 2010). Alla luce di siffatte considerazioni e stante l’evidente condizione di affidamento incolpevole dell’opponente, ingenerato da un pronunciamento delle Sezioni Unite – peraltro non sorto dalla necessità di comporre un contrasto giurisprudenziale – del tutto opposto rispetto al consolidato orientamento tradizionale, può quindi procedersi allo scrutinio dei motivi di merito adombrati nell’opposizione. Secondo la giurisprudenza, la conferma o meno del decreto ingiuntivo è collegata nel giudizio di opposizione non tanto ad un giudizio di legalità e di controllo riferito esclusivamente al momento della sua emanazione, quanto piuttosto ad un giudizio di piena cognizione in ordine all’esistenza e alla validità del credito posto a base della domanda di ingiunzione (così Cass. Civ., Sez. I, 17 giugno 1999, n. 5984). Nel merito parte opponente, con un primo motivo di opposizione, ha dedotto la nullità della procura in capo all’opposta. Tale deduzione – oltremodo generica e di stile – è nondimeno smentita per tabulas, in ragione della presenza in atti di copia della suddetta procura. Anche il motivo afferente alla carenza d’interesse ed al difetto di legittimazione è infondato. Ed infatti, come correttamente evidenziato dalla difesa dell’opposta, la deduzione degli opponenti secondo cui incomberebbe in capo alla Banca l’onere di provare di non aver ottenuto alcun rimborso dal FIG per la cambiale agraria azionata in via monitoria, è giuridicamente erronea; trattandosi infatti di un’eccezione di pagamento, l’onere della prova incombe sugli opponenti, i quali non lo hanno debitamente assolto. L’ulteriore motivo di opposizione (asserita prescrizione del credito), peraltro adombrato in maniera generica, è egualmente infondato. Parte opponente non tiene infatti conto dell’art. 1-bis D.L: n.

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64/1999, a mente del quale “Per i procedimenti esecutivi pendenti alla data dell’8 settembre 1998, anche se dichiarati estinti per effetto dell’art. 1 della legge 3 agosto 1998, n. 302, in deroga a quanto previsto dal terzo comma dell’art. 2945 del codice civile, l’effetto interruttivo della prescrizione rimane fermo fino alla dichiarazione di estinzione e il nuovo periodo di prescrizione inizia a decorrere dalla data di tale dichiarazione”; il che è avvenuto proprio nel caso in esame, laddove risulta agli atti che la procedura esecutiva a suo tempo azionata dalla Banca, dichiarata estinta con provvedimento del 14.12.2004, ha consentito di fissare in tale data l’effetto interruttivo della prescrizione, ragion per cui la successiva domanda monitoria risulta pienamente tempestiva. Sul punto, infatti, la Suprema Corte (Sez. III, 11 ottobre 2006, n. 21733) ha evidenziato che “per i procedimenti esecutivi immobiliari pendenti alla data dell’8 settembre 1998, anche se dichiarati estinti per effetto dell’art. 1 l. 3 agosto 1998 n. 302 (in deroga a quanto previsto dal comma 3 dell’art. 2945 c.c.), l’effetto interruttivo della prescrizione – ai sensi dell’art. 1 bis d.l. 17 marzo 1999 n. 64, convertito, con modificazioni ed integrazioni, dalla l. 14 maggio 1999 n. 134 – rimaneva fermo fino alla dichiarazione di estinzione ed il nuovo periodo di prescrizione iniziava a decorrere dalla data di tale dichiarazione, quale che fosse stata la sua ragione”. Infondato per genericità è infine l’ultimo motivo di opposizione, dal momento che gli opponenti non hanno documentalmente provato i dedotti pagamenti a deconto (non avendo peraltro articolato alcun mezzo istruttorio a sostegno nei termini processualmente stabiliti). L’opposta pertanto, a mezzo delle produzioni documentali in atti, ha fornito la piena prova del non contestato prestito agrario di esercizio e della pregressa procedura esecutiva, laddove parte opponente non ha adeguatamente corroborato le proprie affermazioni difensive, limitandosi a contestazioni vaghe e generiche, oltre che sfornite di qualsivoglia supporto argomentativo. Quaderni

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Orbene, poiché è comune insegnamento giurisprudenziale che l’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario e autonomo giudizio di cognizione, esteso all’esame non solo delle condizioni di ammissibilità e validità del procedimento monitorio ma anche della fondatezza della domanda del creditore in base a tutti gli elementi offerti dal medesimo e contrastati dall’ingiunto (cfr. Cass. Civ., sez. III, 10 marzo 2009, n. 5754; Cass. Civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1184), nel caso in esame l’opposta ha fornito la piena prova del rapporto contrattuale sottostante, dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in sede monitoria, oltre che dell’ammontare del credito. Alla luce delle suesposte considerazioni, l’opposizione va quindi disattesa. Il decreto ingiuntivo acquista efficacia esecutiva ex art. 653 c.p.c. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 1 febbraio 2007, n. 2217: “Il procedimento che si apre con la presentazione del ricorso e si chiude con la notifica del decreto di ingiunzione non costituisce un processo autonomo rispetto a quello aperto dall’opposizione, ma dà luogo a una fase di un unico giudizio, in rapporto al quale funge da atto introduttivo, in cui è contenuta la proposizione della domanda, il ricorso presentato per chiedere il decreto di ingiunzione; perciò, il giudice che con la sentenza chiude il giudizio davanti a sé, deve pronunciare sul diritto al rimborso delle spese sopportate lungo tutto l’arco del procedimento e tenendo in considerazione l’esito finale della lite”). Va evidenziato in proposito che il rimborso c.d. forfetario delle spese generali costituisce una componente delle spese giudiziali, la cui misura è predeterminata dalla legge, che spetta automaticamente al professionista difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza, dovendosi, quest’ultima, ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che

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incombe sulla parte soccombente (cfr.: Cass. Civ., Sez. III, 1 giugno 2010, n. 13433; Cass. Civ., Sez. III, 19 aprile 2010, n. 9192; Cass. Civ., Sez. III, 22 febbraio 2010, n. 4209). P.Q.M. Il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, in composizione monocratica, in persona del Giudice unico dott. Luigi Levita, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa, così provvede: · rigetta l’opposizione e conferma il decreto ingiuntivo n. XX/2009 emesso dal Presidente del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi in data 11.3.2009, che acquista efficacia esecutiva; · condanna gli opponenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese processuali in favore dell’opposta, che liquida in euro 1.300,00 per onorari ed euro 1.100,00 per diritti, oltre rimborso forfetario per spese generali, IVA e CPA come per legge, con attribuzione al procuratore antistatario. Così deciso in Sant’Angelo dei Lombardi, in data 3 novembre 2010. Il Giudice dott. Luigi Levita

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Tribunale di Catanzaro Sezione II

Ordinanza 4 novembre 2010 Il Giudice, dott.ssa Song Damiani. sciogliendo la riserva presa all’udienza del 26 ottobre 2010 nella causa iscritta al n. 2081 r.g.a.c. dell’anno 2007, letti gli atti ed esaminata la documentazione allegata; vista la richiesta avanzata da parte opponente di rimessione in termini; ovvero di dichiarare scusabile Terrore in cui la parte è incorsa in ordine ai termini di costituzione ex art. 645 comma 2° c.p.c, alla luce della recente pronuncia a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19246 del 2010; atteso che parte opposta si è rimessa alla decisione del giudicante; PREMESSO Che, con la sentenza a Sezioni Unite del 9 settembre 2010, la Corte di Cassazione ha – apparentemente – scardinato un’interpretazione giurisprudenziale consolidata da circa mezzo secolo (vedasi Cass. Civ. n. 3053/1955) che, a parte un’isolata pronuncia in senso contrario quasi coeva (Cass. Civ. n. 8/1955), aveva contribuito unitamente alla miglior dottrina ad avallare una prassi giudiziaria uniforme secondo cui: “...nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo i termini di costituzione delle parti, previsti negli artt. 165 e 166 cod. proc. civ., sono necessariamente ridotti a metà, se l’opponente si sia avvalso, ai sensi dell’art. 645, secondo comma, cod. proc. civ., della facoltà di assegnare al convenuto un termine di comparizione inferiore a quello previsto dal primo comma dell’art. 163 bis cod. proc. civ. La dimidiazione del termine di costituzione consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un

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termine inferiore a 60 giorni, per cui risulta del lutto irrilevante che la concessione di quel termine sia dipesa da una scelta consapevole dell’opponente ovvero da un errore di calcolo del medesimo” (v. ex multis Cass. Civ. Sez. I n. 3752/01; n. 18942/06; n. 18203/08); che la citata pronuncia del 9 settembre 2010, pur riaffermando ancora una volta il suesposto orientamento, ha inoltre “puntualizzato” che “... i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all‘opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effètto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 с.р.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà...” (Cass. Civ. SS.UU. n. 19246/2010); RILEVATO Che, all’indomani del revirement effettuato dalla Corte di Cassazione, si sono allo stato delineati diversi orientamenti della giurisprudenza di merito, sostanzialmente riconducibili alle seguenti soluzioni interpretativo-applicative: a) irretroattività del mutamento giurisprudenziale innovativo sia in considerazione dell’errore incolpevole in cui è incorsa la parte sia in ossequio al principio costituzionalizzato nel giusto processo (v. Trib. Varese 8 ottobre 2010; Trib. Milano 13 ottobre 2010); b) rimessione in termini per affidamento incolpevole della parte senza invalidazione ex post dell’attività processuale già svolta nel rispetto del principio della ragionevole durata del giudizio (v. Trib. Torino 14 ottobre 2010 e Trib. Velletri 15 ottobre 2010); c) mancato adeguamento al dictum delle Sezioni Unite in esame in assenza di efficacia vincolante delle decisioni di legittimità (v. Trib. Padova 21 ottobre 2010). CONSIDERATO Che questo Giudice ritiene maggiormente condivisibile l’orientamento da ultimo riportato per le seguenti ragioni: 1) l’ordinamento Quaderni

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giuridico italiano non riconosce efficacia vincolante al precedente giudiziario per quanto autorevole possa essere e seppure proveniente dall’organo custode della funzione nomofilattica: l’art. 384 c.p.c. comma 2° attribuisce efficacia vincolante al principio di diritto enunciato dalla Corte solo nel caso in cui alla cassazione della sentenza segua il rinvio ad altro giudice il quale è tenuto ad uniformarsi al suddetto principio. Del resto anche le pronunce delle Sezioni Unite possono essere disattese da una Sezione semplice che non condivide il principio di diritto enunciato con Punico onere di rimettere con ordinanza motivata alle Sezioni Unite, secondo quanto previsto dall’art. 374 comma 3°c.p.c; 2) nella motivazione della pronuncia in esame trova piena conferma l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi in precedenza con argomentazioni a sostegno che spaziano dalla ratio della riduzione dei termini di costituzione, menzionando anche i lavori preparatori della modifica normativa apportata con il d.p.r. n. 857 del 1950, fino al raffronto con la disciplina di cui all’art. 163 bis comma 2°c.p.c. in cui l’abbreviazione dei termini viene disposta dal giudice su istanza di parte previa valutazione discrezionale dei presupposti di pronta trattazione della causa. La Corte non manca poi di soffermarsi anche sul bilanciamento delle posizioni delle parti, che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo risultano invertite: opponente – debitore (convenuto sostanziale) e opposto – creditore (attore sostanziale) e conclude ritenendo che la dimidiazione dei termini di comparizione e di costituzione costituisce uno strumento di accelerazione del procedimento, anche se non del tutto soddisfacente. Ciò posto, avallando quindi l’interpretazione precedente, le Sezioni unite ritengono di dover “puntualizzare” un profilo relativo all’argomento trattato: le riduzione a metà dei termini di costituzione costituirebbe “un effetto automatico... conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia proposta”. Tale affermazione che rompe con la tradizione giurisprudenziale di oltre mezzo secolo non può non

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ritenersi alla stregua di un obiter dietimi, alla luce dell’ampia motivazione anzi detta e, soprattutto, in considerazione che le “esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche” che inducono a tale puntualizzazione paiono essere soltanto enunciate e non esplicitate; 3) è opportuno osservare che la Corte Costituzionale, da ultimo con l’ordinanza n. 18 del 2008 di cui si riporta la massima, ha ripetutamente dichiarato la legittimità costituzionale degli artt. 165, 645 e 647 c.p.c. con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. “nella parte in cui fanno gravare sull’opponente a decreto ingiuntivo l’onere di costituirsi in un termine eccessivamente breve. Posto che è lo stesso opponente a porre le premesse per la sua costituzione nel termine ridotto, avvalendosi della facoltà di dimidiare il termine di comparizione del debitore ingiunto, e che, pertanto, egli deve ritenersi certamente consapevole del particolare onere di diligenza connesso a tale scelta e delle conseguenze che le norme processuali collegano alla tardiva costituzione in giudizio, non è configuratile la prospettata violazione del diritto di difesa; né l’abbreviazione dei termini di costituzione può ritenersi irragionevole, mentre la sussistenza di uno sbilanciamento nella disciplina di tali termini non determina una posizione di disuguaglianza processuale rilevante ai sensi dell’art. III, secondo comma, Cost., ma, al più, una compromissione della euritmia del sistema, la cui modifica non può che essere rimessa all’opera del legislatore” (v. in senso analogo ordinanze n. 239/2000 e n. 154/2005); 4) infine, perché seguendo il presunto revirement delle Sezioni Unite, considerando automatico il termine dimidiato di cinque giorni per la costituzione dell’opponente, si finirebbe con il legittimare la prassi, non conforme alle previsioni del codice di rito di cui all’art. 165 c.p.c, di iscrivere a ruolo le cause depositando non l’originale dell’atto notificato ma una semplice copia (la ed. “velina”) con effetti tutt’altro che deflattivi del contenzioso civile;

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ATTESO Che, nel caso di specie, l’opponente ha citato in giudizio per l’udienza del 26 ottobre 2007 e l’atto di opposizione è stato notificato in data 14 maggio 2007 nel rispetto quindi del termine a comparire di novanta giorni di cui all’art. 163 bis c.p.c; che l’opponente si è costituito in Cancelleria in data 16 maggio 2007. Entro il termine dei dieci giorni previsti dall’art. 165 c.p.c; RITENUTO pertanto, che debbano considerarsi tempestiva la costituzione dell’opponente e procedibile il presente giudizio di opposizione; P.Q.M. Respinge l’istanza di rimessione in termini e rinvia per la precisazione delle conclusioni, atteso il carico del proprio ruolo per il suddetto incombente, all’udienza del mandato alla Cancelleria per la comunicazione della presente ordinanza alle parti. Catanzaro, lì 4 novembre 2010

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Tribunale di Vibo Valentia

Sentenza 23 novembre 2010 Letti gli atti di causa e sciolta la riserva di cui al verbale dell’udienza del posto che parte opposta ha chiesto dichiararsi l’improcedibilità dell’opposizione deducendo la tardività della costituzione dell’opponente alla luce della recente pronuncia delle S.U. del settembre 2010; rilevato, altresì che parte opposta ha chiesto remissione di un’ordinanza di remissione innanza alla Corte Costituzionale della questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 645 c.p.c. nella parte in cui non prevedendo la facoltà per l’opponente di costituirsi entro il termine di dieci giorni violerebbe gli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione; OSSERVA Secondo un costante orientamento giurisprudenziale di legittimità (da Cass. n. 3053/1955, sino alle più recenti Cass. n. 3355/1987. n. 2460/1995. n. 3316/1998, n. 12044/1998 e n. 18942/2006 con l’eccezione di Cass. n. 8/1955), la dimidiazione dei termini di costituzione delle parti – per effetto del combinato disposto degli arti. 645, 165 e 166 c.p.c, e dell’asserita necessaria correlazione tra riduzione dei termini di comparizione e di costituzione – si riteneva operante soltanto quando l’opponente si fosse concretamente avvalso, consapevolmente o per mero errore (Cass. n. 3752/2001. n. 14017/2002, n. 17915/2004 e n. 11436/2009), del dimezzamento dei temimi di comparizione consentito dall’art. 645 c.p.c. Alla stregua di tale orientamento, dunque, la costituzione dell’attore opponente, che – come nel caso di specie – abbia assegnato all’opposto un termine di comparizione pari o eccedente quello ordinario di cui all’art. 163 bis c.p.c., dovrebbe considerarsi tempestiva, essendo avvenuta entro i dieci Quaderni

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giorni dalla notifica della citazione, per cui l’opposizione dovrebbe ritenersi procedibile. Su tale consolidato indirizzo sono intervenute le Sezioni Unite con la recentissima sentenza n. 19246 del 9 settembre 2010, confermando espressamente il predetto costante orientamento di legittimità, secondo il quale, quando l’opponente si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per la sua costituzione è automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione, pari alla metà del termine di costituzione ordinario, riaffermando altresì che l’abbreviazione del termine di costituzione per l’opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, essendo irrilevante che la fissazione di tale termine sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo. Tuttavia, le S.U. hanno ritenuto di dover procedere ad una puntualizzazione dello stesso orientamento, sostenendo che esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla meta in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di comparizione pari о superiore a quello legale, resta salva la facoltà dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, comma 3. La conseguenza immediata di tale precisazione è quindi che l’opposizione a decreto ingiuntivo, per il solo fatto che sia stata proposta, comporta sempre l’effetto automatico della dimidiazione dei termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto, e non solo in caso di

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effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale. Ne deriverebbe pertanto che anche nei casi, come quello qui in decisione, nei quali l’opponente ha assegnato all’opposto un termine a comparire pari о eccedente quello ordinario di cui all’art. 163 bis c.p.c., la costituzione effettuata dopo più di cinque giorni dalla notificazione dell’opposizione, ma entro i dieci giorni da questa, sarebbe tardiva e quindi equivalente alla mancata costituzione, con conseguente dichiarazione di improcedibilità dell’opposizione ed esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto. Non pare, dunque, di essere di fronte ad una mera puntualizzazione dell’orientamento già consolidato, ma di un vero e proprio mutamento radicale: un atto che, in base all’indirizzo giurisprudenziale costante del momento nel quale venne compiuto, era tempestivo e consentiva di procedere nel giudizio, dovrebbe considerarsi ora tardivo e determinare l’improcedibilità, rilevabile d’ufficio, del giudizio. Ritiene questo giudicante che tale pronuncia – nonostante la sua particolare autorevolezza siccome assunta dalle Sezioni Unite Civili – non possa comportare la improcedibilità dei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo introdotti in base all’orientamento giurisprudenziale precedente e consolidato che consentiva all’opponente di costituirsi nel termine ordinario di dieci giorni dalla notifica della citazione in caso di assegnazione alla controparte dell’ordinario termine di comparizione. Tanto si afferma, applicando anche al caso in esame il principio enunciato in altra occasione dalla Suprema Corte che, con ordinanza interlocutoria 10 giugno - 2 luglio 2010 n. 15811, ha affrontato la questione che si presenta quando viene introdotta una domanda giudiziale (nella specie un ricorso per cassazione) e successivamente si verifichi un mutamento di indirizzo giurisprudenziale incidente sulla modalità di presentazione della domanda medesima, per effetto del quale se ne avrebbe il rigetto. Invero, a differenza di quanto accade in materia normativa dove, spesso, è proprio il legislatore a dettare Quaderni

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delle norme transitorie o a differire l’entrata in vigore della novella, il mutamento di orientamento giurisprudenziale può comportare per la parte che agisce in giudizio delle conseguenze così gravi da limitare il principio costituzionale del giusto processo e quello della certezza del diritto, contenuti nell’art. 111 Cost. Si legge testualmente nella ordinanza in parola “che allorché si assista ad un mutamento ad opera della Corte di Cassazione di un’interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo, la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, ha tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa e perciò è da escludere la rilevanza preclusiva dell’errore in cui essa è incorsa; che in questa direzione si orienta il principio costituzionale del “giusto processo”, la cui portata non si esaurisce in una mera sommatoria delle garanzie strutturali formalmente enumerate nel secondo comma dell’art. 111 Cost. (contraddittorio, parità delle parti, giudice terzo ed imparziale, durata ragionevole di ogni processo), ma rappresenta una sintesi qualitativa di esse (nel loro coordinamento reciproco e nel collegamento con le garanzie del diritto di azione e di dilesa)...; che il Collegio ritiene contrario alla garanzia di effettività dei mezzi di azione o di difesa e delle forme di tutela – la quale è componente del principio del giusto processo – che rimanga priva della possibilità di vedere celebrato un giudizio che conduca ad una decisione sul merito... la parte che quella tutela abbia perseguito con una iniziativa processuale conforme alla legge del tempo – nel reale significato da questa assunto nella dinamica operativa per effetto dell’attività “concretizzatrice’’ della giurisprudenza di legittimità –, ma divenuta inidonea per effetto del mutamento dell’indirizzo giurisprudenziale”. Pertanto, al fine di garantire la certezza del diritto processuale, cosi come il legislatore delle riforme processuali si preoccupa di dettare norme di diritto transitorio da cui generalmente deriva che lo ius superveniens si applica solo ai giudizi instaurali dopo la sua entrata

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in vigore, altrettanto deve ritenersi con riferimento ai mutamenti di giurisprudenza costante sull’interpretazione di norme relative alle regole del processo. Il principio della economia dei giudizi – spesso richiamato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità a sostegno delle scelte decisionali di volta in volta adottate in concreto – comporta che l’applicazione di una modalità procedurale non deve essere improvvisamente disattesa e sanzionata definitivamente ed ineparabilmente con una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della domanda in forza di uno ius superveniens dato dalla pronuncia giurisprudenziale, mettendosi altrimenti in discussione l’unità e la coerenza dell’intera attività processuale, cioè l’unità e la coerenza dell’attività processuale svolta con quella futura. In forza del dettato costituzionale ritiene pertanto questo giudicante – per scendere al caso in oggetto – che la costituzione in giudizio dell’opponente, tempestiva all’epoca della iscrizione della causa a ruolo, non può diventare tardiva a seguito di una successiva interpretazione della norma da parte della Corte di Cassazione che, qualificata come ius supervenies in materia processuale, non può avere efficacia in senso lato retroattiva. Alla luce delle considerazioni esposte, questo giudice ritiene che nel caso in esame non sussistono i presupposti richiesti dall’art. 23 della L. 11 marzo 1953 n. 87 per la proponibilità della questione d’illegittimità costituzionale come sollevata da parte opposta, attesa l’irrilevanza della risoluzione della detta questione ai fini della definizione del presente giudizio, ritenuta la necessità di acquisire agli atti il fascicolo della fase monitoria; P.Q.M. Disattesa allo stato ogni altra istanza; rinvia la causa all’udienza del XXX mandando la cancelleria ad acquisire il fascicolo della fase monitoria. Vibo Valentia 23/11/2010 Il Giudice monocratico Dott.ssa Nadia Zampogna Quaderni

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Tribunale di Rovigo Sezione distaccata di Adria

Ordinanza 25 novembre 2010 L’odierno opponente ha iscritto la causa a ruolo entro il termine di 10 giorni, ma oltre il termine di 5 giorni dalla notifica della citazione al convenuto, fissando l’udienza di comparizione nel termine ordinario e non assegnando all’opposto un termine ridotto a comparire. Sul punto si osserva come la Suprema Corte a Sezioni Unite (sentenza del 9 settembre 2010 n. 19246) abbia affermato che “esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia sfata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facoltà dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, terzo comma. D’altra parte, se effettivamente il dimezzamento dei termini di costituzione dipendesse dalla volontà dell’opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, non si capirebbe la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sono cumulati il dimezzamento che deriva dalla astratta previsione legale di cui all’art. 645 c.p.c. con quello che può discendere da un apposito provvedimento di dimezzamento di tali termini richiesto ai sensi dell’art. 163 bis, 3 comma”.

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La conseguenza processuale di tale nuova interpretazione normativa sarebbe l’improcedibilità dell’opposizione e la conseguente immodificabilità del decreto ingiuntivo, posto che le pronunce giurisprudenziali delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – al fine di attuare la funzione nomofilattica – hanno immediata applicazione processuale, senza che si ponga un problema di retroattività. Tuttavia gli orientamenti espressi dalla Suprema Corte hanno una mera efficacia dichiarativa, limitandosi ad interpretare la norma giuridica esistente, e, per quanto autorevoli, non possono costituire nel nostro ordinamento fonte del diritto. Ciò posto, appare di tutta evidenza come l’aver fatto affidamento da parte dell’operatore del diritto sul consolidato indirizzo giurisprudenziale, innovato dalla predetta pronuncia a Sezioni Unite, non può essere imputato colpevolmente; una rigida applicazione dei principi enunciati dalla Cassazione determinerebbe un effetto di profonda ingiustizia sostanziale. Per ovviare alle conseguenze irrimediabili del sillogismo giuridico sopra descritto è stato proposto un apprezzabile orientamento giurisprudenziale secondo il quale, nel caso di c.d. overruling – ovvero di mutamento, ad opera della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, di un’interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo – la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della Suprema Corte, successivamente travolta dall’overruling, avrebbe tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa con conseguente irrilevanza preclusiva dell’errore in cui è incorsa (interpretazione imposta dall’esigenza di non violare le norme costituzionali, internazionali e comunitarie che garantiscono il diritto ad un “giusto processo”: cfr. Tribunale di Varese 8 ottobre 2010). Si ritiene non condivisibile tale interpretazione normativa, potendosi, invece, soddisfare le esigenze concrete sottese ad una corretta applicazione degli insegnamenti della Suprema Corte, contemperandole con la salvaguardia delle esigenze di giustizia sostanziale, Quaderni

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applicando il generale istituto della rimessione in termini, previsto dall’art. 153 c.p.c. (introdotto dalla recente novella del codice di rito, che ha esteso la previsione precedentemente contenuta nell’art. 184 bis in materia di prove, all’intero sistema processuale). Richiamato, dunque, l’art. 153, II comma c.p.c., a mente del quale “la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e terzo comma”, può essere disposta la rimessione in termini della parte, poiché è incorsa in una decadenza per fatto non imputabile, ovvero per aver legittimamente confidato all’atto di iscrizione della causa a ruolo sul consolidato insegnamento della Corte di Cassazione. Tale orientamento è, d’altronde, confortato dallo stesso supremo Giudice, il quale, in un recente caso di overruling, ha affermato che deve essere rimessa in termini d’ufficio – poiché non vi è necessità di allegare e dimostrare i fatti che hanno determinato la decadenza – la parte che è incolpevolmente incorsa in un errore procedurale a causa del legittimo affidamento su un consolidato orientamento giurisprudenziale, modificato successivamente al compimento dell’atto (Cass., 17 giugno 2010, n. 14627: “Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, incorre in errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ai sensi dell’art. 184-bis cod. proc. civ., “ratione temporis” applicabile, anche in assenza di un’istanza di parte, se, esclusivamente a causa del predetto mutamento, si sia determinato un vizio d’inammissibilità od improcedibilità dell’impugnazione dovuto alla diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell’orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso”). Nel caso di specie l’effetto della rimessione in termini consiste

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nel ritenere tempestiva l’iscrizione a ruolo della causa, per cui nessuna ulteriore attività deve essere svolta dall’attore opponente né dalla parte opposta, senza che vi sia alcuna violazione del principio del contraddittorio, poiché nessuna attività giuridica è stata preclusa alla parte opposta convenuta. P.Q.M. Rimette in termini la parte opponente ai soli fini della tempestività della costituzione in giudizio. Il Giudice Dott. Mauro Martinelli

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Tribunale di Piacenza

Ordinanza 2 dicembre 2010 Il Giudice, a scioglimento della riserva assunta all’odierna udienza del 2/12/2010, osserva quanto segue. a) Nella presente controversia di opposizione a decreto ingiuntivo, risulta per tabulas che l’opponente, evocando in giudizio il convenuto, ha indicato l’udienza di comparizione nel rispetto del termine ordinario di novanta giorni; ed ha poi iscritto la causa a ruolo entro il termine ordinario di dieci giorni dalla notifica, pur se dopo il termine abbreviato di cinque giorni. Ciò detto, parte opposta, riportandosi al tenore della motivazione della recente Cass. Sez. Un. n. 19246/2010, ha eccepito l’improcedibilità dell’opposizione, sul presupposto che la stessa avrebbe dovuto essere iscritta a ruolo entro cinque giorni dalla notifica. Resiste l’opponente, invocando il pacifico insegnamento giurisprudenziale precedente alla pronuncia citata, e, se del caso, instando per la rimessione in termini. Le parti, a ciò invitate dal Giudice al fine di prendere posizione sulla tematica, hanno depositato memorie scritte. b) Lo scrutinio della questione sottoposta all’esame del Giudice, non può che muovere dall’analisi del dato normativo. Quattro, in particolare, sono le norme che qui rilevano: - l’art. 165 c.p.c., che prescrive come “l’attore, entro dieci giorni dalla notificazione della citazione al convenuto, ovvero entro cinque giorni nel caso di abbreviazione di termini a norma del secondo comma dell’articolo 163-bis, deve costituirsi in giudizio”; - l’art. 163 bis commi 1 e 2 c.p.c., il cui tenore è che “tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell’udienza di comparizione debbono intercorrere termini liberi non minori di novanta

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giorni se il luogo della notificazione si trova in Italia e di centocinquanta giorni se si trova all’estero. Nelle cause che richiedono pronta spedizione il presidente può, su istanza dell’attore e con decreto motivato in calce dell’atto originale e delle copie della citazione, abbreviare fino alla metà i termini indicati dal primo comma”; - l’art. 645 comma 2 c.p.c., secondo il quale “in seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito, ma i termini di comparizione sono ridotti a metà”; - l’art. 647 comma 1 c.p.c., che recita come “se non è stata fatta opposizione nel termine stabilito, oppure l’opponente non si è costituito, il giudice che ha pronunciato il decreto, su istanza anche verbale del ricorrente, lo dichiara esecutivo”. Ciò detto, sulla base del non inequivoco dato normativo, possono formularsi almeno tre ricostruzioni teoriche, effettivamente tutte e tre propugnate a livello di Dottrina o Giurisprudenza, circa il termine di iscrizione a ruolo nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo. In particolare, può predicarsi che: - l’opponente deve in ogni caso iscrivere la causa a ruolo entro il termine abbreviato di cinque giorni, sul presupposto che il precetto di cui all’art. 645 comma 2 c.p.c., a tenore del quale “i termini di comparizione sono ridotti a metà”, esprime un principio generale di dimidiazione di tutti i termini processuali, non limitato quindi ai termini di ‘comparizione’ ma esteso anche ai termini di ‘costituzione’; - l’opponente non deve mai iscrivere la causa a ruolo entro il termine abbreviato, ma solo nel termine ordinario, sul presupposto che, per un verso, il precetto del vigente articolo 645 comma 2 c.p.c. si riferisce ai soli termini di ‘comparizione’, che non possono essere confusi con quelli di ‘costituzione’, così come invece previsto nella formulazione originaria del Codice del 1942; e che, per altro verso, l’abbreviazione dei termini per l’iscrizione a ruolo, secondo il precetto dell’art. 165 c.p.c., è disposta solo nel caso di “abbreviazione Quaderni

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di termini a norma del secondo comma dell’articolo 163-bis”, id est di autorizzazione da parte del Presidente del Tribunale, non anche nel caso di abbreviazione dei termini ex art. 645 comma 2 c.p.c., id est di libera scelta della parte; - l’opponente deve iscrivere la causa a ruolo entro il termine abbreviato di cinque giorni, solo nel caso in cui, avvalendosi della facoltà di cui all’art. 645 comma 2 c.p.c., evochi in giudizio il convenuto per una udienza di comparizione in un termine abbreviato rispetto a quello ordinario; mentre può iscrivere la causa a ruolo nel termine ordinario di dieci giorni, laddove citi a comparire nel rispetto del termine ordinario di novanta giorni. La questione interpretativa, lungi dall’esaurirsi in un mero profilo di inquadramento dogmatico, ha in tutta evidenza una rilevantissima conseguenza pratica. Infatti, secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, la tardiva costituzione dell’opponente va parificata alla sua mancata costituzione (ciò che peraltro contesta parte della Dottrina in quanto non aderente al dato letterale della norma, atteso che l’articolo 647 comma 1 c.p.c. sembra riferire la sanzione dell’improcedibilità alla sola mancata costituzione dell’opponente, non anche alla sua tardiva costituzione). Consegue che, sempre secondo la pacifica tesi giurisprudenziale, indipendentemente dalla tempestiva costituzione del convenuto ed in deroga quindi al principio esposto per il processo ordinario dall’art. 171 comma 2 c.p.c., l’opposizione va dichiarata improcedibile, con esecutorietà e passaggio in giudicato del decreto ex art. 647 comma 1 c.p.c., laddove l’opponente abbia tardivamente iscritto la causa a ruolo (Cass. n. 19246/2010, Cass. n. 16117/2006, Cass. n. 15727/2006, Cass. n. 5039/2005, Cass. n. 17915/2004, Cass. n. 10116/2004, Cass. n. 849/2000, Cass. n. 6304/1999, Cass. n. 849/1999, Cass. n. 12044/1998, Cass. n. 3316/1998, Cass. n. 9684/1992, Cass. n. 2707/1990, Cass. n. 3355/1987, Cass. n. 1375/1980, Cass.

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n. 652/1978, Cass. n. 3286/1971, Cass. n. 3030/1969, Cass. n. 3231/1963, Cass. n. 3417/1962, 2636/1962, Cass. n. 761/1960, Cass. n. 2862/1958, Cass. n. 2488/1957, Cass. n. 3128/1956). L’improcedibilità va poi rilevata d’ufficio dal Giudice (Cass. n. 2702/1990). c) Ciò detto, va evidenziato che, con una giurisprudenza cinquantacinquennale iniziata sin dalla risalente Cass. n. 3053/1955 e mai disattesa fino al 2010, la Suprema Corte ha sempre aderito al terzo degli orientamenti sopra indicati. In particolare, il costante insegnamento della Cassazione muove dalla considerazione che la riduzione dei termini di comparizione alla metà prevista dall’art. 645 comma 2 c.p.c. per il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, riveste carattere meramente facoltativo, e l’opponente può quindi, anziché avvalersi di tale disposizione, assegnare al convenuto il termine ordinario di comparizione od anche uno maggiore. Ove però l’attore-opponente, avvalendosi della facoltà espressamente riconosciuta dall’art. 645 comma 2 c.p.c., assegni all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario ex art. 163 bis comma 1 c.p.c., si determina l’automatico parallelo dimezzamento del termine di costituzione ai sensi dell’art. 165 c.p.c., norma alla cui inosservanza consegue l’improcedibilità dell’opposizione ex art. 647 comma 1 c.p.c. E tale effetto si verifica anche laddove la concessione di un termine per la costituzione inferiore a quello ordinario, sia dipesa da errore o scelta inconsapevole, posto che la citazione a comparire in un termine inferiore a quello ordinario comporta necessariamente l’utilizzo della facoltà di dimidiazione dei termini di comparizione ex art. 645 comma 2 c.p.c., e consegue automaticamente al fatto oggettivo della concessione di un termine abbreviato. Consegue che, qualora l’opponente si avvalga della facoltà di dimidiare il termine di comparizione ex art. 645 comma 2 c.p.c. – e solo in tale caso – anche il termine a lui assegnato per la costituQuaderni

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zione ex art. 165 c.p.c. viene ridotto della metà (principio ribadito, come detto, sin da Cass. n. 3053/1955; tra le più recenti, cfr. Cass. n. 11436/2009, Cass. n. 18942/2006, Cass. n. 17915/2004, Cass. n. 16332/2002, Cass. n. 14017/2002, Cass. n. 3752/2001, Cass. n. 12044/1998, Cass. n. 3316/1998, Cass. n. 2460/1995, Cass. n. 3355/1987). La tesi, poi, è stata avallata anche dalla giurisprudenza costituzionale, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa agli artt. 645 e 165 c.p.c., anche con riferimento all’art. 6 CEDU, nella parte in cui prevedono la riduzione della metà del termine di costituzione per l’opponente, nel caso egli si avvalga della dimidiazione dei termini di comparizione, ciò che è stato considerato diritto vivente (Corte Cost. nn. 163/2010, 230/2009, 407/2008, 249/2008, 18/2008, 154/2005, 107/2004, 18/2002, 239/2000, 230/2000). d) Su tale consolidato panorama giurisprudenziale, è intervenuta, in modo oggettivamente del tutto inaspettato, la pronuncia di Cass. Sez. Un. n. 19246/2010 (est. Salmè). Pare utile osservare che le Sezioni Unite non sono state adite per comporre un contrasto giurisprudenziale, del tutto insussistente in ragione di quanto detto, ma sono state investite in ragione di una “questione di massima di particolare importanza” ex art. 374 comma 2 c.p.c. Invero, la Prima Sezione, pur dando atto dell’esistenza di un orientamento consolidato e coincidente con il terzo dei tre sopra riassunti, auspicava un intervento correttivo delle Sezioni Unite nel senso più liberale per l’opponente, e cioè nel senso di ritenere mai dimidiati i termini per la costituzione, neppure nel caso di concessione di un termine a comparire inferiore a quello ordinario, in buona sostanza riportandosi al secondo dei tre orientamenti di cui sopra. Invece, le Sezioni Unite hanno dapprima ribadito il proprio pregresso insegnamento (“non vi sono ragioni per discostarsi dal co-

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stante orientamento giurisprudenziale secondo cui, quando l’opponente si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per la sua costituzione è automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione”); ma poi, in un obiter dictum, hanno di fatto aderito alla prima delle tre tesi sopra indicate (“esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini per comparire siano ridotti della metà; nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facoltà dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, terzo comma”), giungendo alla conclusione esattamente opposta a quella invocata dall’ordinanza di rimessione. Pertanto, a fronte di un consolidato orientamento che ritiene la necessità per l’opponente di iscrivere la causa a ruolo nei termini abbreviati solo in caso di citazione con termini a comparire abbreviati, ed a fronte di un’ordinanza di rimessione che invita le Sezioni Unite a ritenere che in ogni caso di opposizione a decreto ingiuntivo l’iscrizione a ruolo debba essere fatta nei termini ordinari, le Sezioni Unite, con un obiter dictum, hanno ritenuto che l’iscrizione a ruolo nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo vada sempre e comunque posta in essere nei termini abbreviati, anche nel caso in cui l’opponente abbia assegnato all’opposto un termine a comparire pari o superiore a quello legale. Non vi è chi non veda come, diversamente da quanto osservato dalle Sezioni Unite, non si tratti certo di una “puntualizzazione”, Quaderni

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bensì di una vera e propria rivoluzione interpretativa. e) è del tutto prevedibile che, in ragione della pronuncia in esame ed al fine di conformarsi al precedente di legittimità per prudenzialmente evitare eccezioni di rito, nell’immediato futuro gli opponenti provvederanno comunque ad iscrivere la causa a ruolo nel termine abbreviato di cinque giorni. Si pone però, ora e nell’immediatezza, il problema di verificare quale sia la sorte dei giudizi di opposizione al decreto ingiuntivo già pendenti, in cui l’opponente che abbia assegnato all’opposto un termine a comparire pari o superiore a quello previsto dall’art. 163 bis c.p.c., si sia costituito oltre il termine dimidiato di cinque giorni, ma entro quello ordinario di dieci giorni. è infatti evidente che l’applicazione della regola iuris, enunciata dalle Sezioni Unite, anche ai procedimenti pendenti, comporterebbe l’improcedibilità degli stessi a seguito di un mutamento giurisprudenziale avvenuto dopo l’inizio della lite, ciò che sarebbe in contrasto, oltre che con un elementare principio di ragionevolezza, anche con l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’Uomo (da ultimo, cfr. Cocchiarella contro Italia 29/3/2006) e con quelli della Corte di Giustizia (da ultimo, cfr. Danone contro Commissione 8/2/2007). Ciò detto, la totalità dei provvedimenti della giurisprudenza di merito finora editi, ha, senza eccezione alcuna, ritenuto di non applicare il principio enunciato dalle Sezioni Unite alle controversie pendenti, ed ha quindi ritenuto di non colpire con la pronuncia di improcedibilità le opposizioni iscritte a ruolo dopo il termine di cinque giorni e prima del termine di dieci giorni, laddove la citazione sia stata effettuata nel rispetto dei termini ordinari a comparire. Ferma restando la pacifica condivisione di tale approdo interpretativo, sono tre le soluzioni ermeneutiche seguite per giungere alla conclusione dell’inapplicabilità, quantomeno ai procedimenti pendenti, del dictum di Cass. Sez. Un. n. 19246/2010.

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In particolare: 1. Una tesi ha ritenuto radicalmente inapplicabile l’insegnamento delle Sezioni Unite in ordine alla pretesa generale applicazione del termine dimidiato per l’iscrizione a ruolo in ogni procedura di opposizione a decreto ingiuntivo, indipendentemente dal fatto che la citazione sia stata o meno effettuata nel rispetto dei termini ordinari di comparizione. Si è in particolare evidenziato che la ratio della decisione è stata fondata dalla Corte sulla pretesa necessità di rendere possibile una celere trattazione dei procedimenti; ma che tale ratio è in realtà del tutto insussistente, posto che non è dato comprendere quale spinta acceleratoria alla trattazione dell’opposizione possa costituire la concessione all’opponente di un minor termine per la sua costituzione in giudizio, atteso che detta accelerazione dipende esclusivamente dalla riduzione del termine a comparire, e non certo dalla riduzione del termine per l’iscrizione a ruolo. L’intrinseca debolezza della motivazione utilizzata dalle Sezioni Unite, deve così portare a disattendere l’insegnamento delle stesse. Invero, per un verso, “nell’ordinamento giuridico italiano le decisioni del giudice di legittimità non assumono un decisivo valore vincolante, posto che l’esercizio nomofilattico è demandato all’efficacia meramente persuasiva del precedente e dunque alla plausibilità dell’orientamento in esso espresso”, non avendo dette sentenze “valore vincolante paragonabile allo ius superveniens” (cfr. Trib. Padova ord. 21/10/2010, Pres. Paola est. Di Francesco) e non essendo previsto dall’ordinamento il principio dello stare decisis, proprio perché le sentenze della Suprema Corte “non vincolano le corti di merito eccezion fatta per il Giudice del rinvio ex art. 284 comma 2 c.p.c.” (Trib. Verona ord. 14/11/2010 est. Mirenda), nessuna persuasività può essere riconosciuta alla sentenza in esame. Per altro verso ed in ogni caso, un’interpretazione dell’art. 645 comma 2 così penalizzante per l’opponente, necessiterebbe, da parte Quaderni

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della Suprema Corte, di una pronuncia ben diversa rispetto a quella consistente in un mero obiter dictum estraneo alla causa decidendi e che non concorre ad enucleare la regola di diritto. Per tali motivi, non vi è ragione per discostarsi dall’indirizzo costantemente seguito dai giudici di legittimità fino alla citata recente pronuncia delle Sezioni Unite (oltre ai già citati Tribb. Padova e Verona, cfr. altresì Trib. Roma sent. 29/10/2010 n. 21464 est. Battisti, Trib. Udine ord. 30/10/2010 est. Giacomelli, Trib. Milano sent. 3/11/2010 n. 19246 est. Gattari, Trib. Catanzaro ord. 4/11/2010 est. Damiani, Trib. Milano sent. 24/11/2011 n. 3101 e 27/11/2011 n. 3102, est. Giani). 2. Altra tesi, esposta per la prima volta e con straordinaria ricchezza argomentativa dalle sentenze di Trib. Varese 8/10/2010 n. 1274 e 11/10/2010 est. Buffone, ritiene invece l’approdo ermeneutico delle Sezioni Unite condivisibile nel merito ma inapplicabile retroattivamente. Si argomenta infatti che, nel caso di mutamento di un’interpretazione del tutto consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo, la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della Suprema Corte, successivamente travolta dall’overruling, ha tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa e perciò è da escludere la rilevanza preclusiva dell’errore in cui essa è incorsa. Pertanto, per non incorrere in violazione delle norme costituzionali, internazionali e comunitarie, che garantiscono il diritto ad un giusto processo, il giudice di merito deve escludere la retroattività del principio giurisprudenziale di nuovo conio: infatti, anche in materia processuale deve essere data tutela al diritto vivente, alla stregua di quanto accade per lo ius superveniens del diritto positivo, governato dal principio del tempus regit actum (cfr. Trib. Varese 8/10/2010 est. Buffone, Trib. Milano ord. 7/10/2010 est. Cosentini, Trib. Milano sez. distaccata Rho ord. 15/10/2010 est. Gori, Trib. Latina sent. 19/10/2010 est. Menichetti, Trib. S. Angelo dei Lombardi

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sent. 20/10/2010 n. 625 e 3/11/2010 est. Levita). 3. Una terza ricostruzione, per evitare la declaratoria di improcedibilità e sanare la costituzione tardiva, invoca invece l’esistenza di un errore scusabile che consente la rimessione in termine ex artt. 184 bis-153 c.p.c., ciò che secondo la più recente giurisprudenza è possibile anche in assenza di istanza di parte (Cass. Sez. Un. nn. 15811/2010 e 14627/2010). In particolare, si argomenta che, anche alla luce del principio costituzionale del giusto processo codificato dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 della CEDU, l’errore della parte che abbia fatto affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, non può avere rilevanza preclusiva. Tanto però si verifica non già in ragione dell’inefficacia retroattiva della pronuncia della Cassazione sul rito, posto che ciò logicamente postulerebbe, in linea generale, il carattere costitutivo e vincolante delle pronunzie delle Corti Superiori; e posto che, invece, detto principio non opera nel nostro ordinamento, ove ogni giudice è libero di interpretare secondo la propria discrezionalità la disposizione di legge, anche discostandosi, motivatamente, dalle posizioni della Suprema Corte. Ma si verifica piuttosto grazie alla rimessione in termini alla luce del novellato articolo 153 comma 2 c.p.c. o dell’articolo 184 bis c.p.c. ratione temporis vigente (Trib. Udine sent. 1/10/2010 est. Zuliani, Trib. Livorno sez. distaccata Portoferraio ord. 1/10/2010 est. Marino, Trib. Bari ord. 4/10/2010 est. Scoditti, Trib. Torino ord. 11/10/2010 est. Liberati, Trib. Tivoli sent. n. 1400 del 12/10/2010 est. Scarafoni, Trib. Pavia ord. 15/10/2010 est. Balba, Trib. Velletri sent. 15/10/2010 est. Cataldi, Trib. Biella sent. 19/10/2010 n. 19246/2010 est. Reggiani, Trib. Marsala ord. 20/10/2010 est. Lupia, Trib. Macerata sent. 22/10/2010, Trib. Torino ord. 28/10/2010 est. Di Capua, Trib. Arezzo sezione Sansepolcro sent. 29/10/2010). Come detto, poi, per un verso alla rimessione in termini non osta Quaderni

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neppure la mancanza dell’istanza di parte, dovendo essa essere disposta anche d’ufficio; e per altro verso, l’ambito operativo della rimessione in termini assume carattere generale e va riferito anche alle situazioni esterne e precedenti al giudizio, quali appunto l’iscrizione a ruolo, ciò che per le controversie assoggettate al regime della L. n. 69/2009 e successive al 4/7/2009, quali la presente, deriva direttamente e pacificamente dalla collocazione sistematica dell’art. 153 c.p.c., mentre per le controversie precedenti deriva da una nuova ed ampliativa interpretazione dell’art. 184 bis c.p.c. ratione temporis vigente (Cass. Sez. Un. nn. 14627/2010 e 15809/2010). f) A tale ultimo e finora maggioritario orientamento, questo Tribunale intende prestare adesione, così come anche emerso dall’unanime opinione espressa dai magistrati della sezione civile nell’ultima riunione ex art. 47 quater O.G. Invero, nella fattispecie in esame ricorrono tutti gli elementi per la rimessione in termini, ovvero: - un consolidato orientamento giurisprudenziale ultradecennale, che ha generato il legittimo affidamento dell’opponente sulla ritualità della costituzione entro i dieci giorni; - il mutamento di orientamento interpretativo del giudice di legittimità; - la conseguente natura scusabile dell’errore, imputabile esclusivamente all’adesione, da parte dell’opponente, all’orientamento corrente all’epoca della costituzione in giudizio; - l’evidenza oggettiva dell’errore scusabile e la conseguente superfluità dell’apposita istanza dell’opponente, peraltro presente nel caso che qui occupa. D’altronde, nelle stesse motivazioni di Cass. Sez. Un. n. 14627/2010 e 15818/2010, si insegna che la rimessione in termini viene presa in considerazione “nella sua portata di precipitato normativo espressione di un principio generale di superiore giustizia, coessenziale alla garanzia costituzionale dell’effettività della tutela

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processuale, che vede nel rimedio restitutorio il mezzo rivolto a non far sopportare alla parte, quando ad essa non possa farsi risalire alcuna colpa, le gravi conseguenze di un errore indotto dalla stessa giurisprudenza precedente”. Diversamente opinando, secondo lo stesso giudizio della Cassazione si avrebbe un “cambiamento delle regole del gioco a partita già iniziata e in una somministrazione all’arbitro del potere-dovere di giudicare dell’atto introduttivo in base a forme e termini il cui rispetto non era richiesto al momento della proposizione dell’atto di impugnazione”. Peraltro, al fine di ottenere il risultato costituzionalmente necessario della tutela di chi ha fatto affidamento su una regola iuris pacifica, la restituzione delle facoltà processuali, altrimenti precluse alla parte incolpevole, non deve necessariamente sempre attuarsi con la possibilità di compiere l’atto processuale la cui mancanza dovrebbe generare la decadenza; ma, nelle ipotesi in cui lo stesso atto sia stato già espletato, pur se tardivamente secondo il mutato orientamento giurisprudenziale, può anche concretizzarsi nel ritenere l’adempimento comunque tempestivo, senza necessità di ripeterlo, così evitando la sanzione processuale alla parte che in buona fede lo abbia compiuto, ed evitando ad entrambe le parti la regressione del processo e l’invalidazione ex post di tutti gli altri atti del giudizio, esito che sarebbe a sua volta in contrasto con il principio del giusto processo, ed in particolare con la ragionevole durata del giudizio (cfr. Trib. Velletri 15/10/2010 est. Cataldi). Né può opinarsi che ciò contrasterebbe con il principio di parità delle armi processuali, il quale postula la regressione del procedimento solo allorquando si è in presenza di una rimessione avente ad oggetto attività processuale che comporti innovazioni allegatorie o probatorie; ma non anche allorquando la rimessione riguarda esclusivamente l’individuazione del termine per l’iscrizione a ruolo, id est un’attività che non innova in alcun modo il complesso allegatorio o probatorio esistente. Quaderni

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La rimessione, allora, può realizzarsi ritenendo tempestiva l’iscrizione a ruolo dell’opponente e consentendo al giudizio di raggiungere la sua naturale definizione nel merito. Con la conseguenza che, all’applicazione ai casi di specie di tale istituto, non osta il timore che il medesimo determini una regressione in toto del processo, già istruito, alla sua fase iniziale, identificata nella costituzione in giudizio delle parti (Trib. Marsala 20/10/2010 est. Lupia). g) In ragione di tutto quanto sopra, parte opponente deve essere rimessa in termine ex art. 153 c.p.c. ai fini dell’iscrizione della causa a ruolo, la quale, essendo già avvenuta, deve quindi essere considerata tempestivamente effettuata ora per allora. Va poi disposto rinvio all’udienza del 1/3/2010 ore 12,45, onde decidere, in contraddittorio con le parti, in ordine alle richieste istruttorie ed all’istanza di concessione della provvisoria esecuzione del decreto opposto. P.Q.M. - visto l’art. 153 c.p.c., rimette l’opponente in termini ai fini dell’iscrizione della causa a ruolo, già avvenuta e quindi da considerarsi tempestivamente effettuata; - rinvia all’udienza del 1/3/2011 ore 12,45 onde decidere sulle richieste istruttorie e sulla richiesta di concessione della provvisoria esecuzione. Piacenza, 2/12/2010 Il Giudice Dott. Gianluigi Morlini

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La Corte Suprema di Cassazione Terza Sezione Civile

Ordinanza 14 dicembre 2010 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Roberto Preden – Presidente – Dott. Giancarlo Urban – Consigliere – Dott. Roberta Vivaldi – Consigliere – Dott. Raffaele Frasca – Consigliere – Dott. Raffaella Lanzillo – Rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente Ordinanza Interlocutoria sul ricorso 30009-2006 proposto da: (omissis), elettivamente domiciliato in Roma, (omissis), presso lo studio dell’avvocato (omissis) rappresentato e difeso dall’avvocato (omissis) giusta delega a margine del ricorso; - ricorrenti contro (omissis), elettivamente domiciliato in Roma, (omissis), presso lo studio dell’avvocato (omissis), che lo rappresenta e difende giusta delega in calce al controricorso; - controricorrenti nonché contro (omissis); - intimati avverso la sentenza n. 3838/2005 della Corte D’Appello di Roma, Sezione Seconda Civile, emessa il 21/06/2005, depositata il 15/09/2005 R.G.N. 10543/2002; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/12/2010 dal Consigliere Dott. Raffaella Lanzillo; Quaderni

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udito l’Avvocato (omissis) udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Eduardo Vittorio Scardaccione che ha concluso con il rigetto del ricorso. La Corte, esaminati gli atti e i documenti di causa, rilevato che - il ricorso per cassazione è stato proposto contro la sentenza della Corte di Appello di Roma, che – confermando la decisione di primo grado – ha respinto l’opposizione proposta da (omissis) al decreto ingiuntivo n. 115/2006, emesso dal Tribunale di Latina su ricorso di (omissis) recante condanna del (omissis) al pagamento di £ 70.000.000, oltre accessori e spese; - al ricorso ha resistito il (omissis) con controricorso, svolgendo solo difese di merito sui motivi di ricorso; - con la memoria depositata il 6 dicembre 2010 ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., il resistente (omissis) ha eccepito l’improcedibilità dell’opposizione al decreto ingiuntivo, perché iscritta a ruolo oltre il quinto giorno successivo alla notificazione dell’atto di opposizione, richiamando il principio enunciato dalla Corte di cassazione a sezioni unite con sentenza 9 settembre 2010 n. 19246, secondo cui l’art. 645, 2° comma, cod. proc. civ. va interpretato nel senso che il termine per la costituzione per l’opponente si deve ritenere dimezzato in ogni caso, a prescindere dalla circostanza che l’opponente si sia avvalso della facoltà di ridurre il termine di comparizione; - il Collegio ritiene di non poter aderire alla suddetta interpretazione, anche alla luce dei principi sul giusto processo di cui all’art. 111 Cost., e che comunque il nuovo principio non possa ritenersi applicabile ai giudizi svoltisi in data anteriore alla pubblicazione della citata sentenza delle sezioni unite. - Quanto al primo punto, il Collegio rileva che il principio enunciato è estraneo al testo letterale dell’art. 645 cod. proc. civ., e ritiene

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che esso non trovi supporto in esigenze di carattere sistemico. - In primo luogo la norma autorizza, ma non impone, la riduzione del termine di comparizione, nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo; sicché appare singolare e disarmonico che il termine di costituzione debba ritenersi sempre ed obbligatoriamente dimezzato, essendo invece facoltativo avvalersi della riduzione del termine di comparizione. - La soluzione si spiegherebbe se vi fosse un principio per cui tutti i termini debbono essere dimezzati, nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo; ma così non è. - Né sembra corretto trarre argomento dalle disposizioni dettate per il processo ordinario dagli art. 163bis, 2° comma, e 165, 1° comma, cod. proc. civ.: sia perché nel processo ordinario la riduzione del termine di comparizione deve essere appositamente richiesta dalla parte interessata, la quale così accetta consapevolmente la regolamentazione ed i limiti che ne conseguono; sia perché ivi la riduzione del termine di costituzione è espressamente disposta dalla legge (art. 165, 1° comma, cod. proc. civ.); sia perché l’eventuale tardività dell’iscrizione al ruolo non comporta l’improcedibilità della domanda, pregiudicando irrimediabilmente la posizione della parte, ma è sanabile mediante riassunzione (art. 307 cod. proc. civ.). - Non sembra consentito, pertanto, istituire un parallelismo di disciplina, a fronte di gravi disparità di presupposti e di effetti della proposta regolamentazione. - Infine e soprattutto, l’introduzione in via interpretativa dell’automatica riduzione del termine di costituzione comporta una deroga alla disciplina di diritto comune che aggrava la posizione di una sola delle parti del giudizio, ed in particolare la posizione dell’opponente, che già risulta svantaggiato rispetto alla controparte, nell’esercizio del diritto di difesa, in virtù della peculiare disciplina del processo di ingiunzione. - In un processo in cui colui che riveste sostanzialmente la poQuaderni

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sizione di convenuto è esposto ad un provvedimento di condanna sommaria e preventiva; deve proporre le sue difese entro un termine perentorio, a pena del passaggio in giudicato della condanna; non può evitare l’esecuzione provvisoria in mancanza di prova scritta; è soggetto a pronuncia immediata di improcedibilità, nel caso di mancata o tardiva costituzione, ecc., l’introduzione in via meramente interpretativa di ulteriori restrizioni e decadenze – quali la riduzione automatica a cinque giorni del termine di costituzione, a prescindere da ogni consapevole scelta di parte (termine che per di più viene applicato dalla giurisprudenza con estremo rigore:cfr. Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 2005 n. 5039) – non pare compatibile con i principi per cui il giusto processo deve svolgersi “in condizioni di parità fra le parti” e deve essere “regolato dalla legge” (art. 111, 1° e 2° comma Cost.). - Si aggravano infatti le asimmetrie di disciplina nell’esercizio di diritto di difesa, in danno del solo opponente ed in mancanza di espressa disposizione di legge. - L’interpretazione qui criticata non appare giustificata neppure da esigenze di garanzia della “ragionevole durata del processo”, o del diritto di difesa dell’opposto. - Sulla durata del processo non incidono i termini di costituzione, bensì i termini di comparizione. - Il diritto di difesa dell’opposto non risulta meno tutelato di quello spettante all’opponente, ove si consideri che il termine di quaranta giorni concesso a quest’ultimo per predisporre le sue difese e notificare l’atto di opposizione potrebbe essere ridotto fino a dieci giorni (art. 641, 2° comma, cod. proc. civ.). - Questo Collegio ritiene, pertanto, che la riduzione alla metà dei termini di costituzione dell’opposto debba ritenersi operante (tutt’al più) nei soli casi in cui l’opponente effettivamente si avvalga del diritto di ridurre alla metà i termini di comparizione. - In subordine e in ogni caso, anche ammesso che si voglia con-

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fermare l’interpretazione qui criticata, il principio enunciato dalla Corte di cassazione a sezioni unite con la citata sentenza n. 19246 del 2010, non dovrebbe poter essere applicato ai processi svoltisi in data anteriore, allorché era consolidata una diversa interpretazione. - Il Collegio condivide in proposito le argomentazioni svolte dalla sentenza n. 15811/2010 della seconda Sezione di questa Corte, secondo cui non è consentito “cambiare le regole del gioco a partita già iniziata”. Ciò comporterebbe la sostanziale violazione, anche qui, del principio di legalità sancito da varie norme della nostra Costituzione ed in particolare dall’art. 111. - In tema di opposizione a decreto ingiuntivo ciò avrebbe conseguenze particolarmente gravi, poiché verrebbe ad esporre l’opponente ad un giudizio di improcedibilità dell’opposizione – con irrimediabile pregiudizio per la difesa delle sue ragioni – sulla base di regole diverse da quelle che egli era in grado di conoscere e di prevedere alla data in cui ha proposto la domanda giudiziale. - Va tenuto presente che, mentre una legge che innovi al diritto preesistente contiene normalmente anche le norme transitorie e la disciplina dei rapporti in corso – e, se non le contiene, è comunque soggetta ai principi generali in materia (art. 10 e 11 delle preleggi, art. 25 Cost., ecc.) – una nuova regola giurisprudenziale nasce del tutto scollegata dai problemi di diritto intertemporale, pur venendo di fatto a rivestire, nella formazione del diritto vivente e concretamente applicato, una rilevanza spesso non inferiore a quella della legge. - La mancata, espressa previsione e disciplina del problema si ricollega al principio generale per cui le regole di origine giurisprudenziale, non avendo forza di legge, non possono formalmente vincolare le parti o gli interpreti, quindi possono essere disattese in qualunque momento, precedente o successivo alla loro formulazione. - Ma trattasi di un principio che esprime un’esigenza di garanzia e che non può essere usato contro se stesso, sì da condurre a risultati antitetici a quelli per i quali è stato formulato. Quaderni

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- Nel sistema delle fonti del diritto la legge è sovraordinata alla giurisprudenza allo scopo di garantire l’uniformità e la certezza delle regole di comportamento, sottraendole alle ondivaghe opinioni e tendenze interpretative. - Nel momento in cui si constata che le interpretazioni giurisprudenziali – ed in particolare quelle della Corte di cassazione – orientano di fatto il comportamento degli operatori del diritto tanto quanto le norme di legge (se non di più, soprattutto là dove la legge non disponga, o quando ne venga integrato il dettato letterale, come nel caso di specie); nel momento in cui la legge formale dà il suo avallo ad una tale tendenza, tramite norme quali il nuovo art. 360bis n. 1) cod. proc. civ., per cui l’inosservanza dei principi giurisprudenziali può costituire causa di inammissibilità del ricorso per cassazione, il problema dell’efficacia nel tempo anche delle regole giurisprudenziali non può essere ulteriormente accantonato e trascurato, soprattutto nelle materie – quali quella processuale – in cui il principio tempus regit actum svolge un ruolo insostituibile di garanzia. - Anche qui il principio per cui il giusto processo deve essere regolato dalla legge richiede e presuppone che il privato abbia il diritto di sapere con certezza quali siano le regole in vigore nel momento in cui agisce, siano esse legali o giurisprudenziali. E, se la legge non prevede in materia, è il caso che la giurisprudenza si faccia carico anche di questo problema. - Trattasi di questione che questo Collegio ritiene di particolare importanza, sulla quale chiede che si pronuncino le Sezioni unite di questa Corte P.Q.M. visto l’art. 374, 3° comma, cod. proc. civ., rimette la causa alle Sezioni unite. Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2010 Il Consigliere est. Il Presidente

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Relazione per la inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 di Mario Buffa*

INTRODUZIONE Autorità, gentili signore, signori, Vi esprimo sentita gratitudine per la vostra presenza a questa cerimonia e vi porgo, a nome dei magistrati tutti del distretto, un cordiale saluto. Un saluto particolare – vi prego di consentirmelo – vorrei porgere ad alcuni ospiti di eccezione. Ricorre quest’anno il trentesimo della fondazione a Lecce della Comunità Emmanuel, grazie alla quale “tante vite umane, sofferenti, malate, ferite, distrutte… sono state raggiunte e curate, sanate, restituite a se stesse, alla propria dignità e libertà, alla famiglia, alla società, alla speranza”. Con la Comunità Emmanuel, da quando, su impulso di un grande vescovo di Lecce, mons. Michele Minguzzi, si fece carico anche del problema della droga, percependo immediatamente quali dimensioni presto il problema avrebbe assunto e quali drammatici sconvolgimenti avrebbe determinato nella vita di tante famiglie, quando nessun’altra istituzione sembrava essersene resa conto e tanto meno intendeva farsene carico, con la Comunità Emmanuel noi giudici, io prima che rivestissi l’attuale ruolo, abbiamo avuto frequentissimi contatti, perché la Comunità ha rappresentato per tanti giovani e meno giovani, vittime della droga o di altri problemi esistenziali, l’unica alternativa al carcere, non la fuga dal carcere… ma l’unica alternativa in grado di recuperare alla società soggetti altrimenti perduti, per i quali il carcere avrebbe rappresentato solo uno strumento di difesa sociale ma che nessuna prospettiva però gli avrebbe potuto offrire. Nel giorno d’inizio di un nuovo anno giudiziario, mi è sembrato doveroso rendere pubblica testimonianza agli operatori della comunità del lavoro da loro svolto * Presidente della Corte di Appello di Lecce.

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in silenzio e ho pregato insistentemente il fondatore, padre Mario Marafioti, di intervenire a questa cerimonia. Padre Mario Marafioti rifiuta i riflettori e le cerimonie solenni, preferisce coltivare la sua spiritualità stando accanto, come dice don Tonino Bello “al volto spaurito degli oppressi, alla solitudine degli infelici, all’amarezza di tutti gli uomini della terra che sono il luogo dove il Dio fattosi uomo vive in clandestinità”; ma alle mie insistenze ha risposto si ed io gli sono grato della sua presenza. Altro ospite di eccezione quest’anno sono i giovani: quest’anno infatti, credo per la prima volta, abbiamo esteso l’invito agli studenti dell’ultimo anno dei licei, per questa volta solo dei licei classici; la loro presenza servirà a togliere a questa cerimonia il carattere di rituale quasi inutile che corre il rischio di assumere nell’apparente generale disinteresse per i problemi della giustizia. I giovani appaiono lontani dalle istituzioni; anche in loro si avverte la crisi di disaffezione che caratterizza, come dice il nostro arcivescovo mons. D’Ambrosio nella sua lettera al popolo di Lecce del marzo scorso, “il rapporto tra le istituzioni pubbliche e la gente… una crisi che viene da lontano: crisi di senso e di progetti, incapacità di dare prospettive, vuoto di cultura nel quale facilmente si inserisce il puro potere o addirittura il prepotere, comunque una burocrazia esasperante che paralizza i servizi sociali e che la gente non sopporta”. Con questi giovani, per la prima volta forse in Europa una generazione “meno”, una generazione che avrà meno opportunità, meno mobilità sociale, in concreto meno consumi, automobili, case, meno pensioni, perfino – forse – meno aspettative di vita, nonostante i progressi della scienza, di quanto ne abbiano avuto i loro padri, con questi giovani abbiamo il dovere noi adulti di ristabilire un rapporto di fiducia. Non possiamo illuderli o deluderli – ci avverte ancora una volta mons. D’Ambrosio. “Le loro attese e le loro speranze possono richiamare coloro che fanno politica alla correttezza, all’onestà, alla difesa della vita ed alla promozione del futuro. Con loro siamo chiamati a sconfiggere l’egoismo, l’ignoranza, il disinteresse, forse l’apatia che può essere stura agli strani fenomeni di bullismo e affini, che recentemente mostrano una spia pericolosa anche nella nostra città di Lecce”. Bisogna evitare che la disaffezione dei giovani per le istituzioni possa trasformarsi in pratica dell’illegalità. Bisogna convincerli che, come scrisse un uomo del Sud, Corrado Alvaro, “la disperazione peggiore di una società è la convinzione che vivere onestamente sia inutile”. Per questo considero importante la presenza di questi giovani qui oggi ad una cerimonia in cui si parlerà di giustizia e li ringrazio per avere accolto il mio invito. Concludo questa prima parte del mio intervento, porgendo un saluto ai colleghi che nel corso dell’anno hanno deciso, e non solo per raggiunti limiti di età, di lasciare il servizio in magistratura; gran parte sono qui presenti, il procuratore generale dr. Gennaro, il presidente preposto alla sezione distaccata di Taranto dr. Marsano, il presidente del tribunale di sorveglianza di Lecce dr. Romano e tanti altri che non nomino singolarmente.

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È la quinta volta, due volte ad Ancona, per la terza volta qui a Lecce, che mi accingo a relazionare sullo stato della giustizia nel distretto. Ora che in teoria, con l’acquisita esperienza, dovrebbe riuscirmi più facile, provo in realtà una maggiore difficoltà anche se, come in passato, al pessimismo della ragione tento di far prevalere, come si diceva una volta, l’ottimismo della volontà, superando lo scoramento che mi viene dalla constatazione che tutto va male senza che nessuno pensi seriamente di rimediare, con la fiducia che invece mi viene dall’entusiasmo che mi ha permesso di affrontare il mio compito con le mie forze, senza attendere una soluzione miracolosa dei problemi, sforzandomi di ottenere ed ottenendo dai miei collaboratori tutto il loro aiuto, mettendo a dura prova la loro capacità di sacrificio, riconoscendo a loro – com’è giusto – il merito dei modesti ma significativi risultati raggiunti, dandogli consapevolezza che oggi negli uffici del distretto, pure con qualche eccezione, grazie alle prassi virtuose che siamo riusciti ad avviare, si lavora con più ordine, si produce di più, vi è da parte del personale maggiore disponibilità verso gli avvocati e verso l’utenza (come purtroppo si chiamano ancora, in burocratese, i cittadini titolari di diritti). La soddisfazione che proviamo, sapendo che questo piccolo merito ci viene riconosciuto dalle persone con cui – per il nostro lavoro – veniamo a contatto, ci compensa del dispiacere che dovrebbe derivarci dalle continue ingiurie che ci riversano addosso quasi quotidianamente personaggi di rango politico anche elevato, sempre più insofferenti verso la legalità e i suoi custodi, sempre più arroganti… La nostra capacità di sacrificio e la nostra pazienza viene però messa a dura prova se, solo per aver fatto con scrupolo il nostro dovere e per avere assolto il compito che la costituzione ci assegna, noi magistrati ed anzi la stessa istituzione giudiziaria viene disinvoltamente indicata nel suo insieme come “emergenza per la democrazia” o addirittura come “associazione per delinquere” senza che nessuno si alzi a difenderci, forse perché non appare necessario o forse anche perché, purtroppo, sotto sotto il potere, qualunque forma o colore rivesta, rifiuta di massima ogni controllo di legalità. Non è un caso che di questi giorni, svelati da Wikileaks alcuni segreti della diplomazia, abbiamo appreso che un importante esponente politico dell’opposizione, della forza politica cioè di cui l’altra parte ci accusa risibilmente di essere i servi sciocchi, pensa della giustizia che costituisce “la più grande minaccia per lo Stato”, senza che sia intervenuta una ferma ed energica smentita da parte sua. Quando un professionista di grande levatura, a cui sono personalmente legato da antichissima amicizia, un uomo di cultura, che anche sulla scena politica ha primeggiato, Giovanni Pellegrino, diffonde una sua pubblicazione nella quale si leggono anche cose interessanti e condivisibili, ma che significativamente è intitolata “Il morbo giustizialista” come se il pericolo da cui bisogna guardarsi oggi in Italia non fosse la corruzione pubblica anche ai più alti livelli, non la sfacciata evasione tributaria che accolla ai ceti più deboli il peso del funzionamento dello Stato, non la crisi economica che ancora una volta colpisce i più deboli, non la perdita

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di ogni pudore con l’asservimento delle istituzioni pubbliche ai personali capricci del padrone di turno… ma la giustizia e i giudici; allora ci sentiamo disorientati, ci sembra di non capirci più niente e siamo tentati forse di abbandonare la spugna, in gergo sportivo… e invece no… Noi rifiutiamo la provocazione ma non possiamo nascondere la nostra soddisfazione per il fallimento – almeno per ora – della pseudoriforma della giustizia, la tanto propagandata “grande… grande riforma”, che, se approvata, avrebbe portato al successo il meditato attacco all’indipendente esercizio della giurisdizione ed al sovvertimento dei principi fondamentali del costituzionalismo moderno che sono alla base anche della nostra costituzione. Rispettosi della raccomandazione del Presidente della Repubblica, a cui rivolgo ora il mio doveroso saluto, che, rappresentante dell’unità nazionale, è garante e tutore della nostra indipendenza ed autonomia – come tante volte ha dimostrato, anche quando di fronte agli attacchi che abbiamo subito ha raccomandato solo a noi prudenza e moderazione, anche quando in situazioni analoghe ha richiamato solo noi a praticare un costume di serenità, riservatezza ed equilibrio nel rigoroso rispetto delle regole – noi siamo qui oggi non per rispondere con la polemica alla polemica, ma per riaffermare il nostro impegno a proseguire con fermezza nel nostro compito che è quello di osservare e fare osservare la legge. Di fronte a voi, rappresentanti della comunità noi assumiamo l’impegno a cercare la nostra legittimazione solo nel modo indipendente ed imparziale con cui svolgiamo il nostro compito. Assumiamo l’impegno a non farci coinvolgere in nessun centro affaristico o partitico che possa condizionare l’esercizio delle nostre funzioni. Assumiamo l’impegno a considerare le nostre garanzie e le nostre prerogative come funzionali soltanto al servizio. Vogliamo essere magistrati per i quali non esiste una questione morale ma per i quali la moralità è una regola quotidiana. Io ora dovrei illustrare, secondo le regole di questa cerimonia, nel tempo massimo che mi è assegnato di trenta minuti (quindici credo di averli già consumati) la mia relazione scritta, che è stata distribuita ad ognuno di voi, chi non l’avesse ricevuta ed è interessato può chiederla alla segreteria, che è piuttosto corposa ed è soprattutto ricca di dati statistici elaborati da una bravissima funzionaria la dr.ssa Carla Tarantino, che consentiranno di soddisfare, volendo, ogni curiosità. Nel tempo che mi rimane potrei soltanto leggere l’indice – il che è di poca o nessuna utilità –; preferisco allora affrontare ma compiutamente solo qualche argomento rischiando però di apparire inevitabilmente discontinuo. Sforerò forse di qualche minuto i trenta assegnati ma, tranquillizzatevi, non commetterò lo stesso errore dell’anno passato e non vi tedierò a lungo…

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PARTE PRIMA Considerazioni generali sulla situazione della giustizia Le conseguenze delle disfunzioni Che la giustizia non funzioni o meglio che funzioni male è risaputo e non v’è ragione di ritornare sull’argomento. Note sono altresì le conseguenze sul piano sociale e sull’economia in particolare. Nelle considerazioni finali della sua relazione annuale il Governatore della Banca d’Italia non manca di ricordarlo dalla sua altissima cattedra. Lo ha fatto anche Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria che ha anche di recente affermato: “Non ci può essere crescita economica e una vera uscita dalla crisi senza sicurezza, giustizia ed etica: serve soprattutto un migliore funzionamento della giustizia a partire da una riforma della giustizia civile… L’Italia è l’ultima tra i paesi Ocse per i tempi della giustizia: servono più di 1200 giorni in media per recuperare un credito, contro i trecento giorni che servono in Germania e in Francia, è necessario fare una riforma anche in questo senso”. In sede locale, il tema è stato ripreso nel dibattito che è seguito alla presentazione del direttore regionale Umbrella del rapporto annuale della Banca d’Italia sull’andamento dell’economia in Puglia nonché nella relazione del direttore di Confindustria Lecce Corvino che ha affermato: “Non rappresenta una novità il fatto che le imprese debbano gestire rapporti farraginosi con la giustizia ed è uno dei problemi, a mio avviso, che blocca lo sviluppo del Sud e che già da tempo è considerato uno degli elementi ostativi agli investimenti esterni. Il problema della giustizia è fondamentale perché abbiamo cause civili che durano oltre dieci anni e ciò scoraggia gli investimenti. L’Italia ha già di per se un basso tasso di attrazione, intorno all’uno per cento, che al Sud scende allo zero venti-zero trenta. Un imprenditore che vuole investire nel Sud è attento a tre cose: al fisco alla burocrazia ed alla giustizia. Ebbene abbiamo il fisco più vorace di Europa, la burocrazia più farraginosa e la giustizia più lenta. Un cocktail negativo, che rappresenta per le imprese che operano sul territorio un costo aggiunto straordinario. Affrontare anni di processo vuol dire pagare interessi legali, avere progetti e somme bloccate. Tutti elementi che non agevolano lo sviluppo e che suggeriscono alle imprese sempre più prudenza”. “La legalità – proclama l’Osservatorio provinciale permanente dei fenomeni di illegalità – è precondizione indispensabile per lo sviluppo socio economico duraturo, tale da consentire alle imprese di investire in attività produttive, agli amministratori di non subire condizionamenti e ai lavoratori di vedere rispettati i loro diritti”. Ma le disfunzioni della giustizia hanno anche costi finanziari enormi per la stessa amministrazione della giustizia. Se le risorse che per questo si sprecano fossero utilizzate per migliorare la situazione degli uffici, già sarebbe molto.

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Gli indennizzi per i ritardi nella definizione dei processi I procedimenti, per il riconoscimento di un indennizzo a ristoro del danno derivante dalla ritardata definizione dei procedimenti, i c.d. procedimenti ex lege Pinto, sono in costante inarrestabile crescita. La crescita quest’anno è stata viepiù tumultuosa sia perché si attende una riforma che ridurrà questo tipo di contenzioso, prevedendo forme alternative di liquidazione dell’indennizzo (sicché molti non vogliono correre il rischio di arrivare tardi e perdere la possibilità di lucrare oltre all’indennizzo anche onorari di avvocato), sia perché, a seguito di una recente pronuncia della Corte Costituzionale, che ha ritenuto applicabile anche a questo tipo di procedimenti le regole di competenza relative ai processi penali riguardanti magistrati, sono divenute di competenza della corte di appello di Lecce le cause relative a ritardi verificatosi in giudizi davanti al Tribunale regionale amministrativo o alla Corte dei Conti che hanno sede nel capoluogo di regione. Il risultato è che il numero dei procedimenti ex lege Pinto pendenti davanti alla corte di appello, sebbene si tratti di procedimenti in un certo senso seriali che vengono definiti in tempi brevi (non certo però nei quattro mesi troppo ottimisticamente previsti dalla legge, col risultato che già vi è stata qualche richiesta di indennizzo per il ritardo nella definizione di un procedimento per il riconoscimento di indennizzo), hanno tuttavia raggiunto un numero corrispondente se non superiore a quello di tutti gli altri procedimenti civili pendenti davanti alla corte. Come dire, con un po’ di tristezza che le corti civili ormai lavorano solo per giudicare se stesse ed i propri ritardi col risultato che le altre cause, quelle vere, subiscono per tutto ciò ritardi inevitabili, provocando alla lunga altri procedimenti per riconoscimento dell’indennizzo. A differenza poi delle normali cause civili, in cui gli adempimenti inerenti la causa fanno carico di regola sulle parti, in questo tipo di procedimenti invece è l’ufficio del giudice che si deve far carico di acquisire atti e informazioni dal giudice davanti al quale si è svolto il procedimento in cui si è verificato il ritardo; quest’ultimo a sua volta deve trasmettere relazioni informative all’Avvocatura dello Stato che si deve costituire in giudizio, poi relazioni giustificative, dopo la definizione del procedimento, al Procuratore generale della Cassazione, al Ministero, spesso all’Ispettorato, al Procuratore generale della Corte dei Conti per spiegare quello che tutti sanno, che cioè, a parte qualche caso, il ritardo non dipende dalla negligenza di qualcuno… e poi si deve provvedere al pagamento dell’indennizzo liquidato, calcolare interessi, spese legali, tenere a bada le parti che reclamano finché non vi sono i fondi disponibili… Giudici e cancellieri impegnati più che a fare giustizia, a rimediare ai ritardi della giustizia… Insomma questo Stato che fa causa a se stesso, impegnando la propria avvocatura, i propri giudici, i propri apparati è davvero qualcosa di surreale. I procedimenti di che trattasi nel periodo di riferimento sono stati 1220 (sensibilmente superiore quindi a quello di 975 dei procedimenti ordinari). Ne sono stati definiti 1096 con uno scarto negativo quindi di 124. Alla fine del periodo (30.6.10)

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il numero dei procedimenti ex lege Pinto pendenti era di 1286 ed è oggi di 1595. Sono 309 in più senza tener conto di quelli definiti nello stesso semestre, a dimostrazione di quanto elevata sia la crescita di tali procedimenti. Alla fine del periodo precedente (30.6.09) vi era un debito di circa 3.800.000,00 euro; nel secondo semestre del 2009 sono stati effettuati pagamenti per 246.526,21 euro, nulla nel primo semestre del 2010, 647.700,00 euro nel secondo semestre del 2010 (quindi fuori del periodo di riferimento), alla fine del quale il debito è aumentato a circa 7.700.000,00 euro. Pensate: ad occhio e croce lo stipendio di una ventina di giudici e di una quarantina di cancellieri, che, se assunti e impiegati a fare il loro lavoro avrebbero evitato con ogni probabilità quei ritardi. Ma la storia non finisce qui. Poiché lo Stato non paga tempestivamente, gli interessati si rivolgono ancora alla Corte di Strasburgo, spesso lamentando l’inadeguatezza degli indennizzi e si è dato il caso che la Corte di Strasburgo ha condannato nuovamente l’Italia, col discredito che ne deriva sul piano internazionale per l’accertata violazione della convenzione (oltre – e per me è anche più grave – per la palese prova di inefficienza dell’istituzione giudiziaria e amministrativa). Di recente infine si è scoperto che si può ricorrere al giudice amministrativo (al Consiglio di Stato non ai TAR che talvolta neppure rilevano la loro incompetenza in questa materia) per ottenere una sentenza di ottemperanza, una sentenza cioè che faccia obbligo all’amministrazione di pagare l’indennizzo liquidato dal giudice. Che cosa serve in questi casi una sentenza di ottemperanza quando c’è già una condanna al pagamento da parte del giudice ordinario non è chiaro (i giudici amministrativi finora non si sono posti questo problema): serve certamente a far maturare altri onorari e questo la dice lunga su questa specie di assalto alla diligenza… e non vorrei trovarmi al posto del Ragioniere Generale dello Stato di cui viene minacciata la nomina come commissario ad acta in caso di ulteriore inottemperanza perché non saprei come fare a pagare se la cassa è vuota… Ma le parti, che non accettano l’idea di dover attendere, non si danno per vinte e allora pignorano, appena ne hanno notizia, le somme accreditate dal Ministero alla corte di appello per far fronte alle spese degli uffici giudiziari del distretto, somme che con apposita legge sono state dichiarate impignorabili e per ovvi motivi. Ma c’è stato un giudice di pace ed un giudice onorario in veste di giudice dell’esecuzione che hanno ritenuto poco chiara la destinazione di quelle somme accreditate dal Ministero con la causale “per il pagamento delle fatture anno…” poiché non era specificato che quelle fatture riguardavano spese per il funzionamento degli uffici (e che altro se no?) e quindi hanno assegnato le somme pignorate al creditore che, per così dire, aveva scavalcato la fila… E a nulla è valso spiegargli che il riferimento al capitolo del bilancio dello Stato, per l’appunto il 1451, che un giudice anche se di pace o onorario è tenuto a conoscere, è di per se chiaro… altra condanna per lo Stato, altri onorari… e l’Avvocatura dello Stato non ha ritento neppure di impugnare queste decisioni, per far valere il principio, perché cose da nulla in questo marasma che rischia di diventare ormai la giustizia civile…

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Allora che fare? Noi giudici dobbiamo fare la nostra parte. Senza delegare ad altri le soluzioni dei problemi, senza attendere le riforme che sono necessarie ma che non arrivano mai…. Sfruttando al meglio le risorse che sono a nostra disposizione, che sono poche ed insufficienti ma spesso male utilizzate. Impegnandoci, per chi ha la responsabilità della direzione di uffici, in un progetto di riorganizzazione e di innovazione; essendo di esempio e di stimolo; riuscendo a motivare i collaboratori, riconoscendo il loro impegno e così gratificarli ma al tempo stesso non tollerando negligenze e disattenzioni. È un tempo questo in cui, come autorevolissima voce ci ha ricordato, “a nessuno di noi chiamati al servizio della comunità è concesso di distrarsi, di rimandare le responsabilità”. Un tempo in cui dobbiamo avere il coraggio di esporci, di assumere in prima persona impegni e sentire il peso di doverne rendere conto, rifiutando la logica del chi me lo fa fare e del quieto vivere. Ma più di questo – è vero, non sarebbe poco – non ci può essere chiesto; più di questo non saremmo in grado di dare. Al punto in cui siamo occorre un impegno complessivo di tutte le istituzioni. Dello Stato innanzitutto, perché la giustizia è attribuzione dello Stato, ma anche degli enti minori. Per questo non possono non prendere atto con favore dell’iniziativa della Regione Puglia, che ha già preso corpo in un disegno di legge e che costituirà la legge n. 1 dell’anno in corso (quasi sicuramente già approvata quando si terrà questa cerimonia) l’iniziativa – dicevo – di costituire una agenzia regionale per la promozione della legalità “organismo tecnico-operativo mirato alla promozione ed alla diffusione della cultura della legalità, alla promozione delle attività di competenza della Regione e degli enti locali finalizzate al contrasto dei fenomeni criminali, alla tutela dei diritti di cittadinanza ed alla promozione delle condizioni economiche, sociali e culturali che ne rendano possibile la realizzazione”. Ciò che maggiormente ci attrae è l’impegno che la Regione assume di promuovere rapporti di collaborazione con le autorità giudiziarie, finalizzati alla sperimentazione ed alla realizzazione di buone pratiche sociali e organizzative e a migliorare gli standard di qualità e dei tempi di erogazione del servizio giustizia, considerato quale fattore fondamentale della crescita economica, sociale e culturale del territorio pugliese”. Noi comunque la nostra parte l’abbiamo fatta. Flussi e durata media dei procedimenti Nel periodo di riferimento e per effetto delle prassi virtuose sperimentate nei due anni precedenti (sul punto e per quanto riguarda l’organizzazione rinvio alle mie precedenti relazioni) il trend relativo alla durata media dei procedimenti è risultato – per la quasi totalità degli uffici del distretto – ancora positivo.

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... nel settore civile per la corte di appello sede centrale si è passati da una durata media di 937 giorni nel periodo 1.7.06 - 30.6.07, ad una durata di 868 giorni nel periodo 1.7.07 - 30.6.08, di giorni 805 nel periodo successivo (1.7.08 - 30.6.09) per poi registrare nel periodo di riferimento una durata di giorni 712. Un abbattimento di giorni 225 in soli tre anni, nonostante la grave carenza più volte segnalata di risorse umane e materiali, nonostante la mancanza di qualsiasi iniziativa sui piano legislativo intesa a rimuovere le cause della crisi della giustizia, non può che considerarsi soddisfacente. La pendenza tuttavia è ancora cresciuta: infatti nello stesso periodo sono stati definiti n. 760 procedimenti a cognizione ordinaria (a fronte degli 805 del precedente periodo) che è stato però inferiore a quello dei procedimenti sopravvenuti nello stesso periodo (975) a sua volta superiore a quello di 820 del precedente periodo, il che ovviamente, pur avendo la corte lavorato a pieno ritmo nonostante le numerose vacanze registrate nell’organico delle sezioni civili, particolarmente interessate ai tramutamenti in uscita, ha determinato sulla pendenza uno scarto negativo. Su quest’ultimo dato particolare incidenza ha avuto il sensibile ed incontenibile aumento dei procedimenti ex lege Pinto che nel periodo di riferimento sono stati 1.220 (sensibilmente superiore a quello di 975 dei procedimenti ordinari. Ne sono stati definiti 1.096 con uno scarto negativo quindi di 124. Alla fine del periodo il numero dei procedimenti ex lege Pinto pendenti era di 1.286 ed è oggi di 1.595. La pendenza complessiva di tutti i procedimenti alla fine del periodo è passata da 4.436 a 4.777 procedimenti civili (escluse le cause di lavoro e di previdenza). Piuttosto ridotto il numero dei procedimenti di separazione e divorzi (95 le separazioni, 20 i divorzi) e tutti definiti non oltre l’anno. Benché di numero ridotto (la maggior parte dei coniugi riescono ormai a trovare un regolamento concordato dei loro rapporti e il contenzioso comunque raramente supera la soglia del primo grado) si tratta quasi sempre di procedimenti caratterizzati da aspra conflittualità che richiedono quindi molto impegno. Un risultato, quello conseguito dalla corte di appello complessivamente positivo perché ha segnato, in un momento di criticità, una inversione di tendenza nel rapporto procedimenti iscritti/procedimenti definiti ed ha reso possibile un abbattimento dei tempi medi di durata. Meno soddisfacente è stato il risultato della sezione distaccata di Taranto dove si è passati, sempre nel settore civile, da una durata di 795 giorni nel periodo 1.7.04 - 30.6.05, attraverso una crescita progressiva, a 1.465 giorni nel periodo di riferimento. I procedimenti iscritti nello stesso periodo, per il solo contenzioso ordinario, sono stati 446 (a fronte dei 399 del periodo precedente); ne sono stati definiti 234 (a fronte dei 344 del periodo precedente) con uno scarto quindi in negativo che ha portato la pendenza da 1.580 a 1.795.

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Se questi tempi di definizione si aggiungono a quelli necessari per il giudizio di primo grado ed a quelli relativi alle eventuali impugnazioni ulteriori, è facile constatare che la durata complessiva di una causa civile è davvero eccessiva rispetto ad una ragionevole attesa di giustizia e rende la risposta di giustizia inidonea a garantire effettività di tutela agli interessi in gioco. Per vero il giudizio di appello, così come è strutturato dalla legge processuale, potrebbe essere definito in due sole udienze o addirittura in una sola udienza se le parti vengono invitate o chiedono esse stesse di precisare subito le loro conclusive richieste. Se ciò non avviene e se, com’è di regola, si registra tra la prima e la seconda udienza un lungo lasso di tempo di mera attesa, non deve cercarsi la spiegazione nella struttura del processo ma in concomitanti difficoltà operative, in particolare nella sempre maggiore inadeguatezza delle risorse umane e materiali a disposizione, che rendono di fatto impossibile il rispetto dei tempi consentiti o addirittura imposti dalla legge processuale. Ciò vale per tutti gli uffici giudiziari ma in particolare per la sezione distaccata di Taranto che ha sofferto negli ultimi anni una situazione di criticità particolare legata a carenze di organico, sia del personale di magistratura che del personale amministrativo, in gran parte dipendenti da pensionamenti anticipati e – quanto ai magistrati – a prolungate assenze per ragioni di salute o a trasferimenti in uscita, cui si è dovuto far fronte con l’applicazione a rotazione di magistrati del tribunale, dai quali tuttavia si è potuto ottenere una limitata collaborazione non potendo gli stessi essere completamente distolti dagli impegni nell’ufficio di appartenenza. Sostanzialmente stazionaria è la situazione dei tre tribunali del distretto. Nel periodo di riferimento, nel tribunale di Lecce la durata media dei procedimenti contenziosi non ha subito un’apprezzabile variazione rispetto al periodo precedente, salvo che per le separazioni personali e i divorzi, la cui definizione registra una tendenziale diminuzione dei tempi soprattutto a seguito del massiccio ricorso alle sentenze parziali sullo status, e per i giudizi in materia di filiazione, i cui tempi si sono ridotti sensibilmente grazie al pronto espletamento della consulenza tecnica emogenetica quale mezzo quasi sempre esaustivo dell’istruttoria. La durata media per l’intero circondario (comprese quindi le sezioni distaccate, dove però – almeno in alcune – si registrano più o meno lunghi periodi di sostanziale inattività per la mancanza di giudice titolare) è stata di giorni 696 a fronte dei 679 del periodo precedente. I procedimenti sopravvenuti (solo di cognizione ordinaria compresi gli appelli) nel periodo di riferimento, nella sede centrale, sono stati 3.054 con un modesto incremento rispetto all’anno precedente mentre ne sono stati definiti 4.018 (a fronte dei 4.490 dell’anno precedente) di cui 1.363 con sentenza (1.629 nell’anno precedente); la pendenza pertanto – e nonostante la diminuita produttività – è diminuita da 12.606 a 11.642 procedimenti. Nelle sezioni distaccate del circondario di Lecce sono pervenuti n. 3.523 procedimenti di cognizione ordinaria (a fronte dei 3.402 del precedente periodo) e

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ne sono stati esauriti n. 3.364, di cui n. 1.441 con sentenza, a fronte dei 2.669 del periodo precedente; nonostante il vistoso incremento di produttività, la pendenza è passata da n. 12.992 procedimenti a 13.589. Pure costanti i flussi dei procedimenti dei tribunali di Brindisi e di Taranto. I procedimenti (solo di cognizione ordinaria compresi gli appelli) pervenuti al tribunale di Brindisi sono stati, nella sede centrale, n. 1197 (a fronte dei 1435 dell’anno precedente) mentre ne sono stati definiti 1.273 di cui 465 con sentenza a fronte dei 1.067 dell’anno precedente con una diminuzione in questo caso della pendenza da 4.467 a 4.391. Nelle sezioni distaccate del circondario di Brindisi i procedimenti di cognizione ordinaria compresi gli appelli pervenuti nell’anno sono stati 1.716 a fronte dei 1490 del periodo precedente; ne sono stati definiti 1.431 (1.225 nel periodo precedente) con una pendenza finale pervenuta da 5.947 a 6.232. Per l’intero circondario e per l’insieme degli affari civili la durata media si conferma 646 giorni. Al tribunale di Taranto – sede centrale – i procedimenti (solo di cognizione ordinaria compresi gli appelli) pervenuti sono stati 2.522 (2.563 nel periodo precedente) e ne sono stati definiti 4.986 (di cui 1.688 con sentenza); con una diminuzione della pendenza, per effetto del forte aumento di produttività, da 11.559 a 9.095. Scrive a riguardo il presidente del tribunale di Taranto che l’impegno e la laboriosità dei magistrati sono stati “valorizzati ed esaltati da presidenti di sezione di eccezionale livello, il cui impegno di giudici prima che di dirigenti ha innalzato, con evidenza rimarchevole, la media delle sentenze”. “Rilevo anche nei predetti colleghi – dice il presidente Morelli – uno slancio collaborativo ed un’etica del lavoro di assoluto rilievo. Sono state abbandonate virtuosamente vecchie prassi per le quali la dirigenza faceva rima con il privilegio e non con una maggiore responsabilità e in questo senso il mio impegno giurisdizionale oltre che amministrativo ha dato i suoi frutti. Basti pensare alla facilità con cui si compongono le tabelle feriali un tempo oggetto di infinite discussione. Se solo questi colleghi ed io potessimo godere di una certa stabilità e sufficienza di risorse ma soprattutto avere a disposizione i minimi strumenti decisionali appartenenti al mondo della produzione, gli effetti positivi, anche in presenza della crisi del sistema, sarebbero di gran lunga maggiori. Su tali considerazioni, che ritengo appartenere a molti se non a tutti i capi degli uffici, il Consiglio Superiore della Magistratura è chiamato a riflettere all’atto della emanazione delle circolari sulle tabelle e sulla normazione secondaria in generale, meglio coniugando i principi costituzionali con le esigenze della produttività della c.d. azienda giustizia”. Ed io non posso non registrare con soddisfazione queste affermazioni, da sempre convinto che i capi degli uffici sono tenuti innanzitutto a dare l’esempio, a porre nell’esercizio dei loro compiti amministrativi lo stesso impegno, la stessa serietà, la stessa capacità di decidere che pongono nell’esercizio dell’attività giu-

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risdizionale vera e propria; a sapersi assumere quindi le responsabilità che gli competono e a decidere, anche quando il quadro normativo è, come sempre più spesso succede, incerto, assumendo tutta su di se la responsabilità di una scelta, anche a costo di qualche rischio personale, a saper dire qualche volta no al collega, se l’interesse dell’ufficio lo esige e senza temerne il disappunto che alla prima occasione gli dimostrerà. Se questo già succede a Taranto, come pure, non ho motivo di ritenere il contrario, a Lecce ed a Brindisi, vuol dire che ha colto nel segno l’invito che in occasione della mia prima relazione qui a Lecce ho rivolto ai colleghi a rimboccarci le maniche perché la situazione è tale che niente ci possiamo aspettare da nessuno, essendo i reggitori della cosa pubblica concentrati tutti sulla grande… grande riforma della giustizia e non su quello che ordinariamente succede negli uffici giudiziari… Nelle sezioni distaccate del tribunale di Taranto i procedimenti (di cognizione ordinaria compresi gli appelli) iscritti sono stati n. 1.816 (1.503 nel periodo precedente) , ne sono stati definiti n. 1.657 (1.292 nel periodo precedente); la pendenza è giunta da n. 6.318 procedimenti a 6.477. La durata media per l’intero circondario e per l’insieme degli affari civili è stata di giorni 657 (652 nel periodo precedente). Difficile per quanto riguarda i giudici di pace la estrapolazione di dati statistici esaustivi, data la varietà delle situazioni non comparabili tra loro. Accanto ad uffici con ambiti di competenza territoriale e numero di affari molto modesti, vi sono uffici, specie quelli ubicati nei capoluoghi di provincia, che hanno una competenza molto ampia e una quantità di procedimenti veramente notevole. Diversa fra i vari uffici è anche la tipologia degli affari (procedimenti di contenzioso ordinario e procedimenti seriali riguardanti opposizioni a sanzioni amministrative, in numero notevolissimo e preponderante negli uffici grandi e medio-grandi). Accorpati gli uffici dei tre circondari, la durata media è stata calcolata in giorni 306 per gli uffici dei circondari di Brindisi e Lecce mentre si conferma in 281 per quelli di Taranto. Queste rilevazioni, in palese contrasto con i ritardi, spesso di anni, riscontrati nel deposito delle sentenze, si spiegano col fatto che la durata è commisurata tra la data dell’iscrizione a ruolo e la pronuncia della sentenza e non è dunque affatto indicativa della effettiva durata del procedimento. Ai giudici di pace dei tre circondari sono pervenuti 11.238 (11.592 nell’anno precedente) procedimenti a Brindisi (di cui 3.851 -.5.410 nel precedente periododi opposizione a sanzioni amministrative), 32.802 a Lecce -31.195 l’anno precedente- (di cui 18.023 (invece di 19.225) di opposizione a sanzioni amministrative); 22.487 a Taranto (di cui 7.456 di opposizione a sanzioni amministrative) a fronte di 2.481 e 9.122, mentre ne sono stati definiti rispettivamente 10.805 (a Brindisi), 42.880 (a Lecce), 22.683 (a Taranto); il numero dei procedimenti definiti è inferiore a quello dei procedimenti sopravvenuti a Brindisi, è di poco superiore a Taranto mentre la notevole preponderanza dei procedimenti definiti rispetto a quelli pervenuti si spiega a Lecce col fatto che, in uno degli uffici del circondario,

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si era verificato un abnorme arretrato (circa diciottomila) di sentenze decise ma da depositare, scoperto solo in occasione della ispezione ministeriale, a cui si è tempestivamente rimediato. ... nella materia del lavoro e previdenziale Anche per quanto riguarda la materia del lavoro – e rinviando ad un paragrafo successivo per alcune considerazioni di carattere generale sulla giustizia del lavoro – si deve segnalare – con riguardo ai giudizi di appello ed in controtendenza con lo scorso anno – una sia pure lieve diminuzione dei tempi di durata dei procedimenti passati (nella sede centrale) da 695 del periodo precedente a 677 e, nella sezione distaccata di Taranto, da 1.146 a 1.004. Il numero di cause sopravvenute (nella sede centrale e nella sezione distaccata di Taranto) è stato di 5.579 con un sensibile incremento rispetto ai 4.292 pervenuti nel periodo precedente; ne sono stati definiti 3.636 con un incremento anche qui rispetto all’anno precedente in cui ne erano stati definiti 3.022: il saldo tuttavia è stato comunque negativo e la pendenza è aumentata da 8.171 a 10.114. Sebbene il maggior numero di cause definite riguardi cause di natura previdenziale, che hanno carattere seriale, si è tuttavia registrata una diminuzione sensibile – quanto meno nella sede di Lecce a differenza della sede distaccata di Taranto – delle cause di lavoro vere e proprie definite nel periodo. Precisa a riguardo il presidente della sezione lavoro che il numero dei ricorsi in tema di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, che negli scorsi anni era notevolmente aumentato, nel periodo di riferimento si è stabilizzato ed anzi è diminuito. All’inizio del periodo infatti vi erano 270 procedimenti in materia di pubblico impiego; ne sono pervenuti 211; ne sono stati definiti 152, con una pendenza residua di 329 procedimenti. Contenuta in limiti appena accettabili (di circa due anni, secondo il presidente della sezione) i tempi di definizione delle cause, che è comunque ottima rispetto ad altre realtà giudiziarie talvolta segnalate dalla stampa per i rinvii, in qualche caso, ultradecennale. Non si registrano ritardi nel deposito delle sentenze, la gran parte nei trenta giorni, mai – salvo qualche sporadico caso – oltre i sessanta. Presso il tribunale di Lecce si registra una sensibile diminuzione dei procedimenti sopravvenuti che nel periodo sono stati 13.980 (di cui 12.143 di natura previdenziale) a fronte dei 21.050 del periodo precedente: il contestuale aumento delle definizioni (19.641 contro le 16.568 del periodo precedente) ha determinato una sensibile diminuzione della pendenza passata da 39.243 a 33.582 cause; al tempo stesso però un aumento della durata media passata da 718 giorni a 791. Al tribunale di Brindisi sono pervenute nel periodo 3.866 procedimenti (di cui 3049 di natura previdenziale) mentre ne sono stati definiti 5.900 con una riduzione della pendenza da 11.842 (al 30.6.09) a 9.808 (al 30.6.10).

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Analogo positivo risultato si è conseguito al tribunale di Taranto cui sono pervenuti nel periodo 10.977 procedimenti (di cui 9.019 di natura previdenziale) mentre ne sono stati definiti 21.046 con una riduzione della pendenza da 47.062 (al 30.6.09) a 36.993 (al 30.6.10). Dei tre tribunali Brindisi è l’unico a non avere una sezione autonoma per le cause di lavoro e se ne segnala la necessità. È intuibile che sul flusso dei procedimenti in materia di lavoro ha notevole incidenza –difficile dire se in positivo o in negativo, poiché a riguardo non sono state ancora eseguite stime attendibili – la diffusione del lavoro in nero: infatti la condizione non protetta del lavoratore in nero rende più difficile, in caso di contrasto col datore di lavoro, l’accesso alla giustizia. E altrettanto deve dirsi quanto alla mancata copertura previdenziale che elimina in radice la possibilità di chiedere al giudice eventuale tutela. ... nel settore penale Analoghe sono le linee di tendenza nel settore penale: la durata media dei procedimenti (computata dalla data di arrivo del processo in cancelleria alla data della pronuncia della sentenza e senza tener conto quindi dei tempi precedenti e successivi), è stata, nella sede centrale della corte di appello e nel periodo di riferimento, di giorni 457 a fronte dei 508 del periodo precedente mentre era di 551 nel periodo 1.6.06 - 30.6.07 così confermandosi il trend positivo degli anni precedenti nel quale si ha motivo di confidare, visto che allo stato tutti i processi pervenuti sono già fissati all’udienza e sono impegnate – neppure interamente – le udienze fino al giugno 2012. Il numero dei procedimenti pervenuti nel periodo è stato (compresa la corte di assise di appello ma esclusa la sezione minorile) di 2.166, superiore quindi a quelli pervenuti nel periodo precedente (1.828), mentre ne sono stati definiti 2.104; l’aumentato numero dei procedimenti sopravvenuti, nonostante l’ottimo livello della produttività ha determinato un modesto incremento della pendenza passata da 2.597 a 2.696. Sono soltanto cinque i procedimenti pendenti davanti alla corte di assise di appello. Persiste invece la tendenza all’aumento della durata media presso la sezione distaccata di Taranto calcolata per il periodo di riferimento pari a 915 giorni a fronte degli 801 del periodo precedente e dei 732 del periodo 1.7.07 - 30.6.08. Il numero dei procedimenti pervenuti alla sezione distaccata nel periodo è stato (sempre compresa la corte di assise di appello ma esclusa la sezione minorile) di 1.378 solo di poco inferiore a quello (1.383) del periodo precedente; ne sono stati definiti 1.074 (meno quindi dell’anno precedente) con un ulteriore aumento della pendenza che da 2.918 è pervenuta a 3.222. Eppure, come segnala l’avvocato generale, vi è stato un consistente aumento delle udienze da 188 a 228: tolte le domeniche e il periodo estivo di sospensione

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dei termini, si è praticamente tenuto udienza tutti i giorni e questo nonostante le pesanti criticità che da tempo caratterizzano la corte di Taranto, dove accanto ad esempi di particolare dedizione al lavoro (il presidente preposto prossimo ad essere collocato a riposo ha rinunziato alle ferie ed ha normalmente lavorato durante il periodo estivo, anche alcuni giudici in ferie sono rientrati in servizio per assicurare il regolare svolgimento delle udienze programmate) vi sono state anche proteste pubbliche per il sottodimensionamento dell’organico della corte che impone ai magistrati di quell’ufficio un impegno lavorativo superiore alle loro forze. Nel corso del corrente anno, nella sezione distaccata di Taranto, si è potuto finalmente attivare il sistema informatico di registrazione dei processi e di fissazione delle udienze che sicuramente consentirà una migliore organizzazione del lavoro e – si spera – una maggiore produttività ed una riduzione della pendenza. Purtroppo però a tutt’oggi il sistema non è ancora a regime per difficoltà connesse alla migrazione dei dati riguardanti i processi di vecchia iscrizione e pendenti. Nei tre tribunali del distretto la durata media dei procedimenti riguardanti imputati noti presso gli uffici del GIP è stata di 130 giorni a Brindisi, 594 giorni a Taranto e 290 giorni a Lecce. Brindisi, come risulta da questo dato, si distingue in positivo e va condiviso il giudizio del presidente della sezione gip dr Fracassi di sostanziale adeguatezza dei tempi di definizione dei processi e di contenimento delle pendenze: tutto ciò è merito di un manipolo di giovani magistrati che lavorano senza risparmiarsi e si avvalgono della guida eccellente del presidente Valerio Fracassi, che ha messo a frutto l’esperienza e la capacità direttiva che ha acquisito presso questa corte, dove per due anni ha diretto la sezione penale. Per i tribunali invece la durata media è stata di 427 giorni per il circondario di Brindisi, 519 per il circondario di Lecce e 576 per Taranto. Anche in questo caso Brindisi si distingue dato che la durata media dei processi, contenuta in poco più di un anno, può considerarsi accettabile. Eppure a Brindisi in quest’anno si sono celebrati importanti ed impegnativi processi, come quello per concussione e violenza sessuale a carico di un ex assessore del Comune o quello per corruzione che ha coinvolto anche un professionista con incarico di amministratore giudiziario, o quello a carico di un operatore ospedaliero resosi responsabile di ripetute molestie sessuali a danno di pazienti ricoverati presso la struttura sanitaria in cui lavorava. Il tribunale di Taranto, che dei tre tribunali del distretto registra tempi più lunghi di definizione dei processi, è stato a sua volta impegnato nella celebrazione di due gravi processi di criminalità organizzata, entrambi definiti, mentre altri dieci erano, alla fine del periodo prossimi alla definizione. Il tribunale di Taranto sconta peraltro, sul piano dell’organizzazione e quindi della produttività, gli effetti della ancora ad oggi mancata, inspiegabile approvazione da parte del Consiglio Superiore delle tabelle di organizzazione, in ritardo da oltre due anni, le cui “ricadute negative sul sistema, come giustamente lamenta il

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presidente del tribunale, non sono legate soltanto all’immobilismo programmatico ma emergono evidenti e talora paralizzanti quando, nelle more dell’approvazione, muta l’assetto organico dell’ufficio per via di trasferimenti in entrata e in uscita”. Negli uffici dei giudici di pace dei tre circondari, sempre con riferimento alla materia penale, si è avuta una durata media di 632 giorni a Brindisi, 609 giorni a Lecce, 387 giorni a Taranto (nel precedente periodo 548, 651, 359). Il numero dei procedimenti agli stessi pervenuti è stato in definitiva molto modesto: 413 ai giudici di pace del circondario di Brindisi (definiti 424); n. 1.330 ai giudici di pace del circondario di Lecce (definiti n. 1.192); n. 1.530 ai giudici di pace del circondario di Taranto (definiti n. 1.486). A riguardo, rileva il presidente della sezione penale di Taranto che “gli effetti pratici dell’attribuzione di competenza al giudice di pace sono sicuramente positivi per la presenza di aspetti di novità ispirati alla sollecita definizione dei relativi procedimenti, soprattutto attraverso al dichiarazione di non luogo a procedere, se il fatto oggetto del reato è ritenuto di particolare tenuità, e attraverso l’estinzione del reato in conseguenza di attività di riparazione”. Conclusivamente La comparazione dei dati su riferiti dimostra che gli uffici del distretto presentano sostanziale omogeneità sia quanto al flusso dei procedimenti pervenuti e definiti sia quanto alla durata media che, anche quando appare in diminuzione, in realtà tende quasi sempre, salvo qualche eccezione (come è avvenuto per esempio per la corte di appello) ad aumentare, meno frequentemente rimane invariata. D’altra parte, come si è già rilevato in altre occasioni, un’analisi dei dati più approfondita non è neppure possibile poiché il diverso flusso degli affari raramente è legato a cause strutturali comuni a tutti gli uffici giudiziari (come potrebbe essere per esempio la stagnazione economica o la crisi occupazionale in atto) ma dipende piuttosto da cause contingenti come la scopertura degli organici, che per effetto della mobilità e soprattutto dei tempi lunghi richiesti per darvi seguito, incide a rotazione sui vari uffici specie di grado diverso Le riforme: il procedimento di mediazione Le riforme finora approvate, che in quindici anni hanno sostanzialmente riscritto il codice di procedura civile, sono servite assai poco sotto il profilo dello snellimento e della velocizzazione del processo. La valorizzazione della fase introduttiva del giudizio per accelerarne la conclusione, il maggior ruolo riconosciuto al giudice rispetto a quello delle parti per contenerne le tattiche dilatorie, l’introduzione di alcuni riti speciali per valorizzare le specializzazioni dei giudici in taluni campi e favorirne quindi una maggiore produttività, sono stati i criteri ispiratori di dette riforme, che però non hanno funzionato per l’assenza di un disegno generale, per la contraddittorietà di alcuni

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interventi (che hanno causato una moltiplicazione irrazionale e dispersiva dei riti sconosciuta a qualsiasi altro ordinamento), a volte anche per le resistenze di parte della classe forense e della stessa magistratura, senza contare le difficoltà derivanti dalla scarsezza di risorse che affligge sempre di più l’apparato giudiziario e dalla pretesa, in questa situazione, di attuare riforme a costo zero. La novità oggi è rappresentata dall’istituto della mediazione civile al quale la legge che lo ha introdotto (decreto legislativo n. 28 del 4.3.2010) assegna, oltre ad una funzione deflattiva del contenzioso civile, anche una funzione complementare al processo, sia perché, contenendo l’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale, favorisce automaticamente la sollecita amministrazione della giustizia civile, sia perché la prospettiva stessa di una giustizia civile efficiente scoraggia il ricorso a strategie ostruzionistiche e di contro favorisce la soluzione stragiudiziale della lite. La normativa, già efficace dalla data di entrata in vigore della legge quanto alla mediazione volontaria, è destinata, se non vi saranno proroghe, a dispiegare tutta la sua potenzialità deflativa solo a partire dal prossimo mese di marzo: infatti, a distanza di dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo, la mediazione diverrà obbligatoria, costituendo condizione di procedibilità per le controversie relative a diritti disponibili “in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari”. Accanto alla mediazione volontaria o facoltativa ed a quella obbligatoria vi è poi la mediazione suggerita o sollecitata dal giudice che, in relazione alla natura della causa, allo stato dell’istruzione ed al comportamento processuale delle parti, prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni, anche in sede di giudizio di appello, può invitare le parti contendenti a procedere alla mediazione, rinviando la causa ad una udienza successiva alla scadenza del termine per la mediazione. Il legislatore, consapevole forse delle resistenze che sarebbero state opposte dagli operatori del diritto, come di qui a poco diremo, oltre alla sanzione di improcedibilità, nel caso in cui non sia stata esperita o conclusa la procedura di mediazione, prevede una serie di oneri e di incentivi di ordine processuale e sostanziale per favorirne il ricorso, innanzitutto vantaggi di carattere fiscale: l’esenzione dall’imposta di bollo e da ogni tassa o diritto per tutti gli atti, documenti e provvedimenti nonché dall’imposta di registro per il verbale di accordo entro il limite di valore di euro 50.000,00. Il costo di avvio del procedimento è poi fissato in euro 40,00 per ciascuna parte mentre le spese di mediazione, determinate in relazione al valore della lite, sono anch’esse contenute in limiti accettabili (da euro 65,00 per controversie di valore fino ad euro 1.000,00; ad euro 9.200,00 per controversie di valore superiore a cinque milioni di euro). Inoltre è previsto un credito di imposta fino ad euro 500,00 in caso di esito

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positivo della mediazione, ridotto alla metà in caso di esito negativo. Infine, quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda, la parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato è esonerata dall’obbligo di corrispondere l’indennità all’organismo abilitato. Nella previsione legislativa la mediazione non è lasciata alla libera determinazione delle parti, ma riprendendo la disciplina della conciliazione societaria ora abrogata, è affidata ad organismi specificamente autorizzati che dovrebbero dare garanzie di serietà ed efficienza. La prospettiva di perdere una grossa fetta di affari (se la mediazione funzionerà il numero delle cause civili potrebbe essere addirittura azzerato), dato che nella procedura di mediazione non è prevista l’assistenza obbligatoria di un avvocato, spiega forse (almeno dal punto di vista di un malpensante…) la forte opposizione degli avvocati che, attraverso il loro organismo unitario e per bocca del presidente avv. De Tilla, l’hanno definito “un maldestro strumento di sostanziale rottamazione del carico giudiziario, senza curarsi dei diritti dei cittadini ad avere una giustizia giusta” ed “un unicum stravagante ed eccezionale nella legislazione europea”. Più di recente, proprio all’inizio di quest’anno, gli avvocati associati nell’Organismo Unitario dell’Avvocatura hanno espresso la convinzione che il tentativo di conferire obbligatorietà alla media-conciliazione è destinato a naufragare clamorosamente, come è già avvenuto per il tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di controversie di lavoro e di locazione (norme che sono state per questo abrogate), e dichiarano “di non volere avallare un approccio al problema che può compromettere il diritto del cittadino al giusto processo e che, così come concepito, oltretutto appare non corrispondente alle direttive europee”. Chi vi parla, pur convinto da sempre che il meglio è nemico del bene e pur consapevole che molto spesso il cittadino preferisce ad una sentenza dotta ed argomentata una sentenza qualsiasi purché giusta e che ponga fine alla lite, non può tuttavia non condividere la comprensibile preoccupazione degli avvocati che la giustizia civile finisca in mani di dilettanti sprovveduti che potrebbero garantire, si, giudizi celeri e brevi, prescindendo però dall’applicazione delle regole di diritto ed al costo quindi di rinunziare ad un valore essenziale alla giustizia e cioè alla certezza del diritto che può essere garantita soltanto da un giudizio in cui operano professionisti esperti della materia secondo regole di procedura ben definite. D’altra parte se la procedura di mediazione non si svolgerà secondo regole accettabili, essa inevitabilmente non potrà approdare a risultati positivi e si risolverà in una perdita di tempo che finirà col ritardare ulteriormente la definizione dei giudizi. Altrettanto convinto è chi vi parla che, invece di cercare percorsi alternativi e fare esperimenti nuovi di dubbio risultato, molto meglio sarebbe impegnarsi a far funzionare meglio l’esistente. Pienamente condivisibile dunque è la via indicata dagli avvocati che è quella della razionalizzazione del lavoro dei giudici che richiede un ufficio efficiente, lo studio preventivo della causa, un serio tentativo di conciliazione alla prima udienza, con l’apporto decisivo degli avvocati e sulla

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base di proposte ragionevoli e ben meditate da parte del giudice, la concentrazione delle udienze istruttorie, una decisione anche immediata, l’opzione per sentenze motivate in modo incisivo e brevemente (il che forse è più difficile), da depositare quindi in tempi brevissimi e non, come ora succede, a distanza – nella migliore delle ipotesi – di mesi, sentenze in cui sono indicate concisamente, come dice la legge, le ragioni della decisione, non gli argomenti che dovrebbero dimostrare la bontà della decisione, che gli avvocati sono ben in grado di valutare da se e di spiegare alle parti da loro assistite. Occorre un forte progetto innovativo, un serio e generale processo di informatizzazione degli uffici giudiziari, il rilancio del processo telematico, la semplificazione, attraverso il ricorso alla posta certificata, dei sistemi di notificazione degli atti e delle comunicazioni, occorre – come ha anche raccomandato il Governatore della Banca d’Italia per tutto ciò che riguarda la pubblica amministrazione – un uso efficiente delle risorse, tanto più quando le risorse sono limitate come avviene in questo momento. Occorre in definitiva, come dice De Tilla, “uno scatto di orgoglio e di concretezza per il buon funzionamento della macchina giudiziaria, per tutelare i diritti dei cittadini e delle imprese, per il bene del paese e per evitare altre condanne dall’Europa sulla lunghezza dei processi”. La riforma del diritto del lavoro Fortemente contrastato dal mondo del lavoro, rimandato – dopo un lungo iter parlamentare – alle camere per un riesame dal Presidente della repubblica e in sostanza riapprovato tale e quale, il c.d. collegato del lavoro, contenente norme di modifica assai profonde del diritto del lavoro, sia sostanziale che processuale, è ormai legge dello Stato dal 3.3.10. Molti gli istituti modificati e tutti nel segno dell’aumento della potestà dispositiva delle parti, del ridimensionamento dei diritti sostanziali e delle tutele riservate al lavoratore, col risultato finale di una forte riduzione del controllo giurisdizionale. I più decisi avversari l’hanno definita “una legge che esprime un processo di degradazione e di snaturamento del diritto del lavoro, in contrasto con la sua matrice originaria protettiva”. In realtà nessuna delle disposizioni della legge approvata appare dettata dalla finalità di garantire migliori e più efficaci tutele ai diritti dei lavoratori. La possibilità di introdurre, nel contratto individuale di lavoro, clausole compromissorie per devolvere le controversie ad arbitri ignora non solo il disequilibrio, quanto a potere e mezzi economici, tra datore di lavoro e lavoratore ma anche la condizione di particolare debolezza di quest’ultimo all’atto dell’assunzione. La facoltà data alle parti di richiedere agli arbitri una decisione secondo equità sovverte l’impianto stesso del diritto del lavoro caratterizzato dall’esistenza di norme rigide e diritti indisponibili e contraddice il ruolo della contrattazione collettiva.

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Il meccanismo introdotto per i casi di licenziamento, trasferimento, cessazione di contratti a termine o di lavoro parasubordinato rischia di dissuadere da ogni iniziativa i lavoratori a termine, legati alla speranza del rinnovo dei contratti, e di riversare un numero elevatissimo di controversie sugli uffici giudiziari, con ulteriore allungamento dei tempi dei processi. La norma che vincola il giudice alle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento, inserite non solo nei contratti collettivi ma addirittura nei contratti individuali sia pure assistiti, lascia il lavoratore in balia delle pressioni datoriali all’atto dell’assunzione, in cui la sua posizione è particolarmente debole e restringe di fatto le garanzie di stabilità del rapporto. Ancor più negative poi sono le conseguenze per i lavoratori immigrati. Per questi, infatti, agli aspetti negativi derivanti dalla c.d. flessibilità contrattuale si aggiunge, anche quando il lavoro dovrebbe essere a tempo indeterminato, quella ulteriore precarietà dovuta alla connessione tra il rapporto di diritto privato e i profili amministrativi del permesso di soggiorno, sicché le condizioni – di sempre più difficile realizzazione – richieste per una regolare presenza per lavoro sul territorio si riflettono sulla stessa vita e durata del rapporto. La materia del lavoro degli extracomunitari diviene così un vero e proprio banco di prova di quella giurisprudenza che intende assicurare in ogni caso la tutela del nucleo essenziale ed intangibile dei diritti fondamentali della persona, vuole affermare l’idea di giustizia come presidio per i meno garantiti e promozione per i più umili, cerca di garantire a tutti quella esistenza libera e dignitosa prevista dalla Costituzione italiana indipendentemente dalla cittadinanza, così riaffermando, nella concretezza dei rapporti giuridici, quel principio costituzionale di uguaglianza che spesso è messo in discussione. Naturalmente è ancora troppo presto ed occorrerà aspettare la prova dei fatti per vedere quali saranno le ricadute su tali problematiche, anche per quanto riguarda il contenzioso in materia di lavoro, della legge di recente approvata. Il patrocinio a spese dello Stato Come nelle precedenti relazioni devo rilevare che il ricorso all’istituto del patrocinio a spese dello Stato, anche nei casi di imputati irreperibili o impossidenti assistiti da difensore di ufficio, è sempre più frequente e la relativa spesa comunque assai elevata. Nel periodo di riferimento nei tribunali di questo distretto sono stati liquidati, nella materia penale, onorari pari ad euro 745.242,34 per Brindisi; euro 1.314.969,60 a Lecce; euro 410.475,18 a Taranto (in totale euro 2.470.687,12); nella materia civile euro 152.333,70 a Brindisi, euro 651.333,77 a Lecce; 561.424,86 a Taranto (in totale euro 1.365.092,33). Nella corte di appello e rispettivamente per la sede centrale e per la sezione distaccata di Taranto sono stati liquidati onorari pari ad euro 778.859,78 e 119.596,790 nella materia penale; 52.948,20 e 11.957,04 nella materia civile.

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Gli importi complessivi per l’intero distretto sono stati dunque di euro 3.249.546,90 per il penale ed euro 1.484.619,12 per il settore civile. Sostiene il giudice di pace coordinatore di Taranto che “il progressivo e sempre più oneroso aumento delle richieste di ammissione al patrocinio a spese dello Stato è da rapportarsi all’impoverimento di larghe sacche della popolazione tarantina determinata dalla contrazione dei posti di lavoro registrati nella grande industria siderurgica e nell’indotto così come in altri settori economici quali la cantieristica navale e l’appalto esterno all’arsenale militare. A ciò aggiungasi le larghe sacche di evasione fiscale che incide sul superamento dei limiti di reddito previsti dalla legge e l’incentivazione che proviene dai difensori delle stesse parti richiedenti l’ammissione al patrocinio statale, beneficiari in ogni caso della liquidazione dei diritti ed onorari a carico dell’erario. L’opzione poi, nel civile, in favore dei Consigli dell’Ordine degli avvocati anziché del giudice procedente, si dimostra sempre più inidonea soprattutto nella fase della sommaria delibazione in ordine alla “non manifesta infondatezza della pretesa” che la parte richiedente l’ammissione intende far valere. Apparentemente però – almeno con riferimento all’intero distretto – vi è stata una diminuzione della spesa rispetto al precedente periodo, ma anche qui la comparazione non è utile perché l’ammontare delle liquidazioni è legato agli accrediti da parte del Ministero delle somme necessarie per eseguire i pagamenti e prescinde quindi dal momento in cui il credito è maturato mentre manca una esatta rilevazione statistica quanto agli importi riconosciuti in attesa di liquidazione e quindi all’entità del debito effettivo; tanto meno vi è corrispondenza tra il momento della liquidazione e quello dell’ammissione dal beneficio perché la liquidazione interviene solo al momento della definizione di una fase processuale che a sua volta dipende da eventi imponderabili. In attesa pertanto che sia affinato lo strumento statistico non è possibile avere una esatta percezione del trend del fenomeno e si può avere solo un’idea di quanto pesante sia l’onere che ne deriva all’erario. Poiché si tratta in ogni caso di somme notevoli, in qualche caso molto vicine se non addirittura superiori a quelle impegnate per il funzionamento degli uffici giudiziari, una rivisitazione dell’istituto si impone anche per gli abusi cui l’istituto si è nella prassi prestato. Il fatto di essere svincolata da ogni onere economico induce la parte ammessa al beneficio (ma anche il suo avvocato che vede la possibilità di cumulare onorari) a porre in essere iniziative processuali a volte anche stravaganti e in effetti ad abusare del suo diritto senza curarsi degli oneri che ne derivano all’erario. Tutto ciò determina una abnorme proliferazione dei giudizi, che finisce col pesare sulla trattazione dei giudizi veri e dilata ingiustificatamente i tempi di definizione dei singoli procedimenti. Così s’è dato il caso che, in procedimenti penali in cui erano in gioco interessi insignificanti, sia l’imputato che la parte offesa sono stati ammessi al patrocinio erariale e che gli stessi, liberi di litigare a spese dello Stato (e, direbbe qualche

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malizioso, con il compiaciuto e interessato consenso dei propri difensori), sono rimasti sordi ad ogni tentativo di definizione bonaria della lite e men che mai è stata prestata acquiescenza a condanne per certo verso inevitabili e quasi simboliche. Così, nella materia civile e negli ultimi tempi, si è fatto ricorso all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione a controversie seriali di valore insignificante, come i giudizi promossi contro alcune società assicuratrici per contestare modesti aumenti del premio, applicati in asserita violazione della disciplina antitrust. Si può davvero dire che in tutti questi casi il gioco non vale la candela, perché alla fine gli onorari liquidati all’avvocato a carico dell’erario non solo quasi sempre sono superiori alle modeste somme riconosciute al cliente, ma prescindono anche dall’esito della lite, il che significa che nella sostanza la causa ha la sola funzione di produrre onorari piuttosto che apprestare effettiva tutela al diritto della parte e ciò induce taluno ad alludere alla incentivazione alla litigiosità che proviene dai difensori, suscitando ovviamente le proteste degli avvocati. Ancora più frequenti sono le ammissioni al patrocinio a spese dello Stato in alcuni giudizi davanti al giudice di pace di opposizione a sanzioni amministrative di modesta portata, per esempio per alcune contravvenzioni stradali o addirittura per il mancato pagamento del biglietto di trasporto sulle linee urbane. Il filtro, previsto per ostacolare in materia civile iniziative giudiziarie prive del benché minimo fondamento e solo per le cause civili, è la preventiva sommaria valutazione che la legge assegna al Consiglio dell’Ordine degli avvocati ma questa opzione, a giudizio per esempio del presidente della sezione distaccata di Taranto, si è rivelata inadeguata forse per l’eccessivo favore con cui i Consigli forensi deliberano sull’ammissibilità dell’istanza. Altrettanto poi non è previsto per i giudizi penali e per la ragione solo formale che qui la parte privata non prende l’iniziativa del procedimento, essendo titolare dell’azione penale un organo pubblico. Ma anche con riguardo ai giudizi penali la disciplina dell’istituto potrebbe essere modulata in relazione alla fase processuale, limitando per esempio il beneficio, almeno per i reati meno gravi, al giudizio di primo grado. Ma si tratta di scelte legislative su cui i giudici possono interloquire solo per metterne in evidenza le pesanti conseguenze sull’amministrazione della giustizia o per denunciarne l’irrazionalità. Ciò non toglie poi che anche i giudici peccano per così dire di eccessiva generosità (a spese dello Stato), perché le istanze di ammissione al beneficio (ma non è appropriato chiamarlo beneficio perché in effetti si tratta di un diritto garantito dalla Costituzione) quasi sempre vengono accolte anche quando vi sono molti indizi (come per esempio il tenore di vita) che l’istante è titolare di un reddito superiore al limite previsto dalla legge. L’anno scorso ho riferito il caso di un imputato di violazione edilizia per avere abusivamente costruito una villa con piscina che era stato ammesso al beneficio, sol perché all’anagrafe tributaria risultava titolare di un reddito infimo. Ma in tutti questi casi non può pretendersi che il giudice si

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trasformi in agente del fisco e faccia il lavoro di altri, a cui d’altra parte neppure può chiedersi, quando ricevono la prevista richiesta di informazioni, di sottoporre a verifica la posizione fiscale dell’interessato distogliendo la loro attenzione dai casi di più sostanziosa evasione fiscale. Il personale amministrativo Che altro dire in aggiunta a quello che si è detto nell’anno decorso? Tutti indistintamente gli uffici del distretto denunciano l’inadeguatezza degli organici oltre che del personale di magistratura anche del personale amministrativo e non potrebbe essere diversamente considerato che da ormai più di dieci anni non si fanno concorsi per colmare i vuoti che si creano con i pensionamenti e per far fronte comunque alle accresciute esigenze degli uffici giudiziari. La situazione si è notevolmente aggravata perché l’ultima manovra finanziaria – non si comprende in quale prospettiva di economia di spesa o se per reprimere eventuali abusi che, ove effettivamente sussistenti, si sarebbero dovuti ostacolare in altro modo – contiene il divieto assoluto per il personale contrattualizzato (cioè praticamente i dipendenti pubblici non invece lo stuolo di consulenti, portaborse e affini), di autorizzare per le trasferte l’uso di mezzo proprio, prima consentito non ad libitum ma solo quando non vi fossero mezzi di linea compatibili con la missione. Il risultato è che se in una sede periferica si vuole provvedere ad una sostituzione mediante il distacco – se del caso part-time – di un dipendente di altro ufficio, distante dieci-venti km, non è possibile autorizzare l’uso di mezzo proprio e poiché non vi sono neppure mezzi di linea compatibili con la missione, bisogna farne a meno, dato che non può pretendersi dal dipendente che debba rinunciare al rimborso della spesa di viaggio (il che per vero avviene talvolta ma non può diventare regola e comunque pone il dipendente nella condizione di rifiutare più che giustificatamente la prestazione fuori sede…). Il personale amministrativo inoltre viene continuamente mortificato e demotivato: abbiamo più volte denunciato che il personale giudiziario è l’unico, fra tutto il personale delle amministrazioni dello Stato, a non avere fruito della riqualificazione professionale che avrebbe comportato un miglioramento della posizione lavorativa, a riconoscimento della maggiore acquisita professionalità, e modesti miglioramenti economici. E invece, di recente, abbandonata definitivamente la prospettiva della riqualificazione, a cui il personale maggiormente teneva, con un accordo favorito dall’amministrazione, forse perché avrebbe dovuto nelle intenzioni sopire il conflitto sindacale, con un accordo – dicevasi – sottoscritto solo da alcune, forse una soltanto (anche se numericamente forte) associazione sindacale, si è proceduto ad una riforma di facciata nel senso che, mutata la denominazione dei vari profili professionali e sostituita l’unica qualifica di cancelliere con quelle forse ritenute

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più gratificanti di funzionario e di direttore amministrativo, nulla nella sostanza è cambiato e il personale si è visto attribuire un modestissimo incremento stipendiale che però ha sostituito i compensi annualmente assegnati con le risorse del fondo unico di amministrazione. Il nuovo accordo ha scontentato tutti; chi l’ha accettato lo ha fatto perché è sempre meglio di niente, che è la logica alla base della rassegnazione; ma l’accordo è stato contestato anche in sede giudiziaria perché addirittura avrebbe determinato qualche demansionamento ovvero attribuito competenze aggiuntive senza corrispettivo economico. Occorre al contrario predisporre una serie di incentivi anche di natura economica per motivare il personale di cancelleria, il cui impegno per vero mai finora mancato, è indispensabile per ogni prospettiva di riforma. Intanto gli uffici vanno avanti con l’aiuto di personale distaccato da altre amministrazioni, sicuramente valido e volenteroso, ma privo della necessaria qualificazione professionale (a decorrere dal primo gennaio è stato definitivamente immesso nei ruoli dell’amministrazione giudiziaria il personale già presente nell’ufficio in posizione di comando del disciolto Ente Tabacchi). E c’è chi, come il tribunale e la procura della repubblica di Brindisi ha fatto ricorso ai pensionati delle forze dell’ordine, disponibili a collaborare nelle cancellerie dietro corrispettivo di un modesto rimborso spese di cui si è fatto carico l’amministrazione comunale. In questa prospettiva avevamo proposto all’Ente Regione di realizzare un progetto analogo, per tutto l’ambito distrettuale, come sembra essere avvenuto in altre regioni, utilizzando se del caso anche personale del settore privato, in mobilità o in cassa integrazione, opportunamente selezionato. L’attuazione di un siffatto progetto, di sicura utilità per gli uffici giudiziari, avrebbe potuto costituire anche un valido aiuto all’economia del Salento attanagliata da una gravissima crisi. Ma la Regione, vincolata al patto di stabilità mi ha informalmente comunicato di non disporre dei fondi necessari. La magistratura onoraria La magistratura onoraria, che avrebbe dovuto occuparsi di affari di minore importanza (i giudici di pace) o svolgere un ruolo di supporto a fianco del giudice professionale (i giudici onorari di tribunale e i vice procuratori onorari) ha finito con l’assumere un ruolo essenziale nella giurisdizione e piaccia o no ormai non se ne può fare a meno. Gli affari che rientrano nella competenza dei giudici di pace, specie nella materia civile e dopo che è stata ampliata la loro competenza, sarebbe arduo dire che sono di minore importanza, mentre i giudici onorari di tribunale hanno dovuto supplire in tutto quasi sistematicamente alla mancanza di giudici professionali. La situazione degli uffici di questo distretto è ben nota agli addetti ai lavori. I giudici di pace hanno emesso centinaia se non migliaia di sentenze; alcuni

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giudici onorari si sono fatti carico del funzionamento di uffici periferici dove per anni è mancato il giudice professionale o lo hanno affiancato per far fronte ad una mole di lavoro a cui da solo il giudice professionale non avrebbe potuto provvedere. E infatti, interpretando per necessità all’italiana maniera la legge che limitava l’impiego del magistrato onorario ai casi di assenza o impedimento del giudice professionale, abbiamo ritenuto che impedimento può aversi anche nel fatto che il giudice professionale deve provvedere ad altro… Sta di fatto che, come dicevo, della magistratura onoraria oggi non si può fare a meno, specialmente dei giudici di pace inseriti a pieno titolo nell’ordinamento giudiziario e non con funzioni vicarie ma con competenza propria. Proprio per questo non si può rinviare oltre una rivisitazione della relativa disciplina. Pare evidente – ho scritto nella precedente relazione – che dovrà essere al più presto definito un più chiaro e trasparente metodo di assunzione, ma anche un sistema di controlli sul funzionamento di questi uffici da affidare comunque alla magistratura professionale, non puramente simbolico come quello attualmente affidato ai Presidenti di tribunale, che non sempre lo assolvono con impegno, essendo interamente assorbiti dai compiti inerenti l’ufficio cui direttamente sono preposti. E non c’è da scandalizzarsi affatto della richiesta della magistratura onoraria (che ha proclamato a decorrere dal 17 gennaio l’astensione dalle udienze) di una maggiore stabilizzazione del rapporto di servizio, con tutto quello che ciò comporta in termini di retribuzione – che non può essere più a cottimo e commisurata alla quantità piuttosto che alla qualità del lavoro –, in termini di tutela previdenziale (è inaccettabile che ad un giudice sia pure onorario, al quale si è chiesto di rinunciare o di limitare la sua attività professionale, non sia garantito il diritto alla retribuzione in caso di malattia) o perché no? Anche in termini di trattamento pensionistico visto che vi sono giudici di pace che hanno svolto questo ruolo per oltre un decennio negli anni centrali della loro attività professionale, che hanno dovuto per necessità trascurare o comunque limitare. Ma, si dice, in questo modo si va verso la professionalizzazione di un’attività onoraria. Poco male. La stabilizzazione della posizione lavorativa e l’instaurazione di un vero e proprio rapporto di lavoro potrà servire a responsabilizzare ancora di più il magistrato onorario oggi esposto soltanto al rischio della revoca o della mancata conferma alla scadenza solo in casi di gravi inadempienze. Sennonché tutti impegnati in una riforma che riguarda tutt’altro e che per fortuna ormai sembra chiaro che non approderà a nulla – per fortuna perché non risolverebbe nessuno dei problemi della giustizia e determinerebbe al contrario una profonda frattura nel sistema – per queste riforme settoriali non c’è tempo e nel momento in cui scrivo questa relazione non si sa ancora quale sarà la sorte di quei giudici di pace che, essendo stati già confermati nel mandato per tre volte (praticamente i primi che sono stati nominati), verranno a scadere all’ormai imminente 31 dicembre, che è il termine di durata dell’ultima proroga disposta in extremis l’anno scorso. Se non dovesse intervenire un’altra proroga (ma per il momento nulla

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si sa a riguardo, anche se è probabile, perché sempre così succede), importanti uffici di giudice di pace retti da magistrati onorari di grande spessore professionale (penso per esempio a Taranto) verranno a trovarsi improvvisamente senza guida; per i giudici onorari di tribunale e per i vice procuratori invece, la corte di appello, fra le prime in Italia, grazie anche all’impegno del personale amministrativo che vi è addetto, del dr. Arturo Sartori in primis che ne dirige la segreteria, ha espletato i relativi concorsi e predisposto le graduatorie in base alle quali si è già proceduto alle prime nomine. Il numero degli uffici del giudice di pace in questo distretto non può dirsi esuberante rispetto alle necessità anche se la diffusione sul territorio di questi uffici, che sarebbe meglio forse concentrare in poche sedi, crea qualche problema per la scarsezza di personale amministrativo quasi sempre insufficiente. Questa emergenza riguarda indistintamente tutti gli uffici giudiziari, ma nel caso di uffici di piccole dimensioni come quelli del giudice di pace, crea difficoltà maggiori perché la mancanza spesso di figure professionali dello stesso profilo rende impossibile le sostituzioni all’interno dell’ufficio in relazione alle specifiche mansioni riservate dal recente contratto ad alcune figure professionali (è il caso per esempio dell’assistenza all’udienza). In questi giorni – per gli uffici del giudice di pace – si sta provvedendo alla revisione delle piante organiche dei soli magistrati onorari (ma dovrebbe essere consequenziale anche quelle del personale amministrativo, tuttavia non si hanno notizie in merito) che è indifferibile perché vi sono uffici, come quello per esempio di Gallipoli, notoriamente sottodimensionato ma soprattutto perché la revisione delle piante organiche è preliminare ai trasferimenti e solo successivamente si potrà procedere a nuove nomine e quindi anche alla sostituzione dei giudici cessati dall’incarico per ragioni di età o di altro genere (attualmente su tutto il territorio nazionale i giudici di pace in servizio sono 2.584 a fronte di un organico virtuale di 4.690). Complessivamente la situazione degli uffici dei giudici di pace deve ritenersi molto migliorata nell’ultimo anno perché, dopo l’ultima ispezione ministeriale, da un lato si è rimediato a molte disfunzioni rilevate dagli ispettori, dall’altra il loro lavoro viene ormai monitorato con maggiore attenzione sia da parte di questa presidenza che da parte della presidenza del tribunale. Le strutture logistiche Non ci sono significative novità rispetto allo scorso anno. La situazione è decisamente migliorata per alcuni uffici di giudice di pace per esempio Otranto e Nardò che hanno trovato una sistemazione migliore; permane invece la situazione di criticità per l’ufficio del giudice di pace di Gallipoli che utilizza locali inadeguati e insufficienti, senza che alcun segnale sia finora pervenuto dall’amministrazione comunale, che deve provvedere a reperire locali più adatti,

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tenuto conto anche che per l’ufficio del giudice di pace di Gallipoli, si prevede un consistente aumento di organico essendo attualmente fortemente sottodimensionato rispetto alle effettive esigenze. Come ho già riferito nella mia precedente relazione, il tribunale e la procura della repubblica di Brindisi sono allocati in uno stabile decoroso, realizzato ad hoc in tempi relativamente recenti, di recente ampliato, adeguato alle esigenze, ben tenuto. A Taranto, dopo che la sezione distaccata della corte e gli altri uffici distrettuali si sono sistemati – lo scorso anno – nello stabile di recente realizzazione, moderno ed architettonicamente di gran pregio, ben più che adeguato alle esigenze della corte, resta il problema dell’utilizzazione dell’edificio, prospiciente a quello dove ha attualmente sede la corte di appello, già dalla stessa occupato, al cui interno vi è ora soltanto l’aula di massima sicurezza, utilizzata esclusivamente per i processi con molti imputati detenuti e che richiedono particolari misure di sicurezza. L’edificio appartiene all’ente provinciale che già in passato, sensibile alle esigenze della città, pur non avendo alcun obbligo di legge per quanto riguarda il funzionamento degli uffici giudiziari, che grava interamente sui comuni col contributo dello Stato, consentì che fosse destinato alla sezione distaccata di corte di appello e ne ha costituito per alcuni anni (ora abbisogna di importanti interventi di manutenzione) una sede adeguata e dignitosa. La disponibilità di un complesso di edifici di notevole estensione – quello dove finora ha avuto sede la corte di appello e il tribunale di sorveglianza – e la disponibilità dell’ente provincia, sulla quale si ha ben motivo di confidare, di consentirne ancora l’uso per uffici giudiziari, se del caso concludendo una permuta con il Comune, oppure concedendolo in uso ad un canone simbolico, ha fatto ben sperare circa la possibilità di pervenire ad una soluzione del problema che riguarda la procura della repubblica che – ancora oggi a distanza di anni dall’unificazione della c.d. procurina con la procura – è dislocata su due distinti immobili notevolmente distanti l’uno dall’altro e uno dei due praticamente isolato anche dal tribunale e dagli altri uffici giudiziari. Il complesso di che trattasi infatti, secondo le rilevazioni ed i calcoli fatti eseguire dall’Ordine degli avvocati, che si è dichiarato favorevole al progetto, potrebbe ospitare tutti gli uffici del tribunale penale e quelli della procura della repubblica. L’edificio di viale Marche verrebbe pertanto riservato a sede del tribunale civile con la possibilità per quest’ultimo di acquisire a sua volta spazi più confacenti alle sue esigenze. Il progetto che per essere realizzato non richiede che l’assenso dell’ente proprietario del complesso, sul quale come si è detto si ha ben motivo di confidare, e qualche sia pure importante intervento di manutenzione, concentrerebbe le attività civili e quelle penali in due distinti siti e risolverebbe forse una volta per tutte il problema della sistemazione degli uffici giudiziari, senza dire che nel sito in questione vi sono ancora ampi spazi edificabili che permetterebbero in prospettiva un ampliamento degli edifici e la realizzazione di una vera e propria cittadella giudi-

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ziaria. Il tutto con grande economia di costi per la collettività e per il Comune di Taranto in particolare, perché si verrebbe ad utilizzare una struttura pubblica di cui allo stato non si vede quale altra utilizzazione sia possibile, con risparmio dei costi attualmente sostenuti per la locazione dello stabile ove attualmente è sistemata una parte degli uffici della procura (quelli che costituivano la c.d. procurina) e per i quali per altro è in corso procedura di sfratto col rischio per il Comune di responsabilità per danni per effetto del ritardato rilascio. Alla realizzazione del progetto si oppongono, com’è ovvio, varie resistenze, come sempre succede di fronte ad ogni cambiamento e come del resto avvenne quando si trattò di occupare il nuovo edificio della corte di appello, rimasto per circa tre anni inutilizzato e destinato – se non si fosse intervenuto in tempo – al degrado. Ma si tratta di resistenze immotivate che si possono facilmente superare sol che si rifletta sui vantaggi che possono derivare dalla sistemazione che si è proposta. I capi degli uffici interessati, in una riunione promossa da chi vi parla, si sono dichiarati d’accordo. Occorre passare all’azione: e per questo i capi degli uffici interessati ed io stesso abbiamo pensato di costituire un comitato, che promuova gli opportuni contatti, da affidare alla direzione del collega presidente Antonio Marsano che quest’anno ci ha lasciato per raggiunti limiti di età ma che è ancora disponibile ad impegnarsi per gli uffici giudiziari ai quali tanto ha dato nella sua quarantennale carriera. A Lecce la situazione non ha fatto progressi. L’unico dato positivo è che il Comune di Lecce, quando sembrava che si fosse giunti ad un punto di rottura, accogliendo le mie insistenti richieste, ha finalmente dato incarico alla società Lupiae di provvedere alla ordinaria manutenzione di questo stabile di viale de Pietro, attraverso diretti contatti con gli uffici giudiziari interessati e senza procedure appesantite da formalismi, evitando quindi che per gli interventi di manutenzione più banali, spesso di particolare urgenza, occorressero tempi biblici. Il palazzo tuttavia, nonostante le enormi spese sostenute per interventi parziali, talvolta imposti dall’urgenza, abbisogna di un intervento di manutenzione straordinaria complessiva, che non può essere rinviata ancora, salva la possibilità di realizzare effettivamente altrove una cittadella giudiziaria che possa ospitare tutti gli uffici giudiziari: l’idea finora prospettata così come pura ipotesi di scuola, non sembra del tutto disancorata da prospettive concrete se è vero che il Comune, secondo notizie di stampa avrebbe già pensato di mettere in vendita questo edificio. Non so se questa è soltanto una escamotage per inventarsi una posta attiva nel bilancio e far quadrare i conti o se invece non voglia dire che l’attuale sindaco dr Perrone si sia lasciato allettare dall’idea che lo scorso anno gli ho lanciato di legare il suo nome ad una importante opera che sarebbe durata nel tempo e avrebbe potuto ricordare a chi verrà dopo di noi le sue realizzazioni di sindaco. Nemmeno per i palazzi di via Brenta vi sono novità. Nonostante le mie sollecitazioni in varie sedi, l’indagine penale per gli illeciti che sarebbero stati commessi

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alla stipula del contratto di leasing e che se veri (il che ovviamente è da accertare e su cui nulla posso dire) potrebbero costituire dal mio punto di vista ipotesi di reato ben più grave di quella contestata, non ha ancora superata la soglia dell’udienza preliminare e non se ne prevede in tempi brevi la conclusione. Il che purtroppo non giova a nessuno. Non giova al Comune di Lecce che non sta ricevendo e forse non riceverà fino alla conclusione della vicenda alcun contributo dallo Stato, neppure quello commisurato al canone di locazione a suo tempo approvato; non giova all’ente proprietario degli edifici a cui il Comune non può e non deve pagare nulla a nessun titolo fino a quando la controversia in atto non sarà definita; non giova soprattutto agli uffici giudiziari perché l’amministrazione comunale, come il sindaco dr Perrone saggiamente ha deciso, non è disponibile a spendere danaro per opere da farsi in edifici che da un momento all’altro potrebbero essere messi a disposizione del proprietario. Nel frattempo il Comune ha opportunamente sollecitato, con avviso pubblico, la presentazione di offerte per l’acquisizione di altro edificio nel quale trasferire gli uffici attualmente allocati a via Brenta. A quanto pare sono già pervenute delle offerte anche meritevoli di essere prese in considerazione, una specialmente che, ubicata lontana dal centro, è contigua ad aree edificabili, forse dello stesso proprietario, che potrebbero essere utilizzate per la realizzazione della tanto auspicata cittadella giudiziaria, magari chissà una permuta con l’attuale palazzo di giustizia. Ma vi sono altre soluzioni: vi è al centro della città un edificio di grandi proporzioni, uno dei tanti bellissimi conventi realizzati in tempi lontani nella città di Lecce, noto come caserma Cimarrusti, che fu in passato anche sede del Comando Provinciale dei Carabinieri, ha ospitato in seguito in un suo settore il liceo scientifico, ha subito in tempi diversi due distinti e parziali restauri, ma che da anni è inutilizzato. Unico ostacolo è che l’immobile appartiene all’ente Provincia e il presidente Gabellone inizialmente ha lasciato cadere l’idea di destinarlo a sede di una parte degli uffici giudiziari affermando che la Provincia aveva altri programmi mentre più di recente ha aperto degli spiragli. La situazione in sostanza è quella stessa di Taranto e perché allora a Taranto si e a Lecce non dovrebbe essere possibile altrettanto? Quale ostacolo può costituire il fatto che la Provincia non ha obblighi di legge per il funzionamento degli uffici giudiziari, se si tratta innanzitutto di recuperare ad un uso decoroso un’opera di grandissimo pregio, di proprietà pubblica finora e da anni inutilizzata? Se si tratta di sgravare l’ente comunale dagli oneri pesantissimi connessi all’acquisizione di edifici privati da destinare ad uffici giudiziari? Ma si obietta quell’edificio non dispone di parcheggi. E che conta? Un edificio al centro della città è facilmente raggiungibile e non ha necessità di ampio parcheggio… e poi vi potrebbero essere allocati uffici che non hanno molti contatti col pubblico… Si, è vero, sono tutti programmi a lunga scadenza che si potranno realizzare quando io sicuramente non occuperò più questo posto… Intanto alla situazione attuale non si vedono purtroppo valide alternative…

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L’informatizzazione L’anno scorso parlai con entusiasmo dei traguardi raggiunti in fatto di informatizzazione degli uffici. L’entusiasmo nasceva soprattutto dal fatto che si può dire tutto era stato realizzato per nostra iniziativa, senza alcun concreto imput dell’amministrazione centrale, che si è limitata in questi anni a fornire agli uffici periferici alcuni applicativi, destinati sempre ad essere aggiornati, destinati alla informatizzazione dei servizi più semplici (i registri di cancelleria) per i quali peraltro ci eravamo già attrezzati per conto nostro. Molto poco in verità anche a confronto con quanto hanno realizzato altre amministrazioni dello Stato. Non è un caso del resto che la realizzazione principale, la informatizzazione delle sentenze, intrapresa all’inizio con l’aiuto dell’amministrazione centrale, è potuta poi proseguire (non temo di dire nel disinteresse dell’amministrazione centrale) solo grazie al lavoro di un esperto informatico del locale presidio Cisia il dr. Giuseppe Cascarano che ha recuperato i dati immessi in un programma sostanzialmente superato, lo ha aggiornato ed ha creato le condizioni per proseguire il lavoro già avviato senza il pericolo che tutto andasse disperso: oggi l’archivio comprende oltre diciottomila sentenze penali, venticinque mila sentenze di lavoro, novemila sentenze civili, più di 800 documenti (sentenze e ordinanze) della corte di assise di appello, 1.300 provvedimenti della sezione minori, 840 documenti di volontaria giurisdizione. Un lavoro imponente portato avanti in sordina, senza dispendio eccessivo di risorse, che consente risultati eccellenti, che, con un minimo aiuto dell’amministrazione centrale, potrebbe essere esteso agli altri uffici e raggiungere l’obiettivo di un archivio informatico contenente tutte le sentenze emesse nel distretto. Per il resto non si sono fatti grandi passi in avanti: particolarmente arretrata è la situazione della sezione distaccata di Taranto, dove tuttora non funziona il sistema automatico di rilevazione delle presenze, perché, installato con ritardo l’apparecchio di registrazione, il personale che era stato addestrato all’uso avrebbe dimenticato le poche nozioni apprese mentre fino allo scorso anno si faceva ancora uso, nella cancelleria penale, dei registri cartacei, roba dell’età della pietra. Lo scorso anno abbiamo avviato il progetto di informatizzazione ma l’applicativo in uso, il rege relazionale, è superato, nel senso che non comunica con il più antico rege installato al tribunale ed alla procura della repubblica col quale dovrebbe interagire, mentre rege web che avrebbe dovuto sostituire entrambi ha dato dei problemi e per ora – e non si sa fino a quando – è stato accantonato. Superate ma solo in parte le difficoltà e solo grazie alle mie insistenti sollecitazioni da Lecce, il progetto è partito ma sussistono ancora serie difficoltà per la migrazione dei dati relativi al pregresso, atteso che, come si è detto, i due programmi installati presso la corte e presso gli uffici di primo grado non comunicano tra loro e la migrazione dei dati sarebbe dovuta avvenire, processo per processo, con un

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enorme dispendio di tempo e di lavoro, anche perché la linea telematica attraverso la quale i dati avrebbero dovuto essere acquisiti è antiquata e la trasmissione dei dati attraverso di essa è lentissima. Solo grazie alla disponibilità del procuratore Sebastio si è reso possibile tentare una via più semplice, realizzando un clone su dvd dell’archivio della procura e utilizzando lo stesso per l’acquisizione dei dati, baipassando la rete telematica che come si è detto è molto lenta. Il problema non è stato risolto del tutto ma stiamo andando avanti. La presenza a Taranto della presidente Sinisi varrà a superare pigrizie, ritardi, ostacoli, ostruzionismi. Devo dire che in tutto questo non è mancato l’aiuto del locale presidio Cisia ma mai spontaneo e sempre dietro sollecitazione insistente dello scrivente laddove il Cisia dovrebbe esercitare, secondo il mio punto di vista, un ruolo trainante, promuovere le iniziative informatiche e non intervenire solo per soccorso, intravedere e suggerire le soluzioni dei problemi laddove il pratico non tecnico non arriva, coinvolgere gli uffici amministrativi in ogni nuova iniziativa informatica e non farsi coinvolgere. Ma la novità di questa fine anno è che ci verrà a mancare l’assistenza sistemistica finora prestata da ditte esterne (ma era nell’aria già dall’anno scorso). Non siamo in grado di prevedere cosa potrà accadere, anche ad alti livelli istituzionali vi è preoccupazione che tutto possa bloccarsi. L’on. Ministro tuttavia è stato rassicurante confermando che delle problematiche attinenti il finanziamento dell’assistenza ai sevizi informatici è stato già interessato il Ministero dell’economia e finanze e che comunque, in assenza di eventuali ulteriori disponibilità, si sarebbe cercato, anche attraverso lo strumento delle variazioni compensative, di inserire all’interno del bilancio le somme necessarie ad un adeguato funzionamento dei servizi di assistenza informatica. Ma non manca fra di noi chi, stanco degli attacchi che ogni giorno ci vengono rivolti, ritiene che è finalmente venuto il momento per rifiutare il ruolo di supplenza che ci siamo accollato e per metterci anche noi alla finestra, per far vedere a tutti in quale stato di disorganizzazione è ormai l’apparato giudiziario. Alla fine sono sicuro prevarrà ancora una volta lo spirito di sacrificio e la capacità di adattamento e risolveremo da soli il problema. Intanto ai primi del mese scorso l’on. Ministro ha pubblicamente dato notizia che a partire dal primo gennaio di quest’anno gli uffici giudiziari, dando attuazione alla modifica legislativa da tempo intervenuta, avrebbero abbandonato il sistema farraginoso e superato delle notifiche a mezzo ufficiale giudiziario e provveduto alle comunicazioni e notifiche, quanto meno agli avvocati, a mezzo della posta telematica certificata, con un grande risparmio di risorse umane e materiali ed una sicura razionalizzazione e maggiore efficienza del servizio. Niente di eccezionale: facciamo già uso da tempo, nei rapporti col Ministero e con il Consiglio Superiore della Magistratura, della posta certificata e la possibilità di estendere questo mezzo di comunicazione agli avvocati è stata un’antica aspirazione, cui si è fatto cenno anche lo scorso anno. “Tutto ciò, ha dichiarato

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il Ministro, non implica alcun intervento legislativo e soprattutto avverrà a costo zero, senza un euro in più di investimento”. “La piattaforma è già pronta, ha poi aggiunto, le cancellerie dei tribunali non dovranno fare altro che collegarsi; attualmente su quaranta mila dipendenti sono circa cinquemila, pari al dieci per cento, quelli impegnati a compiere circa ventottomila notifiche all’anno (o ventottomilioni? Perché solo l’unep di Lecce ne effettua oltre trecentomila l’anno)”. La spesa risparmiata sarebbe superiore ai cento milioni: quanti stipendi di giudici e cancellieri si potrebbero pagare impiegando la stessa somma? Sennonché a tutt’oggi il servizio a Lecce, a differenza che in alcune sedi del Nord che ne hanno menato gran vanto, non è ancora partito nonostante le nostre sollecitazioni: non sappiano quali ostacoli si frappongono, noi abbiamo fatto e siamo pronti a fare tutto quello che è necessario ma pare che non sia ancora il nostro turno. Intanto in attesa dell’intervento ministeriale non possiamo neppure usare sistemi artigianali che potremmo realizzare da noi, sia pure senza il crisma dell’ufficialità, e che però gli avvocati di buon grado avrebbero accettato ed anzi sollecitano, senza sollevare eccezioni di sorta. Un’osservazione finale non può essere omessa. L’amministrazione dispone di un gruppo di esperti informatici (a suo tempo inquadrati nei Cisia per tenerli distinti dalle cancellerie ed evitare, almeno inizialmente, che fossero impegnati in compiti estranei alla loro qualificazione professionale) che oggi di fatto vivono separati dalla realtà degli uffici e svolgono compiti di coordinamento – dicono loro – di natura esclusivamente burocratica, dico io. Di questi esperti informatici, è venuto il momento di recuperare la specifica professionalità ed impegnarli all’interno o in stretta connessione con gli uffici in compiti più congeniali, innanzitutto di promozione e di diffusione dell’informatica. Noi a Lecce, alla corte di appello, abbiamo potuto contare sempre sull’aiuto e la capacità di indirizzo dell’amministratore di sistema dr. Luigi Bisanti che quest’anno, contro le previsioni, è stato quasi sempre di buon umore e ci ha sempre risolto i problemi. È un’occasione per ringraziarlo ma anche per dirgli che contiamo ancora e sempre su di lui. Non ha a che fare con l’informatizzazione il progetto delle best practices finanziato con i fondi europei, che, a mio avviso, sarebbero stati spesi meglio se utilizzati (ma forse non era possibile perché vincolati a questo tipo di lavoro) per rinnovare le infrastrutture ormai obsolete e insufficienti; alla fine gli esperti che hanno avuto l’incarico di studiare la struttura dei nostri uffici ci daranno tanti buoni consigli su come organizzarci in modo più razionale e nient’altro ed io, nonostante la mia origine di calabrese, non voglio essere pessimista ed escludere fin da questo momento che i loro buoni consigli ci saranno di alcun utilità. Nessun aiuto ci è venuto – in fatto di informatizzazione – dalla Regione nonostante l’impegno di qualche anno fa del presidente Vendola rinnovato più recentemente dalla vice presidente Loredana Capone, e ciò nonostante la minaccia

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– fatta ben s’intende in termini amichevoli in occasione di qualche incontro – che al momento buono le avrei rinfacciato i mancati risultati. Ma i politici si sa se dovessero preoccuparsi di questo tipo di minacce non avrebbero vita facile… Sembrerebbe invece che sia stato finanziato dalla Regione il progetto Ire Sud che forse riguarda gli uffici del giudice di pace della regione. La corte di appello, che pure è l’organo di vertice nel distretto, non è stata né informata né coinvolta in questo progetto. Non sono stato in grado di conseguenza di dare alcuna risposta ad un giudice di pace del circondario di Taranto, che, ansioso di informatizzare i servizi del suo ufficio, mi ha chiesto che cosa doveva fare per raggiungere questo obiettivo, visto che gli erano stati forniti alcuni computer e la sede dell’ufficio era stata anche cablata. Ho chiesto al dirigente del Cisia di Bari come fosse possibile tutto ciò, dato che di regola le aspirazioni degli uffici alla informatizzazione sono frustrate dalla mancanza di mezzi: qui invece i mezzi, sia pure quelli di base, c’erano e mancavano invece le iniziative per la loro utilizzazione. La risposta in sostanza è stata che il ritardo era della Regione che gestiva il progetto e che avrebbe dovuto attivare il server su cui si sarebbero dovuti installare i programmi. Immagino che il Cisia (solo a Taranto ci sono cinque o sei addetti) si sia attivato e che non si sia sottratto a quel ruolo di promozione che secondo me dovrebbe competergli, ma non ho avuto altre notizie. PARTE SECONDA La giustizia penale Delitti politici Nel periodo di riferimento non sono segnalati reati oggettivamente e soggettivamente politici, né delitti a carattere terroristico. Non risultano episodi di razzismo o di intolleranza religiosa. Associazioni di tipo mafioso Scrive il procuratore distrettuale antimafia Cataldo Motta, nella sua pregevole ed esauriente relazione, indicativa di una approfondita conoscenza del fenomeno e della realtà criminale salentina, notoriamente maturata in anni di eccezionale impegno su questo fronte nell’intero ambito distrettuale, che, “le capacità operative delle organizzazioni criminali storicamente inserite nell’associazione di tipo mafioso comunemente denominata sacra corona unita o comunque gravitanti nell’ambito di essa, già fortemente ridimensionate, continuano ad essere contenute dagli interventi di contrasto giudiziario. E tuttavia – principalmente in provincia di Brindisi, ma, forse in misura inferiore, anche in quella di Lecce – sono venute alla luce manifestazioni esteriori di tipo “tradizionale”, indicative di una tendenza al

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controllo delle attività criminali nei due territori, che hanno richiamato l’attenzione sul fenomeno criminale e sulla possibilità che esso riprenda forza, anche per la concomitante e perdurante presenza di due fattori, già segnalati negli ultimi anni: da un lato le scarcerazioni di molti esponenti, anche di rilievo, dei clan salentini che hanno terminato di espiare la pena (ampiamente falcidiata dalla concessione di centinaia di giorni di liberazione anticipata – pari ad un anno ogni quattro espiati – cui consegue di fatto la riduzione di un quinto della pena originariamente irrogata) e dall’altro il ricorrente atteggiamento di scarsa collaborazione di molte, se non tutte, le vittime di condotte intimidatorie e violente, che non appare giustificato dai risultati conseguiti nei casi in cui, invece, si è riusciti ad ottenere indicazioni dalle persone offese, ad identificare così gli autori delle diverse condotte criminali ed a farli catturare e condannare. Si sottolinea a tal proposito come sia stato possibile constatare che la perdurante crisi economica – che tra l’altro ha reso certamente più difficile la riscossione dei crediti – abbia contribuito in certo qual modo ad enfatizzare il ruolo della criminalità organizzata e ad aprire nuovi spazi di intervento in questo specifico settore con il ricorso da parte dei creditori ad ambienti della criminalità organizzata locale per il recupero del proprio credito, con la ovvia consapevolezza del metodo mafioso, intimidatorio e violento cui il debitore sarebbe stato sottoposto. Ciò che maggiormente allarma nell’iniziativa, piuttosto diffusa, degli stessi creditori di rivolgersi a tali ambienti è proprio l’accettazione e la condivisione di logiche criminali e mafiose, la legittimazione che ne consegue per i clan mafiosi, un abbassamento della soglia di legalità e, nella sostanza, il riconoscimento di un loro ruolo nel regolare i rapporti nella società civile in una prospettiva di definitiva sostituzione dei clan mafiosi agli organi istituzionali dello Stato (e sono questi i motivi in virtù dei quali il fenomeno non è adeguatamente documentato da significative variazioni del numero delle denunce di estorsione). La stessa situazione di crisi ha contribuito altresì a spostare il ricorso al credito da quello bancario a quello delle imprese finanziarie e dell’usura (spesso praticata dalle stesse finanziarie, talvolta non estranee all’ambiente della criminalità organizzata), soluzione che, per le medesime menzionate motivazioni, deve essere considerata particolarmente grave sul piano dell’accettazione di regole illegali. Anch’essa non è documentata da alcun aumento delle denunce per usura, ma è stato possibile accertare alcune vicende emblematiche che ben si collocano nel quadro suddetto. A giudizio del procuratore distrettuale, la sostanziale stabilità del numero dei procedimenti per delitti di estorsione e di usura non è significativo della dimensione di entrambi i fenomeni, notoriamente sommersi… Invero i reati riconducibili a finalità mafiose sono in numero clamorosamente esiguo, il che molto verosimilmente si spiega con la scarsa disponibilità delle vittime a collaborare con la polizia giudiziaria per la elevata capacità intimidatoria che i gruppi criminali di tipo mafioso operanti nelle tre province continuano a mantenere, mentre, con riguardo ai reati non riconducibili a dinamiche mafiose, si

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è registrata una certa fiducia dei cittadini nell’intervento giudiziario attraverso la presentazione di denunce o con dichiarazioni utili ai fini delle indagini. Il dato statistico relativo alle estorsioni ed all’usura non appare, quindi, idoneo ad indicare la scomparsa o anche solo una riduzione delle attività criminali o il definitivo esaurirsi delle potenzialità offensive ed intimidatorie dell’organizzazione di tipo mafioso salentina, dovendosi piuttosto trarre conferma dal dato fattuale ricavabile da concordanti elementi di conoscenza (informazioni provenienti dal territorio, attività di investigazione, collaboratori di giustizia, informatori della polizia giudiziaria, confidenze da quest’ultima raccolte direttamente dalle vittime che non vogliono denunciare i fatti né essere altrimenti coinvolte in indagini giudiziarie) una costante operatività, sia pur attenuata rispetto al passato meno recente, dei gruppi criminali stabilmente operanti sul territorio e strutturati nelle forme tipiche dell’organizzazione criminale mafiosa salentina, da sempre connotata da fluidità e mutevolezza, e del perdurare di una sorta di inabissamento delle attività ad essi riconducibili. A dimostrazione di questo assunto (non rispondenza del dato statistico relativo ai reati emersi con la situazione reale), il procuratore distrettuale riferisce un significativo episodio verificatosi nella zona di Mesagne e l’esito di un’operazione investigativo-repressiva posta in essere nella zona di San Pietro Vernotico. Scrive il procuratore Motta: “In territorio di Mesagne si sono avuti due distinti interventi repressivi: il primo con la cattura nel febbraio 2010 di Massimo Pasimeni e della moglie Gioconda Giannuzzo, nonché di Carmine Campana, Vincenzo Antonio Campana e Giancarlo Rini cui il GIP presso il Tribunale di Lecce ha applicato la custodia cautelare in carcere per i reati di estorsione, danneggiamento seguito da incendio, riciclaggio, impiego continuato di denaro e beni di provenienza illecita, trasferimento fraudolento di valori commessi con metodo mafioso e finalità di agevolazione mafiosa (Massimo Pasimeni, condannato ripetutamente per associazione di tipo mafioso con ruolo direttivo ed organizzativo è stato condannato all’ergastolo in primo e secondo grado per gli omicidi di Giovanni Goffredo e di Benito Nisi, ma in tale processo non è sottoposto a custodia cautelare essendo stato scarcerato per decorrenza dei termini di durata di essa)”. Con riferimento all’esecuzione della suddetta ordinanza con la quale Pasimeni e la moglie sono stati catturati deve osservarsi come la “reazione” della gente di Mesagne appaia particolarmente allarmante, per la conseguente valutazione in termini di abbassamento della soglia di legalità e di legittimazione dell’associazione mafiosa, proprio nella città di nascita di Pino Rogoli, fondatore della sacra corona unita, e di accettazione delle sue logiche: i vicini di casa dei coniugi Pasimeni/ Giannuzzo e gli abitanti del quartiere, nel centro storico della città, la notte del loro arresto, benché fossero le tre del mattino, in molti sono scesi in strada ed hanno manifestato affettuosa solidarietà ai coniugi che venivano portati via dalla Polizia, con parole di conforto, di augurio e di speranza: “Massimo torna presto, vi vogliamo bene, Gioconda al tuo cagnolino pensiamo noi, ci mancherete” ed altre espressioni del medesimo tenore. L’evento appare grave ed indicativo di un con-

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senso – evidentemente abbastanza diffuso – ai comportamenti di esponenti mafiosi del calibro di Pasimeni, della condivisione di essi nonostante la connotazione criminale, del riconoscimento del ruolo di “mafioso” da parte della comunità, anche in una prospettiva di utilità del rapporto con lui. Per non dire – quanto all’atteggiamento di solidarietà di alcuni strati della popolazione nei riguardi di esponenti della criminalità – dei festeggiamenti, con lo sparo di una batteria di fuochi di artificio, seguiti alla scarcerazione ed al rientro nel paese di origine – Squinzano – di Antonio Pellegrino, uno dei due figli di Francesco Pellegrino, detto zu Peppo (attualmente detenuto all’ergastolo) e all’epoca responsabile – per la vecchia sacra corona unita – della intera fascia settentrionale della provincia di Lecce. Scrive ancora il procuratore Motta: “Due interventi, nel luglio 2009 e nel marzo 2010 (eseguiti nel corso delle medesime indagini preliminari), hanno caratterizzato il contrasto ad un gruppo di emergenti che aveva determinato una situazione di intimidazione ed assoggettamento a San Pietro Vernotico, territorio “storicamente” controllato da Cosimo Screti, chiamato Tonino, già collaboratore di giustizia, condannato per partecipazione alla sacra corona unita e vicino a Salvatore Buccarella, rientrato nell’alveo territoriale dopo un periodo di soggiorno in località protetta. Invero, a decorrere dal luglio 2008 si erano verificati a San Pietro Vernotico oltre una ventina di episodi di intimidazione e violenza a danno di imprenditori e commercianti nonché di amministratori comunali (sindaco compreso), consistiti principalmente in incendi di autoveicoli ma anche nella collocazione di teste di animali mozzate davanti la casa della persona da intimidire (con ricorso alla tradizionale simbologia dell’intimidazione mafiosa) e che avevano determinato nel contesto sociale sampietrano un diffuso clima di forte intimidazione. Le indagini hanno permesso di accertare che l’attività criminale era riconducibile ad un gruppo di una decina di persone, tra i diciotto ed i trent’anni, alcuni dei quali vicini alla vecchia frangia brindisina della sacra corona unita (quella capeggiata da Salvatore Buccarella e cui apparteneva Cosimo Palma detto Panzino con il ruolo di “responsabile” proprio di San Pietro Vernotico e del quale era uomo di fiducia Lucio Annis, il cui fratello è inserito nel “nuovo” gruppo criminale) e che le azioni intimidatorie e di danno erano finalizzate a determinare condizioni di assoggettamento al fine di monopolizzare il racket delle estorsioni e di gestire, poi, sempre in termini esclusivi la distribuzione a San Pietro Vernotico delle sostanze stupefacenti. La risposta repressiva è stata assai tempestiva essendo stata richiesta all’inizio di luglio 2009 (a pochi mesi dall’ultimo episodio intimidatorio) l’applicazione della custodia cautelare in carcere a otto persone indiziate di associazione di tipo mafioso, nove tentativi di estorsione, danneggiamento e danneggiamento seguito da incendio, fabbricazione, detenzione e porto in luogo pubblico di ordigni ed esplosione di essi, tutti episodi aggravati dal metodo mafioso e dalla finalità di agevolazione mafiosa. Il Giudice delle indagini preliminari ha accolto la richiesta neppure dieci giorni dopo, con una decisione che ha avuto immediati riflessi

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sull’ordine pubblico di San Pietro Vernotico, essendo cessata ogni azione di violenza e minaccia (cosiddetta operazione Fire nel procedimento contro Alessandro Blasi ed altri)”. Neppure il traffico delle sostanze stupefacenti, secondo il procuratore distrettuale, ha subito significative flessioni, nonostante che in numerosi procedimenti siano state arrestate molte decine di persone e sequestrati ingenti quantitativi di droga, in particolare di cocaina e di derivati della cannabis, il cui commercio continua ad essere fiorente, più di quello dell’eroina. Sempre attuali sono risultati i collegamenti con l’Albania per la provenienza delle sostanze stupefacenti con un ritorno alle precedenti modalità di trasporto ed importazione di esse per quanto riguarda la marijuana (nell’anno giudiziario ne sono state sequestrate oltre tre tonnellate, di provenienza albanese, trasportate con le suddette modalità), mentre cocaina ed eroina vengono trasportate di norma a bordo di autoveicoli, imbarcati su traghetti di linea che approdano nel porto di Brindisi (ed anche di quelli pugliesi più a nord). Alcuni sequestri di marijuana e di gommoni “spiaggiati” consentono di affermare, infatti, che per il trasporto di essa i trafficanti albanesi mantengono aperta la via del Canale d’Otranto percorsa (anche se non con la frequenza degli anni novanta del secolo scorso) da gommoni che trasportano centinaia di chili di marijuana, con un equipaggio di un paio di persone, come si era già rilevato nei precedenti periodi 2008/2009 e 2007/2008. Non sono ripresi, invece, gli omicidi “di mafia” l’ultimo dei quali nel territorio leccese risale al 6 marzo 2003 e chiudeva il periodo 2002/2003 nel quale vi erano stati, nella sola provincia di Lecce, dieci agguati mafiosi con cinque omicidi (i cui autori, peraltro, sono stati tutti identificati e perseguiti). È bensì vero che nel settembre 2008 vi è stato un grave episodio di omicidio certamente “mafioso”, quello di Salvatore Padovano, ma si è trattato di un episodio isolato che si inquadra in un contesto locale di contrasti nell’ambito della famiglia mafiosa e di quella naturale, commesso per specifiche motivazioni legate a differenti valutazioni del ruolo dell’associazione mafiosa ed alla leadership del clan, mentre reazioni di eguale livello da parte di organizzazioni “storicamente” collegate con Salvatore Padovano sono state evitate dal tempestivo ed efficace esito delle indagini che ha consentito l’identificazione dell’autore materiale di esso e, su sua indicazione, del mandante e degli altri correi e la loro cattura. L’assenza nell’intero distretto di omicidi riconducibili, sulla base delle informazioni attualmente disponibili, alla operatività di gruppi mafiosi nelle tre province conferma la tendenza di questi ultimi anni all’abbandono di soluzioni violente ai contrasti tra gruppi di tipo mafioso essendo prevalsa, da un canto una logica di tipo commerciale già rilevata in passato e, dall’altro un atteggiamento di tolleranza dettato sia dal riconoscimento del potere dei clan dominanti e dalla conseguente accettazione delle loro regole, sia dalla consapevolezza della maggiore attenzione al fenomeno criminale provocata dalle manifestazioni di violenza e del conseguente incremento delle iniziative di contrasto da parte delle forze di polizia e della magistratura.

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Sul piano degli interventi giudiziari c’è da segnalare come essi abbiano riguardato anche il settore patrimoniale sia con il ricorso al sequestro di beni di cui all’art. 12 sexies del decreto legge n. 306/1992, applicato nel corso di procedimenti penali o nella fase esecutiva, cui è seguita, nei casi di condanna, la confisca dei beni del condannato, sia con l’applicazione di misure patrimoniali di prevenzione, agevolata dalla recente modifica normativa apportata dalla legge n. 94/2009 all’art. 10 comma 1, lettera c), del decreto-legge n. 92/2008 in virtù della quale le misure patrimoniali sono applicate non soltanto disgiuntamente da quelle personali, ma anche “indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione”. Siffatto spostamento di attenzione, che negli ultimi anni ha caratterizzato l’intervento anche della Procura della Repubblica di Lecce, è conseguenza di quanto si è accennato sui mutati interessi della criminalità organizzata e sugli investimenti di essa in varie attività economiche e del convincimento che la sottrazione di risorse finanziarie e patrimoniali sia, nel contrasto alle associazioni criminali, più efficace della stessa privazione della libertà dei loro partecipi. Per quanto riguarda poi la provincia di Taranto, rileva il procuratore distrettuale che la situazione della criminalità organizzata sembra stabilizzatasi e continua a non presentare un quadro di aperta conflittualità tra le organizzazioni di tipo mafioso operanti sul territorio, che preferiscono conservare il controllo di ambiti specifici (singole zone della provincia o quartieri del capoluogo) per l’esercizio delle attività delittuose, senza tentativi di egemonia o mire di espansione che determinerebbero l’innesco di violenti contrasti con gli altri sodalizi e manifestazioni esteriori di reazione che richiamerebbero l’attenzione delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria. L’ultimo tentativo di alterare gli equilibri ed insidiare le posizioni di supremazia dei gruppi criminali “storicamente” dominanti e di controllo da parte loro di singoli ambiti territoriali (fallito per il tempestivo intervento repressivo) risale agli anni 2006-2007, quando il gruppo organizzato da Michele Cicala e Corrado Sorrentino (allo stato entrambi detenuti dopo la condanna in primo grado pronunciata il 1° luglio 2009 dal Tribunale di Taranto nel processo cosiddetto Mediterraneo) aveva cercato di ampliare il proprio ambito di influenza con condotte di grave allarme sociale ed evidenza esterna (attentati dinamitardi, incendi, danneggiamenti) e con il tentativo di inserirsi nei settori della Pubblica Amministrazione e dell’imprenditoria cittadina. Il perdurante atteggiamento di “basso profilo”, quindi, lungi dal rappresentare indice di ridotta pericolosità del fenomeno criminale, ha consentito ai sodalizi più forti e più radicati (i clan D’Oronzo, Ricciardi, Scarci, Modeo), tuttora attivamente operanti nonostante le pesanti condanne inflitte ai loro esponenti “storici” (molti dei quali tuttora detenuti) di prosperare attraverso i ricavi del traffico delle sostanze stupefacenti, delle attività estorsive (particolarmente grave e ampio – al di là del dato statistico apparentemente indicativo del contrario – è il fenomeno a danno di imprenditori e commercianti costretti a pagamenti periodici – il cosiddetto pizzo – o a forniture gratuite di beni e servizi) e dell’usura (altro grave fenomeno crimi-

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nale la cui dimensione non corrisponde affatto alla indicazione statistica), profittando in entrambi questi ultimi casi delle condizioni “ambientali” conseguenti alla diffusa omertà ed al sostanziale assoggettamento della gente. L’incremento di tali condotte (come si è detto non documentato dalle relative denunce) desta grave allarme anche per i riflessi sulla fragile economia cittadina, manifestandosi in forme di condizionamento ed impoverimento delle attività economiche; egualmente grave è il tentativo di inserimento nella imprenditoria lecita, cui conseguirebbe un’alterazione delle regole della libera concorrenza per l’ingresso nel mercato di imprese mafiose che, oltre a rappresentare un agevole canale di riciclaggio e di investimento, si imporrebbero sulle imprese legali, a tacer di altri aspetti, per la capacità di intimidazione nei confronti di queste ultime, connaturata alla stessa mafiosità, per essere affiancate da attentati o richieste estorsive da parte dei clan mafiosi e, quindi, dal pagamento del pizzo, per la possibilità di finanziarsi con i proventi delle attività delittuose senza necessità di ricorrere ad alcuna forma di credito e senza risentire di congiunture di crisi economica, per l’assenza di conflittualità interna e di interventi sindacali”. Altra rilevante decisione – alla quale il procuratore distrettuale si richiama per dimostrare che, in contraddizione col dato puramente statistico, il fenomeno mafioso non è scomparso del tutto – è quella pronunciata il 21 luglio 2010 dalla Corte di Assise di Taranto con la quale Massimo Tedesco e Vincenzo Di Bello sono stati condannati all’ergastolo quali esecutori dell’omicidio di Osvaldo Mappa, ex collaboratore di giustizia. L’omicidio, avvenuto a Taranto il 2 aprile 2008, si colloca nel contesto della gestione delle attività criminali al quartiere Paolo VI in quanto Osvaldo Mappa, benché collaboratore di giustizia, si era riavvicinato, unitamente ad altri collaboratori di giustizia, all’ambiente criminale di appartenenza ed aveva ripreso a delinquere nel settore del traffico degli stupefacenti al quartiere Paolo VI, tentando anche di imporre la propria egemonia, con ciò alterando i relativi equilibri criminali e venendo in contrasto con il clan di Michele Ciaccia che gestiva in termini monopolistici il traffico di stupefacenti in quel quartiere, come continua a fare in posizione verticistica, secondo le più recenti indagini proseguite sul traffico organizzato di stupefacenti, dopo la definizione della parte inerente all’omicidio. Quindi, l’eliminazione di Mappa (un agguato a colpi di pistola davanti alla sua abitazione da parte di quattro persone) è risultata legata a tale ripresa di attività illecita in concorrenza con l’ambiente criminale che controllava la zona, piuttosto che alla sua qualità di collaboratore di giustizia, come è emerso all’esito delle indagini che avevano consentito l’accertamento delle motivazioni dell’omicidio, l’identificazione degli autori di esso e la loro cattura, disposta nel luglio 2008, e la cui validità è confermata dal recente esito del giudizio di primo grado sopra ricordato. Come si è detto, poi, l’attività di indagine proseguita con riferimento al traffico organizzato di stupefacenti ha fornito importanti elementi conoscitivi sulla perdurante operatività del gruppo di Michele Ciaccia e sul suo rafforzamento conseguente al collegamento con il clan Modeo e ai rapporti di Ciaccia con Giulio

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Modeo, figlio di Claudio, che ha ricostituito il clan con “nuova” manovalanza. Il gruppo si occuperebbe anche del tradizionale settore delle estorsioni a danno di imprenditori (soprattutto titolari di imprese edili) e reinvestirebbe i ricavi delle attività illecite nell’acquisto e gestione di bar, ristoranti e discoteche a Lecce e in Emilia Romagna, oltre che nel settore di giochi e scommesse, in forte espansione proprio a seguito dell’interesse manifestato dagli ambienti della criminalità organizzata. Significativo, poi, del “nuovo corso”, già ricordato, dei buoni rapporti tra i clan del Salento appare il collegamento di Michele Ciaccia con il clan di Salvatore Buccarella (ricavato da un suo incontro con il figlio di quest’ultimo) che, per un verso, rappresenta ulteriore tassello indicativo della ripresa di operatività dello “storico” clan brindisino di cui si è prima detto e, per altro verso indica come la nuova strategia della “riappacificazione” e della condivisione degli affari criminali, sia diffusa all’intero territorio del distretto, superi i confini tra le tre province e riguardi anche gruppi “storicamente” non inseriti nella struttura della originaria sacra corona unita, come il clan Modeo che, in passato, aveva vissuto momenti di contrasto con quelli della scu o comunque aveva gestito le proprie attività criminali in modo autonomo e separato da essi)”. Con riguardo alla provincia di Lecce il procuratore distrettuale segnala il pericolo di infiltrazioni nel mondo dello sport attraverso la partecipazione di esponenti di rilievo dell’ambiente mafioso e di persone ad esse contigue alle società proprietarie di squadre di calcio. Tale interesse alle squadre di calcio da parte di persone vicine all’ambiente della criminalità organizzata o addirittura appartenenti ad associazione di tipo mafiosa realizza una duplice finalità: da un lato quella di poter fare affidamento su un’attività economica che può rappresentare agevole canale di riciclaggio e di investimento, e dall’altro quella di accreditare un’immagine pubblica che ottenga consenso popolare stante il diffuso interesse agli eventi calcistici. Neppure da sottovalutare è, secondo il procuratore distrettuale, il pericolo nella provincia di Lecce di infiltrazioni mafiose in appalti e servizi pubblici e di collegamenti tra amministratori pubblici e criminalità organizzata. Scrive a riguardo il procuratore Motta che nel circondario di Lecce, sono continuate le manifestazioni di danneggiamento e di intimidazione a danno di amministratori e dipendenti pubblici già iniziate nel precedente periodo; benché non sia stato possibile in nessun caso accertarne le motivazioni, la ricorrente qualità di amministratori comunali o di esponenti politici dei destinatari di una dozzina di azioni di danneggiamento ad autovetture e abitazioni o di segnali intimidatori (erano già stati una quindicina lo scorso anno) inducono a non escludere la possibilità che essi siano collegate all’attività politica e comunque pubblica delle vittime. Inoltre, nell’ambito delle già citate indagini riguardanti il territorio gallipolino avviate già prima dell’uccisione di Salvatore Padovano è risultata una consuetudine di rapporti degli stessi fratelli Padovano ed altri rappresentanti dell’ambiente criminale locale con amministratori pubblici ed esponenti politici, indicativa di

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una certa contiguità di questi ultimi con tale ambiente e della loro disponibilità a tenere conto degli interessi ad esso riconducibili e delle relative istanze e sollecitazioni, con una condivisione di condotte illecite che conferma l’abbassamento della soglia di legalità e comporta, come si è già detto, una sorta di legittimazione della criminalità mafiosa e di riconoscimento del suo ruolo. Anche per Monteroni si è rilevata, come si è detto, una sorta di contiguità di amministratori pubblici ed esponenti politici con l’ambiente della criminalità organizzata locale e della loro disponibilità a tenere conto degli interessi ad esso riconducibili e delle relative istanze anche nelle scelte amministrative – prime fra tutte quelle in tema di conferimento di appalti – e nell’adozione dei relativi atti, con una condivisione di logiche mafiose che conferma l’abbassamento della soglia di legalità e comporta, come si è già detto, una sorta di legittimazione della criminalità mafiosa e di riconoscimento del suo ruolo. Ne sono indiretta conferma gli attentati a danno di alcuni imprenditori monteronesi in rapporto con l’amministrazione comunale, destinatari di danneggiamenti incendiari dei loro beni; ed egualmente la pronta reazione criminale di intimidazione del tecnico comunale cui, per il sol fatto di essersi opposto alle scelte dell’amministrazione coincidenti con gli interessi di ambienti legati alla criminalità organizzata, era stata inviata a casa una busta con una cartuccia di pistola cal. 9. Da ultimo, particolarmente rilevanti sono a Galatina i collegamenti con l’amministrazione comunale sia dei fratelli Coluccia sia di Mario Notaro, in virtù dei quali due appalti riguardanti il funzionamento delle mense dei sette plessi scolatici di Galatina sono stati aggiudicati a loro familiari o persone loro vicine: la fornitura di generi alimentari vari è stata aggiudicata alla ditta “D.& B. di Notaro Maria Rosaria”, sorella di Mario Notaro e moglie di Luigi Sparapane, anche quest’ultimo, come Notaro, condannato per associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e indagato – insieme con Mario Notaro – per usura commessa con metodo mafioso; la fornitura di latticini freschi è stata aggiudicata al “Caseificio di Galatina di Giannotta Rosa Chiara s.n.c.”, moglie di Pietro Longo, come si è detto vicepresidente della squadra di calcio del Galatina della quale Luciano Coluccia è socio fondatore e consigliere di amministrazione (ed il cui figlio Pasquale è cassiere)”. Mentre a Brindisi è ancora in corso il processo a carico di Massimiliano Oggiano ed altri in cui è emerso fino ai primi anni del 2000 un capillare controllo delle attività commerciali ed imprenditoriali da parte di soggetti appartenenti alla criminalità organizzata e impegnati a favorire alcuni politici impegnati nella campagna elettorale con l’obiettivo di farne i propri referenti negli organi elettivi, si è concluso invece a Taranto il processo relativo ai colleganti tra esponenti della criminalità organizzata ed ambienti del Comune di Taranto. Il tribunale ha escluso l’aggravante di avere agito per finalità di agevolazione mafiosa ed ha dichiarato la prescrizione dei reati. Vi è però appello del pubblico ministero. Nessun riferimento vi è nella relazione dei procuratori della repubblica di Brindisi e Taranto circa la presenza di fenomeni mafiosi nei rispettivi circondari (il che

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si spiega anche per il fatto che la materia è interamente attratta nella competenza del procuratore distrettuale); si legge invece in quella dell’avvocato generale di Taranto che “la città (di Taranto) mostra i segni di una acquisita sicurezza pubblica” e che “i fenomeni associativi, se esistenti perché falcidiati dal grande lavoro degli anni precedenti, si muovono in direzione dello spaccio di stupefacenti, estorsioni, usura e fallimentari; reati questi che trovano facile humus in una realtà cittadina che vive di grosse sacche di disoccupazione e di una attività commerciale ed industriale meno che modesta”. Le valutazioni del procuratore distrettuale coincidono – e non potrebbe essere diversamente – con quelle dei responsabili delle forze dell’ordine, che prudentemente però sono ancorati al dato oggettivo e sono forse per questo più ottimisti. In occasione della festa della polizia, nel giugno scorso, il questore di Lecce Cufalo ha definito “ottimo il bilancio nell’azione di contrasto dei reati, che, a parte il dato numerico di assoluto rilievo, ha avuto il pregio di incidere sui fenomeni criminali e non solo sulle loro manifestazioni esteriori. Talune operazioni della squadra mobile e degli uffici di polizia giudiziaria dei commissariati hanno permesso di individuare elementi di reità, anche di profilo associativo, a carico di soggetti responsabili di gravissimi episodi estorsivi, impedendo la prosecuzione di crimini particolarmente odiosi”. In una più recente intervista alla stampa il questore Cufalo ha poi dichiarato: “Siamo soddisfatti e i cittadini possono stare tranquilli sull’efficacia e sulla efficienza dei dispositivi di prevenzione approntati: c’è un piano di controllo del territorio che è assicurato d’intesa con i carabinieri, fatto in modo da evitare duplicazione di servizi e sovrapposizione. Con le risorse di cui disponiamo e che vengono utilizzate in pieno si cerca di coprire quanti più settori e quante più aree garantendo la massima sicurezza possibile alla collettività”. E quanto alle rapine, di cui recentemente si è registrato un preoccupante crescendo, ha affermato che “esse non presuppongono una regia unica e che quindi costituiscono manifestazione di criminalità comune. Non che per questo non siano particolarmente preoccupanti e da reprimere con estrema energia, ma non è da poco che esse non siano riconducibili ad un disegno di criminalità organizzata” . D’altra parte la squadra mobile di Lecce unitamente alla squadra volanti nel primo semestre del decorso anno ha individuato ed arrestato cinque soggetti responsabili di sette rapine, recuperando in almeno un caso – la rapina consumata il 31 marzo 2010 in una filiale di Lecce della Banca Nazionale del Lavoro – la refurtiva. Anche il questore di Brindisi Carella riferisce che “la situazione della provincia di Brindisi, dopo gli anni che l’hanno caratterizzata quale centro nevralgico di un sodalizio criminale avente carattere mafioso, risente attualmente gli effetti di importanti processi che, celebrati anche grazie alla collaborazione di elementi interna alla struttura delinquenziale, hanno consentito pieno successo all’azione di forte contrasto”. Il Comandante provinciale dei carabinieri di Brindisi segnala comunque

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la presenza nella provincia di “aggregazioni criminali, anche di soggetti molto giovani, che subiscono il perverso fascino dell’associazionismo criminale, reso ancor più suggestivo al ricorso a rituali e liturgie, dall’esaltazione del senso di appartenenza e della solidarietà reciproca” che idealmente si collega alla vecchia sacra corona unita, mantenendo tuttavia autonomia operativa ed organizzativa. Dette organizzazioni per la loro disomogeneità si mostrano incapaci d’instaurare durature alleanze proprio per la mancanza di un vero e proprio vincolo tra gli associati e per l’assenza di figure carismatiche”. Il Comandante provinciale dei carabinieri di Taranto riferisce, a sua volta, che “nella provincia il quadro della criminalità si manifesta frammentario e disomogeneo contraddistinto dall’autonoma operatività di gruppi non orientati ad una organica strategia delinquenziale” rilevando che comunque “da diversi anni non si registrano fatti di sangue riconducibili a scontri tra clan desiderosi di imporsi sul territorio. D’altro canto taluni tentativi di riaggregazione di quei sodalizi disarticolati negli anni passati, i cui maggiori esponenti sono tuttora ristretti, sono stati efficacemente disattivati dall’incessante azione di contrasto delle forse di polizia”. In piena sintonia col procuratore distrettuale segnala il pericolo che “gli attuali equilibri criminali dell’area jonica possano subire modificazioni per le prossime scarcerazioni di alcuni capi storici della criminalità organizzata o, ipotesi più probabile, per l’attività di riorganizzazione in alcuni quartieri del capoluogo da parte dei figli di alcuni di costoro, che, se pure privi di carisma criminale e di concreta capacità imprenditoriale sul fronte criminale, possono contare su manovalanza numerosa e a basso costo”, pericolo quest’ultimo che per fortuna appare fino a questo momento scongiurato. A questo proposito è significativo che siano venute meno le dichiarazioni “di appartenenza ad organizzazioni criminali puntualmente rilasciate in passato dai detenuti che facevano ingresso al carcere, al fine di consentire all’amministrazione carceraria l’adozione di idonee misure finalizzate a garantire il divieto di incontro tra appartenenti a gruppi contrapposti”. Resta comunque il traffico degli stupefacenti il settore oggetto di particolare interesse della criminalità organizzata e ciò è però indicativo – almeno allo stato delle indagini e a parte qualche segnale di cui si dirà – della sua incapacità di assurgere a livelli più elevati e di maggiore pericolosità attraverso l’inserimento nel sistema economico e la penetrazione nel controllo di apparati pubblici. In questo campo peraltro la polizia giudiziaria, coordinata dalle procure, ha conseguito indiscutibili successi all’esito di indagini complesse e molto scrupolose. Nel dicembre 2009 la squadra mobile della questura di Lecce a conclusione di un’articolata indagine, che aveva preso le mosse dal sequestro di gr. 321 di eroina e di una pistola semiautomatica marca Smith & Wesson con matricola abrasa eseguito a Lecce, riusciva a delineare una fitta rete di spaccio di sostanze stupefacenti, prevalentemente del tipo eroina in Lecce e Gallipoli nonché nei comuni al confine con la provincia di Brindisi. L’operazione denominata Affinity portava

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all’emissione di trentuno ordinanze di custodia cautelare da parte del giudice delle indagini preliminari di Lecce a carico di altrettanti soggetti a vario titolo ritenuti responsabili di partecipazione ad associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti. Nel primo semestre dell’anno decorso la squadra mobile di Brindisi portava a compimento l’operazione c.d. Chopin e l’operazione c.d. door to door (quest’ultima aveva preso le mosse dalle indagini relative al tentato omicidio di un pregiudicato brindisino) a conclusione della quale venivano emesse otto ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di altrettanti soggetti accusati di associazione dedita al traffico degli stupefacenti, detenzione illegale di armi, estorsione. Sempre in questo settore la guardia di finanza di Brindisi in collaborazione col Gico di Lecce portava a compimento l’operazione c.d Borderline con l’arresto di quattro cittadini albanesi e l’operazione c.d. Saturday con l’arresto di tredici soggetti coinvolti a vario titolo nei traffici. La guardia di finanza di Taranto a sua volta, con l’operazione c.d. Garibaldi, è riuscita ad individuare una fitta rete di corrieri di droga utilizzata per la distribuzione dello stupefacente nelle tre province salentine. A conclusione delle indagini venivano eseguite dieci ordinanze di custodia cautelare in carcere e denunziate altre ventitrè persone in stato di libertà. Due infine le operazioni portate a termine dai carabinieri di Taranto: l’operazione c.d. Pitagora (unitamente ai carabinieri della compagnia di Manduria) e quella denominata Trilogy (unitamente ai carabinieri di San Giorgio Jonico) all’esito delle quali sono state emesse ed eseguite rispettivamente undici e ventuno ordinanze di custodia cautelare in carcere. Sempre nel campo degli stupefacenti tre brillanti operazioni sono state portate a termine dalla guardia di finanza di Lecce: A seguito di un rinvenimento di sostanze stupefacenti avvenuto in località “Le Cesine”, sita nel comune di Vernole (operazione Rat Poison), si perveniva all’arresto di sette soggetti per violazione della disciplina sugli stupefacenti ed alla disciplina sull’immigrazione. Si procedeva altresì al sequestro di kg. 317,17 di marijuana; gr.1.352,00 di cocaina; gr. 59,00 di hashish; gr.123,60 di anfetamine; nr. 22,5 pasticche di exstasi; euro 7.150,00 in contanti quali proventi illeciti; nr. 12 cellulari; nr. 1 bilancino di precisione e nr. 1 personal computer. Con le stesse modalità si è svolta l’operazione Workimg days finalizzata al monitoraggio, tramite celle dei gestori di telefonia, dei soggetti presenti sulla costa nell’immediatezza delle operazioni di contrabbando, che ha portato alla individuazione di un’organizzazione gestita da soggetti albanesi, con base operativa in Puglia, Lazio ed Emilia Romagna, che utilizzava le coste salentine per l’introduzione di notevoli quantitativi di sostanze stupefacenti. Nel corso delle indagini si procedeva al sequestro: in data 10.09.2009, di kg. 145,30 di marijuana, nonché all’arresto di n. 2 responsabili di nazionalità albanese;

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in data 06 marzo 2010, di gr. 2,3 di cocaina; gr. 0,500 di hashish e gr. 12,4 di marijuana, nonché alla denuncia a piede libero di un soggetto italiano; in data 02 aprile 2010, di kg. 1.106,00 di “marijuana” con il conseguente arresto di nr. 3 responsabili di nazionalità albanese. Da ultimo l’operazione Sunrise: A seguito del rinvenimento di kg. 274 di marijuana, in data 21 marzo 2005, nei pressi della baia dell’Orte nel Comune di Otranto, si avviava una attività investigativa che portava al rinvenimento ed al sequestro kg. 1.300 di marijuana; kg. 10 di eroina; una pistola cal. 45 di fabbricazione russa; nr. 38 cartucce, vari mezzi di trasporto e numerose sim-card e telefoni cellulari; nonché di arrestare 9 soggetti di etnia italo-albanese colti in flagranza di reato e, all’esito, alla denunzia di cinquantaquattro soggetti per trentasei dei quali è stata emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere. Riferisce a riguardo il procuratore distrettuale che l’operazione è stata di particolare “rilievo per il livello di cooperazione internazionale raggiunto nei rapporti con l’Albania… In occasione degli arresti il Procuratore Generale della Procura di Albania per i crimini gravi è intervenuto alla conferenza stampa tenutasi presso la Procura di Lecce per dimostrare la soddisfazione delle autorità albanesi per l’operazione di contrasto al narcotraffico e per la qualità della collaborazione tra i due Stati, cui è seguito un incontro a Tirana del procuratore distrettuale Motta e di ufficiali della Guardia di Finanza con lo stesso Procuratore Generale, il Ministro dell’Interno ed il Capo della Polizia nel quale è stata confermata la reciproca disponibilità alla cooperazione giudiziaria e di polizia per le indagini penali riguardanti il Salento e l’Albania”. Da ultimo i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Lecce a conclusione dell’operazione denominata Little Devil hanno denunziato quattordici persone – nei riguardi delle quali è stata emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere – in parte già appartenenti al clan Cerfeda, noto esponente della vecchia sacra corona unita, ritenute a vario titolo responsabili di partecipazione ad associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti e di varie rapine ai danni di istituti di credito, per consumare le quali era stata impiegata manovalanza criminale proveniente dal comprensorio di Barletta; è risultato che i proventi delle rapine sono state per lo più impiegate per finanziarie il traffico degli stupefacenti. Alla luce di quanto su esposto, può affermarsi che l’azione di contrasto del fenomeno da parte delle forze dell’ordine è stata quanto mai efficace e che parimenti tempestiva è stata la risposta giudiziaria, poiché, a quanto riferisce il presidente del tribunale di Lecce, a cui fanno capo la maggior parte dei processi di criminalità organizzata, essendo capoluogo del distretto e sede della direzione distrettuale antimafia, tali processi vengono celebrati in tempi brevi e comunque prima della scadenza dei termini di custodia cautelare, anche perché la maggior parte degli stessi vengono celebrati con rito abbreviato – quasi sempre scelto dagli imputati per gli indubbi vantaggi che gliene derivano – spesso dopo che il pubblico ministero ha chiesto, come la novella del 2008 consente, il giudizio immediato.

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Misure patrimoniali La possibilità di fare ricorso all’applicazione di misure patrimoniali, anche disgiunte da una valutazione sulla pericolosità personale del soggetto interessato, rappresenta uno strumento di grande efficacia per l’azione di contrasto alla criminalità, associata e non. Anche nell’anno giudiziario trascorso vi sono stati interventi cautelari ed ablativi di beni e patrimoni di ingiustificata provenienza ad iniziativa della Direzione Distrettuale Antimafia. Si è fatto ricorso innanzitutto a proposte di applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale che, per effetto del decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito con la legge 24 luglio 2008, n. 125, sono applicabili non più solo agli indiziati di appartenere ad un’associazione mafiosa o finalizzata al traffico di stupefacenti, ma anche alle persone indiziate di qualsivoglia delitto di quelli indicati nell’articolo 51 comma 3 bis, del codice di procedura penale. Inoltre, quelle disciplinate dalla legge n. 575/1965 sono proposte dal procuratore distrettuale antimafia davanti ai tribunali del distretto non soltanto anche disgiuntamente da quelle personali bensì, per effetto delle ulteriori modifiche apportate al sistema dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione. In secondo luogo si è fatto ricorso all’articolo 12 sexies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, norma che consente la confisca (previo eventuale sequestro preventivo) di denaro, beni e utilità dei quali non venga giustificata la provenienza da parte del condannato per vari reati (tra cui quelli di associazione di tipo mafioso ed altre ipotesi di associazioni qualificate dalla finalità). Inoltre, per effetto del nuovo assetto normativo conseguente alle modifiche di cui ai suddetti provvedimenti legislativi, nell’anno decorso è stata già proposta dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniale per beni di rilevante valore disgiunta dall’applicazione di quelle personali nei confronti dei successori di persona morta entro i cinque anni precedenti, sia davanti al Tribunale di Lecce, sia davanti a quello di Brindisi. La magistratura giudicante nel circondario di Taranto ai sensi del citato art. 12 sexies ha disposto, nel giudizio a carico di Michele Ciaccia e Corrado Sorrentino e con la sentenza di condanna pronunciata l’1.7.09 per usura, la confisca di patrimoni di rilevante entità e di illecita provenienza (tra cui aziende ed una villa con piscina a Taranto). Il 16 aprile 2010, il presidente del tribunale di Taranto, su proposta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, ha disposto il sequestro urgente (convalidato dal tribunale) dei beni nella disponibilità di Giuseppe Florio (tra cui le quote di diverse società, un ristorante a Taranto, immobili e mobili registrati, depositi e conti correnti bancari) nel procedimento di prevenzione nei confronti dello stesso

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Florio, indiziato di appartenere ad associazione di tipo mafioso per i suoi legami con i clan tarantini “storici” di Orlando D’Oronzo e Cataldo Ricciardi ed essendo stato anche condannato con sentenza irrevocabile per associazione di tipo mafioso, usura continuata, estorsione continuata e spendita di monete false (processo cosiddetto Cahors). Il tribunale di Brindisi, a sua volta, ha disposto il sequestro di beni di ingente valore nel processo nei confronti di Massimo Pasimeni. Lo stesso tribunale di Brindisi ha altresì applicato la misura di prevenzione patrimoniale della confisca ai sensi della citata legge n. 575 nei procedimenti nei confronti di Savino Di Lauro e Nicola Nigro mentre il tribunale di Lecce, a norma della stessa legge, ha confiscato i beni sequestrati nei procedimenti di prevenzione nei confronti di Fioravante Corciulo, Clementina Bruno, Silvano Franco. Inoltre, il presidente dello stesso tribunale ha disposto il sequestro urgente (convalidato dal tribunale) dei beni nella disponibilità di Giovanni Tredici nel procedimento di prevenzione nei suoi confronti. Più recentemente, nel mese di ottobre 2010, oltre il periodo quindi cui si riferisce la presente relazione), in seguito alle condanne per associazione di tipo mafioso riportate in passato da Saulle Politi di Monteroni, affiliato al clan Tornese e da sempre indicato quale riciclatore del denaro del clan, sono stati sequestrati beni, per un valore di circa quattro milioni di euro, fittiziamente intestati al fratello Francesco e ad altri familiari ma di cui il Politi aveva la effettiva disponibilità. Le indagini compiute dalla guardia di finanza di Lecce avevano permesso di accertare le modalità del riciclaggio del danaro di illecita provenienza, attuato, oltre che con gli investimenti nel settore commerciale dei supermercati alimentari, anche in quello della gestione dei negozi di giochi e scommesse (settore al quale sono interessati anche alcuni gruppi del Salento meridionale). Nel periodo di riferimento altri importanti risultati sono stati conseguiti nel contrasto patrimoniale, sia attraverso gli strumenti propri del processo penale (soprattutto il sequestro preventivo disciplinato dall’art. 12 sexies D.L. n. 306/1992) sia con l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, con il sequestro e la confisca di beni patrimoniali e compendi aziendali, frutto delle attività di investimento o reinvestimento di denaro “sporco”. Sempre il tribunale di Taranto il 10 gennaio 2010 ha applicato la misura di prevenzione della confisca ai beni nella disponibilità di Giuseppe Coronese (tra cui le quote e il patrimonio aziendale di una società operante a Massafra nel settore della vendita di auto e di un impianto di autolavaggio anch’esso a Massafra, oltre a disponibilità bancarie e finanziarie e beni mobili registrati; Coronese era indiziato di appartenere ad associazione di tipo mafioso e ad associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, delitti per i quali era stato anche condannato. A conclusione, con riguardo specifico a questo argomento, è da segnalare l’importanza dell’iniziativa realizzata dalla Procura generale della repubblica di Lecce e dall’Associazione bancaria italiana (ABI) che ha portato alla stipula

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di un protocollo organizzativo per “la razionalizzazione, segretezza e riservatezza negli accertamenti bancari in materia penale e per l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniale” e che, nell’ambito della collaborazione da tempo avviata tra magistratura e istituzioni bancarie, nella lotta al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo internazionale, si propone, per garantire il miglior risultato all’azione congiunta, di razionalizzare l’attività di indagine bancaria, attraverso la individuazione di punti di contatto a livello di singole banche/intermediari e di procure, al fine di agevolare, nel caso di indagini complesse, e prima della notifica dei provvedimenti di accertamento, la scelta delle migliori modalità operative per l’indagine bancaria da avviare. Il fine ultimo è anche quello di favorire un rapido avvio dell’anagrafe dei rapporti, ritenuto unanimemente strumento operativo di importanza funzionale e strategica ai fini delle indagini bancarie e in grado di ridurre notevolmente i tempi delle indagini stesse nonché gli oneri organizzativi ed economici che gravano sia sul settore bancario sia sulla magistratura. L’iniziativa ha costituito poi oggetto di apposito evento formativo organizzato nell’ottobre scorso con il contributo anche dell’ufficio dei referenti di questa corte di appello per la formazione dei magistrati e sponsorizzato dalla Banca Popolare Pugliese, che ha reso possibile un utile confronto tra professionalità diverse (magistratura, guardia di finanza, esponenti del mondo bancario) e che ha avuto grande successo, per la serietà dei contenuti, la completezza delle relazioni, le indicazioni operative che ne sono emerse, illustrate anche con esercitazioni pratiche da parte di esperti del settore. Gli omicidi A Brindisi è tuttora pendente davanti alla corte di assise ma in fase di definizione il procedimento a carico di D’Alema Cosimo ed altri che riguarda un rilevante numero di omicidi, rapine ed estorsioni aggravate, risalenti ad anni non recenti e riferibili al clan di Di Emidio Vito. È sulle dichiarazioni di quest’ultimo che l’accusa si fonda, dichiarazioni rese una volta che, dopo ripetute condanne all’ergastolo, anche per fatti di particolare efferatezza, come per esempio la strage della “grottella”, il Di Emidio è divenuto collaboratore di giustizia. Il processo ha subito ritardi perché si è reso necessario un accertamento del DNA su resti scheletrici rinvenuti a Bar in Montenegro per la comparazione con quello dei familiari di una delle vittime, tale Maglie Giuliano, e ciò ha richiesto una rogatoria con il Montenegro. Si tratta peraltro di reati commessi in tempo assai precedente il periodo di riferimento, poiché, come ha rilevato il procuratore distrettuale antimafia, negli ultimi anni non si sono verificati omicidi di mafia, l’ultimo dei quali nel territorio leccese risale al 6 marzo 2003 e chiudeva il periodo 2002/2003 nel quale vi erano stati, nella sola provincia di Lecce, dieci agguati mafiosi con cinque omicidi (i cui autori, peraltro, sono stati tutti identificati e perseguiti).

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È bensì vero che nel settembre 2008 vi è stato un grave episodio di omicidio certamente “mafioso”, quello di Salvatore Padovano, ma si è trattato di un episodio isolato che si inquadra in un contesto locale di contrasti nell’ambito della famiglia mafiosa e di quella naturale, commesso per specifiche motivazioni legate a differenti valutazioni del ruolo dell’associazione mafiosa ed alla leadership del clan, mentre reazioni di eguale livello da parte di organizzazioni “storicamente” collegate con Salvatore Padovano sono state evitate dal tempestivo ed efficace esito delle indagini che ha consentito l’identificazione dell’autore materiale di esso e, su sua indicazione, del mandante e degli altri correi e la loro cattura. Le indagini sull’omicidio del Padovano hanno ricevuto decisivo impulso a seguito della collaborazione di Carmelo Mendolia che ha ammesso di esserne stato l’esecutore su mandato del fratello Pompeo Rosario ed ha dato indicazioni anche sull’omicidio di Carmine Greco, avvenuto a Gallipoli vent’anni fa. Nell’ottobre 2009 è stato così possibile applicare la custodia cautelare in carcere al menzionato Pompeo Rosario Padovano ed ai correi Giorgio Pianoforte e Fabio Della Ducata e nel giugno 2010 è stato richiesto il rinvio a giudizio loro e di altri appartenenti al clan, imputati anche di associazione di tipo mafioso. All’udienza del 29 settembre 2010 il GUP ha disposto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati all’udienza del 20 gennaio 2011 (processo cosiddetto Galatea). Non si può fare a meno di considerare che dalle indagini riguardanti il territorio gallipolino avviate già prima dell’uccisione di Salvatore Padovano è risultata una consuetudine di rapporti degli stessi fratelli Padovano ed altri rappresentanti dell’ambiente criminale locale con amministratori pubblici ed esponenti politici, indicativa di una certa contiguità di questi ultimi con tale ambiente e della loro disponibilità a tenere conto degli interessi ad esso riconducibili e delle relative istanze e sollecitazioni, con una condivisione di condotte illecite che conferma l’abbassamento della soglia di legalità e comporta, come si è già detto, una sorta di legittimazione della criminalità mafiosa e di riconoscimento del suo ruolo. Si sono concluse le indagini sull’omicidio di Antonio Giannone, inserito nel gruppo di trafficanti di stupefacenti della zona 167 di Lecce ed ucciso proprio in tale zona il 6 aprile 2009; l’autore, identificato nel collaboratore di giustizia Giampaolo Monaco, venuto appositamente a Lecce da Torino, dove aveva abbandonato il domicilio protetto, e catturato solo il mese dopo, è stato rinviato a giudizio nel luglio 2009 (e ne è stata già pronunciata il 28 giugno 2010 la condanna in primo grado all’ergastolo). A parte questi episodi, che sono precedenti al periodo di riferimento, in quest’ultimo periodo gli omicidi volontari sono stati solo 2, il numero più basso degli ultimi sei anni (mentre erano stati 7 nel 2008/2009, altrettanti nel 2007/2008, 3 nel 2006/2007, 4 nel 2005/2006 e 5 nel 2004/2005). Di rilievo, poi, ed a riconoscimento delle potenzialità investigative della polizia giudiziaria del circondario e della capacità di indagine dei magistrati della Procura di Lecce che gli autori di entrambi gli omicidi siano stati identificati e (tranne uno che si è suicidato) arrestati.

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D’altronde non si può non ricordare – perché va a merito dei magistrati dell’ufficio di procura e della polizia giudiziaria della provincia di Lecce – che gli autori di tutti gli omicidi degli ultimi sei anni, con l’eccezione solo di tre, sono stati identificati (venticinque su ventotto, con una percentuale del 90%!) e pressoché tutti condannati. Egualmente di rilievo la circostanza che dei due omicidi commessi nell’anno giudiziario decorso, uno sia stato commesso (il 3 novembre 2009) a danno della moglie dal marito poi suicidatosi e l’altro (commesso il 30 giugno 2010) dal padre a danno del figlioletto di due anni (chiaramente con vizio di mente) e che, invece, se si esclude l’omicidio di Salvatore Padovano (commesso nel precedente periodo, il 6 settembre 2008 e motivato da contrasti interni alla famiglia mafiosa ed a quella naturale), si deve risalire ancora più indietro degli ultimi sei anni per trovare un omicidio ascrivibile a logiche mafiose. È successivo al periodo di riferimento l’omicidio di una giovane donna di Avetrana che, per le modalità esecutive e per l’ambito familiare in cui sembra maturato, ha suscitato molto interesse sul piano nazionale. Non ne parliamo non solo per un fatto formale (perché cioè si è verificato dopo il periodo di riferimento) ma soprattutto per non correre il rischio di esercitare interferenze nel lavoro dei colleghi della procura di Taranto che sono tuttora impegnati in delicate indagini, portate avanti con scrupolo e grande professionalità: non possiamo fare a meno però di deplorare la eccessiva spettacolarizzazione della vicenda ad opera dei mass media, che fanno si il loro lavoro di informazione, ma dovrebbero evitare che una tragedia sia trasformata in spettacolo. Molto alto (se il dato statistico comunicato è affidabile) il numero degli omicidi volontari a Taranto e a Brindisi rispettivamente 38 e 17 oltre a 9 a Brindisi ad opera di ignoti, sia pure inferiore – a Brindisi – rispetto al numero dell’anno precedente. Le estorsioni e le connessioni con l’usura Riferisce il procuratore della repubblica di Lecce che il numero dei delitti di estorsione, consumati e tentati – anche nello scorso anno con un’alta percentuale di identificazione degli autori – è rimasto pressoché invariato: sono state iscritte 190 notizie di reato di cui 150 con autori noti (rispettivamente 198 e 151 nel periodo precedente). Il dato richiede due precisazioni: da un canto esso comprende anche l’attività di estorsione commessa con modalità mafiose in tutto il distretto (non per questo però necessariamente riferibili ad associazioni delinquenziali di tipo mafioso ancora attive), e quindi anche a Brindisi e Taranto, oggetto di 25 procedimenti assegnati alla DDA; dall’altro deve considerarsi che sul numero delle estorsioni incide, in misura rilevante, quello delle estorsioni per così dire “familiari”, cioè dei tossicodipendenti a danno dei genitori o degli altri familiari conviventi. In ogni caso se ne ricava che anche nell’anno decorso non vi sia stato un

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rilevante aumento dei reati, ma che, nonostante la scarsa disponibilità delle vittime a collaborare con la polizia giudiziaria e con la magistratura, sia rimasta stabile una certa fiducia dei cittadini nell’intervento giudiziario con la presentazione delle denunce e con dichiarazioni comunque utili a fini di indagine. Nei periodi precedenti i procedimenti sopravvenuti erano stati 187, di cui 154 con autori noti nel 2007/2008, 164, di cui 111 con autori noti, nel 2006/2007 e 152, di cui 122 con autori noti, nel 2005/2006 (per tutti gli anni i dati comprendono anche gli episodi – denunciati in misura sempre assai modesta – commessi con modalità mafiose o per finalità di agevolazione mafiosa nell’intero distretto). In contrasto con la stabilità del dato statistico deve rilevarsi che sono stati numerosi in tutta la provincia gli episodi di danneggiamento, con incendi o esplosione di ordigni, ad esercizi commerciali, ad attività artigiane, a concessionarie di autoveicoli, a stabilimenti balneari, ad agenzie di pratiche auto, di scuola guida, di trasporti che non hanno trovato alcuna spiegazione stante il silenzio delle vittime e la conseguente difficoltà di indagine e che sembrano potersi collocare nel contesto della intimidazione verosimilmente finalizzata all’estorsione, con richiesta di denaro di importi non necessariamente rilevanti (come sembra potersi ricavare dalle modeste condizioni economiche di alcune delle vittime). È verosimile, pertanto, che una parte del fenomeno continui ad essere sommersa e che non vengano denunciati molti episodi, principalmente quelli commessi con metodo mafioso (si è accennato alla diffusione della scelta di molti cittadini, che non riescono ad ottenere il pagamento di somme dovute o la restituzione di denaro prestato, spesso ad usura, di rivolgersi ad ambienti della criminalità organizzata per il recupero dei propri crediti) per i quali sono più forti le remore a denunciare i fatti (che talvolta vengono riferiti “confidenzialmente” alle forze di polizia dalle stesse vittime e così se ne ha notizia). Una qualche utilità, quale stimolo a denunciare le estorsioni, ha dimostrato la possibilità di accesso al Fondo di solidarietà per le vittime dell’estorsione e dell’usura ai sensi delle leggi n. 44 del 199 e n. 108 del 1996, anche se appare necessaria particolare attenzione per la possibilità di simulazione con la presentazione di false denunce per ottenere i benefici previsti dalla normativa citata (che prevede il parere del pubblico ministero fino alla richiesta di rinvio a giudizio dell’autore dell’estorsione o dell’usura). Per quanto riguarda Brindisi il procuratore distrettuale segnala l’episodio di tentata estorsione commessa, con metodo mafioso e finalità di agevolazione mafiosa, da Giovanni Buccarella, detto Nino Balla, padre ultraottantenne di Salvatore Buccarella, capo storico della frangia brindisina della vecchia sacra corona unita unitamente a Cosimo Giardino Fai (già affiliato al clan di Salvatore Buccarella, e in questa occasione arrestato in flagranza) ai danni un’impresa siciliana che costruiva a Tuturano un impianto di energia fotovoltaica ed al cui responsabile in loco venne avanzata la richiesta di versare denaro a titolo di “protezione mensile” per lo svolgimento dei lavori sul cantiere. La vicenda, oltre ad essere grave di per sé e perché ripropone il modulo clas-

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sico dell’attività estorsiva mafiosa agli imprenditori – quello della richiesta di denaro con la minaccia implicita di danni al cantiere dell’impresa e di intralcio allo svolgimento dei lavori – assume particolare rilevanza in quanto coinvolge direttamente il padre di Salvatore Buccarella (nei cui confronti infatti, nonostante l’avanzata età, è stata emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere) e anche perché incide su un settore economico – quello dello sfruttamento delle forme alternative di energia – che presenta grandi prospettive di sviluppo e che pertanto può suscitare interesse da parte della criminalità organizzata, pericolo questo che non è stato sottovalutato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia che di recente vi ha dedicato una sessione di lavoro a Bari i cui esiti ovviamente ancora non si conoscono. A Brindisi è tuttora pendente il processo a carico di Beato Antonio ed altri nove per associazione per delinquere finalizzata alle estorsioni ed alla turbativa delle vendite all’asta. Sempre a Brindisi è stato invece di recente definito, con condanne ad oltre diciotto anni di reclusione, il processo a carico di Donnarumma Mario, legato ai sodalizi camorristici di Torre Annunziata ed altri cinque soggetti, per sequestro di persona a scopo di estorsione ai danni di Vianale Paolo a cui si è accennato nella relazione dello scorso anno. Il Vianale era stato costretto dai sequestratori a recarsi con la sua autovettura da Pescara a Montalbano di Fasano e condotto poi in una masseria disabitata, dove era stato tenuto segregato dopo essere stato violentemente percosso ed immobilizzato, con polsi e caviglie legati con nastro adesivo. Trasferito poi in un’abitazione di Torre Canne, era stato costretto a telefonare ai genitori chiedendo loro di pagare cinquantamila euro per la sua liberazione. Ma prima che ciò avvenisse vi era stata l’irruzione nell’abitazione della Squadra Mobile di Brindisi che lo aveva liberato il successivo 18 (dopo sole quarantotto ore dal sequestro). È stato pure definito il processo a carico di Benaj Klenar per il delitto di sequestro di persona della minore Volosanine Maria Silia. Si tratta tuttavia di reati commessi in anni precedenti al periodo di riferimento di questa relazione, nel corso del quale invece non vi è stato alcun caso di sequestro di persona a scopo di estorsione. In generale per quanto riguarda le estorsioni si deve rilevare che sono nettamente prevalenti, sulle estorsioni consumate con metodi e finalità per così dire tradizionali, le estorsioni in qualche modo collegate ad attività di usura ed alla riscossione di crediti, spesso di natura usuraria. La perdurante crisi economica – che tra l’altro ha reso certamente più difficile la riscossione dei crediti – ha infatti contribuito in certo qual modo ad enfatizzare il ruolo della criminalità e ad aprire nuovi spazi di intervento in questo specifico settore con il ricorso da parte dei creditori ad ambienti della criminalità locale per il recupero del proprio credito, con la ovvia consapevolezza del metodo mafioso, intimidatorio e violento cui il debitore sarebbe stato sottoposto.

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Giustamente rileva il procuratore della repubblica di Lecce, che ciò che maggiormente allarma nell’iniziativa, piuttosto diffusa, degli stessi creditori di rivolgersi a tali ambienti è proprio l’accettazione e la condivisione di logiche criminali e mafiose, la legittimazione che ne consegue per i clan mafiosi, un abbassamento della soglia di legalità e, nella sostanza, il riconoscimento di un loro ruolo nel regolare i rapporti nella società civile in una prospettiva di definitiva sostituzione dei clan mafiosi agli organi istituzionali dello Stato (e sono questi i motivi in virtù dei quali il fenomeno non è adeguatamente documentato da significative variazioni del numero delle denunce di estorsione). La stessa situazione di crisi ha contribuito altresì a spostare il ricorso al credito da quello bancario a quello delle imprese finanziarie e dell’usura (spesso praticata dalle stesse finanziarie, talvolta non estranee all’ambiente della criminalità organizzata), soluzione che, per le medesime menzionate motivazioni, deve essere considerata particolarmente grave sul piano dell’accettazione di regole illegali. Anch’essa non è documentata da alcun aumento delle denunce per usura, ma è stato possibile accertare alcune vicende emblematiche che ben si collocano nel quadro suddetto. Anche secondo il procuratore della repubblica di Taranto “la difficoltà di accesso al sistema bancario di finanziamento lecito porta a ricorrere al mercato dell’usura e ciò comporta anche un aumento dei reati di estorsione, ai quali si fa ricorso per ottenere il recupero coattivo dei crediti maturati”. Per contrastare tale fenomeno a Taranto è stata costituita una sezione specializzata ad hoc. Le estorsioni denunciate nel circondario di Taranto sono state nel periodo di riferimento n. 147 a fronte delle 115 del periodo precedente con un aumento quindi del 27,83%. Sono state invece 43 i procedimenti di usura a fronte dei 27 denunciati nel periodo precedente anche qui con un aumento del 59,26%. In sensibile aumento a Taranto i furti (896 a fronte dei 667 del periodo precedente: il dato tuttavia sembra riferirsi ai procedimenti iscritti che, per le ragioni indicate dal procuratore di Lecce, non corrisponde, almeno per quanto riguarda i furti ad opera di ignoti, a quello dei reati effettivamente commessi). A Brindisi nel periodo di riferimento sono stati iscritti n. 85 procedimenti per estorsione contro imputati noti e 37 contro ignoti, a fronte dei 97 e 62 procedimenti rispettivamente contro noti e contro ignoti del periodo precedente, con una diminuzione del 12,37% e del 40,32% che, se reale – ma, come si è detto, in questo campo, vi è molto sommerso – non può che suscitare compiacimento. In aumento sono invece a Brindisi i reati di furto: 300 procedimenti a carico di imputati noti e 1.141 a carico di ignoti, a fronte dei 273 e 1.280 procedimenti del periodo precedente con rispettivamente un aumento del 9,89% ed una riduzione del 10,86%. Pressoché sovrapponibile con quello del periodo precedente il dato relativo ai furti in abitazione e agli scippi 46 con autore identificato e 122 con autore rimasto ignoto).

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Per quanto riguarda l’azione di contrasto, va segnalato che nel giugno 2010 la squadra mobile della questura di Brindisi ha portato a conclusione una complessa indagine (denominata terra bruciata) in seguito alla quale sono state emesse dodici ordinanze cautelari carico di altrettante persone, cui sono stati contestati numerosi reati contro il patrimonio, fra cui molte estorsioni e rapine. Nello stesso periodo i carabinieri del comando provinciale di Lecce a conclusone dell’indagine denominato Shylock traevano in arresto, in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal giudice delle indagini preliminari di Lecce, n. 19 persone ritenute responsabili di reati vari di estorsione ed usura, commessi ai danni di commercianti di Lecce, Surbo, Trepuzzi e Nardò cui venivano imposti tassi di interesse annui tra il 120 e il 300 per cento. Venivano altresì sequestrati beni per il valore circa di un milione di euro. Analoghe cinque analoghe operazioni (una delle quali pure denominata Shylock) che hanno riguardato reati di estorsione ed usura sono state condotte dalla guardia di finanza di Taranto all’esito delle quali sono stare arrestate trentuno persone e altre sei denunziate in stato di libertà. Le dette operazioni hanno portato anche al sequestro di tre ville, otto appartamenti, tre locali commerciali, nove appezzamenti di terreno, varie autovetture e motoveicoli, quote societari e disponibilità finanziarie per il complessivo valore di sedici milioni di euro. Dalle indagini compiuti dalla guardia di finanza di Taranto è emerso un coinvolgimento nell’attività di usura un coinvolgimento sempre maggiore di professionisti esterni alle organizzazioni dediti a tale tipo di illecita attività che, da meri consulenti apparentemente rispettabili ed affermati, si sono posti ad un certo momento al servizio di gruppi criminali veri e propri; di soggetti del mercato finanziario, ad esempio mediatori creditizi o promotori finanziari, che affiancano alla regolare attività di operatori del settore quella di finanziatori del credito illegale; di pensionati incensurati, nuclei familiari, soggetti disoccupato o ancora di cittadini extracomunitari che si propongono sul mercato per attirare l’attenzione di propri conoscenti o connazionali abbisognevoli di prestiti concessi poi a tasso usurario. Nel gennaio 2010 i carabinieri di Tricase hanno tratto in arresto tre soggetti ritenuti responsabili di usura ed estorsione a danno di due imprenditori del luogo. Nel marzo 2010, i carabinieri di Maglie hanno tratto in arresto due soggetti ritenuti responsabili di usura continuata sequestrando loro beni mobili ed immobili per un valore complessivo di due milioni di euro. Carte di credito e bancomat Nell’ottobre 2009 una brillante operazione della squadra mobile della questura di Lecce portava alla scoperta di una pericolosa banda di cittadini rumeni, guidati da Toderascu Cristian e Amza Alexandru Stefan, entrambi poco più che ventenni e residenti a Roma, dedita alla clonazione delle carte di credito ricettate che venivano poi usate per accedere abusivamente al sistema informatico degli istituti finanziari.

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Rapine Riferisce il procuratore della repubblica di Lecce che è risultata stabilizzata la notevole diminuzione, già registrata negli ultimi tre anni, dei delitti di rapina, consumati e tentati: sono stati 225 (dato in diminuzione rispetto ai 234 del periodo 2008/2009 e pressoché uguale a quello di 228 e 229 dei due anni precedenti, rispetto ai 317 del periodo 2005/2006), dei quali solo 13 in istituti bancari e 4 in uffici postali (dati simili a quelli del precedente periodo, quando erano stati rispettivamente 9 e 2 e si era registrata una diminuzione di oltre la metà rispetto agli anni precedenti nei quali, a ritroso, erano stati 21, 22 e 21 in banche e 6, 7 e 6 in uffici postali). Nel gennaio 2010 i carabinieri di Tricase hanno tratto in arresto n. 9 persone ritenute responsabili di rapine varie e di traffico di stupefacenti. Sempre alto, ma uguale a quello dell’anno giudiziario precedente il numero dei furti, benché sia aumentato di circa il 15% il numero dei procedimenti: infatti sono stati iscritti 1.942 procedimenti (nel precedente periodo erano stati 1.702) che riguardano 12.320 episodi di furto consumato o tentato (nel precedente periodo erano stati 12.037): il numero degli episodi è di gran lunga superiore a quello dei procedimenti iscritti in quanto le denunce a carico di ignoti sono trasmesse alla Procura con elenchi mensili ex articolo 10bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale e per ciascun elenco è iscritto un solo procedimento. Nei tre anni precedenti il 2008-2009 i procedimenti iscritti erano stati 1.412 (nel 2007-2008) 1.748 (nel 2006-2007) e 1.780 (nel 2005/2006) per un numero leggermente superiore di episodi, rispettivamente 13.084, 13.480 e 13.861. Tratta delle persone Anche le notizie di reato riguardanti nell’intero distretto il fenomeno della tratta di persone (compresa tra i delitti di “competenza” della Direzione Distrettuale Antimafia), già drasticamente ridottesi negli anni scorsi, dopo aver registrato un lievissimo incremento nel decorso anno giudiziario, si sono stabilizzate in numero assolutamente modesto: nel periodo in esame sono state iscritte, infatti, 5 notizie di reato (4 per riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù ed 1 per tratta di persone), così come nel precedente anno giudiziario le iscrizioni erano state 6 (e solo 2 nel periodo ancora precedente). La modestia dei dati è effetto della modifica delle rotte di immigrazione, della sostanziale estraneità della tratta alla ripresa del fenomeno della immigrazione via mare (in ragione delle provenienze dei migranti) ma anche della maggiore difficoltà di emersione degli episodi delittuosi commessi con finalità di sfruttamento sessuale a seguito del mutamento delle modalità di essi rispetto al passato: innanzi tutto perché i trafficanti hanno adottato nuove strategie, sostituendo le blandizie e le lusinghe alle violenze e alle minacce e consentendo alle donne sfruttate una

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maggiore partecipazione agli “utili” che in qualche modo realizza il loro progetto migratorio e disincentiva le denunce (così rendendo difficile se non impossibile anche la stessa configurabilità dei delitti di tratta o riduzione in schiavitù con riferimento agli elementi costitutivi di essi). In secondo luogo perché il Salento non è più territorio di transito delle donne destinate allo sfruttamento sessuale, la cui condizione di immigrate irregolari era agevolmente accertabile e che spesso erano indotte a collaborare con la polizia nella prospettiva di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale (ex articolo 18 del decreto legislativo n. 286 del 1998), ma solo località di destinazione per il loro sfruttamento. Inoltre sono state individuate nuove modalità di immigrazione, con la utilizzazione di visti di soggiorno per motivi di turismo, gestiti anche da agenzie di viaggio nei paesi di provenienza, con lo sfruttamento delle donne sia nel periodo di presenza regolare nel territorio dello Stato, sia successivamente alla scadenza del periodo consentito per turismo. Egualmente sommersi gli episodi di tratta con finalità di sfruttamento lavorativo, dei quali si sono avute notizie in misura ampiamente minore rispetto alla diffusione del fenomeno e le poche indagini non sono state avviate al momento della immigrazione clandestina degli stranieri destinati ad essere sfruttati, ma solo in momenti successivi. L’immigrazione clandestina (dalla relazione del procuratore distrettuale antimafia) Nel circondario di Lecce si è registrato un notevole incremento del numero dei procedimenti iscritti per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e fatti di criminalità direttamente connessi al fenomeno migratorio (violazioni del decreto legislativo n. 286 del 1998), aumentati anche rispetto al dato del precedente analogo periodo che aveva già visto in forte aumento con una decisa inversione di tendenza rispetto ai sette anni precedenti nei quali si era registrata una progressiva costante diminuzione di essi: i procedimenti iscritti nello scorso anno giudiziario 2009/2010 sono stati, infatti, 166 (ben 93 dei quali per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) con 164 indagati, mentre negli anni precedenti erano stati, a ritroso, 94 (di cui 24 per favoreggiamento dell’immigrazione), 17, 29, 31, 25, 47, 90 e 160 (quest’ultimo dato riguarda l’anno giudiziario 2001/2002). Invero, dopo una episodica ripresa di sbarchi sulle coste salentine di stranieri trasportati attraverso il Canale d’Otranto a bordo di gommoni o altre piccole imbarcazioni registratasi dal settembre 2008, a decorrere dalla primavera del 2009 gli sbarchi hanno assunto carattere di sistematicità e dall’estate 2010 anche quello di particolare frequenza (lo si riferisce anche se si tratta di un arco temporale che supera i limiti di questa relazione trattandosi di un fenomeno di notevole rilevanza la cui entità e le cui caratteristiche richiedono per una corretta valutazione l’esame di un contesto temporale assai ampio). Mentre nei primi otto mesi del 2008 non vi era stato alcuno sbarco, nei suc-

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cessivi mesi di settembre, ottobre, novembre e dicembre 2008 erano stati 70 gli stranieri sbarcati nel Salento. Nei successivi mesi, da gennaio a marzo 2009 non vi erano stati sbarchi, che erano invece ripresi – due al mese – dall’aprile 2009: da quest’ultima data alla fine dell’anno 2009 erano approdati nella zona più meridionale della penisola salentina, lungo le coste del Capo di Santa Maria di Leuca 330 stranieri, pressoché tutti provenienti dall’Afganistan. Il trend in ascesa sarebbe proseguito nel 2010, quando la cadenza degli sbarchi sarebbe proseguita nella misura di due al mese fino al maggio 2010 per poi salire a cinque nel giugno, sette a luglio, otto ad agosto e cinque a settembre e gli stranieri sbarcati lungo la nostra costa (ma come subito si dirà, quella occidentale ionica, a differenza del passato) sarebbero stati 1.169 (fino al 30 settembre 2010). Il dato evidentemente segnala una ripresa del fenomeno migratorio (non si sa con quali prospettive di stabilità) che aveva interessato la Puglia fin dall’inizio degli anni novanta (dal 1992 gli stranieri sbarcati nella sola provincia di Lecce erano stati molte migliaia ogni anno, superando le ventiseimila unità nel 1999) e che era sostanzialmente cessato dall’autunno 2002 a seguito della forte azione di contrasto attuata in Albania a decorrere dall’estate 2002 con la distruzione di molte imbarcazioni utilizzate per il trasporto di persone verso le coste pugliesi (principalmente gommoni) in applicazione della normativa albanese che ne vieta il possesso; ma si distingue dal fenomeno precedente per alcune peculiarità. Innanzi tutto i migranti trasportati sono, come si è accennato, pressoché esclusivamente di nazionalità afgana, mentre in precedenza le zone di provenienza erano la Cina, l’India, i Paesi dell’Est europeo quali Ucraina, Romania, Bulgaria, Bielorussia, oltre alla stessa Albania, la cui criminalità gestiva il traffico di migranti conducendoli attraverso il Canale d’Otranto a bordo di veloci e potenti gommoni e sbarcandoli sulle coste salentine, nel tratto tra Otranto e Brindisi. In secondo luogo il Paese di imbarco non è più l’Albania bensì la Turchia e la Grecia, dove i migranti vengono trasportati a bordo di autoveicoli. Infatti, anche sulla base delle indicazioni fornite dai migranti trasportati in Italia e da alcuni degli scafisti arrestati in flagranza, oltre che dall’analisi delle registrazioni del sistema GPS installato a bordo delle imbarcazioni utilizzate per il trasporto, è possibile identificare due rotte attualmente percorse dai trafficanti di persone, connotate dall’uso di imbarcazioni con caratteristiche diverse, conseguentemente da tempi diversi di durata del viaggio e da differenti località di partenza e approdo: una rotta viene seguita per il trasporto di migranti a bordo di potenti gommoni oceanici partenti dalla Grecia (Lefkada, Corfù, Igoumenitsa) e guidati da scafisti greci o albanesi, l’altra riguarda il trasporto a bordo di yacht o imbarcazioni a vela di 40-50 piedi, partenti da porti meridionali della Turchia (Antalya, Izmir, Tekirdag) e guidati da scafisti turchi (o anche georgiani e ucraini), in genere marittimi professionisti (come è documentato dal possesso da parte di alcuni di loro o dal ritrovamento nelle imbarcazioni di libretti di navigazione). Il viaggio di questi ultimi migranti che si imbarcano in Turchia a bordo di barche a vela che, pur navigando a motore, non sviluppano velocità superiori a

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circa 8 nodi (circa 15 km/h), dura dai cinque ai sette giorni, molto di più di quello di coloro che si imbarcano in Grecia a bordo di gommoni con potenti motori fuoribordo, capaci di sviluppare velocità di oltre 60-70 nodi (a seconda del porto greco di partenza la durata del viaggio non supera il numero di ore che può essere contato su una sola mano). Peraltro l’uso delle barche a vela offre ai trasportatori una serie di vantaggi rispetto ai gommoni: innanzi tutto i radar non ne segnalano la velocità elevata, come invece per i gommoni che corrono sull’acqua a 40/50 nodi (la rilevazione di un “bersaglio veloce” registrata dai radar è il primo segnale per richiamare l’attenzione su quello scafo e controllarlo); in secondo luogo le persone trasportate non sono visibili dall’alto (perché, a differenza dei gommoni, sono nascoste sotto coperta) e sfuggono all’avvistamento di aerei ed elicotteri; in terzo luogo difficilmente i controlli in mare riguardano le barche a vela (quanto meno quando ancora non ne era noto l’uso per il trasporto di migranti), specie nella stagione estiva in cui naviga un gran numero di tali imbarcazioni, sicché il trasporto illegale dei migranti è rilevabile, come unico segnale “esterno” e solo quando la distanza consente di rilevarlo, dal notevole abbassamento della linea di galleggiamento dell’imbarcazione in considerazione della gran quantità di persone a bordo (fino ad una cinquantina, per natanti che non potrebbero portarne più di una decina). Egualmente, come si è accennato, è cambiato il luogo di approdo sulle coste salentine, spostato a quelle occidentali del Mare Ionio (ovvero alle acque antistanti, per le imbarcazioni a vela che, munite di deriva, non possono avvicinarsi alla costa in presenza di bassi fondali e sono costrette ad ormeggiare ad una certa distanza da essa): in particolare nella zona di Porto Selvaggio di Nardò per raggiungere la quale, le imbarcazioni cariche di immigrati, contrariamente a quanto più frequentemente accaduto, doppiano il Capo di Santa Maria di Leuca per poi percorrere un tratto, non breve, del versante occidentale del Mare Ionio (attraversando anche le acque di Gallipoli); mentre l’approdo più vicino e agevole per le imbarcazioni provenienti dalle coste occidentali dell’Europa sudorientale attraverso il Canale d’Otranto sarebbe (come era stato ed in parte avrebbe comunque continuato ad essere) quello del Capo di Santa Maria di Leuca (Punta Ristola, Santa Maria di Leuca, San Gregorio di Patù, Marina di Novaglie). V’è da dire che il contrasto al fenomeno è stato particolarmente efficace e si è avvalso, come si è accennato all’inizio di questa relazione, della efficacia del dispositivo aeronavale della Guardia di Finanza e delle Capitanerie di Porto: dall’aprile 2009 al settembre 2010 vi sono stati quarantatre interventi in occasione di altrettanti sbarchi o trasporti illegali di migranti, sono stati arrestati in flagranza ventuno scafisti e sequestrate nove barche a vela, uno yacht ed un gommone oceanico di 12 metri con due motori fuoribordo da 350 hp ciascuno (capace di sviluppare un velocità di oltre 80 nodi). Egualmente efficace si è dimostrata, ancora una volta, l’opera della squadra investigativa interforze, da me – è il procuratore distrettuale che parla – costituita fin dagli anni Novanta con le tre componenti di

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Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza per l’accertamento dei fatti e lo sviluppo delle indagini in forma coordinata e la gestione delle informazioni come patrimonio di conoscenza comune. La ripresa del fenomeno dell’immigrazione clandestina, ha però reso necessaria, per un verso, l’integrazione della polizia giudiziaria componente della squadra interforze con personale della Capitaneria di Corpo di Gallipoli, in considerazione dei suoi ripetuti interventi, con specifica professionalità, conseguenti alla presenza in mare di unità navali del Corpo e degli importanti risultati riguardanti il rintraccio di un gran numero di immigrati irregolari, il sequestro di barche a vela, l’arresto degli scafisti, e, per altro verso, l’arricchimento (anche alla luce dell’esperienza pregressa) delle direttive contenute nel protocollo di indagine destinato alla squadra interforze e l’adeguamento di esso alle mutate caratteristiche e modalità del fenomeno. A tal proposito devono ribadirsi le perplessità già manifestate in altre sedi sulla efficacia della introduzione nell’ordinamento del reato di ingresso e soggiorno illegali nel territorio dello Stato, inserito all’art. 10bis del decreto legislativo n. 286/1998 con la legge n. 94/2009 in quanto, non soltanto esso non costituisce affatto deterrente alla immigrazione clandestina (come gli eventi successivi alla sua introduzione hanno ampiamente documentato), ma ha, piuttosto, effetti negativi sulle indagini in tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (per il quale la norma di diritto sostanziale di cui all’art. 12 del decreto lgs.vo n. 286/1998 è stata ulteriormente modificata in termini di maggior rigore). Da un canto, infatti, esso costituisce un ostacolo alla tempestiva acquisizione di sommarie informazioni da parte della polizia giudiziaria in occasione di sbarchi o rintracci di stranieri illegalmente immigrati, dovendosi dare avviso al difensore che ha diritto di assistere all’atto (trattandosi di persona indagata per il connesso reato di cui al citato art. 10bis); dall’altro svilisce il valore delle dichiarazioni rese dagli stranieri sugli aspetti riguardanti il favoreggiamento della loro immigrazione, in quanto tali dichiarazioni, in attuazione dei criteri di valutazione della prova di cui all’art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., sono diventate insufficienti da sole a costituire prova dei fatti e richiedono altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità. Senza trascurare il notevole aggravio di lavoro per la polizia giudiziaria e gli uffici di procura conseguente al gran numero di denunce di immigrati stranieri e alle difficoltà connesse al loro rintraccio (in quanto pressoché tutti si rendono irreperibili abbandonando arbitrariamente i centri di identificazione ed espulsione), con un impegno di risorse certamente sproporzionato all’accertamento di una contravvenzione punita con la sola ammenda (in un anno dall’entrata in vigore dell’art. 10 bis, al 30 giugno 2010 sono stati quasi cinquecento (489) gli stranieri imputati del reato in questione, giudicati o per i quali era in corso il giudizio nel circondario di Lecce). Nel bilanciamento tra le diverse esigenze, la previsione di cui alla norma in questione, ad avviso di chi scrive, risulta perdente. In materia di immigrazione, com’è noto, ampia competenza è attribuita dalla legge ai giudici di pace ma solo il giudice di pace coordinatore di Taranto ha de-

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dicato all’argomento qualche interessante riflessione. Scrive il predetto giudice che: “Il numero dei ricorsi in materia di immigrazione e di espulsione di cittadini extracomunitari è relativamente modesto e di poco in aumento rispetto all’anno precedente (38 a fronte di 36). La trattazione di tali ricorsi comporta un notevole aggravio di oneri per l’erario e di lavoro per le cancellerie che devono curare la liquidazione degli onorari, spese e diritti spettanti all’avvocato ed all’ausiliario (interprete) del magistrato giusta il disposto dell’art. 142 del t.u. sulle spese di giustizia”. Quanto al reato di immigrazione clandestina introdotto dall’art. 1 comma 16 della legge 15.7.2009 n. 94, solo il giudice di pace coordinatore di Taranto da notizia del pur modesto numero di procedimenti pervenuti (in tutto tredici) relativi a violazioni di cittadini stranieri extracomunitari responsabili di aver fatto ingresso e comunque di essersi trattenuti illegalmente nl territorio dello Stato. In otto di detti tredici procedimenti sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale. I restanti cinque procedimenti sono stati definiti con sentenza di condanna a pena pecuniaria commutata con l’espulsione dal territorio dello Stato. Secondo il giudice di pace di Taranto “il dato numerico dei procedimenti trattati evidenzia che il reato di immigrazione clandestina non desta particolare allarme in questo territorio pur esposto, per la presenza del porto mercantile, a potenziali fenomeni di ingressi clandestini nel territorio dello Stato. Molto verosimile che il fenomeno sia stato contenuto da un capillare lavoro di presidio del territorio operato dalle forze dell’ordine”. Nel periodo in esame la guardia di finanza di Lecce ha individuato 164 immigrati clandestini illecitamente presenti sul territorio dello Stato, ha tratto in arresto sei trafficanti e denunciato a piede libero altri 82 soggetti. Per concludere su questo argomento non può farsi a meno di ricordare il pensiero di un uomo di Chiesa, S.E. mons. Talucci arcivescovo di Brindisi, secondo cui “l’emergenza relativa alla massiccia presenza degli immigrati è una sfida per creare luoghi di incontro, per esaminare drammi e situazioni di disagio sia per le istituzioni che il volontariato. E respingerli non è una soluzione anche se dovesse essere una necessità. Non si tratta di un’accoglienza indiscriminata che crea problemi ma piuttosto di garantire protezione umanitaria nel rispetto della persona, soprattutto di quella più indifesa”. Reati commessi da cittadini stranieri (dalla relazione del procuratore della repubblica di Lecce) Quanto ai reati commessi nel circondario di Lecce da cittadini stranieri, in particolare extracomunitari (ma anche cittadini di Stati divenuti recentemente membri dell’Unione Europea quali Polonia, Romania e Bulgaria), essi sono stati in misura pressoché identica a quella del precedente periodo (quando avevano subito un incremento del 37% rispetto al precedente): infatti i procedimenti iscritti tra il luglio 2009 ed il giugno 2010 sono stati 680 con 884 persone indagate (queste

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ultime hanno registrato un aumento del 10%); nell’anno giudiziario 2008/2009 erano stati rispettivamente 673 procedimenti e 800 indagati, mentre negli anni precedenti i procedimenti erano stati (a ritroso) 491, 488, 551, 485, 587 e 466 e gli indagati rispettivamente 589, 584, 700, 660, 740 e 608. È in leggero aumento il numero delle persone indagate di nazionalità albanese: ne sono state iscritte, infatti, 145 in 98 procedimenti, corrispondenti a circa un sesto del totale così come negli anni precedenti erano state 115 in 98 procedimenti, 101 in 79 procedimenti e 89 in 58 procedimenti (con percentuale pari ad un sesto del totale, mentre essa era stata di oltre un quarto nei due anni ancora precedenti e di circa un terzo negli altri due anni più risalenti). Il numero più alto è stato anche quest’anno (come nei tre precedenti) quello dei cittadini senegalesi. Le notizie di reato riguardano, infatti: - 205 senegalesi in 163 procedimenti (l’anno precedente erano stati 180 in 163 procedimenti e 181 in 146 procedimenti; e gli altri anni, a ritroso, 167 in 139 procedimenti e 120 in 113 procedimenti); - 141 romeni in 88 procedimenti, anch’essi in aumento, con un incremento del 30%, a conferma del trend in ascesa già registrato nei periodi precedenti nei quali, a ritroso, erano stati 112, 79, 51 e 40 rispettivamente in 60, 51, 38 e 40 procedimenti; - 91 marocchini in 81 procedimenti, dato pressoché identico a quello dei periodi precedenti, nei quali, sempre a ritroso, erano stati 83, 82, 84 e 74 rispettivamente in 74, 69, 74 e 61 procedimenti; - 36 tunisini in 27 procedimenti, dato leggermente superiore a quelli dei periodi precedenti in cui erano stati 28, 26, 28 e 23 rispettivamente in 24, 16, 20 e 19 procedimenti; - 30 cinesi in 26 procedimenti, con una drastica riduzione del 75% rispetto ai 113 indagati in 90 procedimenti dell’anno precedente, che, però, aveva registrato un incremento percentuale elevatissimo, del 600% rispetto ai precedenti periodi, quando erano stati: 16 persone in 13 procedimenti nel 2007/2008, 26 persone in 25 procedimenti nel 2006/2007, e 52 persone in 44 procedimenti nel 2005/2006); - 21 bulgari in 18 procedimenti, con un deciso incremento rispetto agli anni precedenti, quando il dato era stato inferiore alla decina e ritenuto non significativo; - 21 brasiliani in 19 procedimenti, anche qui con un deciso incremento rispetto agli anni precedenti, quando il dato era stato inferiore alla decina e ritenuto non significativo; - 20 polacchi in 19 procedimenti, in flessione rispetto all’anno precedente quando erano stati 29 persone in 25 procedimenti, ma sempre più dei periodi ancora precedenti quando erano stati 12 in 12 procedimenti (nel 2007/2008) e 22 in 20 procedimenti (nel 2006/2007, in significativa coincidenza con l’ingresso della Polonia nell’Unione Europea: negli anni ancora precedenti, infatti, il dato, inferiore alla decina, non era apparso significativo);

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- 11 della ex Iugoslavia in 10 procedimenti, dato simile a quello degli ultimi due anni precedenti di 12 persone in 12 procedimenti (nel 2008/2009) e 18 in 17 procedimenti (nel 2007/2008, mentre negli scorsi anni il numero, inferiore alla decina, non era apparso significativo). La tipologia dei reati commessi da stranieri è costituita prevalentemente, anche se in numero molto inferiore all’anno precedente, dalle violazioni delle norme in materia di contraffazione di marchi (167 indagati pressoché esclusivamente senegalesi, marocchini e cinesi, pari a circa il 19% del totale degli indagati; nel precedente periodo erano stati 252, pari a circa il 32%) ed in misura minore di quelle sulla immigrazione, con esclusione della contravvenzione di immigrazione clandestina di cui all’articolo 10bis del decreto legislativo n. 286/1998 (89 indagati, pari a circa il 10% del totale, come nel precedente periodo quando erano stati 85 indagati, pari all’11%) nonché dal traffico di stupefacenti (146 indagati, quasi tutti albanesi –145 su 146 – pari a circa il 17% del totale; nel periodo precedente erano stati 81 indagati, pari al 10%). Il numero dei procedimenti nei confronti di stranieri ha inciso su quello totale dei procedimenti iscritti nei registri mod. 21 e 21 bis (complessivamente 18.336, come si dirà) per il 3,5% (nella identica misura del periodo precedente). Si tenga conto che la trattazione di tali procedimenti è, di norma, più gravosa degli altri sia per l’esigenza di traduzione degli atti (ulteriormente ampliata dagli interventi della Corte Costituzionale), sia per le difficoltà di reperimento degli indagati. Reati contro la pubblica amministrazione In questo settore continua ad essere particolarmente difficile l’emersione di un fenomeno che è certamente più diffuso di quanto si possa ricavare dal dato numerico, che per un verso registra la sostanziale stabilità del numero dei procedimenti iscritti per delitti contro la pubblica amministrazione e per altro verso appare inadeguato al fenomeno corruttivo, che attraverso di esso appare ampiamente sottostimato. Invero i procedimenti iscritti tra luglio 2009 e giugno 2010 per delitti contro la pubblica amministrazione sono stati complessivamente 865, in enorme aumento (di oltre il doppio) rispetto al precedente anno giudiziario, quando erano stati 399, dato quest’ultimo già in aumento rispetto ai periodi ancora precedenti (246 nel 2007/2008, 267 nel 2006/2007 e 260 nel 2005/2006). Tale dato, però, non deve indurre in errore sulla rilevanza di essi e sulla eventuale inversione della menzionata tendenza ad una scarsa emersione degli illeciti a danno della pubblica amministrazione. È necessario, infatti, precisare che più della metà di tali procedimenti (454 su 865) riguarda ipotesi di abuso di ufficio e di rifiuto di atti di ufficio; inoltre, per una lettura corretta di tale ultimo dato deve tenersi conto che esso si riferisce in gran parte a procedimenti “necessariamente” iscritti per tali ipotesi di reato nei confronti di magistrati in servizio nel nostro distretto (poi trasmessi per

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competenza ex articolo 11 del codice di procedura penale alla procura di Potenza) ed in quello di Bari (qui trasmessi in virtù della medesima disposizione normativa) a seguito di numerose denunce presentate dalle parti private di procedimenti civili o penali “insoddisfatte” delle decisioni del giudice o dell’attività del pubblico ministero, secondo un deprecabile costume invalso da qualche anno che vede il frequente ricorso alla denuncia penale pur in assenza di qualsivoglia comportamento illecito o anche solo illegittimo o irregolare da parte dei magistrati (con la conseguente archiviazione delle denunce, ma dopo la dovuta iscrizione di esse nel registro delle notizie di reato e la conseguente attività di indagine). Inoltre il dato del numero complessivo dei procedimenti va “ripulito” anche da quello che riguarda altri 346 procedimenti (dei residui 401 – sottratti cioè quelli di abuso di ufficio e di rifiuto di atti di ufficio –) iscritti per il delitto di truffa a danno dello Stato o di ente pubblico, in quanto esso si riferisce a 346 denunce “seriali” conseguenti all’accertamento da parte della Guardia di Finanza dell’indebita percezione di erogazioni a danno della Università di Lecce e dell’Azienda Sanitaria Locale di Lecce da parte di privati che avevano dichiarato un reddito inferiore a quello effettivamente percepito. Per tutte tali ipotesi, infatti, si è ritenuto configurabile (giusta la prevalente e più recente giurisprudenza di legittimità) il solo reato previsto dall’art. 316 ter c.p. (in esso assorbito il delitto di falso di cui all’art. 483 c.p.) e non quello di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640, comma 2, ovvero dell’art. 640bis dello stesso codice; e poiché in nessuna di tali ipotesi risultava superata la soglia di punibilità (essendo le somme indebitamente percepite inferiori ad euro 3.999,96) ne è stata richiesta l’archiviazione – disposta dal GIP – ed è stata interessata l’autorità amministrativa competente per la relativa sanzione. Da ultimo, a conferma della difficoltà di emersione proprio dei più gravi illeciti a danno della pubblica amministrazione, deve osservarsi che, a Lecce, vi è stata una sola iscrizione di notizia del reato di concussione ed egualmente una sola di peculato e che sono stati solo 10 i procedimenti per corruzione, così come queste ultime erano state in numero egualmente esiguo anche negli anni precedenti (solo 9 nel 2008/2009, 4 nel 2007/2008, 11 nel 2006/2007 e 10 nel 2005/2006): la circostanza appare spiegabile per la struttura delle varie ipotesi di corruzione che necessariamente coinvolgono anche il privato corruttore, sicché è improbabile che quest’ultimo denunci la vicenda denunciando anche se stesso, così come il profitto che tutti i concorrenti nel reato traggono a danno della Pubblica Amministrazione impedisce che alcuno di loro abbia interesse a denunciare il fatto. Vi è stata dunque apparentemente una caduta verticale dei reati contro la pubblica amministrazione (nel corso del 2010, alla corte di appello non risulta definito né pervenuto alcun processo per corruzione o per peculato): non se ne commettono più perché in Italia sono diventati tutti improvvisamente onesti o su questo tipo di reati non si indaga più a sufficienza perché nei giudici è subentrata una sorta di demotivazione o comunque è più difficile indagare? Bene, intanto la comune percezione è che la corruzione in Italia è fenomeno

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tutt’altro che sparito e che anzi è pericolosamente ed oltre ogni possibile immaginazione diffuso. Ed è inutile perdersi in analisi che hanno trovato conferma nell’autorevolissima voce del Governatore della Banca d’Italia che ha denunziato quali e quanti condizionamenti derivano oggi allo sviluppo dell’economia dalla diffusione della corruzione. Dopo avere indicato la corruzione presente nel tessuto sociale come un freno alla crescita economica, Draghi afferma senza mezzi termini che le relazioni corruttive tra soggetti privati e amministratori pubblici, favorite anche dalla criminalità organizzata, sono molto diffuse e le graduatorie internazionali collocano l’Italia in una posizione sempre più arretrata. Vero anche però che oggi le indagini sono molto più difficili e che questo può anche avere determinato una sorta di demotivazione negli inquirenti tra l’altro sistematicamente accusati in modo martellante ed offensivo, quando indagano in questo settore, di agire per fini impropri, più banalmente di essere “comunisti” magari anche da parte di chi effettivamente lo furono in politica. La difficoltà delle indagini nasce innanzitutto dalle norme che, per tutelare esigenze pseudogarantiste, sono state in questi anni approvate e che in realtà hanno fatto del processo una vera e propria corsa ad ostacoli, per cui quando si arriva alla conclusione (se vi si arriva) è ormai troppo tardi perché è maturata la prescrizione che poi gli interessati sbandierano, suggestionando così l’opinione pubblica, come se si trattasse di assoluzione. Dice Davigo, uno dei protagonisti di mani pulite, un magistrato ed uno studioso di questi problemi riconosciuto di prim’ordine, che “ le campagne contro le presunte “manette facili” hanno sortito l’effetto che oggi si arresta molto meno, con la conseguenza che molte indagini vengono irrimediabilmente inquinate e muoiono lì. Gli indagati fingono di collaborare, ti dicono solo quel che non possono negare e spesso te lo raccontano a modo loro, dopo aver concordato versioni di comodo con i complici. Nel sistema ci sono meno smagliature in cui infilarsi per scoprire la verità”. Poi le modifiche legislative: l’uso di fatture per operazioni inesistenti (che normalmente serve anche per procurarsi risorse da gestire fuori bilancio e da utilizzare all’occorrenza per comprare il favore di un politico o di un funzionario corrotto) è punito solo se superano una certa soglia e se si riverberano sul reddito dichiarato. Basta allora portare spese gonfiate o inventate fra i costi non deducibili, e non fra quelli detraibili, perché il fatto non sia più punibile con la conseguenza che non è più possibile indagare, con gli strumenti offerti dal diritto penale, su questo tipo di operazioni e che non si può neppure chiedere conto dell’utilizzo delle risorse che attraverso questa via si sono realizzate e che servono per coprire altre illecite operazioni. Poi c’è stata la riforma del falso in bilancio del 2001. Sono state abbassate le pene e dunque la prescrizione: impossibile fare i processi in tempo utile. Poi sono state introdotte soglie di non punibilità altissime: la

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“modica quantità” dei fondi neri, come per la droga. Ma soprattutto, per le società non quotate, il reato è perseguibile se la parte offesa, creditore o azionista, sporge querela contro gli amministratori. “Mai visto – dice Davigo – processi per falso in bilancio scaturiti dalla denuncia del socio di maggioranza, che di solito è il mandante e il beneficiario del reato (altrimenti, invece di denunciare l’amministratore, lo caccia). Quanto al socio di minoranza, se anche sporge denuncia, è facile fargliela ritirare risarcendogli il danno subìto, o anche di più. Stabilire la perseguibilità del falso in bilancio a querela dell’azionista è come stabilire la perseguibilità del furto a querela del ladro. E il creditore, l’unico che potrebbe denunciare, come fa a sapere che i bilanci sono falsi?”. Poi hanno depenalizzato l’abuso d’ufficio non patrimoniale e abbassato le pene per quello patrimoniale, vietando la custodia cautelare. Dice sempre Davigo. “Raramente un pubblico amministratore tarocca una pratica così, per sport: se lo fa, spesso, è perché qualcuno lo paga per essere favorito. Ai tempi di mani pulite dicevamo che gli abusi d’ufficio erano spesso corruzioni di cui non avevamo ancora scoperto la tangente. Quel reato era utilissimo per mettere le mani nelle pratiche abusive e di lì iniziare a indagare su quel che c’era dietro. Ora è impossibile”. Infine l’abbattimento dei tempi e la modifica della disciplina della prescrizione. E invece sarebbe stato lecito aspettarsi, in primo luogo, un deciso impulso verso la ratifica della convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione, firmata a Strasburgo nel 1999, che l’Italia ha sottoscritto ma non ha mai ratificato, con la conseguenza che il nostro sistema non è stato mai adeguato alla nuova e più rigorosa disciplina dei delitti contro la pubblica amministrazione e contro l’industria e il commercio prevista dalla medesima convenzione. Invece nulla di tutto ciò e si tratta di un grave ritardo, perché proprio questa nuova disciplina penalistica, fondata non solo su una più attenta formulazione delle diverse ipotesi delittuose di natura corruttiva, ma anche sulla introduzione di alcune inedite figure di reato (dal traffico di influenze illecite alla corruzione nel settore privato), offrirebbe gli strumenti più incisivi per una forte iniziativa giudiziaria di contrasto contro la piaga della pubblica corruzione. Intanto mentre le inchieste sui rapporti oscuri tra politica e affari dilagano creando allarme ed indignazione, come ha sottolineato anche il presidente Napolitano, nessuna notizia si ha ormai del disegno di legge governativo contro la corruzione, preannunziato nei mesi scorsi con grande enfasi, quasi si trattasse di una svolta urgente e risolutiva nella politica legislativa sulla questione morale. Presentato come strumento diretto a reprimere la corruzione indicata come “causa di enorme danno alla credibilità del Paese in quanto disincentiva gli investimenti anche stranieri, frenando di conseguenza lo sviluppo economico”, il disegno di legge non solo non sembra, a giudizio di illustri studiosi, idoneo a realizzare una efficace strategia anticorruzione (sebbene vi siano previste misure dirette ad assicurare maggiore trasparenza nell’attività amministrativa e maggiori controlli

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sull’operato degli enti locali), ma è praticamente fermo all’esame del Senato. Sembrerebbe abbandonato anche – e questa volta per fortuna – il progetto, a lungo propagandato come una assoluta priorità in relazione al più ampio progetto di riforma della giustizia, che prevedeva forti limitazioni alla possibilità di utilizzare ai fini delle indagini lo strumento delle intercettazioni, introducendo al tempo stesso alla libertà di stampa, con lo specioso argomento che se la libertà di stampa è un valore tutelato dalla Costituzione, lo è pure il diritto alla riservatezza ed alla libertà delle comunicazioni. Sull’argomento si è detto e scritto fin troppo e sarebbe davvero eccessivo, ora che la polemica sembrerebbe sopita, davvero tornarvi in questa sede… e poi il nostro pensiero di giudici – accusati di giustizialismo – è noto. Voglio ribadire soltanto che, se fosse andato in porto il progetto di riforma della disciplina delle intercettazioni, sarebbe stata irrimediabilmente compromessa la possibilità di indagare per tutto un settore di reati, primi fra tutti i reati associativi e quelli contro la pubblica amministrazione. È sufficiente perciò riportare il pensiero, chiaro, schietto, senza infingimenti, del presidente dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura, il prof. Avv. Maurizio De Tilla, che sicuramente non può essere tacciato di giustizialismo. Dice allora De Tilla: Il disegno di legge sulle intercettazioni non risponde in modo adeguato ad un problema reale. La libertà di informazione non può essere messa in discussione in nessun momento e per nessuna ragione. È un principio fondante di tutte le società democratiche e non è negoziabile. In Italia, peraltro, con i tempi purtroppo infiniti della nostra giustizia rischieremmo di segretare per anni notizie vitali per la convivenza civile. È una questione di civiltà e non di parte, come dimostra la presa di posizione compatta della Federazione Nazionale della Stampa e dei direttori di giornali di orientamento politico e culturale diversissimo. Auspichiamo quindi che si evitino misure lesive del diritto dei cittadini ad essere informati e che, con il concorso di tutti, si trovino soluzioni condivise che contrastino il cattivo uso, che pure c’è stato, di uno strumento investigativo importante come quello delle intercettazioni”. Reati di violenza sessuale Questo settore di reati continua a destare allarme e seria preoccupazione nonostante le ripetute, significative condanne delle magistrature leccesi per abusi sessuali anche a danno di minori infraquattordicenni. Quest’anno le notizie di reato di violenze sessuali sono in leggero aumento (108) rispetto alla lieve flessione registrata nel periodo precedente (95 anziché 110 dell’anno precedente), di cui 89 a carico di persone identificate: si tratta di procedimenti di particolare delicatezza, le cui indagini richiedono professionalità e sensibilità e risultano complesse e difficoltose sia per l’esigenza di verificare l’attendibilità delle denunce (in particolare quando, non infrequentemente, le accuse provengano da bambini e fanciulli o comunque da persone minori dei quattordici

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anni o in condizioni di inferiorità psichica), sia per la necessità di effettuare l’esame delle vittime in ambiente protetto, sia per la ricorrente opportunità di richiedere l’incidente probatorio. Da rilevare che, nonostante il numero di procedimenti già non appaia di scarsa rilevanza, deve ritenersi che il fenomeno sia di ampiezza ancora maggiore e resti nella gran parte sommerso, sì da richiedere un’adeguata e costante attenzione, formazione e sensibilizzazione dei diversi attori sociali (dai componenti della famiglia – quando non coinvolti – agli insegnanti, agli educatori, ai medici ed al personale dei servizi sociali e della stessa polizia giudiziaria) affinché tempestivamente possano cogliere i segni della violenza subita dalle vittime. Sono stati 79 a fronte dei 66 del periodo precedente gli episodi di violenza sessuale consumate a Taranto nel periodo di riferimento con un aumento pari al 19,70 per cento; a Brindisi 48 di cui 10 ad opera di ignoti a fronte dei 50 e 13 del periodo precedente. Ma si tratta secondo alcuni solo della punta di un iceberg perché i casi di violenza, specie in ambito familiare, sarebbero molto di più. Il nuovo reato di stalking Di rilievo anche il dato riguardante il delitto di atti persecutori (cosiddetto stalking) inserito nel codice penale all’articolo 612bis con il decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con la legge 23 aprile 2009, n. 38. Alla procura di Lecce, sono stati 168 i procedimenti iscritti per tale reato (ne erano stati iscritti 37 dal 24 febbraio al 30 giugno 2009) a conferma della valutazione che la nuova norma ha colmato un vuoto legislativo e consentito l’emersione e la punizione di condotte evidentemente non infrequenti, in precedenza difficilmente inquadrabili in altre ipotesi sanzionatorie (in passato si era talvolta fatto ricorso alle figure dei maltrattamenti o della violenza privata). Elevato è il numero delle iscrizioni anche a Taranto, passato da 35 a 160 e quindi con un sensibile incremento rispetto al precedente periodo. L’aumento delle iscrizioni si spiega col fatto che la fattispecie di reato è stata solo recentemente introdotta e che, solo in seguito alla introduzione della nuova fattispecie, adeguatamente sanzionata e con la possibilità di adottare anche misure cautelari, è divenuta praticabile la repressione di condotte insopportabili, prima poste in essere quasi esclusivamente ai danni delle donne, ora può capitare anche ai danni degli uomini e che, per essere prima punite con sanzioni di scarso peso, non consentivano un’adeguata azione di contrasto. Decisamente positiva, egualmente, la valutazione della efficacia della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, disciplinata dall’art. 282ter, inserito nel codice di procedura penale dal decretolegge n. 11/2009, convertito nella legge n. 38/2009, ed applicata con una certa frequenza proprio alle fattispecie di stalking: Nel circondario di Lecce, dall’entrata in vigore della norma (24 febbraio 2009)

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al 30 giugno 2010 sono state, infatti, 35 le ordinanza del GIP con le quali la misura in questione è stata applicata a 42 persone. Reati edilizi Va segnalato il notevole aumento del numero, già elevato, del periodo precedente: sono stati 770 i procedimenti iscritti per reati in materia di edilizia e urbanistica (l’anno precedente erano stati 517 e l’anno ancora precedente 692). Elevato anche il numero di 454 procedimenti iscritti per reati a tutela dell’ambiente e del territorio: il dato è in aumento del 30% rispetto a quello del precedente periodo di 348 procedimenti e quest’ultimo era, più che triplicato rispetto al periodo ancora precedente (quando i procedimenti erano stati 107), ma è ingannevole in quanto comprende, nella maggior parte, denunce per l’abbandono ai margini delle strade di campagna di rifiuti ed oggetti vari (pneumatici, elettrodomestici, materassi, scatoloni, mobilio ecc.), con denunce talvolta del proprietario del terreno sul quale i rifiuti sono stati abbandonati, destinate all’archiviazione in mancanza di una qualsivoglia attività illecita da parte del proprietario del terreno certamente non desumibile solo da tale sua qualità. Di norma, peraltro, la situazione denunciata viene segnalata al sindaco del comune interessato che dispone la rimozione dei rifiuti con il conseguente ripristino dello stato dei luoghi. Nell’ambito della tutela dell’ambiente si collocano le indagini preliminari recentemente conclusesi sulla struttura industriale della Coopersalento destinata all’incenerimento di rifiuti che, tra il maggio 2008 ed il maggio 2009 aveva superato i limiti di immissione nell’atmosfera di diossina e furani e, fino al gennaio 2010, aveva eseguito le attività di incenerimento con impianto avente caratteristiche del tutto diverse da quello autorizzato. I reati ipotizzati, per i quali sarà prevedibilmente richiesto a breve il rinvio a giudizio, sono quello previsto dal decreto legislativo n.133/2005 che ha recepito la direttiva CE 2000/76 e quello di getto pericoloso di cose di cui all’art. 674 c.p. Particolarmente rilevante, anche sul piano della prevenzione, è la soluzione raggiunta per la restituzione della struttura sequestrata, subordinata alla sua demolizione ed alla bonifica, sotto il controllo della Polizia Provinciale e dell’ARPA, con analisi e caratterizzazione dei rifiuti costituiti dalle varie parti dell’impianto e con il successivo corretto smaltimento di essi. Nel settore edilizio e urbanistico si è continuato a prestare attenzione anche alle strutture precarie a carattere stagionale realizzate su aree demaniali per esigenze turistiche e di balneazione: l’intervento dell’ufficio del pubblico ministero è stato diretto all’accertamento della effettiva precarietà delle opere in questione (secondo i criteri della più recente giurisprudenza di legittimità che fanno riferimento alla temporaneità dell’opera e non alle caratteristiche strutturali della stessa) ed alla verifica della rimozione delle opere precarie alla scadenza delle autorizzazioni rilasciate dall’autorità comunale limitatamente al periodo estivo e, in caso contrario, al loro sequestro preventivo. La fondatezza delle soluzioni adottate, condivisa dal Giudice di legittimità con decisioni conformi, ha trovato ulteriore conferma

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nella dichiarazione di illegittimità costituzionale (con sentenza n. 232 del 27 giugno 2008) della norma della legge della Regione Puglia n.7 del 2006 con la quale era stato previsto che le opere precarie funzionali alle attività turistico-ricreative realizzate sul demanio marittimo potessero essere mantenute per l’intero anno, oltre quindi il periodo estivo originariamente assentito, anche in deroga ai vincoli previsti dalle normative in materia di tutela territoriale, paesaggistica, ambientale e idrogeologica e quindi anche in mancanza della necessaria positiva valutazione di compatibilità paesaggistica. Di notevole rilievo l’intervento giudiziario, quest’anno, in un territorio di particolare pregio sotto il profilo paesaggistico e ambientale, quello del Capo di Santa Maria di Leuca; sono state sequestrate nel comune di Patù, ventidue costruzioni (anche lussuose ville con piscina) realizzate in violazione della normativa urbanistica, su piccoli appezzamenti di terreno vicini al mare, utilizzando per la notevole volumetria la superficie di aree agricole situate a distanza da quei terreni (costruzioni spesso vendute a persone non del luogo). Le indagini hanno fatto emergere un coinvolgimento anche dei tecnici comunali per il rilascio sistematico dei permessi di costruire nonostante la falsa rappresentazione dello stato dei luoghi. Anche quest’anno particolare attenzione è stata prestata agli abusi edilizi commessi facendo risultare che i lavori da compiere fossero solo di restauro e risanamento conservativo, per i quali è richiesta solo la denuncia di inizio dell’attività, e realizzando invece nuove opere per le quali sarebbe stato necessario il permesso di costruire: ipotesi frequente per opere di interesse artistico, architettonico, storico o ambientale, nonché per la ristrutturazione di vecchi trulli e “pagliare” (o anche di semplici muretti a secco contrabbandati per ruderi di costruzioni mai esistite), trasformati in vere e proprie ville residenziali. Sono proseguite, infine, le attività dirette alla demolizione di opere edilizie abusive a seguito di provvedimenti emessi con sentenze di condanna irrevocabili, per la quale la procura di Lecce ha stipulato un accordo con la sezione leccese dell’Associazione nazionale dei costruttori edili i quali hanno assunto l’impegno di eseguire i provvedimenti di demolizione a costi inferiori a quelli concordati dal Ministero della difesa nella convenzione stipulata con il Ministero della giustizia. Sono già state affidate alcune decine di incarichi di demolizione ad imprenditori privati, cui in parte è seguita la demolizione da parte loro dell’opera abusiva, mentre in altra parte, la determinazione manifestata dalla procura nell’esecuzione delle demolizioni ha stimolato l’iniziativa autonoma di alcuni proprietari condannati per le opere abusive che, senza attendere l’esecuzione della demolizione da parte delle imprese incaricate dalla procura, hanno preferito procedervi per proprio conto e di propria iniziativa. A conclusione deve esprimersi una valutazione positiva quanto al lavoro svolto dalla Polizia municipale di Lecce che nel settore edilizio ha accertato n. 40 violazioni per opere eseguite in assenza di permesso di costruire (il doppio quasi del periodo precedente) col sequestro di tredici costruzioni abusive. Altrettanto positivo il lavoro svolto dalla Polizia municipale di Brindisi che,

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nei primi nove mesi del decorso anno, ha accertato 43 violazioni per costruzione abusiva ed operato il sequestro di diciassette fabbricati in corso di costruzione, nonché dalla Polizia Municipale di Taranto che ha effettuato 250 controlli sul territorio ed accertato 31 violazioni cui è seguito il sequestro di sette fabbricati in corso, la notifica di 43 ordinanze sindacali di sospensione dei lavori, la denuncia all’autorità giudiziaria di 51 persone. Deve peraltro dirsi che l’organico di tutt’e tre i corpi di polizia municipale è inadeguato rispetto all’ampiezza del territorio di competenza che comprende molte località marine (ventidue km lineari di costa – per quanto riguarda Lecce – assoggettata per la maggior parte a vincoli paesaggistici ed idrogeologici, con alcune località come Casalabate o Frigole, in passato letteralmente aggredite dal fenomeno dell’abusivismo, che ha costituito poi, una volta legittimato dai ricorrenti condoni, un serio problema sociale, per la necessità di dare una disciplina ed infrastrutture e servizi – coi conseguenti oneri economici per la collettività decisamente superiori a quanto è stato possibile incassare coi vari condoni – a veri e propri agglomerati urbani, sorti senza regola). Allo stato comunque pare potersi registrare un’attenuazione del fenomeno seguito alla crisi del mercato immobiliare relativo alle seconde case al mare specie delle sopraindicate località marine. Per quanto riguarda il settore ambiente la Polizia municipale di Lecce ha posto in essere una intensa attività di controllo, prevenzione di repressione, esercitando anche – per prevenire l’abbandono incontrollato di rifiuti specie pneumatici fuori uso abbandonati nelle aree delle isole ecologiche – controlli a monte presso gli artigiani per verificare attraverso la consultazione dei registri previsti dalla legge il regolare smaltimento dei rifiuti, e promovendo anche l’emissione di apposita ordinanza sindacale che fa obbligo agli esercenti la pulizia dell’area circostanza al luogo di vendita. A tutto ciò si accompagna una sistematica attività di controllo della regolarità della raccolta dei rifiuti da parte dei gestori ambientali. La Polizia municipale di Taranto a sua volta ha individuato ottanta discariche abusive ed adottato le iniziative di conseguenza per la pulizia e la bonifica dei suoli; fra le varie altre attività, ha proceduto al sequestro di quattro discariche abusive ed eseguito 73 interventi per la segnalata presenza di amianto. Sempre in materia ambientale va segnalato il recente protocollo d’intesa voluto dalla Provincia di Lecce e siglato tra la Polizia Provinciale e le polizie municipali di vari comuni, che riguarderà il potenziamento dei servizi di controllo e vigilanza per una corretta gestione dei rifiuti sul territorio provinciale. Nella mia precedente relazione ho segnalato che nell’estate del 2009 il mancato smaltimento dei rifiuti urbani aveva comportato criticità che, oltre agli intuibili disagi per la popolazione, non poco aveva nociuto all’immagine – ed anche alla vocazione turistica – di questo territorio. Il Salento come Napoli, si disse allora, ma si replicò che in vista della im-

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minente campagna elettorale il problema era stato enfatizzato. Eppure per tutta l’estate a Gallipoli i rifiuti sono rimasti lì a fare bella mostra di se. Il problema si è riproposto nell’estate scorsa. E neppure questa volta mi risulta che siano state fatte indagini per accertare se vi siano stati ritardi e responsabilità. Quello dei rifiuti nel Salento diventerà un fatto endemico come per Napoli? Il traffico dei rifiuti Nello scalo marittimo di Taranto la guardia di finanza del gruppo provinciale ha costituito un apposito nucleo di lavoro, con l’incarico di svolgere, attraverso la tecnica dell’analisi di rischio e del costante monitoraggio dell’esportazione dei rifiuti a mezzo container, una specifica attività info-investigativa in materia di traffico transfrontaliero di rifiuti con i connessi aspetti ambientali e doganali. L’attività investigativa ha consentito di sequestrare presso il terminal container del molo polisettoriale, in cinque complesse ed articolate operazioni di servizio, 131 container contenenti circa 3.210 tonnellate di rifiuti speciali. Inoltre il nucleo di polizia tributaria di Taranto, incaricato dal comando provinciale di svolgere un’approfondita analisi della documentazione di accompagnamento dei container contenenti rifiuti speciali, provenienti dall’estero e viaggianti in regime di transito attraverso il porto di Taranto verso paesi dell’estremo Oriente (principalmente Cina ed India) ha consentito di sequestrare in diverse fasi operative n. 54 container contenenti circa 1.720 tonnellate di rifiuti speciali. Quello del traffico transfrontaliero dei rifiuti, che transitano dal porto di Taranto è fenomeno in costante aumento, che giustamente preoccupa il procuratore della repubblica di Taranto, notoriamente e da tempo impegnato in prima persona sul fronte della tutela ambientale. La risposta giudiziaria è stata ed è tuttavia adeguata. Ne è prova l’apprezzamento espresso per l’attività della procura e della guardia di finanza dalla Commissione interparlamentare di inchiesta, in occasione di una recente visita a Taranto. La tutela dell’ambiente e la salute pubblica Sul fronte della tutela dell’ambiente, la Procura della repubblica di Taranto, competente territorialmente su una enorme fascia industriale che è allocata in zone contigue alla periferia esterna del centro abitato, è seriamente impegnata da decenni con in prima linea il procuratore Sebastio nei diversi ruoli occupati nel tempo. Viene segnalato, con riguardo al passato, un procedimento relativo a gravi reati (fra i quali quello di rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, previsto dall’art. 437 cod. pen.) c.d. processo delle cokerie, che, definito in primo e secondo grado con severe sentenze, si è concluso in cassazione con la dichiarazione di prescrizione di tutti i reati contestati. Non si è trattato di fatica inutile perché sono state confermate le statuizioni ci-

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vili di condanna al risarcimento del danno in favore di Lega Ambiente e della UIL provinciale che si erano costituite parti civili, rendendo così definitivo l’accertamento del fatto anche nei riguardi di eventuali soggetti estranei al processo, epperò considerato enorme impegno lavorativo richiesto per portare avanti un processo di particolare complessità, una riflessione a riguardo si impone, che cioè a questo tipo di processi, che interessano la generalità dei cittadini, deve essere assegnata una corsia preferenziale perché possano essere portati a termine prima che venga a maturazione la prescrizione. Con riferimento all’attualità, deve essere segnalato altro procedimento relativo a numerosi decessi per malattie professionali dovute ad esposizione ad amianto, con numerosi imputati, che ha superato la soglia dell’udienza preliminare con alcuni proscioglimenti e con il rinvio a giudizio di parecchi imputati. Riferisce il procuratore di Taranto che il giudizio dibattimentale è stato avviato e che sembra stia avvenendo il risarcimento del danno. Ma i problemi ambientali di Taranto si identificano, come si è riferito nella precedente relazione, quando è stato sollecitato un maggiore impegno investigativo da parte degli organi pubblici, con quelli della grande industria. A riguardo scrive il procuratore della repubblica che sono in fase di risoluzione varie indagini per fatti di inquinamento di gravità tale da giustificare il ricorso a fattispecie di reato particolarmente rilevanti (disastro doloso, danneggiamento aggravato, avvelenamento di sostanze destinate all’alimentazione, oltre alle “normali” fattispecie connesse alla specifica normativa anti-inquinamento). Si tratta di indagini estremamente complesse e impegnative che riguardano la possibile diffusione di pericolose sostanze inquinanti nelle aree circostanti la zona industriale nonché il contiguo centro abitato (diossina, PCB, benzopirene, idrocarburi policiclici aromatici ecc.). La complessità delle verifiche tecniche, che costituiscono base fondamentale di valutazione per il prosieguo dei procedimenti penali ha reso inevitabile la richiesta di incidenti probatori, non potendosi ritenere sufficienti i “semplici” accertamenti tecnici del pubblico ministero, sia per la loro inevitabile sommarietà e unilateralità, sia per garantire il contraddittorio difensivo in vicende processuali che potrebbero essere foriere, in caso di necessità, anche di provvedimenti precauzionali estremamente rilevanti. La stampa (Corriere del Mezzogiorno dell’11.7.10) ha dato successivamente notizia della richiesta – portata a conoscenza anche della magistratura inquirenteinviata dalle associazioni ambientalistiche che si radunano sotto la sigla “Altamarea” di avviare accertamenti tecnici per individuare la sorgente del berillio che ha contaminato il quartiere Tamburi, un pericoloso cancerogeno classificato dalla Iarc, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, come una delle più pericolose sostanze prodotte da un’acciaieria. Si afferma che nei dati forniti dall’Ilva al Ministero dell’Ambiente è confermata la presenza di berillio all’interno dello stabilimento, anche se in quantità consentite dalla legge. Gli ambientalisti ora chiedono all’Arpa verifiche sul suolo urbano e l’accertamento delle responsabilità.

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L’inchiesta riguarda l’ILVA e i suoi responsabili. Che la gigantesca industria siderurgica nata Italsider 50 anni fa e rilevata nel 95 dal gruppo Riva abbia per decenni inquinato Taranto è fuori discussione. Gli effetti dell’inquinamento erano percepibili anche visivamente e lo certifica nel “rapporto ambiente sicurezza 2009” edito per rassenerare “gli animi anche l’ing. Riva ammettendo che quando arrivò lui gli stabilimenti della società, in particolare quelli di Taranto, versavano in condizioni critiche e poca attenzione era riservata alle problematiche ambientali”. Ma l’Ilva rappresenta per Taranto, con i suoi quindici milioni di metri quadrati di superficie, i suoi duecento chilometri di rete ferroviaria interna e 50 di strade, i suoi nove milioni di tonnellate di acciaio solidificato, i suoi tredicimila dipendenti e i settemila dell’indotto, un colosso che pesa molto di più della Fiat a Torino. Per questo la città, chiamata forse a pronunciarsi con un prossimo referendum, è divisa tra chi pretende che siano ripristinate condizioni di vivibilità ambientale, attraverso lo smantellamento dell’Ilva, e che invece sa che all’Ilva a Taranto, con tutti i problemi che l’industria siderurgica a Taranto ha creato, non si può rinunciare ed è quindi portato a prestar credito all’impegno dell’ing. Riva di portare a termine in tempi ragionevoli un serio progetto di risanamento. Problemi così giganteschi, che si sono complicati col tempo da apparire di non certo facile soluzione, che incidono sulla vita di decine di migliaia di persone, mai come in questo caso possono essere ridotti a solo problema giudiziario. A tutte le istituzioni pubbliche deve richiedersi di far la propria parte e di assumere posizioni precise e responsabili. Ai giudici si richiede soltanto di tutelare chi si vede conculcato il diritto alla salute. Intercettazioni telefoniche ed ambientali Alle intercettazioni telefoniche e ambientali si continua a far ricorso nei soli casi di assoluta necessità, essendosi segnalata l’opportunità, anche per economia delle risorse finanziarie, di fare ricorso a tale strumento di indagine (come agli incarichi di consulenza) solo quando risultino assolutamente indispensabili (ed egualmente di ridurre al massimo la durata dei sequestri nei casi in cui la custodia sia stata affidata a terzi). Si è registrato, così, un numero complessivo di intercettazioni (cioè di bersagli intercettati e non di persone) di 1.528 (circa il 30% in più di quello del precedente periodo, quando erano state 1.148) delle quali 1.078 disposte in procedimenti con indagini svolte dalla Direzione Distrettuale Antimafia (l’aumento riguarda principalmente le intercettazioni disposte in indagini per reati di criminalità organizzata ed appaiono giustificate dall’incremento di esse e dai risultati decisamente positivi ottenuti), 442 in procedimenti per reati comuni e solo 8 per terrorismo. Negli anni giudiziari precedenti il numero era stato leggermente inferiore: 1.148 nel 2008/2009 (delle quali 697 per reati DDA e 451 per reati comuni), 1.228 nel

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2007/2008 (946 per reati DDA e 273 per reati comuni) e 1.245 nel 2006/2007 (1.011 per reati DDA e 226 per reati comuni). Nella maggioranza dei casi – 1.403 – si è trattato di intercettazioni telefoniche, mentre 107 sono state le intercettazioni tra presenti. Le intercettazione preventive sono state solo 10 (erano state 15 nel 2008/2009, 4 nel 2007/2008 mentre non ne erano state disposte affatto nel 2006/2007). I costi unitari per le intercettazioni sono stati ulteriormente contenuti rispetto a quelli, già bassissimi, dell’anno precedente, essendo stato rinnovato a condizioni ancora migliori il contratto con la società fornitrice delle apparecchiature installate in procura per l’ascolto e la registrazione delle conversazioni e comunicazioni intercettate nel quale è definito il costo di soli cinque euro al giorno e per bersaglio (oltre a due euro per il costo dell’uso della rete telefonica ed altri due euro nell’eventualità di “remotizzazione” dell’ascolto, così ridotto di due euro rispetto a quello del precedente contratto), tra i più bassi praticati in Italia e di gran lunga inferiore a quello medio identificato dal Ministero della giustizia. Inoltre è in corso la informatizzazione da parte della stessa società fornitrice del servizio – senza alcun costo aggiuntivo – del registro mod. 37 delle intercettazioni e dei tabulati del traffico telefonico. Da rilevare con soddisfazione che l’informatizzazione dei servizi a supporto delle intercettazioni ha consentito, da un canto, di migliorare le relative prestazioni sotto il profilo dell’efficienza e, dall’altro, di realizzare un più rigoroso rispetto della norma che prevede l’utilizzazione per le operazioni di intercettazione degli impianti installati presso la procura della repubblica, senza peraltro comportare alcun aggravio per la polizia giudiziaria, agevolata, anzi, dalla possibilità di “remotizzazione” dell’ascolto. Anche i costi relativi alle intercettazioni ambientali sono stati ulteriormente ridotti oltre che con il ricorso per la captazione delle comunicazioni tra presenti alle apparecchiature in dotazione alle singole forze di polizia, anche con la definizione di più bassi costi di noleggio di tali apparecchiature (in caso di insufficienza o indisponibilità di quelle in dotazione alle forze di polizia). Sempre in tema di controllo della spesa, particolarmente incisivo è stato il controllo di congruità dell’importo delle richieste di pagamento dei fornitori rispetto alle prestazioni preventivamente autorizzate ed effettivamente fornite, nonché, per gli operatori di telecomunicazioni, agli importi previsti dal listino allegato al D.M. 26 aprile 2001. La speciale attenzione prestata dal funzionario responsabile del Centro di intercettazione delle telecomunicazioni (CIT, previsto dal repertorio delle prestazioni obbligatorie indicato nel codice delle comunicazioni e già da tempo istituito presso la Procura di Lecce) e l’esame meticoloso da parte sua delle fatture e della congruità di esse ha determinato un risparmio di molte decine di migliaia di euro: circa 18.000 nel 2009 ed oltre 30.000 nel 2010, fino ad ottobre. Quanto al costo dei tabulati con la documentazione del traffico telefonico, anche nel decorso anno giudiziario la Procura di Lecce ha seguito l’orientamento, del quale ha informato il Ministero della giustizia, di ritenere che nessun pagamento

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sia dovuto agli operatori delle reti di telecomunicazioni per i tabulati del traffico telefonico, trattandosi di prestazione che, pur inserita nel “listino” del 26 aprile 2001, era stata poi implicitamente esclusa dal codice delle comunicazioni elettroniche, successivamente emanato con il citato decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, che all’articolo 96, dopo aver ribadito l’obbligatorietà per gli operatori “delle prestazioni a fini di giustizia effettuate a fronte di richieste di intercettazioni e di informazioni da parte delle competenti autorità giudiziarie”, aveva previsto “il ristoro dei costi sostenuti” dagli operatori solo “per le prestazioni relative alle richieste di intercettazioni”, e non anche per quelle relative alle informazioni fornite all’autorità giudiziaria, nelle quali rientrano evidentemente quelle sul traffico telefonico. La prassi seguita dalla Procura (che ha comportato anche nell’ultimo anno un risparmio di decine di migliaia di euro) è stata poi recepita dal legislatore che, con l’art. 2, comma 211, della legge finanziaria 23 dicembre 2009, n. 101, ha modificato il suddetto art. 96, prevedendo espressamente che “il rilascio di informazioni relative al traffico telefonico è effettuato in forma gratuita”. Contrabbando di tabacchi A seguito di una complessa ed articolata operazione portata a termine dalla guardia di finanza di Brindisi, nei comuni di Fasano, Cisternino ed Ostuni, è stato possibile identificare e catturare nello stesso febbraio 2010, in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare del GIP di Lecce, dodici persone componenti di un’associazione per delinquere finalizzata alla introduzione nel territorio nazionale di tabacchi lavorati esteri di contrabbando e coinvolte in ripetuti episodi di contrabbando di sigarette (Antonio Fornaro ed altre undici). L’organizzazione agiva nel suddetto territorio a nord di Brindisi con collegamenti anche nel capoluogo di regione ed era formata da persone “storicamente” legate agli ambienti contrabbandieri brindisini e baresi, i quali avevano ripristinato il traffico di tabacchi lavorati esteri ma con modalità diverse dal passato, trasportando le sigarette provenienti dalla Romania, ove dimorava Fornaro, con autocarri che raggiungevano lungo la dorsale adriatica i valichi del Nord Est della penisola attraverso i quali entravano nel territorio dello Stato, dove i tabacchi venivano inizialmente stoccati presso depositi del Veneto e successivamente trasferiti nella città di Bari in altro deposito. Le sigarette venivano poi commercializzate e tra gli acquirenti vi era anche un altro autonomo gruppo che le vendeva nella città di Taranto e, con periodiche consegne, anche in provincia di Napoli. Con riferimento poi ai traffici che hanno interessato il porto di Taranto (cui si era accennato nella precedente relazione), deve segnalarsi la recente richiesta di rinvio a giudizio nel dicembre 2009, accolta dal GIP nel luglio 2010 (il giudizio è attualmente in corso), degli appartenenti ad una vasta associazione per delinquere transnazionale, composta da cittadini cinesi ed italiani, finalizzata non solo al contrabbando di sigarette (peraltro contraffatte e confezionate con marchi falsi e con il

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sigillo dei Monopoli di Stato contraffatto), ma anche all’introduzione nel territorio italiano di altra merce contraffatta (calzature, abbigliamento, componenti elettronici) con referenti in più Paesi (soprattutto in Cina ma anche in Romania, Slovenia e Spagna). L’attività d’indagine, nel corso della quale, nel luglio e nel novembre 2007, erano stati sequestrati negli spazi doganali del porto containers provenienti dalla Cina e diretti in Romania contenenti circa ventisette tonnellate di sigarette contraffatte, sulle cui confezioni come si è detto era apposto il sigillo dei Monopoli di Stato, anch’esso sapientemente contraffatto, aveva reso possibile l’applicazione nel luglio 2009, su richiesta della DDA, di misure cautelari coercitive a numerosi cittadini cinesi ed italiani, tra cui anche un operatore doganale di Taranto. Reati tributari Neppure i reati tributari compaiono ormai nelle statistiche giudiziarie. Ridotta, a seguito della riforma di qualche anno fa, la sfera di rilevanza penale delle condotte di evasione tributaria, sono spariti i reati ma non l’evasione tributaria, incoraggiata anzi dalla sostanziale impunità penale. Eppure, secondo l’opinione di molti studiosi, attraverso alcune condotte riconducibili a fattispecie di rilevanza penale tributaria (si pensi all’emissione di fatture per operazioni inesistenti), è facile commettere frodi ai danni della collettività in cui, a quello di evadere il fisco, si accompagna o addirittura si sovrappone un fine di lucro ulteriore. La complessità della materia e la difficoltà delle indagini necessarie per accertare questo tipo di violazioni richiederebbero, come ho detto l’anno scorso, la costituzione, all’interno degli uffici di procura, di gruppi di lavoro specializzati, che coordinandosi al lavoro davvero esemplare e certosino della guardia di finanza – finalizzato però quasi sempre soltanto all’accertamento di violazioni di natura tributaria –, possa portare anche all’accertamento di veri e propri reati, poiché in questa materia la minaccia di una sanzione penale può dare, molto più che in altri campi, risultati positivi, mentre le conseguenze di carattere tributario, esposte a contestazioni di ogni tipo e spesso travolte dai ricorrenti condoni, non preoccupano più di tanto. Eppure la gravità del fenomeno non può essere sottovalutata. Se non si recupera l’evasione non si aggancia la crescita e, come ha detto il governatore della Banca d’Italia Draghi, non ci si salva da una pericolosa macelleria sociale, di cui – dice Draghi senza mezzi termini – gli evasori sono i primi responsabili. L’evasione infatti costituisce un freno alla crescita in quanto richiede tasse più elevate per chi le paga, creando una doppia disparità di trattamento, a danno dell’imprenditoria che rispetta le regole a vantaggio di chi le regole non le rispetta. Proprio questo del resto può spiegare il rinnovato interesse del mondo imprenditoriale per i problemi connessi all’evasione tributaria, che, secondo la denuncia anche di Confindustria, unitamente al sommerso e alle truffe messe in atto da alcuni imprenditori, provoca danni seri all’economia salentina che si aggiungono a

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quelli della crisi economica, perché il sommerso non solo sottrae risorse e ricchezza al territorio ma costituisce anche concorrenza sleale verso quegli imprenditori che hanno affrontato una strada di crescita, senza accedere a capitali pubblici e quindi indebitandosi, e maggiormente si sono esposti alla concorrenza, alla globalizzazione, ai mercati internazionali, investendo risorse private. Nelle “considerazioni finali” della relazione del Governatore c’è una cifra che da l’idea della posta in gioco: trenta miliardi di euro all’anno evasi solo per l’iva, nel triennio 2005-2008, cifra pari a due punti di pil e più alta del valore stesso dell’ultima manovra finanziaria. Tanto che se l’imposta fosse versata “il nostro rapporto debito-pil sarebbe fra i più bassi di Europa”. Ma se al mancato pagamento dell’iva si aggiunge l’evasione da irpef, irap, ires più quella da omesso versamento di contributi sociali – data la diffusione del lavoro in nero – la stima sul “non versato” sale vertiginosamente a 120 miliardi di euro. Secondo uno studio della Confartigianato le tre province salentine in fatto di evasione fiscale e contributiva si trovano in coda ad una graduatoria al cui vertice si trovano le province virtuose… La magistratura di sorveglianza Tutt’altro che nuove sono le difficoltà e le problematiche con cui i tribunali di sorveglianza del distretto si devono confrontare. Il presidente di Lecce, richiamati gli esiti positivi per il suo ufficio dell’ispezione ministeriale ordinaria eseguita nel decorso anno, rileva compiaciuto che nella stessa si è dato ampio risalto all’impegno dei giudici e di tutto il personale amministrativo e però considera che tutto ciò non basta per fare fronte ad una situazione che richiederebbe ben altre risorse. Segnala quindi il numero enorme di pratiche definite in tempi ragionevoli e in particolare il sensibile incremento delle istanze presentate da soggetti tossicodipendenti, soprattutto da cocaina, in ordine alle quali la legge n. 46/06 ha attribuito al magistrato di sorveglianza la facoltà di ammettere l’istante in via provvisoria alla misura dell’affidamento terapeutico. Quanto alle istanze di detenzione domiciliare e di differimento dell’esecuzione della pena per gravi motivi di salute, che sono state rispettivamente 248 e 92, nel caso di domande proposte da condannati in condizioni di grave infermità fisica o psichica, o da persona affette da infezioni HIV o da AIDS, il tribunale di Lecce applica preferibilmente – in luogo del rinvio o della sospensione della esecuzione della pena – la norma di cui all’art. 47ter comma 1ter ordinamento penitenziario, che consente l’applicazione surrogatoria della detenzione domiciliare a termine, ma non senza valutare l’eventuale sussistenza di un concreto pericolo della commissione di delitti. Negativa – quanto al raggiungimento dei due obiettivi che l’istituto avrebbe dovuto perseguire, determinare un rilevante effetto di decarcerizzazione e scoraggiare le tendenze recidivanti dei destinatari del beneficio – è la valutazione del

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presidente del tribunale di sorveglianza di Lecce del c.d. indultino, attesa la frequenza con cui il beneficio una volta concesso è stato poi revocato e in proposito rileva che “l’originaria automaticità della concessione della misura, che suscitava non poche perplessità, è stata superata dal provvidenziale intervento della Corte Costituzionale che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 1 comma 1 della legge n. 207/03 nella parte in cui non prevede che il giudice di sorveglianza possa negare la sospensione condizionata della esecuzione della pena quando ritiene che il beneficio non sia adeguato alle finalità previste dall’art. 27 comma 3 della costituzione. Anche per il presidente del tribunale di sorveglianza di Taranto, la maggior parte delle istanze di affidamento terapeutico sono strumentali, in quanto proposte da soggetti con problemi di tossicodipendenza remota, ormai risolti, che si presentano al Sert, dopo lunghissimi intervalli di tempo, soltanto a ridosso dell’esecuzione penale. Quasi sempre accolte invece le istanze di ingresso in comunità terapeutica. L’assenza di comprovate, valide e consolidate occasioni di reinserimento sociale di tipo lavorativo o equivalenti, unitamente alle indicazioni sfavorevoli di polizia, carcere e Ufficio esecuzione pene esterne (UEPE), spiega l’alta percentuale di rigetti di affidamento ordinario (195 su 323 istanze), mentre il numero limitato di semilibertà concesse (solo 18 a fonte di 154 istanze) è proporzionale alla mancanza di un regolare lavoro, quando non dipendente dalla ostatività del reato. Da ultimo il presidente di Taranto segnala la necessità di una puntualizzazione normativa per la determinazione della competenza territoriale in caso di trasferimento di detenuti da un istituto all’altro. Non sono ancora valutabili gli effetti del recente provvedimento legislativo di cui si è detto nel precedente paragrafo relativo alla situazione delle carceri, che consentirà di “mettere alla prova”, in pratica scarcerare per assegnarli a detenzione domiciliare, i detenuti cui resta da espiare una pena inferiore ad un anno. Si tratterebbe secondo stima ministeriale di 10.741 detenuti, di cui 5.694 italiani, 790 europei, 3.987 extracomunitari, gran parte dei quali non hanno potuto finora usufruire di misure alternative alla detenzione, vietate per chi risulti recidivo e che per la stessa ragione non è detto che possano essere ammessi alla prova. Anche quest’anno va rilevato che un maggiore impegno dei giudici potrebbe ridurre gli effetti delle c.d. porte girevoli, quelle cioè attraverso le quali i detenuti (in numero sempre più consistente), metaforicamente entrano ed escono, restando in carcere solo uno o due giorni ma creando problemi seri all’organizzazione delle carceri, quando di fatto la scarcerazione dopo solo due tre giorni di detenzione dimostra che l’ingresso in carcere, subito dopo l’arresto, avrebbe potuto essere evitato. Le statistiche dicono che negli ultimi anni un numero di persone comprese tra 15mila e 20mila è entrato in carcere per restarvi solo due giorni. Considerando un periodo temporale appena più ampio la cifra di persone che esce dal carcere entro i dieci giorni dal momento dell’ingresso è pari alla metà delle persone entrate negli istituti penitenziari in stato di arresto o di custodia cautelare. In cifra assoluta ciò

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significa un numero di persone variabile tra 25mila e 32mila detenuti. Se si potesse intervenire su questo fenomeno, trattenendo fuori dal carcere gli arrestati di cui si prevede subito dopo la liberazione, forse il problema del sovraffollamento sarebbe almeno in parte risolto… Ma le camere di sicurezza annesse alla singole caserme non sono a loro volta attrezzate e sufficienti… Quanto infine alla gestione dei benefici concedibili dalla magistratura di sorveglianza, spesso accusata di eccessiva generosità che sconfinerebbe in lassismo tale da vanificare le pene inflitte dai giudici della cognizione, va sottolineato l’impegno del procuratore distrettuale che, ai fini di una decisione ancorata a dati concreti, non fa mancare il suo contributo di conoscenza attivamente partecipando alle singole procedure. Scrive il procuratore Motta: Anche durante l’ultimo anno si è continuato a porre particolare attenzione all’applicazione delle norme dell’ordinamento penitenziario che prevedono forme di intervento del procuratore distrettuale antimafia nelle procedure per la concessione ai condannati delle misure alternative alla detenzione (articoli 4 bis del citato ordinamento penitenziario, ancora una volta modificato con la recente legge 15 luglio 2009 n. 94, e 58 ter) e per la sospensione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario (articolo 41 bis, secondo comma, anch’esso radicalmente modificato dalla stessa legge n. 94/2009). Per quanto riguarda le prime due norme, sono state date ai diversi tribunali di sorveglianza che ne hanno fatto richiesta informazioni in merito alla eventuale collaborazione giudiziaria prestata, ai sensi dell’articolo 58 ter, da persone condannate per taluno dei delitti indicati nel primo comma dell’articolo 4 bis; egualmente, notizie in merito alla stessa circostanza ed alla eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata di persone condannate per la medesima categoria di delitti, sono state fornite ai Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica, presieduti dai prefetti di Lecce, Brindisi e Taranto; ancora, a norma dell’articolo 4 bis, ultimo comma, sono stati comunicati di iniziativa ai tribunali di sorveglianza di Lecce e Taranto gli elementi sull’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata di persone condannate per reati diversi da quelli indicati nel primo comma dello stesso articolo, ritenuti ostativi alla concessione delle misure alternative da loro richieste. Infine, a seguito della richiesta di parere del magistrato di sorveglianza sulla concessione della liberazione anticipata e ritenuto, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, che il divieto di concessione di misure alternative alla detenzione previsto dall’ultimo comma dell’articolo 4 bis, a differenza della disciplina del primo comma, riguardi tutte le misure compresa anche la liberazione anticipata, è stata segnalata ai magistrati di sorveglianza di Lecce e Taranto l’attualità di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, ritenuta ostativa alla concessione anche di tale misura. Tra il luglio 2009 ed il giugno 2010 sono state, così, fornite indicazioni riguardanti 2.648 detenuti che avevano presentato richieste di concessione di misure alternative alla detenzione: 49 ex articolo 58 ter e 171 ex articolo 4 bis (di queste

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ultime, 64 sono state informazioni ai prefetti di Lecce e Taranto per i pareri del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica e 107 sono state comunicazioni di iniziativa ai tribunali di sorveglianza di Lecce e Taranto); 2.095 sono stati i pareri dati ai magistrati di sorveglianza di Lecce e Taranto su istanze di concessione della liberazione anticipata (136 dei quali motivatamente contrari). Si tratta di una mole enorme di lavoro (in particolare i pareri in tema di liberazione anticipata sono ulteriormente aumentati rispetto al precedente anno giudiziario, quando già erano aumentati del 50% rispetto al precedente periodo), alla quale è stato possibile far fronte solo per l’impegno costante e qualificato del personale delegato alla ricerca delle necessarie notizie nei sistemi informativi Re.Ge. Re.CA. e S.I.D.D.A. e nell’archivio organizzato a tale specifico fine presso il mio ufficio. Quanto all’applicazione del regime di sospensione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario ai sensi del secondo comma del citato articolo 41bis, nel periodo di riferimento sono state formulati 24 pareri su richieste dell’amministrazione penitenziaria di rinnovo del decreto ministeriale (a seguito delle citate modifiche, il provvedimento ministeriale di applicazione ha la durata di quattro anni e le proroghe di due). La situazione delle carceri La condizione dei detenuti, oltre che afflittiva – e non potrebbe essere diversamente per via della privazione della libertà (nel che consiste la pena esigibile) – va divenendo sempre più drammatica ed inaccettabile per un paese civile, che deve garantire anche a chi è in debito con la società, condizioni minime di vivibilità, rispettose della sua dignità di persona. Il sovraffollamento delle carceri, che è d’ostacolo all’attuazione di un serio programma trattamentale e toglie al detenuto qualsiasi prospettiva di recupero, è all’origine di una situazione che porta alla disperazione ed a conseguenti condotte di anche violenta protesta quando non addirittura ad atti di autolesionismo ed al suicidio. È un dato di cui bisogna tener conto che il tasso di suicidi riscontrabile in carcere è di gran lunga superiore di quello registrato fra tutta la popolazione residente in Italia. La casa circondariale di Lecce – la cui situazione corrisponde alla generalità degli altri istituti di custodia e che ha una capienza massima di 660-1.100 detenuti – oggi ne ospita di fatto 1.455 di cui 1.358 uomini e 97 donne; di esse 321 sono sottoposti al regime detentivo di alta sicurezza (il c.d 41bis) e 1.134 sono detenuti comuni, molti dei quali affetti da patologie psichiatriche, derivanti da stati avanzati di tossicodipendenza ed alcool dipendenza. Molti sono ancora quelli che per essere cittadini extracomunitari non possono contare sull’aiuto all’esterno di parenti o amici. La riduzione della spesa sociale – è l’allarme lanciato da Psichiatria democratica “fortemente preoccupata per la lunga serie di suicidi in carcere – rischia di

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confinare nel silenzio le terribili condizioni di vita nelle carceri italiane, mentre è da auspicare un miglioramento della vivibilità negli istituti penitenziari, da render possibile l’attivazione di un processo di umanizzazione della pena che corrisponda alla sua funzione di emenda e di recupero indicata nell’art. 27 della costituzione”. Invece tocca registrare, nel corso del 2010 e nel solo istituto di Lecce, 199 casi di autolesionismo, ben 43 tentati suicidi, 2 suicidi cui credo che se ne sia aggiunto un terzo dopo la chiusura di questa relazione, 148 scioperi della fame, 260 casi di protesta sfociati nella commissione di reati. A questi due giovani suicidi che, privandosi – in un momento di disperazione – della vita, hanno pagato un conto sproporzionato per le colpe da loro commesse, in una occasione come questa in cui si fanno bilanci e ci si prepara ad un nuovo anno di attività giudiziaria, è doveroso dedicare con cristiana pietà un pensiero, al quale si deve accompagnare l’impegno, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, a modificare le situazioni che portano a risultati di questo tipo. Uno di questi giovani Tulpan Stefan era rumeno; dopo una vita di stenti nel suo paese di origine, era arrivato in Italia dove aveva trovato lavoro e si era sistemato; all’improvviso il suo paese di origine si era ricordato di lui e gli è stato notificato un mandato di arresto europeo per un reato commesso molti anni prima e per il quale era stato giudicato e condannato quando era già in Italia, un reato – partecipazione ad una rissa in un locale pubblico – che da noi è punito meno severamente che in Romania. L’avrei dovuto interrogare il giorno dopo il suo arresto, probabilmente avrei disposto la sua scarcerazione e tutt’al più gli arresti domiciliari, ma Tulpan deve aver visto svanire di colpo tutti i suoi sogni di una vita finalmente dignitosa… ecco anche questi sono i risultati di una giustizia che arriva troppo tardi… quando appunto non può più essere percepita come giustizia e si presenta invece con un volto inumano… Di recente la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza emessa il 16 luglio 2009 nel caso Sulejmanovic contro Italia, ha condannato il nostro paese per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti sancito dall’art. 3 della convenzione. Con la predetta pronuncia, la Corte di Strasburgo ha ricordato che il Comitato per la prevenzione della tortura (istituito dal Consiglio di Europa) aveva fissato in 7 mq. lo spazio minimo per detenuto, ha richiamato la propria giurisprudenza secondo cui la mancanza di spazio personale per i detenuti, quando essi dispongono individualmente di meno di 3 mq è talmente flagrante da giustificare da sola la constatazione della violazione dell’art. 3 della convenzione in quanto costituisce “trattamento inumano e degradante” (nel caso deciso dalla Corte, il ricorrente, detenuto nel carcere romano di Rebibbia, aveva condiviso per un periodo di oltre due mesi e mezzo una cella di 16,20 mq. con altri cinque soggetti, risultando così lo spazio disponibile per ciascuno di 2,7 mq.). Al grave sovraffollamento dell’istituto di Lecce corrisponde poi una preoccu-

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pante carenza di personale, costituito da 753 unità che hanno provveduto anche nell’anno decorso 3.232 traduzioni mentre 1.991 sono stati i detenuti tradotti in luoghi esterni di cura. Sicché alla protesta dei detenuti si è aggiunta nella scorsa estate quella degli operatori di polizia penitenziaria, che ha messo in luce anche una deficitaria assistenza sanitaria all’interno del penitenziario all’origine di una situazione di grande tensione con proteste continue dei detenuti, che chiedono più assistenza, e che producono un aggravio di lavoro non più accettabile per la polizia penitenziaria con uno spreco anche di denaro pubblico. In un documento del SAPPE, il sindacato della polizia penitenziaria, si segnala la necessità di una maggiore offerta di servizi all’interno dell’istituto ad evitare inutili, costose ed impegnative traduzione di detenuti alla struttura sanitaria esterna per le più banali ragioni. Si ponga fine, dice il sindacato, a questa sorta di turismo carcerario poiché la traduzione di un detenuto alla struttura sanitaria esterna, ha dei costi ingiustificati, impegna la polizia che deve provvedere all’accompagnamento distogliendola dai servizi all’interno delle sezioni e crea in definitiva anche un problema per l’ordine pubblico. Ma a parte le numerose visite al carcere di parlamentari e politici di varia estrazione, mentre era in coso la protesta (anche questa – perché no? – una forma di turismo carcerario) e nonostante le assicurazioni forse date, non risulta che il problema sia stato finora risolto… L’impegno e la dedizione della direttrice dell’istituto, dr. Anna Rosaria Piccinni e l’abnegazione dell’intero corpo di polizia penitenziaria hanno permesso finora di far fronte a questa situazione anche attraverso l’organizzazione di un laboratorio sartoriale della cooperativa sociale Officina Creativa in cui sono impegnate alcune detenute con contratto di lavoro a tempo indeterminato e attraverso l’avvio di una azienda dolciaria ed altra di serramenti, reso possibile con i finanziamenti della cassa delle ammende, nell’ambito del progetto “verso una nuova identità”. Prezioso è infine il contributo del volontariato penitenziario disponibile all’ascolto e al sostegno della popolazione detenuta, altrimenti privata di ogni conforto. Non molto diversa è la situazione dell’istituto di custodia di Taranto, che secondo quanto segnala il magistrato di sorveglianza, a fronte di una capienza di 400-450 posti, ha ospitato fino a 596 detenuti di cui 374 definitivi. Verso l’inizio delle decorsa estate, si è dovuto sgomberare un intero padiglione della struttura, riservato ai semiliberi, per l’improvviso crollo di una porzione di cornicione e per il quale nessuna previsione è possibile ancora oggi sui tempi di ricostruzione e di normalizzazione. Ed è a Taranto che si verifica il caso di Bianchini Christian a cui la stampa ha dato ampio risalto, riferendone peraltro in termini non proprio rispondenti alla realtà. Bianchini entra in istituto il 21.5.10, proveniente da altra sede. Il successivo 24, il sanitario dell’istituto, dopo averlo visitato, rilevato in base ad accertamenti strumentali eseguiti in precedenza, che lo stesso era portatore di una neoformazio-

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ne al lobo sinistro del fegato di cm 8,3 chiede diligentemente ma inutilmente una urgente RMN presso il locale ospedale civile. Inutili risultano anche i successivi solleciti, nonostante l’apparente gravità del caso, sia pure mitigata dalle stazionarie condizioni del paziente. Solo quando il difensore del Bianchini si attiva e si procura dichiarazione di disponibilità dell’ISMETT di Palermo ad eseguire in regime di ricovero gli accertamenti necessari e l’eventuale intervento chirurgico, sarà possibile disporre il suo trasferimento nella struttura sanitaria predetta. Contrariamente però da quanto riferito dalla stampa, che ha parlato di mancata esecuzione dell’ordine di ricovero impartito dal magistrato di sorveglianza per indisponibilità dei fondi necessari alla traduzione a Palermo, i ritardi in questo caso non sono affatto dipesi dall’amministrazione penitenziaria ma dalla struttura sanitaria locale che non ha neppure dato una risposta alla richiesta di accertamenti: ha avuto il suo peso in tutto ciò il fatto che gli accertamenti venivano richiesti per un detenuto? La legge di recente approvata che permette di espiare le pene detentive di durata inferiori a dodici mesi dovrebbe costituire un sia pure temporaneo rimedio a questa situazione. Stando alle stime del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel settembre del 2009, circa il 32 per cento dei detenuti a seguito di sentenza definitiva scontavano pene detentive non superiori ad un anno e che tale percentuale risultava costantemente in crescita: era circa il 25 per cento nel giugno 2007 e il 31 per cento nel giugno 2008. L’intervento prescelto dal legislatore è stato quello di consentire che in alcuni casi l’esecuzione delle pene detentive brevi avvenga in luoghi diversi dagli istituti penitenziari. Si tratta peraltro di una disciplina la cui vigenza è tassativamente limitata nel tempo, in quanto l’art. 1 stabilisce espressamente che la predetta modalità di esecuzione della pena potrà essere ammessa soltanto “fino alla completa attuazione del piano straordinario penitenziario nonché in attesa della riforma delle misure alternative alla detenzione e comunque non oltre il 31 dicembre 2013. Il piano straordinario penitenziario, approvato dal Consiglio dei ministri del 13 gennaio 2010 (in cui è stata deliberata anche la dichiarazione dello stato di emergenza in cui versa attualmente il sistema penitenziario italiano) mira ad attuare una politica di deflazione carceraria e si impernia su diversi filoni di intervento: da un lato, una riforma legislativa del sistema sanzionatorio, con la previsione di un più agevole accesso a forme di detenzione domiciliare e della possibilità della messa alla prova dell’imputato di reati puniti con pena detentiva non superiore a tre anni (misura, questa, accompagnata dall’obbligo di svolgimento di lavori di pubblica utilità e dalla conseguente sospensione del processo); dall’altro lato una serie di misure straordinarie di edilizia penitenziaria e l’adeguamento dell’organico del corpo di polizia penitenziaria. L’art. 2 inasprisce il trattamento sanzionatorio per la fattispecie semplice e per quelle aggravate del delitto di evasione previsto dall’art. 385 codice penale. A

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seguito della modifica, la pena base per tale reato è la reclusone da uno a tre anni; la fattispecie aggravata dalla violenza o minaccia alle persone o dall’effrazione è punta con la reclusione da due a cinque anni; l’ulteriore ipotesi aggravata dalla violenza o minaccia commessa con armi o da più persone riunite è sanzionata con la pena della reclusione da tre a sei anni. L’art. 3 ha inserito poi nell’art. 61 del codice penale una ulteriore circostanza aggravante comune prevista dal n. 11 quater che consiste “nell’aver il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione in carcere”. L’esecuzione penale Preposto all’ufficio esecuzione penale (che ha una variegata competenza che attiene praticamente a tutto ciò che segue la definizione di un processo, con la condanna o l’assoluzione di un imputato) è il direttore amministrativo dr. Giovanni Pati. Nel periodo di riferimento sono state redatte n. 2.059 schede per il casellario giudiziale (che contengono l’esito di un procedimento penale riguardante un determinato soggetto) e n. 358 fogli complementari (fogli aggiuntivi che integrano la scheda originaria per sopravvenute modifiche sul contenuto della sentenza annotata o attinenti all’esecuzione della pena). Sono stati altresì definiti (per la corte di appello) n. 530 procedimenti camerali a fronte di 524 sopravvenuti e per la corte di assise di appello n. 50 a fronte dei 40 sopravvenuti: in pratica si è azzerata la pendenza. Ha redatto infine 759 estratti esecutivi, che comprende anche l’esame dei fascicoli “esenti” per il caso che si debba provvedere – in mancanza di una condanna – alla restituzione di beni o somme di danaro in sequestro. L’ufficio è pertanto completamente aggiornato e non ha arretrato: un caso unico nel variegato panorama giudiziario dove può capitare neppure troppo raramente che persone pluricondannate o detenute in carcere risultano incensurate sol perché non è stata tempestivamente trasmessa al casellario la scheda relativa alle condanne riportate col risultato che il lavoro di anni per celebrare i processi è praticamente… inesistente). L’ufficio cura anche l’esecuzione dei provvedimenti di applicazione di misure di prevenzione personali o reali (queste ultime particolarmente impegnative per la molteplicità di adempimenti richiesti per la gestione spesso di interi patrimoni sequestrati e poi confiscati). Sempre nel periodo di riferimento, ha definito 63 procedimenti a fronte dei 48 pervenuti, con conseguente abbattimento della pendenza, ha curato l’esecuzione di 93 provvedimenti camerali e alla destinazione di somme confiscate pari a complessivi euro 281.818,15.

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PARTE TERZA La giustizia civile Considerazioni generali sulla giustizia del lavoro Le controversie in materia di previdenza e assistenza costituiscono, sotto il profilo numerico, oltre l’80% dei processi pendenti davanti ai giudici del lavoro del distretto sia in primo che in secondo grado. Pur trattandosi di un contenzioso con alcuni profili di serialità, deve sottolinearsi che tali controversie coinvolgono un numero molto elevato di utenti e impegnano i singoli giudici per oltre la metà della complessiva attività settimanale. Il loro numero così elevato, che inevitabilmente rallenta i tempi di definizione delle cause di lavoro in senso stretto, non è una costante del carico di lavoro degli uffici giudiziari italiani, ma è, al contrario, una caratteristica peculiare di molti uffici giudiziari del sud, tra cui quelli del nostro distretto, strettamente connessa, quindi, a particolari condizioni socio-economiche, che indirizzano ben più che altrove verso ambiti previdenziali e assistenziali anche le iniziative e l’impegno del ceto forense. In ambito previdenziale una parte del contenzioso – e, cioè, quella determinata da ritardi ed errori che si verificano nella fase amministrativa che sempre precede il giudizio – inizia a ridursi in seguito ad un recupero di efficienza degli uffici dell’INPS e probabilmente ancor di più si può fare in questo settore. Negli ultimi due anni è stato particolarmente rilevante il numero (alcune migliaia nel circondario di Lecce) di controversie instaurate per contestare il disconoscimento, operato dall’INPS, di rapporti di lavoro agricolo. Ciò è accaduto in seguito a numerose verifiche ispettive che, per alcune aziende agricole, hanno ritenuto di molto superiore all’effettivo fabbisogno il numero di giornate di lavoro agricolo denunciate; in mancanza di specificazioni o di elementi da cui desumere quali erano i dipendenti da ritenere “effettivi” e quali “falsi”, l’INPS ha disconosciuto tutti i rapporti di lavoro agricolo denunciati da tali aziende. È facile immaginare la difficoltà di pervenire, nonostante la cura posta nella trattazione dei giudizi promossi da ciascuno dei soggetti cancellati dagli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli, ad un attendibile accertamento giudiziale circa la veridicità o la falsità del singolo rapporto di lavoro, poiché, in genere, tutti i testimoni indicati come informati circa l’attività lavorativa in contestazione sono anch’essi ricorrenti in altri analoghi giudizi. È emersa, quindi, nelle aule di giustizia buona parte di un iceberg (non solo la sua punta) rispetto al quale appare indispensabile individuare ulteriori strumenti di difesa della legalità all’interno del sistema di tutela previdenziale dei lavoratori. In materia di assistenza, va rilevato che dal 2/7/2009, per effetto dell’estensione alle controversie per le prestazioni agli invalidi civili di una disposizione già prevista per le pensioni di invalidità di natura previdenziale, non è più possibile percorrere contemporaneamente sia la via amministrativa sia quella giudiziaria

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per ottenere i benefici assistenziali, con una inutile duplicazione fonte di appesantimento del contenzioso. I benefici effetti di tale norma (art. 56 comma 2 legge n. 69/2009, di cui da tempo era stata segnalata la necessità tra gli addetti ai lavori) cominciano a riscontrarsi: una riduzione del numero complessivo dei giudizi consentirà verosimilmente una loro più rapida trattazione. Per quanto attiene alle controversie in materia di rapporto di lavoro, va rilevato che il rito speciale introdotto dalla legge n. 533/1973 continua a rappresentare un modello processuale assai valido ed efficace, tanto da non essere stato direttamente interessato dalle più recenti modifiche del codice di procedura civile. Circa le modalità di gestione del ruolo del giudice del lavoro, è in corso nel distretto una sperimentazione per passare, secondo la classificazione di studiosi di scienza dell’organizzazione, dal modello “parallelo” (di regola applicato nella gestione dei processi civili) al modello “sequenziale”. Una ricerca svolta nei tribunali di Milano e Torino ha accertato che “a parità di casi sopravvenuti, la durata totale media dei processi (dall’iscrizione alla conclusione con sentenza, conciliazione o altra forma) è inferiore per i magistrati che lavorano su pochi casi contemporaneamente cercando di chiuderli rapidamente, prima di aprirne di nuovi tra quelli in coda nel loro ruolo. Viceversa, i magistrati che lavorano in parallelo su molti casi, li esauriscono più lentamente, ne concludono meno per unità di tempo e accumulano un carico pendente crescente nel tempo” ovvero, con una immagine efficace: “chi tiene poche pentole contemporaneamente sul fuoco riesce a cucinare più pasti per unità di tempo”. La durata della sperimentazione è ancora troppo breve per valutazioni compiute, ma certo il metodo è stato già apprezzato dai cittadini utenti, che ben possono comprendere come il gran carico di lavoro crei per la trattazione della loro controversia una lista d’attesa (il che avviene in molti settori, pensiamo, tra i tanti, alla sanità), ma spesso faticano ad accettare che dopo la tanto attesa prima udienza occorra poi aspettare molti mesi per iniziare ad ascoltare i testimoni, e molti altri ancora per ascoltare i successivi e per la conclusione del giudizio. In ordine al tipo di contenzioso lavoristico, è sempre rilevante, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, quello in materia di impiego alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, in particolare nei settori della sanità, della scuola e degli enti locali. Sono, poi, ancora molti i giudizi intentati nel nostro distretto, come in tutta Italia, contro la S.p.A. Poste Italiane per contestare la legittimità del notevole ricorso ad assunzioni a termine, con molteplici causali e anche attraverso società di somministrazione di lavoro. Si tratta di un contenzioso che ha già determinato, per il suo rilievo anche sulla finanza pubblica, vari interventi legislativi, alcuni dei quali censurati dalla Corte Costituzionale (il riferimento è, in particolare, all’art. 4bis del d.lgs. n. 368/2001 – introdotto dall’art. 21 comma 1bis del d.l. n. 112/2008, conv. con modif. con legge 133/2008 – dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza della Corte Costituzionale n. 140 del 14.7.2009).

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Anche per alcune società con capitale posseduto da enti locali, d’altra parte, si registra la contestazione in giudizio della legittimità di forme di assunzione a termine ovvero con varie tipologie di lavoro c.d. flessibile (lavoro a progetto, somministrazione, ecc.). Sono, infine, riscontrabili in questo settore del contenzioso anche gli effetti della crisi economica, con un maggior ricorso a decreti ingiuntivi per il pagamento di retribuzioni riconosciute ma non corrisposte e con vari casi di contenzioso successivo a licenziamenti collettivi, anche con accordi finalizzati al successivo reimpiego dei lavoratori collocati in mobilità (casi Omfesa, gruppo Adelchi e società collegate, Filanto). Fallimenti Nel periodo di riferimento sono pervenute al tribunale di Lecce n. 286 istanze di fallimento e ne sono state definite 263; le istanze pendenti sono di conseguenza aumentate da 90 a 113. Mediamente i tempi di decisione sono stati inferiori ad un anno. Infatti, sebbene la riforma della legge fallimentare abbia disciplinato il procedimento per la dichiarazione di fallimento come un vero e proprio procedimento a cognizione piena (sia pure a rito speciale e semplificato), nel quale il diritto di difesa delle parti può dispiegarsi senza limitazioni, tanto da essere ammesse prove di lunga indagine, di fatto presso il predetto tribunale, secondo quanto riferisce il presidente, il procedimento tendenzialmente si esaurisce in una sola udienza, al termine della quale il giudice delegato all’istruttoria prefallimentare riserva di riferire al collegio. Delle 263 istanze di fallimento decise, 105 sono state quelle accolte mentre 158 sono state rigettate o archiviate per desistenza. Secondo quanto riferisce il presidente del tribunale, il rilevante numero di sentenze di fallimento dipende anche dal fatto che la legge di riforma ha posto a carico del debitore l’onere di provare di non trovarsi nelle condizioni per poter essere dichiarato fallito con la conseguenza che se il debitore rinuncia a difendersi e ad eccepire il mancato raggiungimento della c.d. soglia di fallibilità, la dichiarazione di fallimento consegue quasi automaticamente. Segnala il presidente del tribunale che molte sono state le istanze di fallimento presentate dal concessionario per la riscossione delle imposte, società Equitalia (presumibilmente perché l’imprenditore in difficoltà finanziarie tende ad arretrarsi soprattutto nel pagamento delle imposte e dei contributi previdenziali) e che non sono mancate alcune richieste di fallimento presentate dal pubblico ministero, al quale in qualche caso l’insolvenza è stata segnalata dallo stesso tribunale fallimentare, che, conformemente alle indicazioni contenute nella relazione alla legge di riforma, ritiene di poter sollecitare l’iniziativa del pubblico ministero, quando, malgrado la desistenza dei creditori istanti, lo stato di insolvenza risulti manifesto. I tempi di definizione delle procedure fallimentari continuano invece ad essere

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piuttosto lunghi: pur essendo state chiuse, nel periodo di riferimento 187 procedure a fronte delle 105 sopravvenute, le procedure aperte sono sempre in numero elevato (1.404 alla fine del periodo), gran parte delle quali risalgono a svariati anni addietro: la durata, spesso oltre ogni limite accettabile, è legata a sua volta alla lunghezza dei processi di cognizione che le curatele iniziano ai fini della ricostituzione dell’attivo fallimentare (in particolare delle revocatorie fallimentari) e quindi in definitiva alla generale disfunzione del sistema giustizia. Analoga è la situazione del tribunale di Taranto, dove nel solo primo semestre del 2010 sono state depositate 191 istanze di fallimento con 37 fallimenti dichiarati a fronte dei 29 dichiarati nel corrispondente periodo del 2009. Secondo il presidente del tribunale, l’entrata in vigore del decreto correttivo della riforma, non solo ha arrestato la tendenza, manifestatasi subito dopo la riforma, alla diminuzione elle dichiarazioni di fallimento, ma ne comporterà anche un tendenziale aumento, in considerazione anche della pesante crisi economica che tuttora attanaglia il territorio jonico in conseguenza dello stato di dissesto del Comune di Taranto. Sempre secondo il presidente del tribunale, l’elevato numero delle procedure pendenti (1.222 a fonte delle 1.236 della fine del periodo precedente) molte delle quali purtroppo di durata ultraventennale, rappresenta un serio ostacolo, data la carenza di risorse materiali e personali a disposizione, per ogni serio tentativo di ridare efficienza ad un settore da sempre in crisi. A Taranto tuttavia, grazie all’impegno della cancelleria, è stato risolto l’annoso e grave problema dell’estremo ritardo con cui venivano emessi i decreti di trasferimento degli immobili venduti all’asta, oggi emessi dopo tre-quattro mesi dall’aggiudicazione e quindi in tempi, ritenuti dal presidente del tribunale, fisiologici, mentre permangono serie difficoltà per l’aggiornamento degli stati passivi, operazione necessariamente propedeutica, alla chiusura dei fallimenti. Riferisce invece il presidente del tribunale di Brindisi che il numero delle procedure fallimentari, anche dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 169/07, correttivo della riforma fallimentare, non ha subito variazioni significative rispetto al periodo precedente né ha posto problemi particolari. Nei fallimenti dichiarati dopo l’entrata in vigore della legge di riforma, il dimezzamento del c.d. periodo di sospetto, ha comportato una drastica riduzione delle revocatorie fallimentari (nel periodo di riferimento soltanto dodici). Continuano invece ad essere frequenti le cause di revocatoria ordinaria esercitate dalle curatele fallimentari e soprattutto le cause di responsabilità contro gli amministratori, che presentano sempre un elevato livello di complessità e richiedono una istruttoria assai laboriosa (con conseguenti inevitabili ricadute sulla durata della procedura fallimentari la cui chiusura è condizionata dalla definizione della revocatoria o dell’azione di responsabilità. Riferisce il presidente del tribunale che, nei fallimenti soggetti al nuovo rito, la scelta legislativa di spostare il baricentro dei poteri di gestione della procedura

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dal giudice delegato al comitato dei creditori è rimasta priva di riscontri pratici, in quanto il più delle volte o i creditori si dichiarano indisponibili a far parte del comitato o comunque, una volta designati, non partecipano attivamente al suo funzionamento, per cui è inevitabile l’intervento surrogatorio del giudice delegato, almeno nei fallimenti medio-piccoli che sono la stragrande maggioranza, nei quali i creditori sono restii ad assumere un impegno gravoso, che richiede una discreta preparazione tecnica e comporta anche l’assunzione di notevoli responsabilità. Viceversa il disegno riformatore ha trovato piena attuazione nella parte relativa alla verifica del passivo, in quanto la prassi ha subito recepito il nuovo modello normativo, che riconosce al curatore non più il ruolo di ausiliario del giudice nella formazione dello stato passivo, ma quello di parte di un procedimento contenzioso, chiamato ad esaminare in piena autonomia le domande di ammissione di creditori istanti, rassegnando per ciascuna di esse le proprie motivate conclusioni, sicché il giudice decide in posizione di terzietà, rispettando la dialettica azione-eccezione. Sul punto, riferisce però il presidente del tribunale di Taranto che “i curatori spesso vanno richiamati ad una maggiore diligenza nell’espletamento del loro delicato incarico: la risalente frammentazione degli incarichi e l’elevato numero delle procedure pendenti di fatto non consente ai giudici delegati di esercitare un effettivo controllo sull’andamento dei fallimenti, la cui durata appare talvolta priva di giustificazioni. Generalmente inosservato è poi da parte dei curatori l’obbligo di depositare periodiche relazioni di aggiornamento ex art. 33 legge fall.: l’ufficio, stante l’elevato numero di procedure, non ha potuto fare altro che richiamare l’attenzione dei curatori mediante avvisi pubblici, che però non hanno sortito alcun effetto; nei casi più gravi ed eclatanti si è proceduto alla revoca dell’incarico. Negli ultimi anni comunque si è avviato un processo di maggior selezione nelle nomine dei curatori e di maggior controllo sull’operato degli stessi e, in considerazione del ruolo di maggiore centralità loro assegnato dalla riforma all’interno della procedura, sono stati ancor più privilegiati ai fini della nomina i requisititi di professionalità e serietà degli aspiranti all’incarico”. Per quanto riguarda infine la fase della liquidazione dell’attivo, almeno per quanto riguarda la vendita dei beni immobili, nel tribunale di Lecce, invece di far ricorso a procedure competitive atipiche, si preferisce seguire il collaudato sistema previsto dal codice di rito per l’esecuzione individuale e quindi far svolgere la gara fra gli eventuali offerenti dinnanzi al giudice dell’esecuzione concorsuale. Nonostante gli auspici del legislatore, l’istituto del concordato preventivo tarda a decollare: le istanze di concordato preventivo sopravvenute nell’anno sono state soltanto tredici e di queste soltanto una è giunta ad omologazione; inoltre si è trattato per lo più dei tradizionali concordati per cessione di beni, confermandosi la riluttanza degli imprenditori ad utilizzare lo strumento del concordato per rinegoziare il proprio debito e proseguire l’attività imprenditoriale. Non è stata presentata alcuna richiesta di omologazione di accordi di ristrutturazione di debiti ex art. 182 bis legge fallimentare.

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Il presidente della sezione civile di questa corte di appello informa che, presso la corte, i procedimenti in materia fallimentare sono definiti in tempi brevissimi e che a riguardo si è registrato anche un calo. Il presidente della sezione distaccata di Taranto a sua volta informa che “si è registrato nel periodo in esame un lieve decremento dei reclami e delle conseguenti pronunce avverso i decreti reiettivi delle istanze di fallimento e che per lo più i reclami sono proposti da fornitori e società operanti in altre parti d’Italia che mal tollerano i ritardi nei pagamenti e negli adempimenti spesso causati dalla grave situazione di crisi che ormai da lunghi anni attanaglia l’imprenditoria tarantina”.

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Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 di Antonio Cavallari*

Autorità religiose, civili e militari, Signore e Signori, la Vostra partecipazione a questo incontro è per noi tutti motivo di compiacimento e soddisfazione; compiacimento e soddisfazione che non ci possono, però, far dimenticare chi in questi giorni soffre per la furia dell’uomo o della natura. Ho parlato di incontro perché renderemo conto dell’amministrazione della Giustizia Amministrativa nelle Province di Lecce, Brindisi e Taranto nell’anno 2010 e poi ascolteremo gli interventi. In sostanza, utilizzeremo anche quest’occasione per un ulteriore confronto. Innanzi tutto il più cordiale saluto dal Presidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, Presidente Pasquale de Lise, che ha delegato a partecipare a questo incontro il Presidente Mario Torsello, Segretario Generale della Giustizia Amministrativa. Alcuni dati e alcune considerazioni. Il flusso del contenzioso nel 2010 si è attestato su livelli analoghi a quelli del 2009. Siamo lontani dal livello raggiunto nel 2000, quando furono presentati più di 5.000 ricorsi. Questo però non significa che la litigiosità, o meglio, le ragioni del contendere siano diminuite. * Presidente del TAR di Lecce.

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Una gran parte del contenzioso, quello in materia di pubblico impiego, è  migrata innanzi al giudice ordinario; al giudice amministrativo è rimasta la cognizione di ambiti e ne sono stati assegnati altri che, nell’insieme, costituiscono un fardello indubbiamente oneroso. I numeri sono diminuiti, ma certamente non è diminuito il “peso” del lavoro, inteso al tempo stesso come complessità delle vicende conosciute e come incidenza delle stesse sul traffico giuridico e, in ultima analisi, sulla vita di tutti. La definizione dell’ambito complessivamente attribuito al giudice amministrativo ha visto la pluralità degli interventi del legislatore, la pluralità degli interventi della Corte Costituzionale e la pluralità degli interventi della Corte di Cassazione in sede nomofilattica. Il tutto non sembra pienamente satisfattivo della primaria esigenza di concentrazione innanzi ad un unico giudice dei processi relativi ad una vicenda, se si pensa che l’appaltatore della gestione dei rifiuti che chieda la revisione dei prezzi deve ricorrere al giudice amministrativo, mentre, se chiede di essere compensato per aver spazzato una strada in più rispetto a quanto stabilito nel contratto, deve adire il giudice ordinario; questo a fronte dell’art. 4 del d.l. n. 90 del 2008 che attribuisce al giudice amministrativo la cognizione di tutte le controversie attinenti alla complessiva azione di gestione dei rifiuti. Sembra questo uno dei tanti problemi che affliggono una società in evoluzione, che spoglia l’Autorità dei paludamenti e le chiede efficienza e trasparenza, tanto da sostituire nell’uso comune al termine “funzione” quello di “servizio” e al tempo stesso individua come elementi distintivi del “servizio” non la destinazione delle risorse alla soddisfazione di interessi pubblici ma la formalistica imputazione dell’atto o comportamento all’Autorità. Sembra di avvertire nel comune sentire questo: il soggetto che ha una contesa con l’Amministrazione vuole adire un unico giudice. Se questa è la linea di tendenza, certamente molto deve cambiare, a partire dall’atteggiamento del giudice amministrativo sotto vari profili.

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Venendo alla nostra specifica situazione e ai dati. L’andamento della litigiosità corrisponde alla situazione sociale: vi è una sostanziale equivalenza del flusso e delle caratteristiche attuali rispetto a quelle pregresse, con una vivacità riscontrabile: - nella materia dell’ambiente, per l’attenzione prestata nella nostra regione alle fonti di energia rinnovabile, alla necessità dello smaltimento dei rifiuti ed al tempo stesso alle cautele che devono accompagnare questo processo per garantire adeguatamente la salute; - nella materia degli appalti: vivacità riscontrabile non solo nella quantità dei processi, ma pure nella complessità anche dal punto di vista tecnico delle questioni portate all’esame del giudice, matasse  che questo giudice deve e intende dipanare; - nella materia della sanità, specialmente per quanto attiene all’assegnazione dei tetti di spesa alle strutture private accreditate che erogano prestazioni specialistiche. Nell’anno 2010 sono stati depositati 2.111 ricorsi; sono stati definiti con sentenza 1.678 procedimenti, con decreto decisorio 1.283 affari; sono state adottate 775 ordinanze cautelari, 207 ordinanze collegiali, 85 decreti. Se il totale dei procedimenti definiti (1.283 + 1.678 = 2.961) può essere motivo di soddisfazione, è da dire che i decreti decisori riguardano estinzioni per perenzione o rinuncia, cioè nella stragrande maggioranza situazioni in cui le parti sono rimaste inattive per più di due anni o situazioni in cui il ricorso è rimasto giacente per più di cinque anni e nessuno ha più interesse alla pronuncia, cioè situazioni in cui l’attività giudiziaria non ha raggiunto l’obiettivo di regolare la contesa. I ricorsi giacenti sono in totale 6.764. Mi sento di affermare che il consuntivo è confortante non solo per i numeri, dato che i 1.678 procedimenti decisi comprendono in molti casi una pluralità di motivi aggiunti ed anche ricorsi incidentali (e questo significa che in un fascicolo sono riuniti una pluralità di Quaderni

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ricorsi con il pagamento di  una pluralità di contributi, in base all’art. 13, comma 6bis, del d.P.R. n.115 del 2002, così come modificato dall’All. 4, art. 3 del d.lgs. n. 104 del 2010), ma anche per la complessità delle vicende trattate. Per illustrare il nostro impegno vorrei spendere qualche parola su un argomento, fra i tanti, per il rilievo che ha avuto nella soluzione di vicende appena trattate e per l’interesse che susciterà sempre più in futuro: il rapporto fra l’ordinamento nazionale e altri ordinamenti. Vorrei prendere le mosse dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2010, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2010 per violazione dell’art. 76 della Costituzione, cioè dei principi contenuti nell’art. 7 della legge di delega n. 50 del 1999. Venuto meno l’istituto dell’acquisizione per decreto della proprietà del suolo utilizzato per la realizzazione dell’opera pubblica, le possibili soluzioni delle questioni sollevate erano: - aderire alla soluzione dettata dalle numerose pronunce di condanna adottate dalla CEDU che hanno affermato la violazione del principio di legalità da parte della cosiddetta accessione invertita, cioè dell’acquisizione di un suolo fondata dalla giurisprudenza sulla realizzazione dell’opera pubblica in presenza di una valida ed operante dichiarazione di pubblica utilità (per la giurisprudenza l’occupazione usurpativa, cioè la realizzazione dell’opera pubblica in assenza di una dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace – validità esclusa in caso di dichiarazione di pubblica utilità annullata dal giudice amministrativo – non comportava l’acquisizione della proprietà del suolo), per l’assenza di “norme di diritto interno accessibili, precise e prevedibili”; all’esclusione dell’acquisizione della proprietà del suolo ovviamente consegue l’obbligo per l’Amministrazione di restituire il bene al privato, previa demolizione dell’opera pubblica, cioè la restitutio in integrum;

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- individuare una soluzione in base alle disposizioni dell’ordinamento nazionale. Il primo step da affrontare riguardava la validità delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo. La questione è stata risolta dalle cosiddette “sentenze gemelle”, cioè le sentenze della Corte Costituzionale nn. 348 e 349 del 2007: specificamente dalla sentenza n. 349, che ha escluso la “comunitarizzazione” della Convenzione europea, e quindi la diretta operatività delle sentenze della CEDU nell’ambito interno, conseguentemente il dovere del giudice di disapplicare le disposizioni con esse contrastanti, per il primato riconosciuto all’ordinamento comunitario. A tale conclusione la Corte è giunta ancorché l’art. 6, par. 2 del Trattato di Maastricht dica che “l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] in quanto principi generali del diritto comunitario”. L’1 dicembre 2009 (a seguito del deposito dello strumento di ratifica da parte dell’ultimo Stato membro dell’Unione europea, ossia la Repubblica Ceca) è entrato in vigore il Trattato di Lisbona, che nell’art. 6, secondo e terzo comma, stabilisce che “L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. A prescindere dalla circostanza che l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione non è attuale, ma si perfezionerà al compimento del relativo iter, al pari di qualsiasi trattato, sia la formula del Trattato di Maastricht (secondo la quale il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla convenzione europea si risolve nella qualificaQuaderni

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zione degli stessi come principi generali del diritto comunitario) sia la formula del Trattato di Lisbona (relativa al recepimento nel diritto comunitario dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, diritti che trovano la loro definizione vincolante nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, in base al protocollo n. 11, art. 32 della Convenzione) esprimono lo stesso concetto, cioè l’inserzione nell’ordinamento comunitario dell’anzidetto nucleo di diritti. Rimane quindi valida la più convincente delle argomentazioni formulate nella sentenza della Corte Costituzionale n. 349 del 2007, relativa: - all’estraneità della disciplina della proprietà alle materie regolate dall’Unione, non ampliate dal Trattato di Lisbona rispetto a quello di Maastricht; - all’esclusione dell’immediata operatività delle sentenze della Corte di Strasburgo nel nostro ordinamento; - all’esclusione del dovere del giudice nazionale di disapplicare le norme nazionali contrastanti (sentenze della Corte di Giustizia Simmenthal e Fratelli Costanzo). È importante a questo punto sottolineare che l’Unione europea non è un organismo politico a fini generali; persegue invece specifici fini, come ribadisce, nei primi due commi, l’art. 6 del Trattato di Lisbona (“1. La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione. L’esercizio delle competenze dell’Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità. 2. In virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri”). Si è quindi ritenuto di poter rinvenire nell’ordinamento nazionale la norma che disciplina la sorte delle opere pubbliche realizzate

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senza che siano state portate a termine regolari procedure espropriative. Questa norma è stata individuata nell’art. 940 c.c., che regola l’istituto della specificazione e comporta l’attribuzione della proprietà a chi abbia adoperato una materia dando vita ad una cosa nuova (mobile nella formulazione letterale, anche immobile nella interpretazione del tribunale). L’automatismo nell’acquisizione della proprietà del bene trasformato, la legalità del processo (l’istituto della specificazione risale al diritto romano), l’attribuzione al precedente proprietario non del risarcimento ma di un indennizzo, cioè di un diritto soggetto al termine prescrizionale di dieci anni, fanno ritenere l’esistenza di “norme accessibili, precise e prevedibili”, cioè l’osservanza del principio di legalità, dell’esigenza più volte ribadita dalla Corte di Strasburgo. A questo punto ci si pone una domanda: perché l’Unione europea ripetutamente ricomprende nei propri principi generali i diritti fondamentali, le libertà, i principi garantiti dalla Convenzione europea? La risposta è probabilmente nella volontà dell’Unione di evolversi in organismo politico a fini generali, di affrancarsi dai “signori dei trattati” (la definizione appartiene alla cultura giuridica tedesca), dai limiti che gli ordinamenti nazionali pongono al diritto comunitario. Fin dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984, l’ordinamento nazionale ha affermato il primato del diritto comunitario e correlativamente i limiti che in quello incontra, in base all’art. 11 della Costituzione, la propria sovranità, elaborando al contempo la teoria dei controlimiti, cioè di un nucleo di diritti costituzionalmente garantiti che sfugge alle anzidette limitazioni della sovranità, nel nome della nostra identità costituzionale. Nello stesso senso si sono pronunciati il Conseil constitutionnel francese nella sentenza 10 giugno 2004, n. 496 e il Tribunal constitucional spagnolo con la Declaration 13 dicembre 2004, in sede di Quaderni

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ratifica del Trattato istitutivo della Costituzione per l’Europa. La posizione più elaborata, in proposito, è sicuramente quella della Corte costituzionale tedesca, che con le sentenze Solange I e II e, da ultimo, con la sentenza Lissabon (30 giugno 2009) ha affermato l’impossibilità dell’ordinamento comunitario, che riposa sempre sui compiti allo stesso attribuiti dagli ordinamenti nazionali, di operare ultra vires, cioè in conflitto con ambiti che rientrano nell’identità costituzionale degli stati membri. Conscia della riluttanza degli stati membri a rinunciare ad un nucleo di norme che identificano la rispettiva essenza, l’Unione da un lato assume come propri i diritti fondamentali garantiti dalla convenzione europea e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni, così escludendo in radice ogni possibilità di contestazione del primato dell’ordinamento comunitario; dall’altro, e nella produzione legislativa e nella produzione giurisprudenziale, prevede delle clausole di salvaguardia delle specificità degli ordinamenti nazionali. Così, in sede giurisdizionale, le restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione di servizi (quali sono quelle costituite dal monopolio in tema di giochi previsto dal d.lgs. n. 496 del 1948) sono state ritenute ammissibili: - se fondate su ragioni d’interesse generale, come la tutela dei consumatori o la prevenzione dell’incitamento dei cittadini ad una spesa eccessiva, ecc. (sentenza 6 settembre 2003, Gambelli, punti 63 e 67; sentenza 6 marzo 2007, Placanica, punto 46); - se temperate dal rilascio di un adeguato numero di concessioni (sentenza Placanica cit., punto 63). Parimenti, in sede normativa, la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 123 del 2006 prevede, negli artt. 10 e 12, che la libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi può subire limitazioni purché i criteri non siano discriminatori e siano dettati da motivi imperativi di interesse generale, quali considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza

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dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario. Tali principi, peraltro trasfusi nell’art. 8, primo comma, lett. h) e 10, d.lgs n. 59 del 2010, sono stati di guida nella soluzione: - delle vicende relative al diniego della licenza di pubblica sicurezza, prevista dall’art. 88, r.d. n. 773 del 1931, agli intermediari nell’accettazione di scommesse per conto di soggetti non muniti di concessione da parte dello Stato italiano; - delle vicende relative alla chiusura o meno degli esercizi commerciali nel giorno di  domenica. L’elaborazione relativa ai controlimiti è rimasta a lungo mera enunciazione teorica, fino alla sentenza della V Sezione del Consiglio di Stato, 8 agosto 2005 n. 4207. Al giudice era stato chiesto di disapplicare, per il contrasto con norme comunitarie, una disposizione relativa all’incompatibilità tra la partecipazione a società di gestione di farmacie comunali e qualsiasi altra attività nel settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco, incompatibilità che nella formulazione originaria riguardava solo le farmacie private e che la Corte costituzionale aveva esteso alle farmacie comunali con la sentenza n. 275 del 2003. Il giudice ritenne che “non è consentito che il giudice nazionale in presenza di una statuizione della Corte costituzionale che lo vincola alla applicazione della norma appositamente modificata in funzione della tutela di un diritto fondamentale, possa prospettare alla Corte del Lussemburgo un quesito pregiudiziale della cui soluzione non potrà comunque tenere conto, perché assorbita dalla decisione della Corte italiana, incidente sull’area dei diritti ad essa riservata. Il Collegio non ignora la tendenza invalsa nel diritto comunitario, e nella giurisprudenza della Corte del Lussemburgo, specie dopo la firma Quaderni

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del Trattato di Nizza, ad assicurare la salvaguardia dei diritti soggettivi in ambiti sempre più ampi, anche estranei alla vocazione strettamente economica che ha caratterizzato le origini e una larga parte della storia della Comunità ed ora dell’Unione. Non è controverso, tuttavia, che si tratti di manifestazioni di valenza quasi sperimentale della aspirazione ad una unione più stretta fra i Paesi membri, che però allo stato non hanno assunto un significato giuridico vincolante, tale da determinare il superamento delle sovranità nazionali e delle loro prerogative costituzionali”. La sentenza era tanto coraggiosa, quanto deciso era stato poco prima l’atteggiamento della Corte di Giustizia, che (con la sentenza Kobler del 30 settembre 2003) aveva fondato sull’art. 234 CE il dovere del giudice nazionale di cooperare con la Corte stessa per garantire l’effettività del diritto comunitario nei confronti dei singoli. Questo comportava che all’affermazione in concreto dei controlimiti, cioè alla tutela assicurata dal giudice nazionale a diritti costituzionalmente garanti dall’ordinamento nazionale a fronte di una diversa disciplina comunitaria, corrispondeva sia una sanzione comunitaria (la procedura d’infrazione), sia una sanzione interna (risarcimento del danno causato al singolo). Ora il panorama è cambiato. Non si può, tuttavia, dire in quale senso. Se l’idea della Costituzione europea è naufragata, col Trattato di Lisbona si riaffaccia senza timidezza la volontà di dar vita ad una entità sovranazionale che tende a sottrarsi ai lacci delle volontà degli Stati membri e di ciò sono prova le clausole che consentono il passaggio in Consiglio dalle decisioni all’unanimità alle decisioni a maggioranza qualificata; d’altro canto si fa sentire anche la voce degli Stati che difendono la propria identità costituzionale (cfr. sentenza Lissabon). Una vicenda nella quale l’elaborazione dei controlimiti verrà in rilievo è sicuramente quella della responsabilità della stazione appaltante per il danno arrecato ad un concorrente dall’illegittima ag-

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giudicazione dell’appalto ad altro concorrente e dall’esecuzione dell’appalto ad opera di quest’ultimo. La sentenza della Corte di Giustizia 30 settembre 2010 – Stadt Graz – ha affermato che “occorre risolvere la prima questione dichiarando che la direttiva 89/665 deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata”. Se si considera che la responsabilità contrattuale si fonda (ex art. 1218 c.c.) sulla presunzione di responsabilità del debitore, ma ammette la possibilità di vincere tale presunzione e la responsabilità extra-contrattuale si fonda sul carattere doloso o colposo del fatto lesivo (ex art. 2043 c.c.) si giunge alla conclusione che le condizioni della responsabilità della stazione appaltante individuate dal giudice del Lussemburgo sono eccezionali per il nostro ordinamento e che occorre valutare se le stesse contrastino con diritti costituzionalmente tutelati, cioè con la nostra identità costituzionale. Se la valutazione dell’esistenza o meno del conflitto fra la norma nazionale e quella comunitaria spetta al giudice comunitario, cui la vicenda sia rinviata in sede pregiudiziale, la valutazione dell’esistenza di un conflitto fra un diritto costituzionalmente tutelato nell’ordinamento costituzionale e una norma comunitaria non può che spettare al giudice nazionale. Staremo a vedere.

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Dopo questa digressione, è doveroso ringraziare chi ha operato per ottenere i risultati raggiunti. I primi attori del dramma durato un intero anno sono, innanzi tutto, il Presidente Aldo Ravalli, che ha lasciato il cuore a Lecce, poi i Presidenti delle Sezioni e i magistrati che con passione hanno profuso le loro energie nello studio e nel dipanare le matasse più complicate. Fra di loro un particolare ringraziamento va ai più giovani. Come sapete, Lecce, nel panorama nazionale, è una sede raggiungibile con difficoltà, sicché i magistrati di nuova assegnazione, dopo un periodo più o meno breve, chiedono di essere assegnati ad altra sede. Questo provoca un continuo turn over, un continuo avvicendamento, che mette in condizione i residenti di confrontarsi continuamente con idee nuove, con l’ansia sempre rinnovata di risolvere in modo “giusto” le controversie, anche percorrendo vie nuove. Ciò provoca l’effetto indiretto di scuotere le altrui menti, di allontanare il torpore che potrebbe accompagnarsi agli anni. Come giovani, per la vivacità dell’intelletto e la volontà di confrontarsi con tutti, vorrei ricordare il Presidente Pietro Fortunato, scomparso da pochi giorni, Presidente del Tribunale amministrativo regionale della Puglia dal 1980 per vari anni, e Tonino Catoni, che ha prestato la sua attività nel TAR di Lecce per circa venti anni e ricorderemo sempre per la capacità di imboccare la via “giusta” senza tentennamenti nonché per l’equilibrio e la serenità. Vanno poi ringraziati i collaboratori tutti, che con inesauribile impegno hanno dato vita ad un organismo efficiente, in grado di soddisfare le innumerevoli richieste dei magistrati e degli avvocati. La loro produttività non può che essere lodata, ove si tenga conto del numero degli affari e dei provvedimenti adottati. Un adeguato riconoscimento della stessa non può infatti prescindere, nell’elaborazione dei parametri dell’istituto della flessibilità

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e del relativo compenso, dal rilievo del numero dei provvedimenti adottati. La difficoltà di elaborare formule che attribuiscano il giusto peso ai diversi componenti di una realtà variegata, qual è la gamma dei provvedimenti, non deve portare ad attribuire esclusivo rilievo al numero dei ricorsi prodotti, dato di facile inserzione in una qualsiasi formula, ma di relativa importanza nella declinazione del complesso fenomeno della produttività. Infine vanno ringraziati gli avvocati, del libero Foro e delle Avvocature istituzionali, che ricomprendendo nella gamma delle prospettazioni sia elaborazioni giurisprudenziali che spunti interpretativi nuovi, hanno concorso alla formazione di orientamenti che non rinunciano mai ad esplorare tutte le possibilità offerte dagli istituti processuali e dalle norme sostanziali. Nessun accenno al codice del processo amministrativo, perché credo che sarà oggetto di alcuni degli interventi previsti. Solo, la constatazione che il fluire delle attività di segreteria e del giudizio amministrativo non hanno avuto alcun intoppo, anzi la maggiore attenzione ai tempi della difesa, la certezza delle soluzioni processuali, l’intensificato dialogo fra giudice e parti concorrono ad un andamento “brioso”, per utilizzare un termine musicale. Grazie a tutti.

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Mediazione e assistenza tecnica facoltativa, ovvero lo scolorire della dimensione costituzionale dell’avvocato di Antonello Denuzzo* 1. Il diritto alla difesa tecnica In un’intervista pubblicata da Il Sole 24 Ore lo scorso 24 marzo, il Presidente nazionale dei Dottori commercialisti concludeva la sua riflessione intorno all’istituto della mediazione, disciplinato dal d.lgs. n. 28/2010, sostenendo che: “gli avvocati non possono difendere una giustizia perfetta nella forma, ma senza effetti nella sostanza perché arriva troppo tardi”. A scanso di fraintendimenti, all’argomento dell’egregio contabile occorre replicare che gli avvocati difendono la forma perché essa costituisce uno strumento di garanzia processuale e di difesa del diritto sostanziale. Piuttosto, proprio la disciplina della mediazione, che – a differenza di quanto accade negli altri Paesi in cui si sono sviluppate le procedure di Alternative dispute resolution – aggrava il procedimento civile di una fase ulteriore, imponendola ai cittadini insieme con una prestazione patrimoniale non dovuta, si espone a fondati dubbi di costituzionalità. * Avvocato del Foro di Brindisi e componente del Consiglio direttivo A.I.G.A., sezione di Brindisi. Dottore di ricerca in Diritto costituzionale e Assegnista di ricerca nell’Università del Salento.

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Infatti, in conseguenza dell’impugnazione del decreto n. 180/2010 (recante il regolamento di attuazione del d.lgs. n. 28/2010)1, sono già all’esame della Corte costituzionale l’obbligatorietà del tentativo di mediazione finalizzata alla conciliazione, la sua configurazione come condizione di procedibilità e la previsione dei soli requisiti di “serietà ed efficienza” – e non anche di professionalità e competenza – che debbono possedere gli organismi di mediazione2. In questa sede, può evidenziarsi che l’art. 60 della legge delega n. 69/2009 prescriveva al terzo comma, lett. a), che il Governo avrebbe dovuto prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, avesse per oggetto controversie su diritti disponibili, “senza precludere l’accesso alla giustizia”. In ottemperanza agli impulsi provenienti dall’ordinamento comunitario e in particolare dalla direttiva 2008/52/CE3, la

1 Più esattamente, il decreto del Ministro della Giustizia n. 180/2010, adottato di concerto con il Ministro per lo Sviluppo economico e pubblicato nella G.U. n. 258 del 4 novembre 2010, ha ad oggetto il “Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’art. 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010”. 2 Con l’ordinanza n. 3202 del 12.04.2011, la sez. I del TAR Lazio ha riconosciuto “non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, comma 1, primo periodo (che introduce a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione), secondo periodo (che prevede che l’esperimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale), terzo periodo (che dispone che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice)”. Inoltre, secondo il Giudice amministrativo “non è manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, comma 1, laddove dispone che abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza”. Per una disamina delle ragioni della protesta degli avvocati, cfr. M. Bove, Mediazione civile: tra critiche giuste e ipocrisie si consuma l’ennesimo scontro con la categoria, in Guida al diritto, 26/2010, 10. 3 Nel quadro normativo investito dal ricorso innanzi al Tar Lazio si innesta anche la direttiva n. 2008/52/CE del 21 maggio 2008 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea, che ha disciplinato alcuni aspetti della mediazione in materia civile e commerciale. Ancorché, infatti, la legge delega n. 69/2009 non menzioni specificamente la direttiva n.

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previsione di cui all’art. 60 della legge delega era orientata a garantire l’introduzione di sistemi alternativi e spediti di tutela delle posizioni giuridiche integranti “diritti disponibili”, senza trascurare la “qualità della mediazione”, attraverso l’individuazione di organismi professionali e indipendenti4. Invece, in contrasto con il principio direttivo stabilito dalla legge delega, l’art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 impone il procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, di fatto precludendo l’immediato accesso alla giustizia. Si pensi alle esigenze cautelari, che non possono, di per sé, consentire di procrastinare l’accesso alla giustizia, posponendolo all’esperimento del procedimento dì mediazione. Tutto ciò in palese violazione dei principi costituzionali che sorreggono la disciplina della legislazione delegata e ancor più, sul piano sostanziale, in violazione dell’art. 24 Cost., ove si garantisce, oltre al diritto di fare valere le proprie ragioni in giudizio, anche (ed è questo il punto) il diritto ad una difesa tecnica.

2008/52/CE, l’ambito oggetto di regolazione comunitaria è pressoché coincidente con quello disciplinato dalle norme legislative nazionali ed attuato con il decreto impugnato n. 180/2010, mentre il secondo comma dell’art. 60 della legge delega n. 69/2009 nonché il terzo criterio e principio direttivo prescrivono al legislatore delegato di disciplinare la mediazione nel rispetto ed in coerenza con la normativa comunitaria. Del resto, la direttiva n. 2008/52/CE è stata richiamata espressamente nel preambolo del decreto delegato n. 28/2010. 4 Cfr. sia l’art. 4 della direttiva 2008/52/CE, laddove si dispone che la mediazione “sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti”, sia l’art. 60, lett. b), della legge n. 69/2009: “prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione”. Invece, l’art. 4 del decreto n. 180/2010, nel disciplinare l’iscrizione, a domanda, degli organismi di mediazione, che possono essere costituiti sia da enti pubblici che da enti privati, si limita a prevedere, al secondo comma, una serie di parametri di tipo amministrativo-economicofinanziario (tra cui la capacità finanziaria e organizzativa, il possesso di polizza assicurativa, la trasparenza amministrativa e contabile) e a prescrivere, al terzo comma, una verificazione di tipo “aggiuntivo” sui requisiti di qualificazione dei mediatori, che viene demandata al responsabile del procedimento (“il responsabile verifica altresì i requisiti di qualificazione dei mediatori”), senza essere in alcun modo correlata con le competenze giuridiche oggettivamente richieste dall’attività di mediazione.

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Il legislatore delegante nulla aveva detto circa la necessità di una difesa tecnica nel corso del procedimento di mediazione, però aveva avuto cura di evitare che il suo espletamento potesse avere ripercussioni di sorta sull’esito del processo. Nella legge di delega, infatti, il rifiuto della proposta formulata dal mediatore e poi ritenuta equa dal giudice poteva influire soltanto sul governo delle spese. Nel d.lgs. n. 28/2010, invece, i riflessi del rifiuto della proposta del mediatore si riversano lungo tutto l’iter del successivo giudizio (oltre che sulla disciplina delle spese). Il fatto che alla parte vittoriosa del giudizio di merito, la quale non abbia accettato una proposta conciliativa coincidente con il contenuto della successiva decisione giudiziaria, debbano essere imputate le spese di lite proprie e della controparte, oltre al pagamento di un importo pari al contributo unificato e alle spese di mediazione, costituisce un deterrente dal ricorrere alla tutela giudiziaria. Ciò in quanto, di fronte alla proposta del mediatore, quasi sicuramente la parte preferirà non rischiare e finirà per accettare obtorto collo la soluzione stragiudiziale segnalatagli, anche se non ne è convinta del tutto e anche se la ritenesse ingiusta. Si noti che la parte potrà trovarsi anche di fronte a proposte che, a causa di una possibile impreparazione tecnica del mediatore, potranno rivelarsi assai squilibrate (inconsapevolmente per chi le abbia formulate) a favore di uno dei contendenti. Eppure, nonostante la probabile infondatezza di tali proposte, di fronte allo spettro delle pesanti conseguenze in ordine alle spese la parte potrebbe decidere di precludersi il ricorso a un giudice. Se la mediazione è non tutela di diritti, ma composizione di interessi, evidentemente essa può riuscire solo a condizione che gli interessati scelgano liberamente di intraprendere un simile percorso. Pertanto, è frutto di un errore di prospettiva, oltre che di una logica illiberale, la norma che attribuisce al mediatore la possibilità di esprimere una proposta di conciliazione anche in assenza della richiesta delle parti (con le conseguenze che in materia di spese possono scaturire nel Quaderni

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processo qualora quella proposta non sia accolta). Quel che è più grave, all’art. 8 del d.lgs. n. 28/2010 il Governo ha introdotto la previsione secondo cui dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione possono desumersi argomenti di prova validi nel successivo giudizio di merito5, ai sensi dell’art. 116 c.p.c. In buona sostanza, una scelta che una parte potrà assumere senza la collaborazione di un difensore – vale a dire quella di partecipare oppure no al procedimento di conciliazione – potrebbe condizionare in misura determinante la decisione finale del successivo giudizio di merito. Allora, sono evidenti sia l’eccesso di delega in cui è incorso il legislatore delegato introducendo la possibilità di acquisire elementi di prova pur in assenza di un difensore, sia la violazione del diritto garantito dall’art. 24 Cost., che coincide con il diritto all’assistenza professionale in qualsiasi fase del processo e quindi anche in quelle fasi prodromiche dal cui svolgimento è possibile desumere argomenti di prova. In altre parole, che nel procedimento di mediazione la difesa tecnica, quale che sia il valore della controversia, sia facoltativa sta a significare che chi dispone di risorse economiche sufficienti potrà farsi rappresentare da professionisti esperti, mentre qualcuno dovrà arrangiarsi da solo a discutere una proposta di conciliazione avente ad oggetto, per esempio, un sofisticato prodotto finanziario, perché, non essendo obbligatoria la presenza di un avvocato, non sarà possibile ricorrere al patrocinio a spese dello Stato. Insomma, al cospetto del mediatore un cittadino rischia di ritrovarsi nelle condizioni dell’uomo di campagna del celebre racconto di Franz Kafka: “Poi che la 5 Il comportamento processuale o extraprocessuale delle parti può costituire, infatti, non solo un elemento di valutazione delle risultanze acquisite, ma addirittura l’unica e sufficiente prova idonea a sorreggere la decisione del giudice (così, tra le tante, Cass. 20 giugno 2007 n. 14748).

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porta d’ingresso alla Legge è aperta, come sempre, e il custode si fa da lato, l’uomo si curva per vedere, dalla porta, l’interno. Quando il custode se n’avvede, si mette a ridere e dice: ‘Se ti attira tanto, prova un pò ad entrare nonostante il mio divieto. Fa’ attenzione, però; sono potente, io, eppure sono l’ultimo dei custodi. Ma di sala in sala custodi ci sono uno più potente dell’altro”6. Per l’uomo di campagna queste difficoltà erano inattese, poiché pensava che la Legge dovesse essere accessibile sempre e a chiunque. 2. Concezione concorrenziale dell’avvocato versus concezione garantistica. Muovendo dalle espressioni letterarie – che tuttavia possiedono una valenza rappresentativa dell’antropologia culturale ad esse sottesa – al piano della verifica storica, è facile prevedere che tra i diversi organismi di mediazione si instaurerà una “virtuosa” concorrenza per offrire servizi sempre più tempestivi, efficaci ed economici, con correlata finta professionalità di operatori formati con corsi di poche decine d’ore in tutto. In simili prospettive, per tenere fede al monito di Piero Calamandrei secondo cui “l’avvocato è il simbolo pericoloso della ragione critica, della obiezione ad ogni conformismo”7, è necessario rivendicare la soggettività costituzionale dell’avvocatura, che trova riferimenti impliciti in diverse disposizioni. Il conflitto che può derivare dall’atteggiamento di chi vorrebbe privilegiare la concezione imprenditoriale della professione forense8 F. Kafka, Nella colonia penale e altri racconti, trad. it. a cura di F. Fortini, Einaudi, Torino, 1986, 180. 7 P. Calamandrei, Processo e democrazia, Cedam, Padova, 1954, 130. 8 La concezione concorrenziale rischia di snaturare l’opposta concezione radicata nella tradizione di molti ordinamenti giuridici in cui la professione intellettuale dell’avvocato 6

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può incidere, semmai, sulle modalità di esercizio e sui profili meno caratterizzanti di essa, ma non determina alcuna esigenza di innovare sulla consolidata collocazione dell’avvocato nell’ambito della tutela giudiziaria ed extragiudiziaria dei diritti e degli interessi delle persone. E anche se si volesse considerare l’attività forense come una categoria delle attività produttive di servizi, ciononostante il ruolo dell’avvocatura resterebbe immutato nella sostanza, nelle finalità e nelle esigenze di tutela. Dal disegno del Costituente non emerge alcuna concezione mercantile della professione forense; il che non significa che uno studio professionale singolo o associato non possa configurarsi come una struttura assimilabile (soltanto sotto il profilo organizzativo ed economico) ad un’impresa, ma in questo caso l’impresa è strumentale all’esercizio della professione e lo studio professionale non può essere in alcun modo assimilato ad altre imprese che svolgono attività differenti non costituzionalmente garantite9. Resta fermo, con le parole di Giuseppe Chiovenda, che “meglio di una professione, l’ufficio [degli avvocati] è una funzione, non solo dal punto di vista giuridico, ma politico sociale, perché, stando tra le parti e i giudici, sono l’elemento attraverso cui i rapporti fra l’amministrazione della giustizia e i cittadini possono migliorare, crescendo da un lato l’autorità, dall’altro la fiducia, dal che dipende il miglioramento degli istituti processuali”10. Dunque, il riferimento costituzionale più accreditato è quello all’art. 24, laddove si precisa che “tutti possono agire in giudizio per svolge un ruolo inconfondibile (ciò anche nell’ordinamento inglese, che potrebbe sembrare il più distante da quello italiano). Cfr. G. Alpa, Disciplina delle professioni legali: luci ed ombre della ricetta inglese, in Guida al diritto, 35/2004, 106 ss. 9 G. Colavitti, Interessi pubblici connessi all’ordinamento delle professioni libere: la Corte conferma l’assetto consolidato dei principi fondamentali in materia di professioni, in Giurisprudenza costituzionale, 2005, 4417 ss. 10 G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 1936, vol. II, sez. I, 253.

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la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” (primo comma) e che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (secondo comma). Che tale disposizione copra, costituzionalmente, l’attività dell’avvocato non sembra possa essere revocato in dubbio. Si potrebbe, tuttavia, obiettare che all’affermazione categorica del diritto inviolabile di difesa non si accompagna, nel testo costituzionale, un’indicazione (dotata di pari forza cogente) dei modi di esercizio di quel medesimo diritto. Ciò potrebbe avere la conseguenza di consentire al legislatore, valutata la situazione, i diritti e gli interessi in gioco, di stabilire in quali casi non sia necessaria la difesa tecnica o, addirittura, di eliminarla dai giudizi. Questo ragionamento potrebbe, alla fine, portare a ritenere che la disciplina della professione forense sia nella totale disponibilità del legislatore. La conclusione, però, è priva di fondamento. La semplice possibilità di autodifesa, pur garantita dalla Costituzione, non esclude che la difesa tecnica dell’avvocato sia indispensabile (salvo che in poche, limitate categorie di controversie): nel processo civile la difesa tecnica risulta indispensabile per la stessa costituzione in giudizio e nel processo amministrativo la situazione è analoga11. 11 Del resto, con riferimento alla mediazione occorre considerare che il verbale dell’accordo conclusivo del procedimento, non contrario all’ordine pubblico o a norme imperative, nonché sottoposto ad omologazione, ha efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12, d.lgs. n. 28/2010). Inoltre, l’avvocato ha l’obbligo di informare il proprio assistito, all’atto del conferimento dell’incarico, della “possibilità” di avvalersi della mediazione (art. 4, terzo comma, d.lgs. n. 28/2010; art. 60, lett. n), legge n. 69/2009). La possibilità è, per definizione, diversa dall’obbligatorietà e l’accentuazione di tale differenza non può ritenersi superflua, vertendosi nel campo della deontologia professionale, ovvero in un complesso di obblighi e doveri la cui inosservanza può determinare conseguenze pregiudizievoli in base all’ordinamento civile (risarcimento del danno), amministrativo (sanzioni disciplinari) e pubblicistico (art. 4, comma 4, d.lgs. n. 28/2010), che richiedono l’esatta individuazione del precetto presidiato dalle sanzioni. Lo stesso decreto delegato n. 28/2010 ha dovuto differenziare, al quarto comma dell’art. 4, l’ipotesi in cui l’avvocato omette di informare il cliente della “possibilità” di avvalersi della mediazione, da quella in cui l’omissione informativa concerne i casi in cui “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale”. E ciò ancorché lo stesso art. 4, quarto comma,

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Da un altro punto di vista, non è prevista la possibilità di un rifiuto della difesa tecnica perché tale rifiuto non è garantito dall’art. 24 Cost., essendo il diritto di difesa non soltanto inviolabile, ma anche irrinunciabile. Nel terzo comma dell’art. 24 Cost., secondo cui “sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”, è altresì evidente l’implicita convinzione che un patrocinio, pur se retribuito, debba essere assicurato anche agli abbienti12. Anche i principi costituzionali dell’Unione europea13 depongono nel senso della specificità della professione forense e della sua indispensabile, necessaria strumentalità rispetto alla difesa in giudizio14. Si badi che non si tratta solo di tutela dell’attività giudiziaria, ma anche di quella extragiudiziaria per la semplice ragione che l’attività di consulenza e quella stragiudiziale costituiscono un ambito che, potenzialmente, può rifluire o tracimare nel livello giudiziario e che pertanto condiziona quest’ultimo e, quindi, la difesa inviolabile in giudizio. In altre parole, qualora l’attività stragiudiziale o di consulenza legale non sia svolta dagli avvocati (quel che potrebbe verificarsi non diversifichi la sanzione correlata alle due fattispecie, che sono state entrambe ricondotte all’unica categoria della “violazione degli obblighi di informazione” e all’annullabilità del contratto intercorso tra l’avvocato e l’assistito (nonostante la maggiore gravità della seconda fattispecie omissiva). 12 A proposito del diritto al giudice e alla difesa giudiziaria come diritto fondamentale, costituzionalmente garantito, che è strumento e condizione per la tutela di tutti gli altri diritti, si veda V. Onida, La Costituzione, il Mulino, Bologna, 2004, 74. Sulla funzione “fondante” o “costituente” dell’avvocato difensore, in funzione di libertà, come figura essenziale tra i principali tutori della persona umana, cfr. M. Cioffi, L’avvocato come esperto in strutture di supporto. La funzione costituente e consulente, in Iustitia, 3/1990, 346. 13 Cfr. A. Loiodice, Il diritto pubblico europeo, in A. Loiodice, P. Giocoli Nacci, La Costituzione tra interpretazione e istituzioni, Cacucci, Bari, 2004, 95 ss. 14 Essendo riferiti a un diritto fondamentale quale quello della difesa, i valori costituzionali italiani rappresentano un limite per lo stesso diritto europeo o, secondo altra terminologia, un “controlimite” rispetto al potere di compressione (limitativo) della normativa italiana che viene affidato al diritto europeo con criterio di prevalenza. Cfr. A. Ruggeri, Tradizioni costituzionali comuni e “controlimiti”, tra teoria delle fonti e teoria dell’interpretazione, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2003, 102 ss.

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nel procedimento di mediazione ex d.lgs. n. 28/2010), l’esercizio in futuro del diritto di difesa potrebbe risultare compromesso. L’essenzialità della prestazione forense si estende, pertanto, anche all’attività non contenziosa e la normativa europea non contraddice questa prospettiva15, malgrado l’influenza di una particolare mentalità (condizionata dai differenti ruoli dei solicitors e dei barristers) rischi di relegare l’avvocato nel ruolo imprenditoriale di produttore di servizi, riconducibile all’art. 41 Cost. e non più all’art. 24 Cost., e di svilire le nobili tradizioni che hanno una radice ontologica e connotano l’effettiva funzione dell’avvocatura16. In definitiva, piuttosto che deflazionare il sistema giudiziario, pare che il d.lgs. n. 28/2010 intenda, più modestamente e contro il parere pressoché unanime degli inascoltati avvocati, favorire la pattuizione ad ogni costo pur di sanare un contenzioso tra parti. Questa sorta di componenda, che evoca quella descritta da Andrea Camilleri in uno dei suoi best sellers17, è il contrario di quel che dovrebbe accadere in uno Stato di diritto, che non compone, ma garantisce imparzialmente contro i torti.

15 G. Demuro, Art. 15, in R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto, L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il Mulino, Bologna, 2001, 125 ss. 16 Cfr. M. Clarich, Professioni, compromessi al ribasso, in Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2004. 17 A. Camilleri, La bolla di componenda, Sellerio, Palermo, 31 ed., 2006.

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Relazione sull’attività svolta nell’anno 2010 Roma, 30 marzo 2011 di Guido Alpa* “Gli avvocati che, con le forze della loro difesa, dirimono liti dalle sorti incerte, riparano torti, eliminano ingiustizie, provvedono al genere umano non meno che con battaglie e ferite salvassero patria e congiunti” Giustiniano, Codice, II, 7, xiv

Signor Presidente della Repubblica, Signor Ministro Guardasigilli, Autorità, care Colleghe e cari Colleghi, Signore e Signori, questa relazione cade a cinque mesi dell’insediamento del nuovo Consiglio, sì che nella relazione scritta e nell’appendice di documenti ad essa acclusa si tiene conto dell’attività svolta per gran parte nel corso della precedente Consiliatura: per questo vorrei esprimere gratitudine ai Colleghi che hanno prestato con tanta dedizione e competenza la loro opera nello scorso triennio, consentendo al Consiglio di conseguire gli obiettivi progettati, e accennerò ai progetti già presentati dalle Commissioni nelle quali si sono ripartiti i Consiglieri eletti per il triennio in corso; tra di essi, per la prima volta nella storia della nostra Istituzione, sono state elette contemporaneamente due Colle* Presidente del Consiglio Nazionale Forense.

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ghe, l’avv. Carla Broccardo e l’avv. Susanna Pisano. Sono grato ai dipendenti e ai collaboratori esterni per l’ impegno encomiabile con cui coadiuvano il Consiglio in tutte le sue molteplici e complesse attività. La relazione fa seguito a quella con cui si è aperto il XXX Congresso forense tenutosi a Genova alla fine del novembre scorso e all’intervento svolto in occasione della seduta di inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte di Cassazione. Riprenderò perciò i temi centrali di cui si è trattato in quelle sedi, aggiornandone i dati anche alla luce delle vicende che ci separano da quei recenti eventi. In queste settimane si sono registrati fermenti di contestazione e di critica in molte sedi a causa della entrata in vigore della disciplina della mediazione finalizzata alla conciliazione, ma le preoccupazioni dell’ Avvocatura non sono concentrate solo su questo segmento della complessiva riforma della giustizia: riguardano anche il progetto di esaurimento dei procedimenti civili pendenti e sono alimentate dalla situazione in cui versano le professioni intellettuali nella persistente fase di crisi economica che si è abbattuta sul Paese, nel ritardo segnato dall’iter di approvazione della riforma della professione forense, nel futuro incerto dei giovani avvocati, nei maggiori oneri resisi necessari per salvaguardare il trattamento pensionistico, nel clima di aperta ostilità che circonda, oggi più che mai, l’Avvocatura. Sì che gli avvocati guardano alle loro istituzioni rappresentative con fiducia ma anche con un senso di attesa: si chiede che esse, nei rispettivi ruoli, si facciano tramite delle esigenze della categoria. Oltre alla custodia dei valori sui quali per tradizione ormai secolare si fonda la missione della difesa dei diritti dei cittadini, le istituzioni rappresentative si trovano in questo frangente a dover moltiplicare l’ impegno nella difesa dei diritti degli avvocati. Sono momenti ricorrenti nella storia dell’Avvocatura, come documentano gli atti congressuali con le pagine memorabili di Giuseppe Zanardelli, di Vittorio Emanuele Orlando, di Piero Calamandrei. Quaderni

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Per il Consiglio è un impegno che si affianca a quello proprio del controllo deontologico, e che si risolve nella costruzione non solo della dimensione etica in cui si deve svolgere la missione dell’avvocato ma anche nella costruzione delle regole che riguardano la sua attività, nella costruzione delle regole che stanno alla base del suo ministero nel processo, nella salvaguardia della sua indipendenza e quindi della sopravvivenza stessa dell’Avvocatura. La dimensione etica Nel corso del 2010 sono stati esaminati 308 ricorsi, di cui 84 si sono conclusi con il rigetto, 78 con la declaratoria di inammissibilità, 26 parzialmente accolti, 22 accolti; quanto alle sanzioni, è stata comminata in due casi la radiazione, in tre la cancellazione, in 46 la sospensione, in 26 la censura, in 15 l’avvertimento; i ricorsi pendenti, alla fine del 2010, erano 327; confidiamo, attesa la frequenza delle udienze, di riuscire anche questa volta a concludere l’anno senza arretrato. Desidero esprimere viva gratitudine ai Sostituti Procuratori Generali – attualmente i Consiglieri Massimo Fedeli e Domenico Iannelli, Pasquale Ciccolo e Giovanni Galati – che hanno cooperato alla puntuale ed equa amministrazione della giustizia deontologica; e mi preme sottolineare che nella quasi totalità dei casi le loro conclusioni sono state confermate dalle decisioni del Consiglio. In più, sono ben rare le decisioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno espresso un orientamento divergente rispetto alle decisioni del Consiglio. L’applicazione delle regole del codice deontologico ha registrato orientamenti consolidati: mi riferisco in particolare ai principi affermati in materia di prova del fatto addebitato al professionista, di contestazione degli addebiti e relativa specificazione, di prescrizione

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dell’azione disciplinare, di tassatività degli atti impugnabili dinanzi al Consiglio, di difetto di legittimazione alla rappresentanza processuale, di composizione del collegio, di obbligatorietà della citazione dell’incolpato a comparire e della sua audizione, informazione (e non di pubblicità indiscriminata), ed ai canoni riguardanti il comportamento da tenere con clienti, con i magistrati e con i colleghi, nonché alla corretta applicazione delle regole sulle tariffe. A proposito dei rapporti con i clienti, l’inconsulto abbandono del regime tariffario e la permissività introdotta dall’abrogazione del divieto del patto di quota lite hanno purtroppo agevolato la commissione di illeciti e reso più difficile il compito degli Ordini di vigilare sul comportamento degli iscritti. E tuttavia la consapevolezza della missione svolta e la saldezza dei principi morali che albergano nell’animo di ogni avvocato che abbia prestato giuramento e sappia come il suo comportamento sia monitorato non solo nel corso dell’attività professionale ma possa essere anche sindacato al di fuori di essa, quando sia tale da cagionare disdoro per l’intera categoria, hanno fatto sì che fossero rari i casi percepiti di allontanamento dal rigore espresso dal codice. Il nostro è un codice preso a modello dalle Avvocature di molti Paesi europei, che vi riconoscono un impianto, un complesso di principi, e una descrizione esemplificativa delle fattispecie rilevanti che consentono agli avvocati di trovarvi un breviario semplificato e chiaro dei loro doveri, e agli Ordini un metro di giudizio tendenzialmente uniforme. Si tratta di un codice progressivamente aggiornato mediante il processo ermeneutico, tenendo conto delle istanze e delle correnti che si accompagnano alla evoluzione della società: fenomeno proprio di ogni corpus iuris, particolarmente significativo per una professione votata alla applicazione del diritto.

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La dimensione istituzionale Libertà e autonomia sono fondamentali nell’esercizio della professione forense: non si tratta di una attività certificativa né di una semplice cooperazione all’attività economica, ma di un ministero fondativo dello Stato di diritto: là dove gli avvocati sono un semplice complemento, là dove non possono esprimere la loro voce, là dove vi sono limiti alla loro rappresentanza non vi è democrazia. Sono gli avvocati che pretendono il rispetto dei valori costituzionali, sono gli avvocati che si attivano per l’osservanza del principio di legalità, sono gli avvocati che si espongono in prima linea contro i soprusi, le sopraffazioni, la lesione dei diritti. E per questo intendiamo favorire ogni intervento che sia destinato a riequilibrare il rapporto tra accusa e difesa e a rafforzare il ruolo del difensore nel processo penale. Ma l’attività forense è diventata più complessa nel corso degli ultimi decenni, e solo oggi ne avvertiamo tutto il peso: la complessità delle fonti ci impegna a ricondurre ogni questione ad una trama di regole tra loro non perfettamente coordinate, la pluralità di competenze ci richiede di fare scelte rischiose del giudice da adire, l’incertezza del dettato legislativo ci suggerisce di ricercare i significati più ragionevoli ma molto spesso opinabili, la non frequente univocità degli indirizzi giurisprudenziali ci riserva talvolta soluzioni imprevedibili. E ciò che si può rilevare nel diritto interno si riflette anche nel diritto comunitario, in cui la legislazione è frammentata, le direttive formulate in modo evasivo, le regole attuative talvolta addirittura discorsive, e la giurisprudenza della Corte di Giustizia spesso elusiva dei problemi. Dobbiamo combattere per usare senza errori gli strumenti del mestiere, ma oggi dobbiamo combattere per assicurare l’accesso alla giustizia, per assicurare l’equilibrio dei poteri, per garantire il principio di eguaglianza e per mantenere intatta la nostra libertà. Libertà che si fonda sulla fiducia nel rapporto con il cliente, sul

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segreto professionale, sulla competenza e sul rispetto da parte di ogni istituzione. La dimensione professionale Per l’appunto, non c’è libertà là dove l’avvocato che non partecipi all’azione criminosa sia imputato per avere espresso il suo parere sulla situazione giuridica in cui versa il cliente. Non c’è libertà là dove l’avvocato sia esposto a perquisizioni che annientano il legal privilege; «nel prevedere la possibilità di perquisizioni negli uffici degli avvocati gli Stati sono tenuti a predisporre garanzie speciali al fine di salvaguardare il rapporto di confidenzialità dell’avvocato con il proprio cliente e tutelare così la buona amministrazione della giustizia», ha precisato la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza del 21 gennaio 2010, n. 43757/05, in quanto «gli avvocati occupano una posizione centrale nell’amministrazione della giustizia, dato il loro ruolo di assistenza dei cittadini dinanzi al giudice che permette di qualificarli come “ausiliari” della giustizia». Non c’ è libertà là dove la funzione tipica dell’avvocato sia esercitabile da chi non ha la sua formazione culturale, non ha conseguito il titolo legale, non ha l’esperienza propria degli uomini di legge, non è in grado di decifrare la corretta situazione giuridica in cui versa l’assistito. Non c’è autonomia là dove la categoria non sia in grado di autodisciplinarsi: una disciplina che – si badi – non discende semplicemente dalla libertà associativa, che affida ai probiviri la soluzione delle questioni di contrasto con lo statuto votato dai membri e riservato solo a coloro che sono stati cooptati nella compagine associativa, ma discende da un sistema composito portato da norme costituzionali (artt. 24 e 111 Cost.), norme ordinarie e sub primarie (quali la legge professionale e il suo regolamento attuativo), e norme dettate Quaderni

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dai rappresentanti di secondo grado, eletti dagli Ordini e perciò riconosciuti – non solo formalmente – nel loro ruolo istituzionale. Il bilanciamento tra normativa ordinaria e normativa creata dal Consiglio nazionale forense riposa in ciò: che il legislatore, per assicurare autonomia e libertà all’Avvocatura ha assegnato al Consiglio il compito di tradurre in regole i principi costituenti la cornice dei valori della difesa e dell’assistenza in giudizio e anche nell’attività stragiudiziale. Regole dunque che riguardano la deontologia e la formazione professionale dell’avvocato, inclusi l’obbligo di aggiornamento e la facoltà di specializzazione in determinati settori. Il potere regolamentare, esercitato dal Consiglio in una con gli Ordini forensi e con la consultazione delle Associazioni forensi, è quindi garanzia di libertà: non può essere per intero assorbito dalle competenze del legislatore, né demandato ad atti amministrativi. La dimensione professionale si basa sulla competenza: l’esito registrato dal regolamento sull’aggiornamento professionale è stato altamente positivo, e l’interesse a raggiungere una più elevata qualificazione è testimoniato dalla partecipazione diffusa ai seminari e ai corsi organizzati dagli Ordini e dalle Associazioni, ma anche dal favore con cui sono seguiti i congressi di aggiornamento forense allestiti dal Consiglio. Proprio la scorsa settimana si è celebrata la sesta edizione di questa iniziativa, che ha registrato più di tremila domande di iscrizione, quasi duemila partecipanti, più di un centinaio di relatori in una trentina di tavole rotonde dedicate al “dialogo tra gli avvocati e la giurisprudenza”, in tutti i settori del diritto positivo. La tradizione dei Congressi di aggiornamento forense è divenuta un simbolo dell’impegno con cui gli avvocati ottemperano al dovere di formazione: in particolare i giovani, che hanno compreso come la concorrenza si misuri sul merito, sull’aggiornamento continuo, sulla scelta della strategia difensiva, sull’abilità nella redazione degli atti, sulla corretta interpretazione e applicazione delle sentenze, oltre che naturalmente sulla consulenza stragiudiziale.

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Basta scorrere l’indice dei temi per rendersi conto della sempre più estesa giuridificazione degli interessi e quindi delle competenze richieste agli avvocati. La dimensione sociale La professione forense può contare su due atout: la sua tradizione storica e la sua solidità di base nelle temperie epocali. La tradizione storica è documentata dalla epopea risorgimentale in cui avvocati rivoluzionari, avvocati riformatori, avvocati legislatori hanno gettato le fondamenta dell’unità d’Italia; successivamente, dal rifiuto di asservimento al regime totalitario, dalla rifondazione costituzionale del Paese, dalla difesa del principio di legittimità anche nei momenti più cruciali, negli anni di piombo, e nella lotta alla mafia e alla corruzione, nella lotta per l’accesso alla giustizia in forme appropriate e costituzionalmente adeguate. Il superamento delle temperie epocali ha richiesto un grande spirito di adattamento e di abnegazione. Ma oggi l’Avvocatura è cambiata, nella sua composizione sociale, nell’afflusso di tanti giovani che vedono nel conseguimento del titolo professionale anche una larvata promessa di lavoro, e poi nella considerazione del ruolo della donna nelle professioni, e soprattutto nel contesto dei rapporti economici. L’individualismo proprio di chi difende i diritti impedisce di considerare l’Avvocatura come un’armata compatta di 230.000 unità. Ma il ruolo svolto da ciascuno dei suoi componenti costituisce motivo di preoccupazione e di ostilità da parte di istituzioni, di potentati economici, di altre categorie professionali: nel corso della audizione dinanzi alla Commissione legislativa della Camera dei Deputati ho avuto modo di segnalare l’insistenza con cui si esprimono le critiche o le iniziative ostative (esplicite o sotterranee) di cui è fatta oggetto la nostra categoria specialmente in questo momento. Quaderni

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Nessuna categoria è stata presa di mira come l’Avvocatura nel corso della approvazione dei progetti di riforma di singole professioni: si è tentato di assorbire la disciplina dell’attività forense in un disegno generale delle professioni, stemperandone così i caratteri tipici e svuotandone il rilievo costituzionale; si è tacciata la categoria di corporativismo, dimenticando che il numero degli iscritti agli Ordini è di per sé garanzia di concorrenza; si è criticata la richiesta di ripristino delle tariffe e del divieto del patto di quota lite adducendo che la nostra attività è affine alla produzione di beni e servizi, dimenticando che i diritti costituzionalmente garantiti non sono negoziabili, che la loro difesa tecnica richiede un lungo iter formativo e di esperienza pratica, che nessuno, che abbia pure appreso nozioni di diritto, può sostituirsi a coloro che hanno conseguito la laurea in Giurisprudenza, abbiano frequentato le scuole, abbiano effettuato il tirocinio, abbiano superato l’esame di Stato, abbiano conseguito e mantenuto l’iscrizione all’albo forense. Del pari, si è asserito che la pretesa di veder riconosciuta la riserva in materia di consulenza legale è contraria alla disciplina comunitaria, ignorando sia le regole fissate proprio in sede comunitaria dalle direttive sullo svolgimento della professione forense e sullo stabilimento degli avvocati, sia i principi fatti salvi dalle risoluzioni del Parlamento europeo e dalla Corte di Giustizia. Il testo approvato dal Senato ed ora approdato alla Camera non ha accolto tutte le richieste dell’Avvocatura: un progetto, equilibrato e moderno, che tutte le istituzioni rappresentative, ordinistiche e associative, avevano contribuito con spirito unitario a redigere; nel suo iter il testo è stato modificato, in alcuni punti mutilato. Oggi la riforma è a metà del suo cammino, ma ragioni di urgenza, dovute alle condizioni in cui versa la nostra professione ne richiedono la approvazione sollecita. Troppi affidamenti sono stati dati, troppe delusioni si sono registrate, troppi intoppi si sono dovuti superare: ormai è tempo di

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chiudere il percorso, ed è quindi venuto il momento di superare nell’agone politico le contrapposizioni acute e pregiudiziali, che appaiono del tutto incomprensibili: non si comprende perché la riforma forense sia divenuta terreno di scontro politico anziché strumento di sostegno a chi per sua vocazione e per sua missione difende i diritti dei cittadini. Ai giovani, ai quali si vuole garantire se non un futuro certo almeno un futuro guidato da regole adeguate, si vorrebbe assicurare una formazione universitaria appropriata, ma selettiva, una pratica effettiva, un avvio professionale soddisfacente. Il progetto approvato dal Senato non costituisce un testo ottimale ma avvia un processo di qualificazione che non può attendere migliori formulazioni, stanti la situazione attuale e le attese ormai ineludibili che si sono accumulate nel corso degli anni: anzi, dei decenni, se si pensa che il primo progetto di riforma risale al 1947, un progetto arrivò alla approvazione del Senato e si arenò, numerosi altri testi sono stati oggetto di iniziative legislative senza mai approdare a nulla di concreto. La difesa dei diritti, la mediazione, il recupero dell’arretrato Sulla riforma della giustizia non posso che rinviare alle osservazioni già svolte nella relazione introduttiva del Congresso nazionale, alle parole pronunciate nel corso della inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte di Cassazione, alle posizioni assunte dal Consiglio riguardo alle recenti innovazioni. Il Consiglio valuterà nelle prossime riunioni le regole sul “processo breve” e sulla responsabilità del magistrato. Sulla mediazione questo Consiglio – che per dovere istituzionale non può promuovere iniziative di protesta – ha avuto modo di rilevare che l’attuale disciplina solleva ragioni di perplessità sull’impianto dell’intero sistema, che presenta profili di incostituzionalità, Quaderni

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quanto alla obbligatorietà della composizione della lite, alla mancata previsione dell’assistenza dell’avvocato, ai costi aggiuntivi che si impongono a chi vuole accedere alla giustizia, per gli ostacoli che si frappongono al cittadino che voglia adire il giudice naturale, per le sanzioni a cui sono sottoposte le parti e gli avvocati nelle circostanze previste, per la insufficiente qualificazione dei conciliatori, per la sostanziale preventiva allocazione delle cause ad operatori privati. E per tante altre ragioni che i tempi di questa relazione mi impediscono di declinare. A queste ragioni di merito si aggiungono le difficoltà operative che stanno incontrando gli Ordini forensi nella costituzione degli organismi di conciliazione: la indisponibilità delle aule presso i tribunali, dove dovrebbero collocarsi gli organismi di conciliazione organizzati dagli Ordini forensi secondo le prescrizioni della legge; la carenza di personale e di risorse; l’esiguo numero di conciliatori iscritti agli albi forensi; la difficoltà già riscontrata dagli organismi di conciliazione a dotarsi di copertura assicurativa; la ristrettezza dei tempi per organizzare un servizio efficace e utile a tenere testa alla mole di procedimenti attesa. Tali ragioni hanno indotto il Consiglio a chiedere la proroga di un anno per tutte le materie, come si era proposto nella riunione indetta dal Ministro Guardasigilli, nella quale si è verificata la situazione in atto a distanza di due mesi dall’entrata in vigore del decreto attuativo; verifica che si sarebbe dovuta ripetere a breve distanza di tempo. Considerata la situazione attuale, ribadiamo la necessità di un intervento legislative urgente che riporti la disciplina e il sistema complessivo nell’alveo delle garanzie costituzionali. L’imminenza dell’entrata in vigore della disciplina ha indotto il Consiglio – direttamente, avvalendosi della Scuola superiore dell’Avvocatura, e in collaborazione con gli Ordini forensi – ad organizzare centinaia di incontri e corsi per formare gli avvocati che saranno chiamati ad assistere i cittadini nei procedimenti di mediazione. Il Consiglio ha predisposto un modello di regolamento per gli

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organismi forensi, ha istituito un gruppo di lavoro per poter assistere gli Ordini in questo difficile compito. Si è però preferito coinvolgere competenze diverse da quelle legali, organismi di natura privata, personale avventizio non qualificato, soprattutto ignaro degli aspetti giuridici delle controversie da comporre, sulla base di una nozione errata di conciliazione. Perché così come è stato concepito il sistema si è dato ingresso ad una fase preprocessuale, che del processo ha tutti gli aspetti e che nel processo ordinario susseguente alla mancata definizione porta il suo peso. è facile dire che temiamo la mediazione perché temiamo che essa riduca i nostri redditi, è facile dire che l’alto numero degli avvocati è causa del contenzioso, è facile dire che oggi si può evitare il coinvolgimento degli avvocati, perché le cause sono troppo lunghe e i costi legali troppo alti. è un teorema prospettato in modo subdolo e corporativo: la durata delle cause ha ben altre ragioni, la competitività non si misura sui costi legali, le tariffe sono una garanzia, la necessità di conoscere professionalmente il diritto e di avvalersi di professionisti costituiscono il fondamento della difesa dei diritti e della legalità delle operazioni economiche. Non è un caso che in ogni ordinamento dei Paesi europei si assicuri una disciplina speciale alla professione forense, e si assicurino garanzie – non “barriere” – a chi ha bisogno di giustizia. Sul progetto di recupero dell’arretrato che vede non nell’avvocato ma in magistrati a riposo l’ausiliare del giudice ribadiamo le critiche espresse a proposito del precedente progetto presentato dal Governo e poi opportunamente ritirato: non è con l’ingresso di alcune centinaia di redattori di sentenze che si può risolvere il problema, né con la motivazione sintetica, né con il tirocinio dei giovani presso gli uffici giudiziari, e tanto meno con la imposizione di ulteriori balzelli. Non sono le modifiche ai testi normativi né i palliativi ad essere Quaderni

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risolutori: al Congresso abbiamo presentato le proposte dell’Avvocatura incentrate sull’ampliamento dell’organico, sulla riforma dei giudici onorari, sul reperimento di ingenti risorse finanziarie, sul completamento del sistema processuale informatico, sulla riorganizzazione degli uffici. Abbiamo sempre offerto collaborazione al Governo e al Parlamento per risolvere insieme questi problemi, e l’Avvocatura vuol assumersi la sua parte. Un compito che si deve perseguire uniti, poiché chi aggredisce le Istituzioni forensi impedisce alla categoria di svolgere serenamente e proficuamente il suo ruolo. La collaborazione con le Istituzioni Come dicevo, anziché criticare i testi approvati il Consiglio avrebbe desiderato contribuire alla loro formazione, nella certezza che si sarebbe potuto assicurare un migliore accesso alla giustizia, l’osservanza dei principi costituzionali, l’attuazione del principio di legittimità, e far sì che gli avvocati fossero i protagonisti, insieme con i magistrati, di un rinnovamento del sistema di amministrazione della giustizia. Si è avviata in modo fruttuoso la collaborazione con il Consiglio superiore della Magistratura, soprattutto con riguardo alla formazione comune di magistrati e avvocati e con riguardo alla vigilanza sulle incompatibilità. Ed una collaborazione proficua con la Corte Suprema di Cassazione che va ben al di là della partecipazione al Consiglio direttivo, progettando una articolata attività seminariale concernente la funzione nomofilattica della Corte e il controllo di legittimità.

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Conclusione Questa giornata è per noi singolare non solo perché presenta alle Autorità il Consiglio già operativo nella sua nuova formazione, con le Commissioni, con le Fondazioni e con i programmi di cooperazione per l’attuazione del principio di parità e la tutela delle categorie deboli, le donne e i giovani che svolgono la professione forense, ma anche perché si articola in più iniziative, con cui inauguriamo l’Anno dell’Avvocatura. Questa cerimonia di inaugurazione sarà seguita dalla consegna di borse di studio per i ricercatori che partecipano al progetto di storia dell’Avvocatura, avviato dieci anni fa e progressivamente realizzato con la pubblicazione di rilevanti saggi, con l’allestimento di seminari, con la discussione di tematiche del tutto nuove per la storia del nostro Paese. Il Presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine anno agli Italiani ha detto che “non possiamo come Nazione pensare il futuro senza memoria e senza coscienza del passato”. La lotta per i diritti è racchiusa nel nostro passato ed è il fulcro del presente, dovrà essere la molla propulsiva per il futuro. Al fine di testimoniare i valori per i quali l’ Avvocatura lotta anche nei momenti più difficili si rinnoverà l’impegno a garantire la difesa dei diritti umani e la lotta alle discriminazioni con l’esposizione di alcuni documenti inediti risalenti alla applicazione delle leggi razziali in danno agli avvocati ebrei iscritti agli Albi; Colleghi privati del loro lavoro e dei loro diritti, famiglie private di ogni sostentamento e costrette ad emigrare o a nascondersi per sfuggire alla persecuzione; Colleghi che pagarono il fio di essere ascritti ad una “razza” classificata come “inferiore”. Saranno rievocate alcune figure luminose che si prodigarono con abnegazione a favore dei perseguitati e che continuarono, credendo nei valori del diritto, a coltivarne la cultura anche in circostanze calamitose. Sono grato per le testimonianze e i Quaderni

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documenti ai Colleghi Federico Ascarelli, Giorgio Sacerdoti, Delia Tedeschi, Sally Valobra, alla Università degli Studi di Pisa, al prof. Pinchera e alla signora Fanfani, alla Comunità israelitica di Roma e al presidente Riccardo Pacifici, con cui abbiamo avviato, anche in occasione della mostra organizzata l’anno scorso, una proficua collaborazione. Grazie all’allestimento dei pannelli e del filmato predisposti dall’Ordine degli Avvocati di Torino abbiamo potuto rievocare anche in questa sede la figura del Presidente Avv. Fulvio Croce, assassinato dalle Brigate Rosse per aver assunto la difesa d’ufficio degli imputati, pagando con la vita l’affermazione del diritto-dovere di difesa: una figura luminosa che, percorrendo i sentieri aspri delle garanzie processuali, ha consapevolmente affrontato il rischio del suo ruolo e additato a tutti noi un modello insuperabile di avvocato votato al martirio, come lo furono Francesco Mario Pagano, gli avvocati del Risorgimento, gli avvocati della Resistenza, Giorgio Ambrosoli e tanti altri, incluso il Mahatma Gandhi, con la cui immagine si apre il percorso destinato agli studenti delle scuole superiori che visiteranno la mostra sull’Avvocatura. Queste iniziative guardano al passato ma sono proiettate nel futuro: un futuro che vogliamo più certo e più sicuro per la nostra professione, e non per interesse corporativo, ma nell’interesse dei cittadini e quindi dell’intero Paese. Costruire un futuro migliore con il contributo del Consiglio e di tutte le componenti unite dell’Avvocatura: è un impegno, assunto anche a nome di tutti i Consiglieri, che desidero confermare in questa sede.

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I limiti dell’accesso alle liste elettorali

Commento su TAR Sardegna, sez. II, 17.2.2011, n. 148 di Ottavio Carparelli* Il Tar Sardegna, con sentenza del 17 febbraio 2011, n. 148, ha stabilito che è legittimo il diniego di accesso alle liste elettorali espresso da un ente locale in merito ad una istanza ostensiva avanzata per finalità indicate solo genericamente, e, comunque, non esattamente rientranti tra quelle di cui all’art. 51, co. 5, D.P.R. n. 223 del 20 marzo 1967, come modificato dall’articolo 177, D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali). La decisione dei Giudici di Cagliari afferma, in particolare, quattro importanti principi in materia di diritto di accesso – per ottenerne copia – alle liste elettorali comunali: 1) le liste elettorali, generali e sezionali (comprendenti l’elenco dei cittadini iscritti nel comune aventi diritto al voto) tenute e aggiornate presso i competenti uffici comunali, la cui conoscibilità è sancita dall’art. 51 del D.P.R. n. 223/1967, così come modificato dall’articolo 177, D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, possono essere rilasciate in copia esclusivamente per le finalità indicate nelle suddette norme; 2) compete esclusivamente alla P.A. destinataria della domanda di accesso, entrare nel merito della richiesta ostensiva, e valutare se la specifica finalità dell’utilizzo dei dati contenuti nelle liste, dichiarata dal soggetto accedente, da una parte, sia conforme all’attività * Avvocato del Foro di Brindisi, Avvocatura Comune di Fasano.

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del soggetto medesimo, e, dall’altra, rientri effettivamente tra le ipotesi di cui al citato articolo 177, del d.lgs. n. 196 2003; 3) grava sul soggetto che avanza la domanda di accesso, il preciso onere di indicare specificamente il concreto uso che intende fare dei dati contenuti nelle liste elettorali; 4) deve ritenersi insufficientemente motivata, e, quindi, sostanzialmente inammissibile, una istanza di accesso alle liste elettorali che rechi, quale indicazione del concreto uso che si intende fare dei dati rilevabili dalle medesime liste, il generico e solo richiamo alle espressioni letterali utilizzate dall’art. 51 del D.P.R. n. 223 del 1967, così come modificato dall’articolo 177, D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196. * * * In applicazione dei sopra elencati principi, il TAR Sardegna ha ritenuto legittimo il diniego espresso dall’ente locale, e ha rigettato il ricorso. Nel caso deciso con la sentenza in rassegna (non risulta che constino precedenti in termini), la domanda di accesso agli atti, avanzata dal coordinatore di un Comitato per la difesa del Cittadino, era, in vero, del seguente tenore letterale: “Il nostro Comitato tenta di difendere, e comunque s’interessa di diversi problemi, (la difesa dei piccoli azionisti delle spa, sia quotate che no, le tariffe professionali – di notai, avvocati, commercialisti, ecc. – talvolta ritenute esose, ecc.). Ci servono gli elenchi degli elettori sia per eventualmente agire direttamente nei loro confronti (ogni singolo elettore) per sensibilizzarli sui singoli problemi, sia per tentare d’indirizzarli (in occasione delle elezioni di qualunque tipo), verso candidati e/o partiti, che nei contatti con noi o nelle loro altre manifestazioni, abbiano dimostrato interesse per le nostre rivendicazioni”. Ad avviso del TAR adìto, nella specie, la generica formulazione, da parte del Comitato accedente, del possibile diverso e poliedrico

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utilizzo dei dati contenuti nelle liste elettorali, non consentiva di ricondurre il medesimo utilizzo alle finalità espressamente previste dall’art. 51, d.P.R. n. 223 del 1967, come modificato dall’articolo 177, D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196. Più in dettaglio, secondo il Collegio, la motivazione posta a base della domanda di accesso, nella specie, proprio perché avanzata da un comitato, e proprio perché astratta e generica, non consentiva alla P.A. nemmeno di valutare se l’utilizzo dei dati contenuti nelle liste elettorali, come indicato nell’istanza ostensiva, fosse coerente con l’oggetto dell’attività di tale comitato. La decisione è condivisibile. In merito al primo dei quattro principi affermati dal TAR Sardegna, appare utile sottolineare che – in disparte la questione, che potrebbe essere pure rilevante, se le liste elettorali rientrino o meno nella nozione di “documento amministrativo” espressamente e dettagliatamente fornita dall’art. 22, comma 1, lett. d), l. n.241/1990, nel testo introdotto dall’art. 15 della legge n. 15/2005 – la tesi espressa dal Collegio con la sentenza in esame è iscritta in un ambito coerente con le affermazioni sino ad oggi effettuate da parte della giurisprudenza amministrativa sul diritto di accesso in materia elettorale. Tali affermazioni evidenziano la sussistenza di non secondari limiti all’esercizio del diritto di accesso agli atti elettorali e/o comunque connessi con il procedimento elettorale (cfr., per quanto di ragione, TAR Puglia - Bari, Sez. III, sentenza 8 settembre 2005 n. 3824,  in Lexitalia.it n. 9/2005, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/tarpugliaba3_2005-09-08.htm che esclude il diritto di accesso nei confronti delle schede elettorali). In merito al secondo, al terzo e al quarto principio sopra elencati, in linea con la limitatezza del diritto di accedere agli atti della P.A. in materia elettorale, si osserva, che, come è noto, la legge n. 241 del 1990, e s.m.i. statuisce l’obbligo del pubblico funzionario di assicurare l’accesso ai documenti amministrativi. Quaderni

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Discende che, in materia di accesso agli atti ex artt. 22 e segg. della legge c.d. sul procedimento amministrativo, è evidente l’assenza di discrezionalità della P.A. circa il diritto del privato di accedere alla conoscenza richiesta, ferma restando, ovviamente, la valutazione circa la sussistenza della situazione soggettiva indicata dalla legge ai fini dell’esercizio del diritto di accesso medesimo. Nel caso, invece, di istanza ostensiva tendente ad ottenere copia delle liste elettorali, ex art. 51, D.P.R. n. 223 del 20 marzo 1967, come modificato dall’articolo 177, D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, torna ad espandersi la “forza” della nota discrezionalità della P.A. che ha la possibilità, rectius, l’obbligo di: a) entrare nel merito della richiesta di accesso; b) valutare se la specifica finalità dell’utilizzo dei dati contenuti nelle liste, indicata dal soggetto accedente, per un verso, sia in armonia con l’attività del soggetto medesimo, e, per l’altro, sia riconducibile effettivamente alle ipotesi di cui al citato articolo 177, del d. lgs. n. 196 2003. Correttamente dunque, il TAR Sardegna, nella specie, ha rigettato il ricorso, anche in considerazione del fatto che, ove non si dovesse osservare l’elenco – verosimilmente tassativo – delle finalità elencate dall’art. 177 del d.lgs. n. 196 del 2003, per le quali è consentito l’accesso alle liste elettorali, e, soprattutto, ove si consentisse all’accedente di non specificare, in concreto, l’uso per il quale è avanzata la domanda di accesso, l’istanza ostensiva potrebbe agevolmente risolversi, di fatto, in una inammissibile disamina generale dell’attività, ovvero di una banca dati della P.A. E ciò è espressamente vietato dall’art. 24 della legge n. 241 del 1990, nel testo introdotto dall’art. 16 della legge n. 15 del 2005, che al comma 3, testualmente dispone: “3. Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”. Quanto appena osservato, può assumere maggiore valenza se si considera che il Comitato accedente, nel caso esaminato, aveva mo-

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tivato l’istanza ostensiva, tra l’altro, evidenziando di voler: “tentare” d’indirizzare i cittadini (in occasione delle elezioni di qualunque tipo), verso candidati e/o partiti, che nei contatti con noi o nelle loro altre manifestazioni, abbiano dimostrato interesse per le nostre rivendicazioni”. Il che depone significativamente per una assoluta astrattezza e genericità del futuro utilizzo dei dati contenuti nelle liste. * * * In conclusione, si osserva che l’accesso alle liste elettorali nella forma della mera visione deve ritenersi sempre consentito e non occorre uno specifico provvedimento della P.A., essendo sufficiente la presentazione di una istanza o di una richiesta, anche verbale, di “accesso” intesa come sola “consultazione”. Per quanto riguarda invece la richiesta di rilascio di copie, secondo il TAR Sardegna, pur essendo le liste elettorali documenti pubblici e sempre consultabili, non possono essere rilasciate a chiunque. Il rilascio di copie, infatti, non solo deve ritenersi consentito esclusivamente nella materie di elettorato attivo e passivo, di studio, di ricerca statistica, scientifica o storica, o carattere socio assistenziale, o per il perseguimento di un interesse collettivo o diffuso, ma può ottenersi a condizione che l’accedente specifichi espressamente il successivo concreto utilizzo che dei dati contenuti nelle liste intenda effettuare; infatti, soltanto alla stregua di tale specificazione, la P.A. potrà ponderatamente valutare se tale concreto utilizzo sia riferibile o meno alle sopra riportate materie o finalità. TAR SARDEGNA, SEZ. II - sentenza 17 febbraio 2011 n. 148 - Pres. Panunzio, Est. Lensi - Porcu (in proprio) c. Comune di Monastir (Ca) (n.c.) - (respinge). Atto amministrativo - Diritto di accesso - Nei confronti delle liste elettorali comunali - Limiti previsti dall’art. 51 del D.P.R. Quaderni

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n. 223 del 20 marzo 1967, come modificato dall’articolo 177 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196 - Individuazione - Istanza di accesso presentata da un comitato civico - Tendente ad ottenere copia delle liste elettorali -  Per finalità generiche e comunque diverse da quelle ammesse dalla legge - Rigetto - Legittimità. Dispone l’art. 51 del D.P.R. 20 marzo 1967 n. 223, così come modificato dall’art. 177 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, che: “Le liste elettorali possono essere rilasciate in copia per finalità di applicazione della disciplina in materia di elettorato attivo e passivo, di studio, di ricerca statistica, scientifica o storica, o carattere socio-assistenziale o per il perseguimento di un interesse collettivo o diffuso”. è pertanto legittimo, ai sensi di tale norma, il rigetto di una domanda di accesso, avanzata dal coordinatore di un comitato di difesa dei cittadini, tendente ad ottenere copia delle liste elettorali comunali aggiornate all’ultima revisione, motivata con riferimento alla generica necessità di conoscere i dati dei cittadini ivi contenuti, per usarli nelle attività di tutela dei relativi diritti, atteso che tale motivazione non rientra nelle finalità ammesse dalla suindicata norma. N. 00148/2011 REG.PROV.COLL. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 882 del 2010, proposto da: Gian Paolo Porcu, in proprio, con domicilio eletto presso il medesimo, in Cagliari, via Millelire N. 1; contro

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Il Comune di Monastir, in persona del legale rappresentante in carica, non costituito in giudizio; per l’annullamento del diniego all’accesso alle liste elettorali comunali e per la condanna dell’amministrazione comunale a consegnare al ricorrente copia delle liste elettorali aggiornate. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 14 dicembre 2010 il dott. Marco Lensi e udito il ricorrente Gian Paolo Porcu, come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con istanze in data 27 maggio 2010, 10 giugno 2010, 17 giugno 2010, 28 giugno 2010 e 6 luglio 2010, il ricorrente, sia in proprio, sia quale coordinatore del Comitato difesa del Cittadino, ha avanzato richiesta al Comune di Monastir di rilascio di copia delle liste elettorali del comune medesimo aggiornate all’ultima revisione. Il comune intimato con provvedimenti del 9 giugno 2010, 1 luglio 2010 e 2 agosto 2010 ha rigettato la richiesta del ricorrente. Col ricorso in esame il ricorrente chiede l’annullamento del diniego all’accesso alle liste elettorali comunali e la condanna dell’amministrazione comunale a consegnare al ricorrente copia delle liste elettorali aggiornate. Non si è costituita in giudizio l’Amministrazione comunale intimata. Alla camera di consiglio del 14 dicembre 2010, su richiesta del ricorrente, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO Col ricorso in esame si chiede l’annullamento del diniego all’accesso alle liste elettorali comunali e la condanna dell’amministraQuaderni

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zione comunale a consegnare al ricorrente copia delle liste elettorali aggiornate. Il ricorso è infondato. Deve ritenersi la legittimità delle motivazioni poste dal comune a fondamento del diniego della richiesta del ricorrente di rilascio di copia delle liste elettorali, così come formalizzate nel provvedimento del comune del 1 luglio 2010 prot. 5604 e successivamente ribadite col provvedimento del 2 agosto 2010 protocollo 6722. Esattamente nel provvedimento del 1 luglio 2010 si precisa che il nuovo testo dell’articolo 51 del D.P.R. n. 223 del 20 marzo 1967, così come modificato dall’articolo 177 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, stabilisce che le liste elettorali possono essere rilasciata in copia solamente per le finalità indicate dalla norma medesima. Ugualmente esatta risulta l’ulteriore affermazione secondo cui spetta all’amministrazione destinataria dell’istanza (in questo caso al comune) “entrare nel merito della richiesta e valutare se la specifica finalità del loro successivo utilizzo, dichiarata da parte del richiedente, sia conforme all’attività del soggetto medesimo, nonché se rientri effettivamente tra le ipotesi di cui al citato articolo 177/2003”. Deve infatti ritenersi che sia preciso onere del richiedente di indicare chiaramente e specificatamente nella propria istanza l’uso che intende fare dei dati delle liste elettorali, non essendo assolutamente sufficiente il richiamo alle espressioni generali utilizzate dalla disposizione in esame per indicare le finalità consentite. In sostanza, il richiedente deve indicare chiaramente e specificatamente il concreto uso che intende fare dei dati delle liste elettorali, spettando poi al soggetto che deve applicare la norma (il comune e in seconda istanza il giudice), di valutare e stabilire se tale concreto utilizzo rientra o meno nelle finalità ammesse dalla norma di legge. Ciò premesso, rileva il collegio che nelle varie istanze e note del ricorrente indirizzate al comune, non risulta una indicazione chiara, specifica e soprattutto univoca dell’utilizzo che si intende fare dei

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dati delle liste elettorali in questione, dovendosi ritenere che l’indicazione più chiara e attendibile dell’utilizzo dei dati in questione sia, in realtà, contenuta nella prima richiesta del ricorrente del 27 maggio 2010, allorché la posizione dell’istante non risultava “influenzata” dal contenuto della successiva corrispondenza intercorsa col comune. In tale prima istanza del ricorrente, si precisa che “Il nostro Comitato tenta di difendere, e comunque s’interessa di diversi problemi, (la difesa dei piccoli azionisti delle spa, sia quotate che no, le tariffe professionali – di notai, avvocati, commercialisti, ecc. – talvolta ritenute esose, ecc.). Ci servono gli elenchi degli elettori sia per eventualmente agire direttamente nei loro confronti (ogni singolo elettore) per sensibilizzarli sui singoli problemi, sia per tentare d’indirizzarli (in occasione delle elezioni di qualunque tipo), verso candidati e/o partiti, che nei contatti con noi o nelle loro altre manifestazioni, abbiano dimostrato interesse per le nostre rivendicazioni.” Ciò stante, considerato che, in forza dell’articolo 51 del D.P.R. n. 223 del 20 marzo 1967, così come modificato dall’articolo 177 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, “Le liste elettorali possono essere rilasciate in copia per finalità di applicazione della disciplina in materia di elettorato attivo e passivo, di studio, di ricerca statistica, scientifica o storica, o carattere socio-assistenziale o per il perseguimento di un interesse collettivo o diffuso”, ritiene il collegio che l’utilizzo indicato dal ricorrente risulti astratto e generico e, come tale, non riconducibile alle finalità di legge. Per le suesposte considerazioni, il ricorso deve essere respinto perché infondato. Nessuna determinazione deve essere adottata in ordine alle spese del giudizio, non essendosi costituita l’amministrazione comunale intimata.

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P.Q.M. definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Nulla per le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 14 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati: Rosa Maria Pia Panunzio, Presidente Francesco Scano, Consigliere Marco Lensi, Consigliere, Estensore DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 17/02/2011.

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Avvalimento “esteso” alla certificazione di qualità

Commento su TAR Campania - Salerno, sez. I, 29.4.2011, n. 813 di Ottavio Carparelli* Il TAR Campania - Salerno, con la sentenza in rassegna, ha ritenuto, tra l’altro, che è possibile, per una società, utilizzare – al fine di partecipare ad una gara di appalto indetta con procedura aperta – l’istituto dell’avvalimento, ex art. 49, d. lgs. n. 163 del 2006, per dimostrare il possesso della certificazione di qualità richiesta dalla lex specialis. A seguito della disamina della vicenda da cui prende le mosse la sentenza, è emerso che la questione erta stata sollevata dalla ditta ricorrente incidentale, secondo la quale la ditta ricorrente principale non avrebbe potuto far ricorso all’avvalimento di impresa ausiliaria, ex art. 49, D. Lgs. n. 163/2006 in relazione alla certificazione del sistema di qualità aziendale UNI EN ISO 9000 richiesta dal bando di gara; e ciò sul rilievo che la certificazione di qualità costituisce requisito soggettivo che, per tale carattere, deve essere posseduto direttamente dal concorrente aspirante all’appalto, come affermato dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Parere (n. 254/2008). Il Collegio è stato di diverso avviso. Il TAR adìto ha dato lealmente atto del fatto che, in merito alla questione sollevata dal ricorrente incidentale, esistono tre orientamenti giurisprudenziali, di recente formazione, espressamente richiamati: * Avvocato del Foro di Brindisi, Avvocatura Comune di Fasano.

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a) uno restrittivo, fondato sul noto concetto secondo il quale la certificazione di qualità, essendo finalizzata a garantire che l’impresa aggiudicataria esegua il contratto secondo un livello minimo di prestazioni accertato da un organismo qualificato, debba essere ricondotta nel novero dei requisiti di ordine soggettivo di affidabilità che dovrebbero, in via di principio, essere posseduti necessariamente da chi esegue effettivamente la prestazione (TAR Sardegna, sezione I, 6 aprile 2010, n. 665). b) uno estensivo (TAR Basilicata, 3 maggio 2010, n. 220), presidiato dalla ratio dell’allargamento della concorrenzialità tra imprese sottesa al medesimo istituto dell’avvalimento; c) uno intermedio (TAR Campania Napoli, sez. I, 2 febbraio 2011, n. 644), che distingue tra c.d. avvalimento operativo, di indiscussa portata generale, e c.d. avvalimento di garanzia che è figura nella quale l’ausiliario mette in campo solo la propria solidità economica e finanziaria a servizio dell’aggiudicataria ausiliata ampliando così lo spettro della responsabilità per la corretta esecuzione del contratto. Il Collegio ha finito con l’aderire all’orientamento estensivo, secondo il quale deve escludersi che la certificazione di qualità possa ritenersi a priori sottratta all’istituto dell’avvalimento ex art. 49, d. lgs. n. 163 del 2006. Al riguardo, il TAR di Salerno ha affermato che, come è noto, il possesso della certificazione di qualità, garantisce la qualità nell’esecuzione dell’appalto, e non soltanto l’idoneità professionale soggettiva del concorrente. Ha aggiunto, sostanzialmente, che l’avvalimento è ormai divenuto un istituto ad automatica applicazione nel settore delle pubbliche gare, cui puo’ ricorrersi anche in mancanza di specifica prescrizione del bando di gara, a tal punto che tale istituto è divenuto la regola e le sue limitazioni l’eccezione. Dunque, se l’avvalimento è la regola, non è corretto ritenere – secondo il Collegio – che la certificazione di qualità debba necessaria-

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mente far capo esclusivamente al concorrente-impresa appaltatrice, con conseguente impossibilità di ausilio per il medesimo avvalimento. La sentenza in rassegna appare condivisibile sia perché in armonia con i principi comunitari (l’avvalimento è un istituto di derivazione comunitaria), sia perché in linea con la recentissima decisione del Consiglio di Stato, Sez. III,  18 aprile 2011, n. 2344, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/11/cds3_2011-04-18-2.htm (di portata sicuramente innovativa, in quanto in contrasto con l’indirizzo espresso dall’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici con parere n. 254 del 10 dicembre 2008), che ha positivamente statuito proprio in merito alla possibilità di ricorrere all’avvalimento, in sede di gara, per dimostrare il possesso di requisiti anche di carattere soggettivo, come la certificazione di qualità UNI EN ISO. Al riguardo, tuttavia, non può essere sottaciuto, che la decisione del Consiglio di Stato appena richiamata, nell’affermare, astrattamente, la possibilità di fare ricorso all’avvalimento anche per i requisiti soggettivi di altre imprese, ha evidenziato le concrete difficoltà in merito alla dimostrazione, in sede di gara, della disponibilità effettiva. Pertanto, il Massimo Organo di giustizia amministrativa ha precisato che è insufficiente un contratto che, genericamente, contempli soltanto la messa a disposizione della certificazione UNI EN ISO dell’ausiliaria, con l’assunzione di responsabilità solidale nei confronti della P.A., senza concreti riferimenti all’utilizzabilità della struttura aziendale di riferimento. Secondo il CdS, quindi, il contratto di avvalimento, per essere considerato adeguato a soddisfare i requisiti soggettivi di ammissione alla gara, necessita di una ulteriore condizione, e cioè quella secondo cui l’accordo deve obbligatoriamente indicare la concreta “cessione” dei mezzi organizzativi correlati al conseguimento della certificazione. Quaderni

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* * * Si consolida, in ogni caso, l’orientamento favorevole all’applicazione dell’istituto dell’avvalimento, ex art. 49 del Codice dei contratti pubblici, anche al requisito soggettivo della certificazione di qualità, in armonia con la normativa comunitaria caratterizzata da aspetti di particolare flessibilità e particolarmente preoccupata di non limitare in alcun modo la concorrenza, estendendo al massimo il concetto di operatore economico. Discende che con la sentenza del Consiglio di Stato sopra richiamata, e con l’annotata pronuncia del TAR Campania - Salerno, diviene ormai maggioritario e, per alcuni profili dirompente (contrasto con il parere espresso dall’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici), l’orientamento secondo il quale pretendere di verificare obbligatoriamente il possesso del requisito della certificazione di qualità negli avvalsi, potrebbe diminuire il ricorso da parte dei soggetti della direttiva 2004/18, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, all’istituto dell’avvalimento e la loro partecipazione alle gare. TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I - sentenza 29 aprile 2011 n. 813 - Pres. ff. Guadagno, Est. Minichini - SO.GE.A.S. s.r.l. (Avv. Marenghi) c. Comune di Scampitella (n.c.) e Puopolo Costruzioni s.r.l. (Avv. Lentini) - (accoglie il ricorso principale e respinge i ricorsi incidentali). 1. Contratti della P.A. - Gara - Esclusione - Riferimento al fatto che l’impresa interessata ha fatto ricorso all’avvalimento per dimostrare il possesso della certificazione di qualità - Illegittimità - Ragioni. 2. Contratti della P.A. - Gara - Esclusione - Per mancata allegazione all’offerta economica del documento di identità - Nel

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caso di clausola del bando non inequivoca e di produzione di due documenti di identità allegati alla documentazione tecnica ed a quella amministrativa - Illegittimità - Ragioni - Riferimento al principio del favor partecipationis. 1. è illegittima l’esclusione di una ditta da una gara per l’affidamento di un appalto di lavori, che sia motivata con riferimento al fatto che la ditta interessata, al fine di dimostrare il possesso della certificazione di qualità UNI EN ISO 9000, espressamente richiesta dal bando di gara per la partecipazione, ha fatto ricorso all’avvalimento di impresa ausiliaria ex art. 49, d. lgs. n. 163 del 2006 (Codice dei Contratti pubblici); va, infatti, attribuita valenza all’osservazione, di ordine teleologico, per cui, in materia, debba privilegiarsi un criterio ermeneutico sostanziale, per il quale, essendo la certificazione di qualità comunque intesa a garantire la (obiettiva) qualità dell’adempimento e non solo la (mera e soggettiva) idoneità professionale del concorrente pur sempre strumentale alla prima, è erroneo postulare (una volta chiarito che l’avvalimento è la regola e le sue limitazioni le eccezioni) che la detta certificazione debba necessariamente far capo (salvo il riscontro di abusi e la doverosa verifica di effettività) unicamente al concorrente con conseguente impossibilità di ausilio per avvalimento. 2. è illegittima l’esclusione di una ditta da una gara di appalto di lavori, per omessa produzione – in allegato all’offerta economica – della fotocopia del documento di identità dell’offerente, nel caso in cui, da una parte, la relativa clausola del bando non sia inequivoca in merito alla necessità che i concorrenti alleghino all’offerta economica la copia fotostatica del documento di identità dell’offerente, ed alla conseguente automatica sanzione espulsiva dalla procedura, in caso di omessa allegazione dello stesso documento, e, dall’altra, il concorrente interessato abbia comunque allegato due documenti di identità alla documentaQuaderni

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zione tecnica ed a quella amministrativa; in tal caso, infatti, soccorre il principio del favor partecipationis. N. 00813/2011 REG.PROV.COLL. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1405 del 2010, integrato da motivi aggiunti, proposto dalla s.r.l. SO.GE.A.S., rappresentata e difesa dall’avv. Gherardo Maria Marenghi con domicilio eletto presso lo stesso a Salerno in via Velia n.15; contro Comune di Scampitella, in persona del Sindaco p.t. – non costituito in giudizio – nei confronti di s.r.l. Puopolo Costruzioni, rappresentata e difesa dall’avv. Lorenzo Lentini con domicilio eletto presso lo stesso a Salerno in Corso G. Garibaldi n. 103; per l’annullamento, previa sospensione, - quanto al ricorso principale: 1) della determinazione dirigenziale n. 116 del 31/8/2010, di esclusione della società ricorrente dalla gara per l’appalto dei lavori di riqualificazione urbana del Borgo Guardiola del Comune di Scampitella e di aggiudicazione provvisoria della stessa alla s.r.l. Puopolo Costruzioni; 2) del verbale di gara n. 5 del 30/8/2010; 3) del punto XI.4 comma 1 del bando di gara, prevedente l’esclusione dalla gara per mancata allegazione all’offerta economica del documento d’identità dei concorrenti; - quanto al ricorso con motivi aggiunti: del punto XI.2.2 del bando di gara.

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Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti l’atto di costituzione in giudizio ed il ricorso incidentale della s.r.l. Puopolo Costruzioni; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 gennaio 2011 il dott. Ferdinando Minichini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO I) Con ricorso notificato il 9 settembre 2010, depositato il 14 successivo, la s.r.l. SO.GE.A.S. ha impugnato gli atti con i quali è stata esclusa dalla gara per l’appalto dei lavori di riqualificazione urbana del Borgo Guardiola indetta dal Comune di Scampitella, nonché quelli di aggiudicazione provvisoria della gara alla s.r.l. Puopolo Costruzioni, nonché la norma XI.4 comma 1 del bando. Vengono dedotti i seguenti motivi di gravame: 1) violazione degli artt. 38 e 44 del D.P.R. 28/12/2000 n. 445 in combinato disposto con l’art. 18 della legge 21/7/2000 n. 205 e dell’art. 46 del D.Lgs. 12/4/2006 n. 163, assumendosi che la mancata allegazione all’offerta economica del documento d’identità rappresenta irregolarità e non omissione sanzionabile con l’esclusione dalla gara; 2) violazione dell’art. 46 del D.Lgs. 12/4/2006 n. 163, sostenendosi la sussistenza dei presupposti per l’integrazione documentale, nonché l’illogicità della norma applicata dalla Stazione appaltante. II) Con ricorso incidentale, notificato il 24 settembre e depositato il 30 successivo, la controinteressata s.r.l. Puopolo Costruzioni, deducendo la violazione dell’art. 42 del D.Lgs. 12/4/2006 n. 163 e dei punti V.2 e XI.2.2 lett. “g” del bando di gara, ha sostenuto che la ricorrente principale non può essere ammessa alla gara anche per mancata allegazione alla domanda di partecipazione della certificaQuaderni

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zione di qualità UNI EN ISO 9000, precisando che al riguardo non è ammissibile l’avvalimento; e, deducendo la violazione del punto IX e della Sezione VI in relazione al punto XI.2 del bando di gara e dell’art. 97 Cost., ha rilevato l’omissione di dichiarazioni prescritte per l’avvalimento esercitato dalla ricorrente principale e l’apertura dell’offerta tecnica della stessa in seduta pubblica e non riservata. La SO.GE.A.S. ha controdedotto al ricorso incidentale ed ha insistito per l’accoglimento dell’impugnativa principale con le memorie depositate il 4 ottobre 2010; e la conrointeressata ha insistito per il rigetto del ricorso principale con la memoria depositata il 5 ottobre 2010. III) Nella Camera di Consiglio del 7 ottobre 2010 è stata fissata, a norma dell’art. 119 comma 3 del c.p.a., la discussione del merito dei ricorsi nell’odierna udienza. IV) Con atto con motivi aggiunti, notificato il 19 ottobre 2010 e depositato 22 seguente, la s.r.l. SO.GE.A.S. ha impugnato la norma XI 2.2 del bando di gara, ribadendosi le censure dedotte col ricorso principale. V) La controinteressata s.r.l. Puopolo Costruzioni, con ulteriore ricorso incidentale notificato il 19 novembre 2010 e depositato il 23 successivo, ha dedotto ancora la violazione dell’art. 76 del D.Lgs. 12/4/2006 n. 163 e dei punti V.2 e XI.2.2 lett. “g” e XI. 3 del bando, per contrasto con la normativa legislativa e di gara della proposta di migliorie della ricorrente principale. VI) La Puopolo Costruzioni ha depositato consulenza tecnica in data 22 dicembre 2010; ed entrambe le parti hanno ulteriormente ribadito le proprie difese con le memorie del 28 dicembre 2010. VII) Nell’odierna udienza le impugnative sono state trattenute per la decisione. DIRITTO I) La s.r.l. SO.GE.A.S., col ricorso principale, ha impugnato gli atti con i quali è stata esclusa dalla gara per l’appalto dei lavori di

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riqualificazione urbana del Borgo Guardiola indetta dal Comune di Scampitella e coi quali la gara è stata provvisoriamente aggiudicata alla s.r.l. Puopolo Costruzioni, nonché il punto XI.4 comma 1 del bando; e, col ricorso con motivi aggiunti, la norma XI 2.2 del bando. I.1) Il provvedimento di esclusione è stato adottato in ragione della mancata allegazione all’offerta economica del documento d’identità del dichiarante. I.2) Ai fini della sussistenza dell’interesse a ricorrere la ricorrente afferma che, senza l’esclusione dalla gara, risulterebbe aggiudicataria dell’appalto. II) Hanno precedenza d’esame i ricorsi incidentali dell’aggiudicataria controinteressata s.r.l. Puopolo Costruzioni. II.1) Col primo motivo di gravame del primo ricorso incidentale, la Puopolo assume che la ricorrente principale non può ricorrere all’avvalimento di impresa ausiliaria previsto dall’art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006 a riguardo della certificazione del sistema di qualità aziendale UNI EN ISO 9000 richiesta dal bando di gara, trattandosi di requisito soggettivo che per tale carattere deve essere posseduto direttamente dal concorrente aspirante all’appalto, ed a conforto richiama il parere (n. 254/2008) in tal senso espresso dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. II.1.1) L’esame della censura richiede un breve excursus degli orientamenti giurisprudenziali in materia che, invero, non sono univoci e vanno da un’interpretazione rigorosa del suddetto art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006 prevedente l’istituto dell’avvalimento ad altra estensiva includente la possibilità per il concorrente all’appalto di essere ausiliato anche nei casi come quello in esame, di avvalimento di certificazioni non strettamente ed intrinsecamente inerenti alle qualità soggettive dell’appaltatore. II.1.2) L’orientamento restrittivo ha origine dal diffuso concetto che la certificazione di qualità, essendo volta ad assicurare che Quaderni

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l’impresa svolga il servizio secondo un livello minimo di prestazioni accertato da un organismo qualificato, debba essere ricondotta nel novero dei requisiti di ordine soggettivo di affidabilità che dovrebbero, in via di principio, essere posseduti da chi esegue effettivamente la prestazione (TAR Sardegna, sezione I, 6 aprile 2010, n. 665). II.1.3) L’orientamento estensivo (TAR Basilicata, 3 maggio 2010, n. 220), avvalorato dalla ratio dell’allargamento della concorrenzialità tra imprese sottesa all’istituto in discussione, osserva che: - la disciplina dell’art. 49 non pone alcuna limitazione all’avvalimento se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, risultando con ciò preclusa alle amministrazioni la possibilità di operare restrizioni al suo utilizzo e, pertanto, per una ragione logica, prima ancora che giuridica, dovrebbero essere insuscettibili di avvalimento i soli requisiti generali di cui agli artt. 38 e 39 del Codice degli appalti, ossia quei requisiti di onorabilità, moralità e professionalità intrinsecamente legati al soggetto e alla sua idoneità a porsi come valido e affidabile contraente per l’Amministrazione; e, dunque, ad eccezione di tali requisiti, all’istituto dell’avvalimento dovrebbe riconoscersi portata generale, in quanto posto a presidio della libertà di concorrenza, in modo da rimuovere ogni ostacolo al libero esercizio dell’imprenditorialità in ambito Comunitario e da garantire la massima partecipazione alle procedure di gara e la par condicio dei concorrenti; - il requisito della certificazione di qualità – in quanto riconnesso semplicemente ad una procedura con la quale un soggetto verificatore esterno all’impresa, terzo e indipendente e a ciò autorizzato, fornisce attestazione scritta che un’attività, a seguito di valutazione, sia conforme ai requisiti specificati da norme tecniche, garantendone la validità nel tempo attraverso un’adeguata sorveglianza – dovrebbe essere acquisito come requisito speciale di carattere (pur sempre) tecnico-organizzativo e come tale suscettibile di avvalimento, atteso che il contenuto dell’attestazione concerne, in sostanza, il sistema

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gestionale dell’azienda e l’efficacia del suo processo operativo e garantisce la stazione appaltante nella fase esecutiva del contratto, in quanto mira ad assicurare che l’impresa esegua l’attività oggetto dell’appalto secondo un livello minimo di prestazioni; ed, a voler diversamente opinare, si determinerebbe l’implausibile esclusione di alcuni soggetti operanti nel medesimo settore dalla possibilità di aggiudicazione di determinati contratti pubblici, comprimendo la loro libertà d’impresa e la possibilità di incrementare esperienza e capacità professionale; - il terzo che “presti”, in via di ausiliatore, la propria certificazione di qualità, non si limita al prestito del solo “documento” contenente la certificazione, ma si obbliga a mettere a disposizione dell’impresa concorrente, nella fase di esecuzione del contratto, il complesso della propria organizzazione aziendale ovvero il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, e siffatta obbligazione vale a garantire l’interesse dell’Amministrazione ad ottenere la garanzia qualitativa di un certo livello minimo di prestazioni per la gestione dell’appalto, risultando, per ciò solo ed in definitiva, ben possibile che l’impresa concorrente assuma le vesti di un mero centro di imputazione di rapporti giuridici e limiti la sua attività al coordinamento delle prestazioni dell’impresa ausiliaria; - del resto, la legge prevede che, nell’ipotesi in cui il soggetto affidatario dell’appalto non disponga del complesso organizzativo dell’impresa ausiliaria o questa si rifiuti di metterlo a disposizione, sussiste una responsabilità di carattere solidale tra l’impresa concorrente e l’impresa ausiliaria. II.1.4) Un orientamento intermedio, poi (TAR Campania Napoli, sez. I, 2 febbraio 2011, n. 644), distingue tra c.d. avvalimento operativo, di indiscussa portata generale, e c.d. avvalimento di garanzia che è figura nella quale l’ausiliario mette in campo solo la propria solidità economica e finanziaria a servizio dell’aggiudicataria ausiliata ampliando così lo spettro della responsabilità per la corretta Quaderni

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esecuzione del contratto; quest’ultima figura, però, proprio per la sua peculiare funzione di estensione della base patrimoniale della responsabilità da esecuzione dell’appalto, potrebbe essere ontologicamente ammesso solo con la dimostrazione del possesso di idonei requisiti economici e finanziari (come nel caso del volume di affari o del fatturato) perché solo in tal caso si palesa idoneo a dispiegare l’apprezzabile funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner che goda di una complessiva solidità patrimoniale proporzionata ai rischi dell’inadempimento della prestazione dedotta nel contratto, mentre, al di fuori di tale ipotesi, la mera messa a disposizione di requisiti soggettivi e astratti (svincolata da ogni collegamento con risorse materiali o immateriali) snaturerebbe l’istituto per piegarlo ad un logica di elusione dei requisiti stabiliti nel bando di gara. II.1.5) Il Collegio è dell’avviso che debba preferirsi l’interpretazione più estensiva, alla cui stregua la certificazione di qualità non possa, come prospettato dalla ricorrente incidentale, essere pregiudizialmente sottratta all’avvalimento. Suffraga siffatto orientamento, in aggiunta ai persuasivi argomenti innanzi richiamati, l’osservazione, di ordine teleologico, per cui, in materia, debba privilegiarsi un criterio ermeneutico sostanziale per il quale, essendo la certificazione di qualità comunque intesa a garantire la (obiettiva) qualità dell’adempimento e non solo la (mera e soggettiva) idoneità professionale del concorrente pur sempre strumentale alla prima, sia erroneo postulare (una volta chiarito che l’avvalimento è la regola e le sue limitazioni le eccezioni) che la detta certificazione debba necessariamente far capo (salvo il riscontro di abusi e la doverosa verifica di effettività) unicamente al concorrente con conseguente impossibilità di ausilio per avvalimento. II.1.6) Ne deriva l’infondatezza della censura al riguardo svolta dalla ricorrente incidentale. II.2.1) è infondato anche il secondo motivo di gravame, col quale la deducente incidentale rileva che due delle dichiarazioni dell’im-

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presa ausiliaria richieste (a pena d’esclusione) dal bando di gara a riguardo dell’avvalimento sono state inserite nella busta “2” (relativa alla documentazione tecnica) e non nella busta “1” (concernente la documentazione amministrativa). II.2.2) Invero, contrariamente a quanto sembra reputare la deducente, l’invocata comminatoria d’esclusione dalla gara, correttamente intesa, riguarda l’omesso inoltro delle menzionate dichiarazioni e non la mera erronea collocazione delle stesse nelle buste, e ciò tanto più per il carattere neutro delle dichiarazioni in questione il cui contenuto, nella fattispecie, si concreta nella formale assunzione dell’obbligo di mettere a disposizione l’oggetto dell’ausilio e nell’attestazione di non partecipazione alla gara anche in proprio o come consorziata. Trattandosi, dunque, di mero errore di collocazione degli atti al quale non è riferibile la sanzione di esclusione dalla gara prevista dal bando, correttamente la Stazione appaltante, dopo l’originaria esclusione dalla gara della ricorrente principale proprio per il medesimo rilievo in esame, l’ha riammessa in gara in conseguenza del successivo rinvenimento delle dichiarazioni nella busta n. “2”. II.2.3) Per le medesime osservazioni non assumono rilevanza invalidante le ulteriori censure al riguardo esposte, di violazione dell’ordine procedurale e di apertura della busta n. 2 della riammessa in gara in seduta pubblica e non riservata, aspetto quest’ultimo che, peraltro, è segnale di trasparenza operativa. Per quest’ultimo aspetto giova precisare che è vero che, come ricorda la deducente incidentale, la previsione del bando è nel senso dell’apertura delle documentazioni tecniche (buste n. 2) in seduta non pubblica, è vero anche, però, che, nella particolare fattispecie, si trattava di eventuale ammissione in gara su domanda dell’interessata precedentemente esclusa, per cui il relativo procedimento esigeva ex se la massima trasparenza. II.3) Col primo motivo del secondo ricorso incidentale la Puopolo Quaderni

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assume che la ricorrente principale va esclusa dalla gara perché ha presentato variazioni progettuali che, pur se previste ai sensi dell’art. 76 del D.Lgs. n. 163/2006 nel bando di gara nel rispetto delle indicazioni del capitolato d’appalto, nell’assenza in quest’ultimo di indicazioni al riguardo, sussisterebbe il divieto d’inoltro di variazioni progettuali, ed anche perché le variazioni presentate sono sostanziali e quantificate nel loro valore economico. II.3.1) Anche tali censure sono infondate. Sotto il primo profilo, a prescindere del tutto dalla controdeduzione della ricorrente principale secondo cui l’art. 43 del capitolato speciale, prevedente la facoltà della Stazione appaltante di introdurre opportune varianti, rappresenterebbe il parametro normativo di cui la deducente incidentale lamenta l’assenza, si deve osservare che il difetto nel capitolato della determinazione dei requisiti minimi delle variazioni progettuali in questione – che è, d’altronde, l’esplicito contenuto sostanziale della censura in esame – non è sufficiente a ridurre ad un flatus vocis l’espressa previsione del bando di gara (punto XI.3) autorizzativa alla presentazione di variazioni svuotandola del tutto di contenuto e, meno ancora, reputandosi che dal detto difetto derivi un divieto d’inoltro di variazioni progettuali, e ciò anche perché, come è noto, l’indicazione esplicita dei requisiti minimi delle variazioni è strumentalmente servente il principio della par condicio dei concorrenti che, essendo connaturato nel sistema di selezione, comunque non perde la sua effettività se correttamente e congruamente applicato. II.3.2) Quanto alla prospettata natura sostanziale delle variazioni progettuali presentate dalla ricorrente principale, precisato che quelle che al riguardo contano sono le prestazioni migliorative offerte in relazione all’oggetto delle opere pubbliche in appalto e non – come fa la decucente incidentale – in relazione alla natura (essenziale o meno) delle variazioni ricavata dalla legislazione urbanistica, si osserva che la giurisprudenza (Cfr. Cons. di Stato - Sez. V - 11/7/2008

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n. 3481) ha elaborato in tema di essenzialità o meno delle variazioni in questione i seguenti criteri: - ammissibilità delle varianti migliorative che non si traducano in una diversa ideazione dell’oggetto del contratto ponendosi rispetto a questo come del tutto alternativo a quanto voluto dalla Stazione appaltante; - le varianti devono dare contezza delle ragioni che giustificano l’adattamento proposto e le variazioni alle singole prescrizioni progettuali con la prova che quest’ultime garantiscano l’efficienza del progetto e le esigenze della Stazione appaltante sottese alle prescrizioni variate; - sussistenza di ampio margine di discrezionalità della Commissione giudicatrice, standosi in ambito di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa. II.3.3) E, dunque, alla stregua dei richiamati rilievo e principi, le censure dedotte non possono persuadere. II.3.4) La censura, infine, con cui si rileva che la ricorrente principale ha espresso il valore economico delle variazioni progettuali neanche è fondata, atteso che la richiamata comminatoria, di espulsione dalla gara (punto XI. 3 del bando) per le ipotesi di indicazioni economiche (anche solo evincibili) contenute nell’offerta tecnica, espressamente si riferisce “al prezzo e/o al ribasso offerto in sede di offerta economica”, e cioè all’offerta economica in sé per l’aggiudicazione dell’appalto e non al valore delle varianti che sono eventuali, indipendenti, slegate dal prezzo offerto e valutabili per altro aspetto, e tenuto conto che da esse, certamente, non è evincibile alcun elemento che porti ad indicazioni dell’offerta economica. II.4) In definitiva, i ricorsi incidentali proposti dalla s.r.l. Puopolo Costruzioni, alla stregua delle considerazioni svolte, sono infondati e vanno, pertanto, respinti. III) Può passarsi all’esame del ricorso principale proposto dalla s.r.l. SO.GE.A.S. Quaderni

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III.1) Si ricorda che la società ricorrente, esclusa dalla gara per erroneo inserimento nella non giusta busta di alcune dichiarazioni concernenti l’avvalimento e poi rimessa in gara in autotutela, col provvedimento qui impugnato è stata successivamente di nuovo esclusa in espressa applicazione della sezione XI.4 comma 1 del bando, per mancata allegazione all’offerta economica del documento d’identificazione. III.2) L’istante, col primo motivo di gravame, assume, tra l’altro, senza essere smentita ex adverso, che ha inoltrato due documenti d’identità allegati alla documentazione tecnica ed alla documentazione amministrativa contenente la domanda di partecipazione alla gara. III.3) La fattispecie – ferma restando l’orientamento anche di questo Tribunale secondo cui anche le manchevolezze formali sono ragione d’esclusione se siffatta sanzione è inequivocamente prevista dalla normativa di gara e purché d’utilità anche di sola natura procedimentale – va esaminata con riferimento al dato testuale della normativa di bando applicata ed in relazione alla inequivocità o meno della stessa. La norma applicata (sezione XI.4 comma 1 del bando) prevede che la busta n. 3 (offerta economica) deve contenere: “a pena d’esclusione, l’offerta economica, redatta in bollo, in lingua italiana, utilizzando l’allegato modello A1”. Ed il modello A1, nelle “istruzioni per la compilazione”, nell’ultima parte (che è la settima) riporta: “Allegare, a pena d’esclusione, copia fotostatica di idoneo documento di identificazione”. La sezione XII del bando, concernente specificamente “esclusione dalla gara”, poi, sanziona con l’esclusione dalla procedura le manchevolezze e l’inosservanza delle prescrizioni “espresse nelle sezioni V, VI, VI, X e XI, le quali si riferiscono alle norme del bando e non al modello A1 e meno ancora alle istruzioni apposte in calce a quest’ultimo, sicché la Stazione appaltante ha applicato la misura

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espulsiva integrando il bando che richiama l’allegato A1 che, a sua volta, riporta la sanzione nelle sue “istruzioni” per la compilazione. Per il tenore testuale delle previsioni riportate, allora, tre sono le osservazioni di carattere ermeneutico. La prima inerisce al fatto che la sanzione espulsiva non è espressa dal bando, la seconda al fatto che quest’ultimo sanziona con l’esclusione dalla gara le sole manchevolezze da esso previste e la terza attiene al principio generale secondo cui le misure sanzionatorie, incidendo rilevantemente e negativamente nella sfera giuridica del destinatario, devono essere chiare e non equivoche, sicché all’assenza, come nel caso in esame, della loro inequivocità soccorre, nella materia de qua, il principio del favor participationis. Nella fattispecie, inoltre, come si è accennato, sono stati introdotti nel procedimento, ancorché a riguardo di altra documentazione pure prescritta, due documenti d’identità che, in assenza di elementi contrari, non v’è ragione per negare la loro riconducibilità anche alla documentazione relativa all’offerta economica senza incorrere in un vieto formalismo. III.4) La censura esaminata è, pertanto fondata. III.5) Il ricorso principale, conseguentemente, alla stregua della fondatezza della censura esaminata, è fondato e va accolto, restando assorbite le residue censure. IV) In conclusione, il ricorso incidentale della s.r.l. Puopolo Costruzioni è infondato e va, conseguentemente, respinto. IV.1) Il ricorso principale della s.r.l. SO.GE.A.S. è fondato in relazione alla censura esaminata e, conseguentemente, va accolto con assorbimento delle residue censure, conseguendone l’annullamento degli atti impugnati; ed il collegato atto con motivi aggiunti, volto avverso la normativa del bando di gara, va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione. V) Le spese di giudizio, tenuto conto della peculiarità delle questioni, vanno compensate tra le parti. Quaderni

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P.Q.M. definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe proposto dalla s.r.l. SO.GE.A.S., così decide: a) respinge i ricorsi incidentali proposti dalla s.r.l. Puopolo Costruzioni; b) accoglie il ricorso principale proposto dalla s.r.l. SO.GE.A.S. e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati, e dichiara improcedibile il collegato atto con motivi aggiunti. Dispone la compensazione tra le parti delle spese di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 13 gennaio 2011 con l’intervento dei magistrati: Sabato Guadagno, Presidente FF Ferdinando Minichini, Consigliere, Estensore Giovanni Grasso, Consigliere DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 29/04/2011

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I prelievi coattivi di materiale biologico per l’identificazione genetica di Gianmichele Pavone* 1. L’importanza della genetica in ambito forense. Le indagini genetiche su materiale umano hanno iniziato ad acquisire rilevanza giuridica da quando le stesse hanno raggiunto un apprezzabile grado di attendibilità attraverso la conoscenza e l’analisi dei polimorfismi genetici, rilevati dapprima con metodi convenzionali e, successivamente, con i nuovi metodi d’indagine frutto del progresso scientifico, il quale ha consentito una fruibilità sempre più ampia delle procedure di accertamento1. Negli ultimi anni l’analisi dei polimorfismi del D.N.A.2 ha influito in modo radicale sull’investigazione scientifica, diventando un mezzo di indagine efficace e potente. Le analisi svolte sulle tracce biologiche provenienti dalla scena del crimine consentono, con un elevato grado di affidabilità e di precisione, l’identificazione della persona o, quantomeno, l’individua* Avvocato del Foro di Brindisi. 1 Picotti, Trattamento dei dati genetici, violazioni della privacy e tutela dei diritti fondamentali nel processo penale, in Dir. inf., 2003, 4-5, 689. Per completezza, si veda: Domenici, Prova del DNA, in Dig. disc. pen., Torino, 1995, X, 372; Rodotà, Tra diritto e società. Informazioni genetiche e tecniche di tutela, in Riv. critica dir. priv., 2000, 571. 2 L’acido desossiribonucleico – più noto con l’acronimo D.N.A. – è una molecola facente parte degli acidi nucleici, presente nel nucleo di tutte le cellule e contenente l’informazione genetica; è costituito da due catene avvolte ad elica composte da monomeri, chiamati nucleotidi, formati dalle quattro basi azotate, Adenina, Guanina, Citosina e Timina, predisposte a coppia ed in sequenze diverse da individuo a individuo. Per completezza: Watson et al., DNA ricombinante, Bologna, 1994; Id., La doppia elica: trent’anni dopo, a cura di Stent, Milano, 2004.

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zione del suo profilo genetico3. La «capacità informativa» dei dati genetici, infatti, è notevole: le «impronte genetiche», individuabili anche all’interno di scarsissime quantità di materiale organico (ad es. capelli, tracce di saliva o sudore, frammenti di epidermide, etc.) consentono di risalire al profilo genetico di un soggetto e sono, diversamente dalle informazioni desumibili da altri dati di natura sanitaria e personale (ad es., le impronte digitali), più attendibili – ai fini dell’identificazione – in quanto caratterizzate da una sostanziale inalterabilità durante la vita dell’individuo, il quale viene collocato nella sua unicità (non esistono due persone con identico genoma, con l’unica eccezione dei gemelli omozigoti), in una relazione inequivoca con altri soggetti, con cui sussistono legami parentali4. Il prelievo ematico, tuttavia, come affermato dalla Corte costituzionale5, comporta certamente una restrizione della libertà personale ove la persona non acconsenta spontaneamente e si renda necessaria l’esecuzione coattiva. Tale restrizione è tanto più allarmante – e quindi bisognevole di attenta valutazione da parte del legislatore nella determinazione dei «casi» e «modi» in cui può esser disposta dal 3 Sulle applicazioni in ambito forense, si vedano: Barbato-Corradi-Lago, L’identificazione personale tramite DNA, in Dir pen. proc., 1999, 215; Dal miglio-Gentilomo-Piccinini-D’Auria, Dal prelievo coattivo alla banca dati dei profili genetici: l’ennesima incompiuta, in Riv. it. med. leg., 2007, 1, 61; De Leo-Turrina-Orrico, a cura di, Lo stato dell’arte in genetica forense, Milano, 2003; Fiori, Identificazione personale: polimorfismi del DNA, in Il DNA in medicina legale, a cura di Panichi-Sancasciani-Fiori, Roma, 1990, 15 ss.; Id., L’identificazione genetica: il DNA, in Aa.Vv., L’investigazione scientifica e criminologica nel processo penale, Padova, 1989, 59 ss.; Gargani, I rischi e le possibilità dell’applicazione dell’analisi del DNA nel settore giudiziario, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 1307 ss.; Lomi, L’ammissibilità quale mezzo di prova dell’identificazione individuale mediante lo studio dei polimorfismi del DNA nel processo penale negli USA e in Italia, in Il DNA in medicina legale, cit., 157 ss.; Orlandi, Il problema delle indagini genetiche nel processo penale, in Quaderni Camerti, 1992, 3, 415; Ricci, DNA e crimine: dalla traccia biologica all’identificazione genetica, Roma, 2001; Santosuosso-Garagna-Redi-Zuccotti, a cura di, Le tecniche della biologia e gli arnesi del diritto, Pavia, 2003; Id., I giudici davanti alla genetica. I corsi dell’Open lab., Pavia, 2002. 4 Picotti, cit., 689. 5 Corte cost., 9 luglio 1996, n. 238.

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giudice – in quanto non solo interessa la sfera della libertà personale, ma la travalica perché, seppur in minima misura, invade la sfera corporale (pur senza di norma comprometterne, di per sé, l’integrità fisica o la salute, anche psichica, né la sua dignità, in quanto pratica medica di ordinaria amministrazione) e da quella sfera sottrae, per fini di acquisizione probatoria nel processo penale, una parte che è sì, pressoché insignificante, ma non certo nulla6. Non si può ignorare che il prelievo di un tessuto effettuato contro la volontà dell’interessato (quindi, con violenza) sia «in ogni caso invasivo e lesivo dell’integrità fisica». Secondo l’orientamento seguito dalla giurisprudenza fino al 2008, inoltre, tale attività era ritenuta contraria al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., «in quanto il principio nemo tenetur se detegere comprende anche il divieto di costringere l’imputato a compiere atti che possano facilitare una pronuncia di condanna»7. 2. Le pronunce della Corte costituzionale. Una prima pronuncia della Corte costituzionale in tema di prelievi ematici è risalente nel tempo ma degna di menzione. La questione venne affrontata nel 19628 con riferimento all’art. 4 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, dichiarato illegittimo nella parte in cui consentiva alla polizia di eseguire rilie6 Sulla rilevanza costituzionale della tematica, si veda: Carlo, La proiezione costituzionale della banca dati italiana del dna per finalità di indagine criminale, in http://www. jus.unitn.it/ dsg/ convegni/ 2008/ forum©biodiritto/ papers.html; Chieffi, Analisi genetica e tutela del diritto alla riservatezza. Il bilanciamento tra il diritto di conoscere e quello di ignorare le proprie informazioni biologiche, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; Vigoni, Corte costituzionale, prelievo ematico coattivo e test del DNA, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 1022. 7 Cass. pen., sez. fer., 28 agosto 2008, n. 34571. 8 Corte cost., 22 marzo 1962, n. 30.

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vi segnaletici (descrittivi, fotografici e antropometrici) comportanti restrizioni della libertà personale. Nella motivazione, in particolare, veniva affermato che i rilievi in questione richiedevano talvolta complesse indagini che avrebbero potuto incidere sulla libertà fisica o morale della persona e venivano indicati come esempio i casi («non cervellotici di fronte allo sviluppo della scienza e della tecnica») di rilievi richiedenti «prelievi di sangue o complesse indagini di ordine psicologico o psichiatrico». Lo stesso organo9, con riferimento alle norme del codice di procedura penale abrogato, aveva confermato la legittimità dell’utilizzo del prelievo ematico coattivo. In tale pronuncia, infatti, venne dichiarata l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 146, 314, 317 c.p.p. 1930, con riferimento all’art. 13, co. 2 e 4, della Costituzione, nella parte in cui, prevedevano la facoltà del giudice istruttore di disporre, senza limite alcuno, tramite l’ausilio della forza pubblica, il prelievo ematico coattivo, in caso di volontà contraria del periziando, puntualizzando poi nella motivazione che il giudice incontrava invece precisi limiti, perché le specifiche norme denunziate dovevano esser lette nel contesto della Costituzione e dei suoi principi fondamentali, cosicché, per un verso, era necessario un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, e, per altro verso, il giudice non avrebbe potuto disporre il prelievo ematico coattivo ove questo, in considerazione delle circostanze del caso, avesse messo in pericolo la vita, la salute o l’incolumità o fosse risultato lesivo della dignità della persona o invasivo dell’intimo della sua psiche10. Corte cost., 24 marzo 1986, n. 54. Sul punto, si vedano: Felicioni, Considerazioni sugli accertamenti coattivi nel processo penale: lineamenti costituzionali e prospettive di riforma, in Ind. pen., 2, 1999, 505; Picotti, Trattamento dei dati genetici, violazioni della Privacy e tutela dei diritti fondamentali nel processo penale, in Lo Stato dell’Arte in Genetica Forense, Atti del XIX Congresso Nazionale Ge.F.I - Genetisti Forensi Italiani, 2002, 119. 9

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Il Costituente – nell’interpretazione che si rinviene in tale pronuncia – ha inteso tutelare la libertà del cittadino affidandone al giudice la garanzia e dal secondo comma dell’art. 13 si evince che la Costituzione consente sia la detenzione che «qualsiasi altra restrizione della libertà personale» proprio e soltanto se vi sia «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»11. Il comma 4, del medesimo art. 13 Cost., inoltre, vieta le violenze illecite e non le «coercizioni occorrenti per l’attuazione di provvedimenti legittimi del giudice», né quelle «minime prestazioni personali imposte all’imputato o a terzi, da un normale e legittimo mezzo istruttorio». Di conseguenza, si riteneva che le ragioni della giustizia penale e dell’accertamento della verità, rientrassero sicuramente tra i «casi» previsti dalla legge e la perizia medico-legale, oggetto della questione sottoposta all’esame della Corte, doveva ritenersi uno dei «modi» mediante i quali era lecito al giudice, previa congrua motivazione12, attuare «qualsiasi restrizione della libertà personale», nei limiti sopra accennati. Si riteneva, dunque, che il prelievo ematico – divenuto di ordinaria amministrazione nella pratica medica13 – non ledesse la dignità o la psiche della persona, né mettesse in alcun modo in pericolo la vita, l’incolumità o la salute della persona, salvo casi patologici eccezionali che il perito medico-legale sarebbe stato facilmente in grado di rilevare. La questione è stata riproposta in relazione al mutato assetto processuale del nuovo codice di rito. 11 Sul punto, si veda anche: Santacroce, Prelievo coattivo del sangue a scopo probatorio e tutela della libertà personale, in Cass. pen., 1996, 3570. 12 Corte cost., 23 aprile 1970, n. 64; Corte cost., 12 dicembre 1967, n. 156. 13 Con riferimento ai soggetti autorizzati all’effettuazione di prelievi ematici: Consiglio Stato, sez. V, 03 febbraio 2006, n. 457; Cass. pen., sez. VI, 16 dicembre 2005, n. 1756; Cass. pen., sez. VI, 27 giugno 2005, n. 32553; Cass. pen., sez. VI, 6 dicembre 1996, Manzi; Cass. pen., sez. VI, 25 novembre 1987. In dottrina: Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione I delitti dei privati. Le qualifiche soggettive pubblicistiche, Milano, 2002, 144 ss.

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Ai sensi dell’art. 224, co. 2, c.p.p., l’intera perizia viene espletata sotto la direzione del giudice ed è regolata dai suoi poteri autoritativi: dispone la citazione del perito e dà gli opportuni provvedimenti per la comparizione delle persone sottoposte all’esame del perito; adotta, inoltre, «tutti gli altri provvedimenti» che si rendono necessari per il corretto svolgimento delle successive operazioni peritali. Prima della sentenza della Corte costituzionale del 9 luglio 1996, n. 238, si ammetteva pacificamente che in sede di perizia il giudice potesse disporre il prelievo ematico coattivo, ai sensi del citato comma 2, rispettando i limiti sostanziali, già ricordati, prefissati dalla sentenza n. 54 del 1986: l’accertamento non doveva violare la dignità della persona umana né porre in pericolo la vita o la salute dell’interessato, né essere invasivo dell’intimo della psiche14. La Corte costituzionale, con la sentenza in questione, innovando quanto sancito dalla precedente pronuncia richiamata15, ha dichiarato illegittimo il comma 2 dell’art. 224 c.p.p., con riferimento agli artt. 3 e 13, co. 2, della Costituzione, nella parte in cui consentiva al giudice di disporre misure restrittive della libertà personale (dell’indagato o dell’imputato o di terzi) finalizzate all’esecuzione della perizia, ed in particolare il prelievo ematico coattivo, senza determinare la tipologia delle misure esperibili e senza precisare i «casi» ed i «modi» in cui esse potessero essere adottate. Tale divieto risultava assoluto e, dunque, produttivo ex art. 191 c.p.p. dell’inutilizzabilità dei dati ottenuti attraverso misure coercitive illegittime16. In virtù di quanto stabilito dal codice di rito, peraltro, non è escluso che il giudice possa disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato (assente o contumace), affinché venga sottoposto a peTonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2005, 290. Corte cost., 24 marzo 1986, n. 54 16 Kostoris, Alt ai prelievi di sangue coattivi, in Dir. pen. proc., 1996, 9, 1093; Santacroce, Prelievo coattivo del sangue a scopo probatorio e tutela della libertà personale, in Cass. pen., 1996, 36; Umani Ronchi, Marcia indietro dell’Italia sul test del DNA: così si allargano le maglie dell’impunità, in Guida al dir., 1996, 30, 67. 14 15

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rizia, alla luce di quanto sancito dall’art. 132 c.p.p. (e 46 disp. att.), relativamente ai «casi previsti dalla legge», nonché dall’art. 490 c.p.p., il quale consente l’accompagnamento coattivo quando occorra assicurare la presenza dell’imputato assente o contumace per una prova diversa dall’esame, come la perizia. L’art. 13, co. 2, Cost., assoggetta ogni restrizione della libertà personale, tra cui nominatamente la detenzione, l’ispezione e la perquisizione personale, ad una duplice garanzia: la riserva – assoluta – di legge (la quale implica l’esigenza di tipizzazione dei «casi e modi previsti dalla legge») e la riserva di giurisdizione (essendo richiesto un «atto motivato dell’autorità giudiziaria»). Viene approntata, in tal modo, una tutela che è centrale nel disegno costituzionale, avendo ad oggetto un diritto inviolabile, quello della libertà personale, rientrante tra i valori supremi, quale indefettibile nucleo essenziale dell’individuo, non diversamente dal contiguo e strettamente connesso diritto alla vita ed all’integrità fisica, con il quale concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona. In linea con i principi richiamati, il nuovo codice ha curato in modo analitico e scrupoloso il tema della libertà personale dell’indagato, prevedendo tutta una serie di restrizioni dei poteri della polizia giudiziaria, del pubblico ministero e dello stesso giudice, ed ha graduato l’entità delle misure restrittive in relazione alla situazione concreta, riservandole solo a fattispecie di reato di una certa gravità: il riconoscimento al giudice di un indiscriminato potere di sottoporre coattivamente l’indagato o anche persone estranee ai fatti e all’imputazione a prelievi ematici, o ad altre forme di accertamenti medici di carattere invasivo, pertanto, contrasta con l’assetto normativo complessivo che il legislatore ha posto in tema di libertà personale. La disposizione censurata, in effetti, consente in modo del tutto generico, con un’unica ed indifferenziata locuzione, la possibilità di emettere una serie indeterminata di provvedimenti, senza distingueQuaderni

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re tra quelli incidenti e quelli non incidenti sulla libertà personale e cumulando in una disciplina indistinta gli uni e gli altri. È totalmente carente, quindi, di specificazioni al positivo, non solo della tipologia delle misure restrittive adottabili, ma anche dei «casi» e dei «modi» in presenza dei quali può ritenersi che sia legittimo procedere all’esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l’adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale. La Corte, ha ribadito, infine, che «le ragioni relative alla giustizia penale, consistenti nell’esigenza di acquisizione della prova del reato, pur costituendo un valore primario sul quale si fonda ogni ordinamento ispirato al principio di legalità, rappresentano in realtà soltanto la finalità della misura restrittiva e non anche l’indicazione dei casi voluta dalla garanzia costituzionale; così come la considerazione che il prelievo ematico coattivo non possa essere disposto quando lede la dignità della persona o metta in pericolo la vita o l’integrità fisica della stessa costituisce null’altro che il riflesso dei limiti negativi dedotti dall’inquadramento della misura specifica nel contesto generale dell’ordinamento, ma non realizza la indicazione al positivo dei modi, come prescritto dall’art. 13, secondo comma, della Costituzione». In definitiva, con tale pronuncia, la Corte costituzionale ha messo in evidenza che la materia degli accertamenti coercitivi necessitava di una più precisa regolamentazione da parte del legislatore17.

Sclavi, DNA-test come “Scientific Evidence”: poteri del giudice e validità della prova. Rilievi comparatistici, in Riv. it. med. leg., 1997, 662; Tonini, Manuale…, cit., 291. 17

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3. Le proposte di legge. In risposta all’invito della Corte Costituzionale di prevedere una disciplina dettagliata dei prelievi coattivi, in passato sono stati presentati in Parlamento alcuni disegni di legge, tutti rimasti allo stadio di progetto. Il primo è del 1998, rubricato sotto il nome «Disciplina dei prelievi di campioni biologici e degli accertamenti medici coattivi nel procedimento penale»18 e mirava a regolamentare «tutto il complesso delle misure incidenti sulla libertà personale» che potessero rendersi utili al fine dell’espletamento della perizia, tenendo conto non solo di tutti i possibili prelievi di campioni di liquidi o tessuti biologici su persone viventi, ma anche dell’insieme degli accertamenti medici o diagnostici esulanti dal ristretto ambito dell’ispezione corporale, in quanto suscettibili anch’essi di comportare limitazioni della libertà personale dell’individuo e «invasioni della sua sfera corporale intima»19. Un’importante novità, ad avviso della dottrina20 era rappresentata dalla diversificazione di disciplina, a seconda che si trattasse di accertamenti e prelievi effettuati con tecniche «invasive» (per le quali era richiesto il consenso, salva la possibilità per il giudice di ordinare l’esecuzione coattiva qualora risultasse indispensabile per la prova del fatto e si procedesse per uno dei delitti ex art. 381, co. 1, c.p.p.) ovvero con metodi «non invasivi» (per i quali non occorreva il consenso). Non sarebbe stato, in ogni caso, possibile procedere ove gli accertamenti: a) avessero posto in pericolo la vita, l’integrità fisica o

D.d.l. n. 3009, d’iniziativa di Flick, comunicato il 20 gennaio 1998, seduta n. 303. Umani Ronchi-Bolino-Bonaccorso, cit., 845. 20 Dal miglio-Gentilomo-Piccinini-D’Auria, cit., 71; Mazzacuva-Pappalardo, Osservazioni in tema di prelievo ematico coattivo, in Ind. pen., 1999, 2, 493. 18 19

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la salute della persona sottoposta all’esame; b) avessero comportato l’utilizzazione di tecniche invasive della sfera intima della psiche; c) avessero provocato rilevanti sofferenze; d) avessero contrastato con specifici divieti stabiliti dalla legge. Nonostante la disciplina dettagliata, non veniva presa in considerazione la questione dell’utilizzazione dei risultati degli accertamenti, nonché la possibilità di una loro raccolta ai fini della costituzione di una banca dati del D.N.A. e del relativo riutilizzo degli stessi in casi futuri21. Un secondo disegno di legge, risale al 200222 ed è rubricato come «Norme per la istituzione di una banca dati nazionale del DNA». Tale normativa, in accordo con la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa N.R. (92) 1, del 10 febbraio 1992, intendeva esplicitamente dare vita ad un sistema informatizzato di raccolta dei dati genetici, appartenenti ai soggetti che avessero commesso reati ritenuti pericolosi dal Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, ovvero ai soggetti condannati in via definitiva. Tuttavia, si trattava di un testo alquanto generico che non forniva una disciplina dettagliata dei «casi» e «modi» in cui doveva ammettersi il prelievo, così come richiesto dalle pronunce della Corte costituzionale, né precisava le circostanze e gli scopi in cui sarebbe stato possibile utilizzare i dati raccolti. Nel 2003, venne presentata la proposta di legge rubricata sotto il nome di «Disposizioni in materia di prelievo coattivo di materiale biologico finalizzato all’esecuzione delle analisi del D.N.A. dell’imputato o dell’indagato»23. Qualora il soggetto rifiuti di sottoporsi al prelievo di sangue, la

Dal miglio-Gentilomo-Piccinini-D’Auria, cit., 72. D.d.l. n. 2113, d’iniziativa di Valditara et al., comunicato il 19 marzo 2002, seduta n. 361. 23 D.d.l. n. 4161, d’iniziativa di Franz et al., presentata il 15 luglio 2003, seduta n. 341. 21 22

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possibilità di effettuare il test del D.N.A. è limitata all’utilizzo di tecniche «non invasive» ma in ugual modo efficaci – nell’assoluto rispetto della dignità e del decoro della persona – nel caso di delitti gravi puniti con la pena dell’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge. Nel testo, inoltre, non vi è alcun riferimento in merito alla sorte dei campioni raccolti, né in relazione ad un loro successivo utilizzo, né alla loro distruzione, né tanto meno al loro inserimento in una banca dati nazionale. Un’altra proposta di legge venne presentata nel 2004: «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di accertamenti tecnici invasivi»24. Allo scopo di contemperare il rispetto dovuto alla persona che non accorda il consenso all’accertamento «invasivo» con la necessità di ricercare la verità, il disegno di legge prevedeva l’ammissibilità del prelievo coattivo se «assolutamente indispensabile», non potendo, comunque, disporsi atti che, in considerazione delle circostanze del caso, avrebbero messo in pericolo la vita, la salute, o l’incolumità della persona ovvero sarebbero risultati lesivi della sua dignità o invasivi per l’intimo della psiche. Come nel caso della proposta di legge del 2003, manca qualunque previsione in materia di conservazione o distruzione dei campioni prelevati, nonché di un possibile loro inserimento in una banca dati. Questi ultimi due disegni di legge vennero trattati congiuntamente in commissione Giustizia della Camera nel corso del 2005, ma senza sortire alcun risultato. Un’altra proposta in materia è del 2005, recante «Norme per l’istituzione dell’Archivio centrale del D.N.A. e del Comitato tecni24

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D.d.l. n. 4682, d’iniziativa di Onnis et al., presentata il 10 febbraio 2004, seduta n.

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co-scientifico di vigilanza», predisposto dal Gruppo di lavoro Biosicurezza25. In questo progetto, in particolare: venne disciplinato il metodo del prelievo (tampone boccale, nel rispetto della dignità e del pudore dell’individuo, rivolgendo particolare attenzione agli standards di sicurezza da richiedere ai laboratori designati per l’esecuzione delle analisi dei campioni prelevati ed alla precisione nell’indicazione dei segmenti di genoma sui quali applicare i sistemi di analisi); venne prevista e la creazione di un c.d. «Archivio Centrale» (o database), nonché di un Comitato Tecnico-Scientifico di vigilanza sul funzionamento dello stesso; è prevista la conservazione di campioni e profili genetici per un periodo di quarant’anni dall’ultima circostanza che ne ha determinato l’inserimento nell’archivio26, con la possibilità di richiedere la cancellazione del proprio profilo e la distruzione dei campioni stessi a determinate condizioni. Infine si segnala nel 2006, dopo l’entrata in vigore della disciplina del prelievo coattivo di materiale biologico (l. n. 155/2005), la presentazione alla Camera dei deputati, del disegno di legge n. 196727, per molti aspetti simile al progetto Flick del 1998. Successivamente, i disegni di legge presentati, da un punto di vista contenutistico, sono stati formulati recependo il Trattato di Prüm del 2005 e sono confluiti nella l. 30 giugno 2009, n. 8528.

25 Progetto definitivo dell’«Archivio Centrale dei profili del DNA», approvato il 18 aprile 2005 a Palazzo Chigi dal Comitato per le Biotecnologie e la Biosicurezza - Cnbb. 26 La dottrina, Dal miglio-Gentilomo-Piccinini-D’Auria, cit., 75, evidenzia perplessità circa la necessità di conservazione dei campioni, nonostante la presenza, di per sé più che sufficiente, dei relativi profili genetici. 27 Disegno di legge n. 1967, Modifiche al codice di procedura penale per il compimento su persone viventi di prelievi di campioni biologici o accertamenti medici, 21 novembre 2006, ad iniziativa di Mastella. 28 L. 30 giugno 2009, n. 85 (Gazz. Uff., 13 luglio 2009, n. 160).

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4. La disciplina dei prelievi coattivi dopo il Trattato di Prüm. In numerose circostanze dottrina29 e giurisprudenza30 hanno evidenziato negativamente la grave lacuna del nostro ordinamento dovuta alla mancanza di una specifica regolamentazione della «coercibilità» della partecipazione delle persone interessate alle indagini peritali che su di esse debbano essere svolte. Rilevanti sono state, inoltre, alcune pronunce della Corte europea31, la quale ha stabilito che il diritto al silenzio copre solo la sfera «interna» individuale32, ma lo ius tacendi non vieta di ricavare informazioni dalle tracce «esterne» presenti sul corpo dell’«accusato». In altre parole, esso non preclude alle autorità inquirenti di sottoporre l’inquisito ad accertamento mediante prelievo di tessuti, purché ciò avvenga – oltre che nei casi e modi stabiliti dalla legge – con tecniche idonee a tutelare il diritto alla salute di chi subisce l’operazione, e sia eseguita da personale medico specializzato33. Decisiva, inoltre, è stata l’adesione dell’Italia al Trattato di Prüm del 27 maggio 200534, sottoscritto da Belgio, Germania, Spagna,

In particolare: Fanuele, Note di diritto straniero e comparato l’indagine genetica nell’esperienza italiana ed in quella inglese, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 2, 732 ss.; Felicioni, La prova del DNA: profili giuridici, in La prova scientifica nel processo penale, a cura di Tonini, in Dir. pen. proc., 2008, Suppl. 6, 51; Picotti, cit., 689 ss. 30 Corte cost., 9 luglio 1996, n. 238. 31 Corte giust. com. eu., 21 marzo 2001, Heaney e Mc Guiness c. Irlanda, § 40; Corte giust. com. eu., 21 dicembre 2000, Quinn c. Irlanda, § 40; Corte giust. com. eu., 29 novembre 1996, Sauders c. Regno Unito, § 69. 32 Ossia la libertà di autodeterminazione del prevenuto nel momento in cui viene, comunque, «sentito»; sul punto: Dolso, Libertà personale e prelievi ematici coattivi, in Giur. cost., 1996, 3227; Orlandi-Pappalardo, L’indagine genetica nel processo penale germanico: osservazioni su una recente riforma, in Dir. pen. proc., 1999, 6, 764. 33 Fanuele, cit., 732. 34 Doc. 16382/06 CRIMORG 194 ENFOPOL 216 MIGR 172. Per un’analisi critica, si veda, in particolare: Balzacq-Bigo-Carrera-Guild, Security and the Two-Level Game: The Treaty of Prüm, the EU and the Management of Threats, CEPS Working Document No. 234, 2006, consultabile in http://shop.ceps.be/downfree.php?item_id=1292. 29

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Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Austria, e volto a rafforzare la cooperazione tra forze dell’ordine, al fine di aumentare le misure di coordinamento in materia di indagini giudiziarie e prevenzione dei reati, specificamente per contrastare «il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale». Il principale settore in cui l’accordo interviene è quello dello scambio dei dati relativi al D.N.A. dei condannati per reati commessi sul territorio dei Paesi aderenti. Il testo contempla, in particolare, disposizioni riguardanti l’istituzione di «schedari nazionali di analisi D.N.A.» (art. 2), l’accesso «ai dati […] d’identificazione dattiloscopica» (art. 9, punto 1), lo scambio di dati ed informazioni per «prevenire i reati terroristici» (art. 16, punto 1), il rafforzamento della cooperazione tra forze di polizia mediante «forme di intervento comuni» (art. 24, punto 1). Tanto si è discusso in dottrina35 in merito all’istituzione di un archivio informatizzato di informazioni genetiche – peraltro già esistente da anni negli Stati Uniti ed in altri Paesi europei36 – e sulla questione è intervenuta la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha giudicato la conservazione generalizzata e per tempi indefiniti di impronte digitali, campioni biologici e profili del D.N.A. di persone sospettate di aver commesso reati, ma non condannate, in contrasto con l’art. 8 C.E.D.U., che, tra le altre cose, è posto a tutela del diritto al rispetto della vita privata37. Il legislatore del 200938, recependo il Trattato (tenuto conto anEx plurimis: Dal Miglio-Gentilomo-Piccinini-D’Auria, cit.; Garofano, Genetica identificativa e biobanche: aspetti tecnici e problematiche connesse, in Dir. pen. proc., 2008, 48; Puleio, cit.; Scaffardi, Le Banche dati genetiche per fini giudiziari e i diritti della persona, in http://www.jus.unitn.it/ dsg/ convegni/ 2008/ forum©biodiritto/ papers.html. 36 Dal 1995 in Inghilterra; dal 1996 in Irlanda del Nord, Scozia; dal 1997 in Paesi Bassi e Austria; dal 1998 in Germania e Slovenia; dal 1999 in Finlandia e Norvegia; dal 2000 in Danimarca, Svizzera, Svezia, Croatia e Bulgaria, dal 2001 in Francia e Repubblica Ceca; dal 2002 in Belgio, Estonia, Lituania e Slovacchia; dal 2003 in Ungheria e Lettonia. 37 S. and Marper vs United Kingdom, ECHR, NO. 30562/04 e 30566/04, 4 dicembre 2008. 38 L. 30 giugno 2009, n. 85 (Gazz. Uff., 13 luglio 2009, n. 160). 35

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che dei pareri del Garante europeo per la protezione dei dati e del Garante per la protezione dei dati personali)39, ha istituito la «banca dati nazionale del D.N.A.»40, allo scopo di provvedere alle seguenti attività: 1) raccolta del profilo del D.N.A. di soggetti ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari, ovvero arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo, ovvero detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo, ovvero nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo, ovvero ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva; 2) raccolta dei profili del D.N.A. relativi a reperti biologici acquisiti nel corso di procedimenti penali; 3) raccolta dei profili del D.N.A. di persone scomparse o loro consanguinei, di cadaveri e resti cadaverici non identificati; 4) raffronto dei profili del D.N.A. a fini di identificazione (art. 7 e 9, l. 85/2009). Il prelievo è, invece, escluso per alcuni reati elencati, come quelli fiscali, societari e bancari (art. 9, co. 2, l. 85/2009). Conseguentemente, si è stabilito che non ci si possa sottrarre al prelievo dei campioni biologici necessari ad individuare il profilo del D.N.A. (inserendo nel codice di procedura penale l’art. 224-bis) ed è stata disciplinata la conservazione dei profili nella banca dati: in caso di assoluzione o se il fatto non costituisce reato è prevista la cancellazione d’ufficio; negli altri casi, la conservazione è consentita per 40 anni.

Parere del Garante europeo per la protezione dei dati, 2007/C 169/02, in G.U.C.E., 21 luglio 2007; Parere del Garante per la protezione dei dati personali, 15 ottobre 2007, Bollettino n. 87/2007, in http://www.garanteprivacy.it. 40 Senor, Adesione al Trattato di Prüm ed istituzione della banca dati nazionale del DNA, in http://www.altalex.com. Per una disamina delle scelte operative degli ordinamenti stranieri, si veda: Felicioni, Accertamenti sulla persona e processo penale. Il prelievo di materiale biologico, Milano, 2007, 193 ss. 39

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L’art. 224-bis attribuisce al giudice – in posizione di centralità, nel rispetto della garanzia giurisdizionale sancita all’art. 13 Cost.41 – determinati poteri coercitivi quando l’esecuzione della perizia richieda il compimento di atti incidenti sulla libertà personale, vale a dire il prelievo di materiale biologico o accertamenti medici su persone viventi. Tali perizie possono essere compiute, oltre che in dibattimento, anche in sede di incidente probatorio: l’indagato ed il pubblico ministero, ex art. 392, co. 2, c.p.p. (modificato dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11) possono chiedere l’anticipazione della perizia sulla base del mero presupposto che il mezzo di prova comporti l’esecuzione di accertamenti o prelievi su una persona vivente42. L’art. 224-bis c.p.p. delinea un vero e proprio sub-procedimento che prende il via da un’ordinanza con una forte valenza informativa e contenuti speciali rispetto a quelli descritti nell’art. 224 c.p.p.43. Il potere coercitivo del giudice può esplicarsi in presenza di due presupposti specifici: a) che si proceda per un delitto doloso o preterintenzionale, consumato o tentato, per il quale è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni (nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge); b) che l’esecuzione della perizia richieda il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale (prelievo di materiale biologico o accertamenti medici). Quanto all’oggetto del prelievo, la norma fa riferimento ad «atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del D.N.A. o accertamenti medici». Il dato letterale porta a ritenere che si tratti di un’elencazione meramente Gabrielli, La decisione del “prelievo” torna al giudice, in Guida dir., 2009, 30, 68. Aa. Vv., Prelievo del DNA e banca dati nazionale. Il processo penale tra accertamento del fatto e cooperazione internazionale, a cura di Scarcella, Padova, 2009, 218. 43 Gabrielli, cit., 68. 41 42

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esemplificativa. La dottrina, invece, privilegiando un’interpretazione costituzionalmente orientata, ritiene che si tratti di un elenco tassativo, criticando, peraltro, la terminologia impiegata44. L’espressione «accertamenti medici» crea maggiori problemi interpretativi a causa della sua indeterminatezza. Sembrerebbe, infatti, legittimare una vasta gamma di accertamenti (dalle tecniche di percezione visiva alla somministrazione di sostanze, fino all’introduzione di strumenti all’interno del corpo dell’individuo45) mentre sarebbe stato più opportuno specificare la natura degli stessi. Taluni accertamenti, peraltro, sono di natura di per sé controversa: si pensi ad esempio all’esame radiografico effettuato sull’addome46. Tale «laconico richiamo», secondo la dottrina47, «dà l’impressione di un’aggiunta posticcia, collocata in un contesto normativo che ha il proprio fulcro altrove, in quei prelievi coattivi di cui sono meglio individuati l’oggetto (capelli, peli e mucosa dal cavo orale) e le finalità (la determinazione del profilo del Dna)». A contrariis, ricaviamo dal testo del comma 4 dell’art. 224-bis c.p.p., che non possono in alcun caso essere disposte operazioni che contrastino con espressi divieti posti dalla legge o che possano mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica a la salute della persona o del nascituro, ovvero che, secondo la scienza medica, possano provocare sofferenze di non lieve entità48. Di enorme rilievo è, inoltre, il riferimento (comma 5) al rispetto dei valori della dignità e del pudore del periziando nell’esecuzioIn particolare l’uso dell’espressione «mucosa del cavo orale» piuttosto che il termine «saliva». In tal senso: Aa. Vv., Prelievo …, cit., 225; Gabrielli, cit., 67. 45 Gabrielli, cit., 71. 46 Sul punto, si veda: Aa. Vv., Prelievo …, cit., 225-226; Ciliberti-De Stefano, L’ispezione corporale e l’accertamento radiografico coattivo. Considerazioni etiche e medico-legali, in Riv. it. med. leg., 2008, 92. 47 Gabrielli, cit., 72. 48 Analogamente a quanto previsto nel disegno di legge n. 3009, cit., il quale utilizzava il termine «rilevanti», meno garantistico dell’attuale formulazione «di non lieve entità». 44

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ne delle operazioni: a parità di risultato, vanno prescelte le tecniche meno invasive. Ad avviso della dottrina49, la violazione del divieto di cui al comma 4 ed il mancato rispetto degli accorgimenti richiamati dal comma 5, determina l’applicabilità dell’inutilizzabilità patologica prevista dall’art. 191 c.p.p. Le modalità prescelte, in ogni caso, devono essere espressamente indicate a pena di nullità ex art. 224-bis, co. 2, lett. f), c.p.p. nell’ordinanza che dispone la perizia e nel verbale delle operazioni di prelievo deve darsi atto dell’eventuale consenso prestato dalla persona sottoposta ad esame (se si tratta di minore, incapace ovvero interdetto per infermità di mente, il consenso è prestato dal genitore o dal tutore o da un curatore speciale nominato dal giudice, i quali possono presenziare alle operazioni), ai sensi dell’art. 72-ter disp. att. c.p.p. Il rifiuto ingiustificato da parte dell’imputato, in ogni caso, ad avviso della dottrina50 «continuerà ad avere sicuro valore indiziario», non essendovi motivo per ritenere superato l’orientamento giurisprudenziale in base al quale «è legittimamente valutato, come elemento di prova integrativo, il rifiuto ingiustificato dell’imputato a sottoporsi al prelievo necessario per l’esame comparativo del DNA, in quanto tale rifiuto può essere liberamente apprezzato dal giudice nella formazione del suo convincimento e anche utilizzato come riscontro individualizzante alla chiamata di correo»51. Controverso è, inoltre, il concetto di «coazione» poiché le circostanze che possono verificarsi sono molteplici a seconda del grado di collaborazione del soggetto: può non presentarsi senza addurre un Tonini, Appendice di aggiornamento al Manuale breve. Diritto processuale penale, Milano, 2009, 4. 50 Curreli, Le indagini in materia di violenza sessuale, relazione in occasione dell’incontro di studio sul tema: La violenza sulle donne: inquadramento giuridico, indagini e giudizio, Roma 19-21 ottobre 2009, 32-33. 51 Cass. pen., sez. I, 20 settembre 2002, n. 37108. 49

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legittimo impedimento; può essere accompagnato coattivamente e rifiutarsi di sottoporsi agli accertamenti; può presentarsi e rifiutarsi di sottoporsi al prelievo. In tali circostanze potrà disporsi, ai sensi del comma 6 dell’art. 224-bis c.p.p. alternativamente: l’accompagnamento coattivo, oppure l’accompagnamento coattivo e l’esecuzione forzosa del prelievo, oppure il solo prelievo coattivo52. L’uso di mezzi di coercizione fisica, comunque, è consentito per il solo tempo «strettamente necessario» all’esecuzione del prelievo o dell’accertamento e, comunque mai oltre le ventiquattro ore (art. 132, co. 2, c.p.p.). Ai sensi del comma 7, infine, l’atto peritale è viziato da nullità assoluta di cui all’art. 179 c.p.p.53 se la persona sottoposta al prelievo o agli accertamenti non è assistita dal difensore nominato (a garanzia del diritto alla difesa tecnica). 5. segue - L’ordinanza ex art. 224-bis c.p.p. L’esecuzione coattiva degli «atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del D.N.A. o accertamenti medici», se risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti, viene disposta dal giudice, anche d’ufficio, con ordinanza motivata. Da un punto di vista contenutistico, l’ordinanza racchiude gli elementi previsti dall’art. 224 c.p.p. (la nomina del perito, la sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini, l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo fissati per la comparizione del perito), nonché,

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Aa. Vv., Prelievo …, cit., 228. Aa. Vv., Prelievo …, cit., 229; Tonini, Appendice…, cit., 4.

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a pena di nullità (a regime intermedio ex art. 180 c.p.p.), ex art. 224bis, co. 2, c.p.p., altri elementi specifici, allo scopo di porre l’interessato in condizione di predisporre adeguatamente la propria difesa. In particolare si richiedono: a) le generalità della persona da sottoporre all’esame e quanto altro valga ad identificarla; b) l’indicazione del reato per cui si procede, con la descrizione sommaria del fatto; c) l’indicazione specifica del prelievo o dell’accertamento da effettuare e delle ragioni che lo rendono assolutamente indispensabile per la prova dei fatti; d) l’avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore o da persona di fiducia; e) l’avviso che, in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento, potrà essere ordinato l’accompagnamento coattivo ai sensi del comma 6; f) l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora stabiliti per il compimento dell’atto e delle modalità di compimento. La dottrina54 ha precisato che il regime della nullità varia a seconda dell’individuo da sottoporre alle attività in questione: se si tratta dell’imputato o di una parte privata diversa dall’imputato la nullità è sempre di tipo intermedio, ai sensi degli artt. 178, lett. c) e 180; qualora il periziando sia una persona estranea al procedimento, la nullità è di tipo relativo. Altri55 hanno sottolineato la rilevanza dell’informazione da dare all’imputato circa lo scopo del prelievo, in quanto «proprio dalla sussistenza di tale informazione dipende il grado di consapevolezza delle implicazioni dell’operazione» cui l’imputato può acconsentire. Egli, nella specie, deve essere posto in grado di scegliere coscientemente se fornire o meno elementi autoindizianti, pur trattandosi di un corollario logico e giuridico del principio nemo tenetur se detegere56. Affinché Tonini, Appendice…, cit., 4. Boiano, L’obbligo di informazione sulle finalità del prelievo di campioni biologici, in Cass. pen., 2009, 11, 4349. 56 Ubertis, Attività investigativa e prelievo di campioni biologici, in Cass. pen., 2008, 6 ss. 54 55

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il consenso al prelievo biologico possa ritenersi validamente espresso, pertanto, sarebbe preferibile propendere per un vero e proprio «obbligo» di informare l’interessato del tipo di accertamento e della possibile comparazione dei risultati con il D.N.A. repertato nel quadro dell’indagine in corso. L’ordinanza deve essere notificata all’interessato, all’imputato ed al suo difensore, nonché alla persona offesa, almeno tre giorni prima di quello stabilito per l’esecuzione delle operazioni peritali. Analogo contenuto devono avere, l’ordinanza autorizzativa emessa dal giudice per le indagini preliminari nella fase delle indagini o il decreto d’urgenza motivato, emesso dal pubblico ministero quando vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini. 6. segue - I prelievi effettuati dal pubblico ministero ex art. 359-bis c.p.p. L’art. 359-bis c.p.p. disciplina l’eventuale prelievo di materiale biologico o l’accertamento medico nella fase delle indagini preliminari, sotto forma di accertamento tecnico ripetibile57. La disposizione in questione ricalca l’art. 224-bis c.p.p. relativamente a presupposti, soggetti passivi, oggetto e modalità esecutive. Diversa è, invece, l’utilizzabilità dei risultati: quelli dell’atto di indaLa polizia giudiziaria può compiere accertamenti tecnici solo se ripetibili, in quanto l’oggetto esaminato non deve essere suscettibile di alterazione nel tempo, né vi deve essere il rischio che venga modificato dallo svolgimento dello stesso accertamento. In tal senso: Cass. pen., sez. IV, 4 dicembre 1993, C.E.D. 197350, relativamente ad accertamenti sulla natura stupefacente della sostanza sequestrata; Cass. pen., sez. I, 14 febbraio 2002, C.E.D. 221126, per la inutilizzabilità di un accertamento tecnico irripetibile eseguito direttamente dalla polizia giudiziaria senza le garanzie dell’art. 360 c.p.p.; Aprile, Le indagini tecnicoscientifiche: problematiche giuridiche sulla formazione della prova penale, in Cass. pen., 2003, 12, 4038. 57

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gine in questione esplicano la propria efficacia all’interno della fase procedimentale; i risultati del mezzo di prova di cui all’art. 224-bis, invece, confluiscono nel fascicolo per il dibattimento58. Il procedimento c.d. ordinario inizia con la richiesta rivolta dal pubblico ministero al giudice per le indagini preliminari. Quest’ultimo, ai sensi dell’art. 359-bis, co. 1, c.p.p., qualora ricorrano i presupposti di cui all’art. 224-bis c.p.p., emana un’apposita ordinanza autorizzativa. È prevista, poi, una procedura d’urgenza: qualora sussista il fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare un grave ed irreparabile pregiudizio alle indagini e che, quindi, il prelievo o l’accertamento medico risultino urgenti, il pubblico ministero, analogamente a quanto accade per le intercettazioni, dispone l’esecuzione delle operazioni con decreto motivato contenente gli stessi elementi previsti dall’art. 224-bis, co. 2, c.p.p. In tale circostanza, il pubblico ministero dispone di poteri coattivi, potendo ordinare l’accompagnamento, in caso di mancata presentazione non giustificata da legittimo impedimento, ovvero l’esecuzione forzosa delle operazioni, qualora la persona comparsa rifiuti di sottoporvisi59. Entro quarantotto ore dall’emissione del provvedimento il pubblico ministero deve chiedere la convalida dello stesso e dell’eventuale accompagnamento coattivo al giudice per le indagini preliminari e quest’ultimo deve provvedere nelle quarantotto ore successive. La mancata assistenza del difensore è causa di nullità del prelievo o degli accertamenti in caso di perizia (ex art. 224-bis, co. 7, c.p.p.), ma non nei casi di cui all’art. 359-bis c.p.p. Quest’ultima norma, infatti, richiama a pena di «nullità» delle operazioni e di «inutilizzabilità» degli esiti (con una singolare doppia sanzione), i soli commi 2, 4 e 5 dell’art. 224-bis e «la discrasia si fa più vistosa guardando ai commi 58 59

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Aa. Vv., Prelievo …, cit., 230. Ibid.

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4 e 5 dell’articolo 224-bis del codice di procedura penale: l’articolo 359-bis ne presidia l’osservanza con il combinato disposto di nullità e inutilizzabilità, mentre la norma ospitante si dimentica di sanzionarne expressis verbis la violazione»60. 7. segue - Le decisioni del giudice relativamente alla distruzione dei campioni prelevati. Ai sensi dell’art. 72-quater disp. att., all’esito della perizia effettuata ai sensi dell’art. 224-bis c.p.p. su campioni biologici, il giudice dispone l’immediata distruzione del campione prelevato. In tal caso tale attività è effettuata a cura del perito il quale ha proceduto alla relativa analisi, che ne redige verbale da allegare agli atti. Ove il giudice ritenga assolutamente indispensabile la conservazione del campione prelevato, dopo la definizione del procedimento con decreto di archiviazione o dopo che è stata pronunciata sentenza non più soggetta ad impugnazione, la cancelleria procede, in ogni caso e senza ritardo, alla distruzione dei campioni biologici prelevati ai sensi degli articoli 224-bis e 359-bis del codice. Va evidenziato, infine, che la norma non accenna alla «fondamentale» – come sosteneva la dottrina in una prospettiva de iure condendo61 – possibilità per le altre parti di eseguire subito, prima che divenga irripetibile, un «re-test» del D.N.A. sui campioni raccolti. Tuttavia, ad avviso di chi scrive, deve ritenersi consentita e lecita tale ulteriore verifica, per una questione di coerenza sistematica e nel rispetto del ruolo del consulente della parte, giuridicamente inquadrato quale organo di difesa tecnica. Gabrielli, cit., 67. Fanuele, cit., 732; Dominioni, La prova scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Milano, 2005, 273. 60 61

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SAGGISTICA E NARRATIVA FORENSE Remo Danovi, Processo al buio. Lezioni di etica in venti film, Rizzoli, 2010, I ed., pp. 220.

di Alma Passante* Se in un’opera letteraria il sottotitolo ha, per definizione, funzione riassuntiva o esplicativa del contenuto essenziale dell’opera, quello di “Processo al buio” di Remo Danovi è letteralmente “illuminante”: solo la frase “Lezioni di etica in venti film” rivela infatti che il buio del titolo è quello magico della sala cinematografica e che l’intento dell’autore è quello di trovare “un modo nuovo di avvicinarsi alla giustizia attraverso la lente del cinema”. Colpisce soprattutto che a fronte di una convinzione diffusa, secondo la quale spesso la legge e il suo rigido formalismo appaiono incompatibili e inconciliabili con la giustizia e dunque “deve intervenire il senso etico a riassegnare ruoli e riattribuire benefici e sanzioni”, l’autore faccia proprio dell’etica il filtro attraverso cui analizzare – prendendo a pretesto film più o meno memorabili da Rashomon a Erin Brockovich, da La giuria a Il socio – patologie, contrasti e problemi della giustizia di ogni giorno. * Funzionario del Comune di San Vito dei Normanni.

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Difesa legale ed etica. Sembrerebbe un ossimoro, quasi che l’una rappresenti la negazione dell’altra; non a caso nelle rappresentazioni pittoriche – da Jeronimus Bosch a Bruegel ad Arcimboldo – l’uomo di legge diviene spesso emblema o incarnazione di avidità ed anche la letteratura abbonda di avvocati furbastri, arruffoni, bugiardi. Come dimenticare l’Azzeccagarbugli di manzoniana memoria, solo per citare una figura universalmente nota? Ma significativa è anche la lapidaria definizione che ne dà Swift ne “I viaggi di Gulliver”: “classe di uomini educati a dimostrare a bella posta che il bianco è nero e il nero è bianco a seconda di com’erano pagati...”. E per Petrarca, che proprio per sottrarsi ad una ineludibile alternativa aveva scelto, dopo gli studi di diritto, di evitare i tribunali e darsi alla letteratura, l’avvocato si troverebbe costantemente di fronte a un dilemma disgustoso: “essere abile ma disonesto oppure onesto ma meschino”. è soprattutto l’avvocato penalista a non godere di particolare stima sociale essendo la difesa penale vista come “un’arte bassa di intrigo che deve giustificare comportamenti abietti e disonorevoli”; ma mentre ci si aspetterebbe dall’autore, avvocato di fama, già Presidente del CNF e padre putativo del codice deontologico forense, una partigiana difesa della categoria, stupisce favorevolmente che egli attribuisca agli avvocati stessi la responsabilità dell’immagine incrinata della categoria: “povera giustizia, povera avvocatura!” è il commento di fronte all’affermazione di un collega secondo cui “la miglior soddisfazione è quella di far assolvere un reo confesso”. Alla luce di questo commento e della convinzione che il successo senza giustizia non ha alcun valore si comprende la citazione – tra gli altri – del film “Testimone d’accusa” di Billy Wilder ispirato da un breve racconto di Agatha Christie il cui protagonista assoluto è un penalista (un Charles Laughton in stato di grazia che a distanza di anni meriterà l’omaggio di Tabucchi ne “La testa perduta di Damasceno Monteiro”) che, intimamente convinto dell’innocenza del proprio assistito, antepone la difesa al proprio stato di salute, riesce a Quaderni

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farlo assolvere ma nel finale – che è senza dubbio uno dei più geniali e sorprendenti della letteratura gialla – non accetta che la legge sia violata (“il giudizio della giuria non mi interessa; è il mio giudizio quello che conta!”). Regia magistrale, attori pienamente nella parte, tra i quali una Marlene Dietrich enigmatica e un Tyrone Power insolitamente ambiguo, il film è un vero capolavoro (“un incanto” lo definisce Danovi e la stessa Christie lo considerava la miglior trasposizione cinematografica di un suo lavoro), la dimostrazione – come lo fu l’album Non al denaro non all’amore né al cielo che Fernanda Pivano considerava poeticamente superiore all’Antologia di Spoon River dai cui versi De Andrè aveva preso spunto – che le cosiddette arti minori possono produrre risultati di valore superiore rispetto alle opere che li hanno ispirati, e offre all’autore lo spunto per soffermarsi sulla propria concezione di avvocato come di colui “che si dia carico delle pene degli altri, quando questi si trovino in difficoltà, con la ragione e con la parola, non con l’astuzia”. Sir Wilfrid Robarts contribuisce dunque – e in seguito saranno tanti i protagonisti di celluloide che ci riappacificheranno con la figura dell’avvocato, dalla Reggie Love de Il Cliente, che accetta l’incarico a fronte di un dollaro di anticipo, al procuratore che assume la difesa di un nero divenendo bersaglio del KKK ne Il momento di uccidere; dall’Atticus Finch de Il buio oltre la siepe, con la sua convinzione che l’ottusità e l’ignoranza si combattono con la verità, al difensore della presunta assassina di Abramo Lincoln nell’ultimo film di Robert Redford, The Conspirator, che distruggerà la propria esistenza pur di assicurare il diritto alla difesa sancito nella Costituzione – a riabilitare una categoria il cui ruolo, non lo si dimentichi, è fondamentale per assicurare il giusto processo; non a caso, ricorda Danovi, il processo più grave della cultura occidentale, quello a Gesù, si è risolto in un’infamia: in quel processo mancavano i difensori!

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Naturalmente è indispensabile che la funzione della difesa sia svolta con diligenza e a questo proposito calzante è la citazione di un altro classico, il primo film per il cinema di Sidney Lumet: “La parola ai giurati”. Sceneggiatura straordinaria, mirabile studio psicologico dei personaggi, il film, pur privo di azione (tutta la vicenda si svolge in una rovente camera di consiglio in una sorta di piano sequenza simile a quello sperimentato da Hitchcock circa 10 anni prima in “Nodo alla gola”) è vibrante, avvincente e incredibilmente moderno sebbene risalga al 1957 tanto che ne sono stati girati diversi remake, tra i quali uno recentemente dal russo Nikita Michalkov, 12 (il riferimento è al numero di giurati). Un parricidio, un ragazzo ispanico privo di alibi, indizi di colpevolezza, per la giuria un caso apparentemente facile che non lascia spazio ad alcun ragionevole dubbio ma uno dei giurati crede che una vita umana valga almeno una discussione; non sa se l’imputato è colpevole o innocente ma sa che il difensore d’ufficio ha fatto un lavoro svogliato e mediocre perché ha controinterrogato senza porre “le domande giuste” (“non essendo gli avvocati d’ufficio pagati per essere solerti” per usare la sarcastica espressione di Danovi) così con una dialettica stringente rivela le falle dell’impianto accusatorio e induce tutti gli altri a cambiare idea dimostrando quanto avesse pesato il pregiudizio nella iniziale superficiale disamina del caso. Gli spunti di riflessione che il film offre sono tanti; tra gli altri il delicato tema del “dovere di diligenza”, uno dei principi cardine del Codice deontologico degli Avvocati, argomento sfiorato anche da Carlo Mazzacurati ne “La giusta distanza”. Anche in questo piccolo film italiano – che fece incetta di candidature all’edizione 2008 dei David di Donatello – un omicidio, alcuni indizi, pregiudizi razziali e la condanna di un ragazzo extracomunitario che frequentava la vittima; anche in questo caso un difensore (d’ufficio) tanto pregiudizialmente convinto della colpevolezza del proprio assistito da non approfondire evidenti incongruenze della Quaderni

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ricostruzione fatta dall’accusa che emergeranno solo grazie alla tenacia di un giornalista in erba che prenderà a cuore la vicenda giudiziaria e umana dell’uomo tunisino nel frattempo suicida in carcere (“Tutti eravate convinti che l’assassino era Assad… Anche tu che eri il suo avvocato!” urlerà lungo le scale del Palazzo di Giustizia all’avvocato insofferente alle sue domande incalzanti). Quello appena citato non è l’unico riferimento a principi del codice deontologico: il romanzo abbonda di riferimenti a capisaldi della professione forense, dal rapporto di colleganza (ne “Il verdetto” la sottrazione dolosa della documentazione di un collega costituisce un vulnus insanabile della funzione difensiva – “La giustizia si è realizzata ma i modi l’hanno mortificata”) al divieto del patto di quota lite, ritenuto a lungo contrario ai doveri di probità e dignità e solo di recente venuto meno con la legge sulla liberalizzazione; dall’estraneità o alterità alla lite (il commento a “Doppio taglio” offre lo spunto per un riferimento al codice deontologico degli USA che vieta esplicitamente all’avvocato di continuare ad assistere un cliente con cui vi sia una relazione ma già ne Il caso Paradine di Hitchcock l’avvocato di una ricca vedova accusata di aver assassinato il marito mette a repentaglio la propria reputazione e il matrimonio per l’infatuazione per la cliente dal volto algido di Alida Valli) al dovere di lealtà e correttezza per cui “L’avvocato non deve proporre azioni con mala fede o colpa grave”. Una vera e propria miniera di esperienze e ammonimenti per gli avvocati; ma sbaglierebbe chi pensasse che Processo al buio sia una lettura gradevole solo per gli “addetti ai lavori”: anche se a volte solo sfiorati – ma sempre, comunque, con riferimenti puntuali e interessanti – sono numerosi e vari gli argomenti affrontati nell’opera, occasione di riflessione per tutti a partire dalla questione morale che – si intuisce in ogni pagina dell’opera – per Danovi è questione imprescindibile soprattutto in questo particolare momento storico caratterizzato dalla gestione del potere nel costante conflitto con

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interessi personali, dall’immoralità ostentata, dalla faziosità della comunicazione, dall’imperturbabilità dei governanti di fronte agli scandali in cui sono coinvolti, dal rifiuto del processo in nome del quale alcuni politici “pretendono arrogantemente di non essere giudicati quasi che il potere personale o la dilagante illiceità costituiscano un salvacondotto per non essere neppure sfiorati dalle indagini”. Pur non rientrando nel genere trattato nell’opera non può non venire in mente l’inquietante, premonitrice scena finale de “Il Caimano” di Nanni Moretti in cui il politico condannato a 7 anni di carcere e all’interdizione dai pubblici uffici inveisce contro i giudici – “Sono stato eletto dal popolo…solo i miei pari mi possono giudicare…Con la mia condanna la democrazia si è trasformata in regime: gli uomini liberi hanno il diritto di reagire in ogni modo” – e poi scompare nel buio circondato da guardie del corpo mentre la folla inferocita lancia bottiglie incendiarie contro il Palazzo di Giustizia e i pubblici ministeri. Non mancano poi riferimenti a tematiche di indubbio interesse per tutti quali: lo sviluppo sostenibile, attraverso la citazione di Una scomoda verità del Premio Nobel Al Gore, già vice Presidente degli USA, manifesto dell’ambientalismo e della condanna allo sfruttamento estremo delle fonti energetiche; l’immoralità del mondo dello sport con i suoi mille scandali; l’attuale sistema elettorale che “ha trasformato la democrazia in oligarchia”; il limitato potere delle donne in ambito giudiziario nonostante la loro equità e tenacia, frutto di secoli di discriminazione (significativo il recentissimo film Convinction, storia vera di una madre di famiglia della working class di una sperduta cittadina del Massachussets che si laurea in legge per difendere il fratello ingiustamente accusato di omicidio); e ancora il testamento biologico (anche qui la posizione dell’autore è chiara: “è la libertà che dovrebbe governare le scelte… ovviamente nell’ambito delle leggi esistenti”); l’immigrazione, il rispetto per ogni persona che fugge da miseria e povertà, drammi di fronte ai quali – come ha Quaderni

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scritto Claudio Magris in un appassionato articolo apparso di recente sul Corriere della sera e ripreso dal Presidente della Repubblica Napolitano – siamo ormai indifferenti, incapaci di metterci nella pelle degli altri “come Tolstoj in quella di Anna Karenina e dunque pure in quella di quei naufraghi in fondo al mare”. Sulla stessa scia il commento di Danovi: “non è ammissibile essere semplici o disattenti spettatori che voltano le spalle. Occorre l’impegno della legge e dei giudici armonizzando sicurezza e solidarietà e, nel dubbio, facendo prevalere il valore della vita umana”. Dopo quattro parti di filmografia made in USA, nelle quali la Giustizia viene messa in correlazione, rispettivamente, con la Verità, il Diritto, la Legge e l’Etica, il libro si chiude con due storie vere: “Un eroe borghese”, la vicenda della liquidazione della BPI e della tragica fine dell’avv. Giorgio Ambrosoli che compì coraggiosamente il proprio dovere in nome del proprio senso della professione e “Avvocato!”, la sfida allo Stato da parte delle Brigate rosse che costò la vita al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, avv. Fulvio Croce. La citazione di questi esempi ci racconta molto, se mai ce ne fosse bisogno, della concezione di giustizia dell’autore per il quale la qualità di un professionista, ma prima ancora di ogni individuo, si misura dalla capacità di operare delle scelte e dal grado di sacrificio personale e professionale che è disposto a sopportare. Processo al buio si chiude con un significativo epilogo in cui si riconosce esplicitamente all’etica la funzione primaria di introdurre un correttivo al formalismo della legge, questione assai dibattuta e fulcro di una delle scene centrali del film The reader in cui un professore di diritto della Germania post-nazista accompagna i propri studenti ad assistere al processo di una donna che ha fatto parte delle SS per creare il pretesto per un dibattito in aula; il professore sostiene provocatoriamente la separazione che è alla base di ogni ordinamento tra etica e giustizia (“In migliaia lavorarono ad Auschwitz… la questione non è: era giusto? Era sbagliato? Ma: era legale?) e al

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commento di un laureando – “Lei ci esorta a ragionare da avvocati ma c’è qualcosa di rivoltante nel farlo!” – risponde laconicamente che la caratteristica della legge è proprio la cavillosità. Ho letto da qualche parte che la magia della letteratura consiste nel fatto che può accadere che ci capiti miracolosamente tra le mani proprio il libro del quale in quel momento abbiamo bisogno; ebbene, se qualcuno dovesse essere disilluso, amareggiato dal sistema giudiziario, dalle sue storture, potrà aprire a caso una qualunque delle pagine di Processo al buio vi troverà, unitamente alla più alta e nobile concezione della professione forense, un antidoto alla sfiducia e al cinismo dilagante: dopo una citazione di Wasssermann che mi ha colpito profondamente (“Devi sapere che l’ingiustizia è per me la cosa più atroce di questo mondo. Non posso descriverti come mi sento di fronte all’ingiustizia, non importa se fatta a me o ad altri. Mi passa da parte a parte, mi dolgono il corpo e l’anima, mi pare che mi si colmi la bocca di sabbia e che io debba soffocare lì per lì”), Danovi conclude infatti uno dei capitoli ricordando che “siamo la giustizia se rispettiamo i nostri diritti e quelli altrui e rifiutiamo ogni comoda scorciatoia che porta alle illegalità piccole o grandi che siano… se distinguiamo chi difende gli interessi collettivi da chi difende i propri… se vogliamo partecipare alla gestione della cosa pubblica rispettando i principi e i doveri oppure ci rassegnamo alla speranza di raccogliere qualche briciola che cada dal tavolo del potere…La giustizia non è (soltanto) il risultato di un processo giudiziario, ma una condizione di vita”.

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