Quaderni Anno IX - N 3/2009

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QUADERNI RIVISTA QUADRIMESTRALE DELL'ORDINE DEGLI AVVOCATI DI BRINDISI

Anno IX - N. 3-2009

Autorizzazione Tribunale di Brindisi n. 10 del 16 maggio 2001

Testata associata all'A.STA.F. ISSN 1972-8956

Direttore Responsabile Augusto CONTE Comitato di redazione

Pasquale ANNICCHIARICO, Giacomo COFANO, Claudio CONSALES, Giustina GIORDANO, Mario LAVENEZIANA, Dario LOLLI, Mauro MASIELLO, Antonio MAURINO, Emanuele MILONE, Elisa MINERVA, Carmelo MOLFETTA, Carlo PANZUTI, Alessandra PORTALURI, Paolo VADACCA.

Direzione

ORDINE DEGLI AVVOCATI presso IL TRIBUNALE DI BRINDISI

Palazzo di Giustizia Viale Liguria, 1 - Tel. 0831/586993 72100 BRINDISI www.ordineavvocati.br.it presidente@ordineavvocati.br.it consiglio@ordineavvocati.br.it Redazione e pubblicità EDIZIONI GRIFO via della Vite, 41 - Cavallino (Le) tel. 0832/394346 edizionigrifo@gmail.com Stampa Tiemme (Industria Grafica) Manduria Tutti gli iscritti all'Ordine possono collaborare alla rivista del Consiglio con articoli su problemi di interesse generale: la Direzione si riserva la facoltà di non pubblicare gli articoli che pervengono. I dattiloscritti non vengono restituiti.

Tiratura n. 1.500 copie

Sommario

• EDITORIALE di Augusto Conte • ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO - Relazione morale del Presidente alla Assemblea Ordinaria dell'1.2.2010 - Cerimonia del conferimento della Toga d'Oro e della Toga d'Onore - Verbale di adunanza - Anticipi minimi - Tabella sintetica difesa d'ufficio 2010 - Tabella sintetica: Assise, Appello, Cassazione • AVVOCATI E COSTITUZIONE - Proposta di Legge Costituzionale d'iniziativa del deputato Pecorella - Dimensione costituzionale dell'avvocato di Aldo Loiodice - L'Avvocatura soggetto costituzionale nella giurisdizione di Guido Calvi - L'avvocatura soggetto costituzionale di Annibale Marini

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IN COPERTINA: Padova, Cappella degli Scrovegni, Navata, Parete Sud: Giotto (1267?-1337): Allegorie delle Virtù e dei Vizi (1305 ca). Giustizia. La maestosa Virtù incoronata, seduta frontalmente, con grande equità tiene nelle mani i piatti della bilancia. I fianchi dell’ampia e leggera struttura gotica del trono servono anche come base d’appoggio alle due figurine dei giudicati. A sinistra l’uomo buono viene incoronato da una figura giovanile alata, simile a una Vittoria, posta su uno dei piatti. Sul disco di destra della bilancia si vede un barbuto giustiziere che sta per decapitare un malfattore. La Giustizia è l’unica delle Virtù a sfoggiare ricchi ornamenti: oltre alla corona, alla spilla e alla cintura metallica, anche una cuffia adornata di perle. La predella del trono della Virtù racchiude il finto rilievo con gli effetti di libertà, gioia e sicurezza che la campagna gode sotto il regime giusto. Vediamo a sinistra un giovane cavaliere e la sua dama che seguono due vivaci cani per la caccia col falcone. Al centro un’altra coppia, più rustica della prima, balla vicino a un casone di paglia al suono di nacchere e di un tamburello in mano a una giovinetta. Da destra arrivano due viaggiatori a cavallo, presumibilmente mercanti. Tratto da: La Cappella degli Scrovegni a Padova, Franco Cosimo Panini, 2005.


- La previsione dell'avvocatura quale soggetto costituzionale di Riccardo Chieppa - L'esaltante impegno per la giustizia di Julián Herranz - L'avvocatura come soggetto costituzionale di Gian Franco Ricci

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• OPINIONI E DOCUMENTI - Rapporti tra Economia e Diritto di Enrico Greco - Sull'illegittimità costituzionale del "lodo Alfano"... di Antonello Denuzzo - In hoc signo iudicas: breve excursus giurisprudenziale sub signo crucis di Gianmichele Pavone

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• CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FORENSE - Lettera dell'Avv. Marco Uberini - Regolamento per le prestazioni previdenziali - Regolamento dei contributi

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• NOTE DI STORIA FORENSE - Il Tribunale di “Terra di Lavoro” in Santa Maria Capua Vetere di Giuseppe Garofalo - Il sistema delle pene nei codici penali del Regno delle Due Sicilie e del Regno di Sardegna (Prima parte) di Augusto Conte • SAGGISTICA E NARRATIVA FORENSE - FEDERICO GENNACCARI - Non solo Moro. L'Italia del Terrorismo 1969-2007 di Gianmichele Pavone

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI BRINDISI Presidente Avv. Augusto CONTE Cons. Segr. Avv. Carlo PANZUTI Cons. Tesor. Avv. Antonio MAURINO Consiglieri Avv. Pasquale ANNICCHIARICO Avv. Giacomo COFANO Avv. Claudio CONSALES Avv. Giustina GIORDANO Avv. Mario LAVENEZIANA Avv. Dario LOLLI Avv. Mauro MASIELLO Avv. Emanuele MILONE Avv. Elisa MINERVA Avv. Carmelo MOLFETTA Avv. Alessandra PORTALURI Avv. Paolo VADACCA

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EDITORIALE

EDITORIALE di AUGUSTO CONTE

L’anno che si è concluso è stato denso di avvenimenti per l’Avvocatura, il più rilevante dei quali è sicuramente l’approvazione, il 18 novembre 2009, da parte della Commissione Giustizia al Senato, del testo della riforma dell’Ordinamento Forense, che, predisposto con il contributo di tutte le componenti della Avvocatura dopo una approfondita disamina, in ogni sede, e superando ogni genere di ostacoli, provenienti da componenti esterne alla categoria professionale, dovrà essere approvato dalle Camere per il completamento dell’iter parlamentare e la definitiva approvazione. Il decisivo passo in avanti dei contenuti della riforma, rispetto al testo in vigore, risalente nel suo nucleo essenziale al 1933, riguardanti l’accesso alla professione, l’aggiornamento e la formazione continua, la esclusiva della competenza dell’Avvocato nei procedimenti giurisdizionali, il procedimento disciplinare, e il ridimensionamento delle innovazioni su tariffe e compensi dovrebbe garantire serietà nell’accesso, qualità delle prestazioni professionali, effettività dell’esercizio professionale, rigore deontologico. È chiaro che nessun Ordinamento può avere la presunzione di adattarsi alle multiformi esigenze di una professione, che, per sua natura libera, può essere attuata con criteri Quaderni

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EDITORIALE

di autonomia, in variegate forme, anche in considerazione dei numerosi, rispetto al passato, campi di applicazione: è certo, però, che il nuovo Ordinamento richiede al professionista legale, iscritto nell’Albo, una più intensa assunzione di “responsabilità” nei confronti dei Colleghi, delle Istituzioni giudiziarie, e, soprattutto, nei confronti della collettività degli utenti, sempre più esigenti nel richiedere prestazioni adeguate alle loro aspettative. La Riforma non chiude, ma a mio parere apre, un dibattito ancora più intenso e riflessivo sul nostro ruolo nell’immediato futuro; il nuovo Ordinamento non costituisce un punto di arrivo, ma un dato di partenza: con la consapevolezza, però, che lo strumento che la Riforma ci consegna costituisce un caposaldo che può conferire alla professione dell’Avvocato una dimensione nuova, che le consenta l’esercizio pieno dell’inviolabile diritto di difesa.

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

Relazione morale del Presidente alla Assemblea Ordinaria dell’1.2.2010 1) La Condizione della Avvocatura nel biennio 2008-2009 e l’attività del Consiglio dell’Ordine di Brindisi. 2) La riforma della professione forense nel rispetto dei principi fondanti di libertà, autonomia e indipendenza. 3) L’attività regolamentare del Consiglio dell’Ordine di Brindisi. 4) L’attività amministrativa. 5) L’attività di etica forense. La progettualità per la formazione e per l’aggiornamento della cultura professionale e deontologica. L’obbligo formativo e i piani per la formazione indetti dall’Ordine di Brindisi. 6) Rapporti con i magistrati e con le istituzioni civili, militari e religiose del territorio. 7) Rapporti con le istituzioni e con le associazioni forensi nazionali e territoriali. 8) Il consiglio e l’amministrazione della giustizia nel territorio. 9) La fondazione della Avvocatura del circondario di Brindisi. La scuola forense. 10) La stampa forense. La Rivista dell’Ordine e le altre pubblicazioni. 11) Conclusioni.

* * * 1. La condizione dell’Avvocatura nel biennio 2008-2009 e l’attività del Consiglio dell’Ordine di Brindisi Avverto il primario dovere di ricordare, nella parte introduttiva della relazione morale, la condizione in cui è venuta a trovarsi l’Avvocatura nel corso del passato biennio ancora condizionato dalla ventata delle cosiddette liberalizzazioni, fondate sull’illusorio dogma di una prosperità illimitata senza costi per nessuno, in virtù della miracolistica capacità del mercato di autoregolarsi e di regolare anche le professioni forensi e le iniziative che hanno assunto le Istituzioni forensi e, per il nostro ambito, il Consiglio dell’Ordine di Brindisi, finalizzate ad affermare, in maniera alta e forte, che non può esservi Quaderni

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sviluppo delle professioni e, in particolare di quella forense, senza un fondamento etico, che le consenta di essere all’altezza dei suoi compiti, nella secolare fedeltà alle sue radici, pur nell’ammodernamento del suo esercizio per fare fronte alla tutela, in ogni sede, dei nuovi diritti. Il mercato non è tutto e l’economia, che ha come interesse il solo profitto, e della quale va comunque rivendicata una concezione umanistica, non può regolamentare una professione quale quella degli Avvocati chiamati a preservare il diritto costituzionale della difesa che la professione forense esprime e realizza, e che costituisce un valore collettivo che non può essere soddisfatto tramite il mercato: l’Avvocatura vuole essere parte nobile ed essenziale di un Paese fondato sulla legalità, sulla efficienza e sull’affermazione dei diritti di ciascuno. Il biennio trascorso è stato uno dei più difficili della storia dell’Avvocatura, a causa da un lato dei grandi cambiamenti, economici e giuridici, che hanno anche inciso sui rapporti tra diritto e mercato, e dall’altra, in conseguenza di una richiesta di prestazioni professionali sempre più raffinate e specialistiche di ambito e respiro sovranazionale, che hanno fatto avvertire l’esigenza di un aggiornamento e di una formazione continui e di più ampio respiro, rispetto ai tradizionali metodi e criteri di apprendimento, e su discipline moderne e ultranazionali, al fine di conseguire risultati di praticità nell’ambito operativo; esigenza a cui l’Ordine di Brindisi ha fornito gli opportuni strumenti, anche tecnologici e ha difeso le prerogative della categoria con determinazione, con intelligenza, con tenacia, con il cuore e il senso di responsabilità necessari, con la consapevolezza di salvaguardare il futuro di tutta la categoria, rivalutandone in tutte le sedi la sua funzione sociale, oltre che giuridica, rafforzando le comunicazioni e le relazioni, interne ed esterne sviluppando i mezzi di comunicazione, tradizionali e tecnologici, e una “cultura dell’umanesimo forense” riconosciuta, ammirata e invidiata in tante sedi, assumendo

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iniziative che hanno avuto poi un seguito istituzionale, rafforzando la Fondazione nell’ambito della formazione continua, con un costante, continuo rapporto con le altre Istituzioni, formulando osservazioni sulle proposte di modifica della professione forense, oggi giunta al primo traguardo di approvazione in Commissione Giustizia del Senato, ricordando, sempre alle Istituzioni Pubbliche dello Stato e alla intera collettività “la ineludibile necessità che, pur nella evoluzione e nelle innovazioni della professione, da anni richieste dalla Avvocatura, siano garantiti alla generalità dei cittadini e ai professionisti i principi fondanti della funzione dell’Avvocato senza i quali il Cittadino è senza difesa, il Professionista è senza regole, la Giustizia stessa, come concetto e come regola di giudizio, è compromessa”. 2. La riforma della professione forense nel rispetto dei principi fondanti di libertà, autonomia e indipendenza L’Avvocatura, con grande impiego di tempo e di energie avendone ricevuto “mandato” dalle Istituzioni dello Stato in sede Congressuale ha dovuto occuparsi non soltanto, come è nella sua tradizione, del compito di ispirare e di sollecitare le riforme di diritto sostanziale e processuale per conseguire la certezza del diritto e una amministrazione della giustizia efficiente e sollecita nel dare risposta alla domanda rivolta dagli utenti, al fine di accertare e riconoscere i diritti e gli interessi violati e ristabilire l’equilibrio sociale nell’accertamento dei fatti costituenti reato, ma anche e soprattutto ha dovuto spendersi per restituire dignità alla funzione: e lo ha fatto, proponendo, ancora una volta, una riforma dell’Ordinamento Professionale che, sulla base dei valori storici fondanti della funzione, di libertà, autonomia e indipendenza, essenziali per l’esercizio della giurisdizione di cui l’Avvocatura è parte, e costituenti un patrimonio morale che ho definito “umanesimo forense”, possa assicurare il rinnovamento della professione che abbia l’effettivo scopo di renderla competitiva e qualificata, attrezzata e preparata, tecnicamente ed eticamente, che Quaderni

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consenta e garantisca, attraverso la formazione e l’aggiornamento permanente, una tutela valida e piena dei diritti della collettività, senza mortificare i compensi e soprattutto, senza creare commistioni di interessi con l’assistito sul risultato delle controversie. Affermavo nelle precedente relazione che “la riforma, se veramente aderente alle spinte comunitarie, deve tenere presente le Risoluzioni del Parlamento Europeo e, in particolare, quella, del tutto inapplicata, del 23 marzo 2006 che riconosce l’indipendenza, l’assenza di conflitti di interesse e il segreto/confidenzialità professionale quali valori fondamentali della professione legale che rappresentano considerazioni di pubblico interesse” e che prevede “la necessità di regolamenti a protezione di questi valori fondamentali per l’esercizio corretto della professione legale”, perché “qualsiasi riforma delle professioni legali ha conseguenze importanti che vanno al di là delle norme della concorrenza incidendo sul campo della libertà, della sicurezza e della giustizia e in modo più ampio, sulla protezione dello stato di diritto nell’Unione Europea”, in quanto la disciplina delle professioni legali è cosa diversa dalla disciplina dei servizi. La riforma approvata dalla Commissione Giustizia del Senato, a differenza del precedente progetto di legge di riforma delle professioni intellettuali – che continuava a definire la professione intellettuale come “attività economica, anche organizzata, diretta al compimento di atti e alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi”, senza considerare la specificità e il livello costituzionale della professione forense che dispiega una attività di difesa tecnica, che non ha come obbiettivo necessariamente un risultato economico (si ponga mente alla difesa da una accusa in un procedimento penale), ma la tutela di diritti e di libertà fondamentali, attraverso una prestazione tecnica, che per quanto tecnicamente qualificata ed eticamente prestata, rimessa comunque alla decisione di altri – ha tenuto presenti le istanze di tutta intera l’Avvocatura. Al proposito, come auspicato più volte anche dall’Ordine di Brin-

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disi, con note e osservazioni, prevede la conservazione dei principi di libertà, autonomia e indipendenza, imprescindibili per l’esercizio del diritto a una difesa effettiva e libera (principi confermati dalla Corte Costituzionale per ultimo con la Sentenza 21.11.2006, n. 360 che ha escluso l’esercizio della professione forense per i dipendenti di enti pubblici a part-time), la cui osservanza e tutela non può che essere affidata agli Ordini, nazionali e territoriali, il cui ruolo è stato ridefinito e potenziato, e alla cui potestà deve essere consegnata, a presidio dell’interesse generale, con particolare riferimento alla deontologia, la responsabilità di regolamentare i comportamenti, specie in materia di concorrenza, pubblicità, compensi, al fine di non varcare la soglia minima del decoro del singolo professionista e dell’onore dell’intera categoria e di preservare il diritto dei cittadini a una difesa valida e corretta. L’accesso prevede percorsi formativi che aprono ai giovani l’ingresso nella attività e ne favoriscono la crescita culturale e responsabile; l’aggiornamento permanente è considerato indispensabile per qualificare le prestazioni; la effettività e la continuità dell’esercizio della professione è un presidio ineludibile; l’esclusiva anche della consulenza e della attività stragiudiziale non è compromessa; il procedimento disciplinare, sia pure con qualche difficoltà pratico-operativa, ha ricevuto maggiore affinamento. 3. L’attività regolamentare del Consiglio dell’Ordine di Brindisi Il Consiglio dopo avere approvato alcuni Regolamenti per l’ordinato svolgimento della attività (Regolamento del procedimento disciplinare, al fine di rendere ordinata e uniforme la attività preliminare e quella del procedimento; Regolamento per la consultazione dei testi, che sono stati catalogati e risistemati e per la Gestione del patrimonio custodito nella Biblioteca) ha riconsiderato, anche alla stregua delle novità introdotte nel rito civile, i Protocolli per lo svolgimento delle udienze civili, penali e del lavoro, per l’avvio dei quali Quaderni

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ha già assunto le opportune iniziative presso i nuovi vertici Istituzionali della Magistratura del Circondario. Ha dato attuazione al Regolamento sui piani di offerta formativa, assunto in applicazione del Regolamento per la Formazione Professionale Continua approvato il 13.7.2007 dal Consiglio Nazionale Forense e della Relazione di accompagnamento (ritenendoli atti presupposti e collegati al proprio piano di offerta formativa) facendosi carico dei compiti di attuazione della attività di formazione professionale, di vigilare sull’adempimento dell’obbligo formativo, di predisporre un piano dell’offerta formativa, di indicare i crediti formativi attribuiti per la partecipazione a ciascun evento. Il Consiglio, come è scritto nel capo relativo ai Criteri Formativi, ha ritenuto di privilegiare, potenziandola e rendendola più partecipativa, la consolidata e collaudata tradizione dell’aggiornamento professionale come sperimentato e conseguito attraverso gli incontri-dibattiti, la Scuola Forense, i Corsi per il conseguimento della abilitazione alla iscrizione negli Elenchi dei Difensori di ufficio; e ha attribuito alla tipologia delle iniziative, a partecipazione libera, il significato di eventi formativi finalizzati all’assolvimento degli obblighi, attraverso l’affinamento delle conoscenze e competenze professionali e l’aggiornamento sulle novità giuridico-forensi, privilegiando la forma gratuita. L’istituzione, in via sperimentale dello SPORTELLO DEI DIRITTI DEL CITTADINO, che ha ricevuto consensi anche dal Parlamento Europeo, è stato ideato in attuazione delle Decisioni del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo sul Programma di appoggio e integrazione delle politiche degli Stati membri sulla difesa degli interessi economici e giuridici delle persone; il Consiglio, anche in riferimento al ruolo centrale assegnato dalla Costituzione alla funzione difensiva e al dovere della Avvocatura di diffondere la conoscenza delle leggi e di osservarne la corretta applicazione, come indicato nel Codice Deontologico Forense, si è proposto, come già

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riferito al momento della formale approvazione, la finalità di “…suscitare il senso della giustizia e del diritto: diffondere la cultura dei diritti e della imprescindibilità della assistenza legale per la loro affermazione; divulgare la conoscenza della funzione fondamentale che l’Avvocatura, quale presidio forte di tutela dei diritti, svolge per il miglioramento, per i singoli e per la collettività, della vita sociale civile; sostenere l’affermazione del sentimento del diritto, quale patrimonio etico e pratico nel rispetto della legalità”. Riferivo, allora, che “il Consiglio dell’Ordine ha ispirato la propria iniziativa non soltanto all’intento di accrescere la qualità dei professionisti nei suoi compiti e nelle sue funzioni a tutela degli assistiti, ma anche alla finalità di attribuire alla categoria forense il posto di rilievo che le compete nel contesto sociale e culturale del circondario e di esaltarne l’immagine di unico soggetto abilitato, quale Ordine istituzionalmente e normativamente costituito, a garantire la tutela dei diritti”. Il migliore riconoscimento all’iniziativa è venuto dalla riforma della professione forense approvata nella Commissione Giustizia del Senato, che ha “istituzionalizzato” l’iniziativa prevedendone l’obbligatoria istituzione nell’art. 27bis. Il ruolo dei professionisti legali ha assunto una dimensione e una importanza in ogni ambito, in funzione della sempre maggiore diffusione dei diritti tradizionali e della configurazione di diritti nuovi, molti dei quali apparsi sul panorama ordinamentale e giurisprudenziale grazie all’impegno e allo stimolo culturale e giuridico dell’Avvocatura; pertanto uno dei compiti essenziali degli Ordini Forensi e dei suoi rappresentanti è costituito dal dovere di diffondere la cultura del “diritto alla difesa”, come diritto primario e inalienabile: dovere che il Consiglio dell’Ordine di Brindisi ha costantemente adempiuto, non solo a mezzo dei propri deliberati, ma soprattutto presenziando, non in maniera passiva e inerte, ma attiva e propositiva, in ogni occasione in cui venivano dibattute problematiche che potevano suQuaderni

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scitare l’interesse della Avvocatura ad essere presente, per esprimere le sue potenzialità e per richiamare l’attenzione della collettività ad essere informata sulle sue prerogative e per riconsegnarle non solo la immagine, ma soprattutto il ruolo sociale e civile che compete ai professionisti legali. In tal modo il Consiglio dell’Ordine di Brindisi ha la ragionevole consapevolezza di avere agito nelle direzioni e nelle dimensioni più opportune, avvedute ed equilibrate, per la tutela degli iscritti e per la garanzia degli utenti. 4. L’attività amministrativa Gli iscritti nell’Albo al 31 dicembre 2009 hanno raggiunto il numero di 1583 Avvocati (le donne avvocato sono 692), di cui 259 Patrocinanti dinanzi alle Giurisdizioni Superiori (le donne sono 31); in tale numero sono compresi gli iscritti nell’Elenco speciale degli addetti ad enti pubblici (in numero di 15), nell’Elenco dei Professori Universitari (in numero di 3) e nell’Elenco degli Avvocati stabiliti (in numero di 1, proveniente dalla Germania). I Praticanti iscritti nel Registro sono 582 (il numero delle donne praticanti è di 351, maggiore di quello degli uomini), di cui 106 abilitati al patrocinio (il numero delle donne abilitate è di 66, mentre gli uomini sono 40). Le indicazioni numeriche hanno anche lo scopo di spiegare quale impegno, di tempo e di dedizione, comporti per il Consiglio la gestione ordinaria di un numero di professionisti che nel totale è di 2.165 tra Avvocati e Praticanti. Il Consiglio nel corso del biennio ha tenuto 76 adunanze (38 per ciascun anno comprese quelle aventi contenuto disciplinare) nel corso delle quali si è impegnato a valutare domande di iscrizione e cancellazione (spesso comportanti approfondimenti valutativi di natura ordinamentale); a esaminare richieste di iscrizioni per trasferimenti da altre sedi (con rilevante attenzione per quelle determinate dalla assunzione di funzioni giurisdizionali onorarie, in riferimento alle

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quali il Consiglio procede all’ascolto degli interessati); a esprimere pareri di congruità sulle parcelle (anche queste spesso richiedenti soluzioni di particolari problemi); a valutare le domande di rilascio di certificati di compiuta pratica, con la verifica sulla effettività e continuità, per sostenere l’esame di Avvocato; a controllare la riscossione delle quote di iscrizione impostata a sistemi moderni in adempimento delle norme sulla contabilità finanziaria; a sostenere le iniziative volte all’aggiornamento professionale; a sviluppare una aggiornata modulistica per agevolare la compilazione e la valutazione delle domande di ammissione al patrocinio per i non abbienti; a comporre l’elenco degli Avvocati disponibili a compiere operazioni di vendite, introdotto dall’art. 179 ter Disp. Att. del Codice di Procedura Civile; a redigere richiesta di pareri al Consiglio Nazionale Forense, anche sulla riforma forense e in materia di tariffa penale; ad approfondire e proporre modifiche al Disegno di Legge sulla Riforma delle Professioni (grande parte delle delibere sono state divulgate sulla Rivista QUADERNI nella Rubrica dedicata alla attività del Consiglio). Il Consiglio ha chiesto con apposita delibera l’intervento del Consiglio Nazionale Forense e dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura presso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per una indagine conoscitiva sul diffuso fenomeno, in ambito locale e nazionale, portato a conoscenza del Consiglio anche da privati cittadini e da Colleghi, di accaparramento e concentrazione di clientela da parte di associazioni con sigle indeterminate e anonime gestite da avvocati, che offrono prestazioni fallacemente gratuite che esulano anche dal campo consumieristico per spaziare in tutti gli ambiti applicativi, con promesse di inconsistenti vantaggi economici, incidendo sulle libere scelte dei cittadini e violando le garanzie di una sana e corretta concorrenza tra avvocati. Notevole è anche stata l’attività svolta per seguire e controllare la pratica forense, in particolare attraverso i colloqui. Il Consiglio ha indetto e tenuto Assemblee Straordinarie, signiQuaderni

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ficativamente in occasione di problematiche connesse alla serena gestione dell’amministrazione della giustizia nel territorio, come è avvenuto per le problematiche insorte nella Sezione Distaccata di Fasano, per la soluzione delle quali ha assunto un particolarissimo e assoluto impegno, portandolo a soluzione. Assemblee Straordinarie, dirette a informare gli iscritti, e ad assumere le opportune iniziative assembleari, sullo stato dell’organico dei magistrati nel Tribunale e nelle Sezioni Distaccate, sulla adeguatezza del personale operativo, sullo svolgimento delle udienze civili e penali; il Consiglio ha seguito tutta la evoluzione dell’assetto del Tribunale, il cui assestamento, dopo l’insediamento dei vertici nelle Istituzioni giudiziarie (Presidente del Tribunale, Procuratore della Repubblica, Presidenti di Sezione, Civile e Penale, Presidente Sezione GIP-GUP) e l’arrivo di un adeguato numero di Magistrati, consente di guardare all’immediato futuro con tranquillità sullo svolgimento della amministrazione della giustizia. Il Consiglio ha già assunto le iniziative volte all’aggiornamento del proprio sito internet divenuto ormai una rete che tiene in costante contatto l’Ordine con i singoli iscritti. Alcune sezioni sono completate (come la storia del nostro Consiglio e del nostro Tribunale), altre sono in via di completamento, tra le quali l’inserimento on-line della nostra Rivista; il sito consente l’aggiornamento costante dell’Albo e l’inserimento di tutti i dati degli iscritti, compresa (previo consenso) la foto. Ha diffuso tra tutti gli iscritti una e-mail istituzionale, strumento telematico indispensabile per colloquiare collettivamente e individualmente con gli iscritti. Il Consiglio è intervenuto moltissime volte collegialmente o con l’impiego delle funzioni a me spettanti, a volte delegate, per comporre questioni insorte fra Colleghi o con clienti, spesso determinate da difficoltà oggettive o da particolari situazioni dalle quali esula la correttezza e la competenza dei Colleghi.

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Sono aumentate le istanze di conciliazione; purtroppo a volte è mancata la disponibilità all’incontro che in molti casi raggiunge un risultato positivo. Il Consiglio ha dovuto, in sede disciplinare, occuparsi dei procedimenti sorti a seguito di segnalazioni o di ufficio: i fatti di rilevanza deontologica segnalati che sfociano in procedimenti sono fortunatamente limitatissimi a cospetto del numero degli iscritti e del numero di doglianze, molte volte infondate o esagerate, o alimentate da una non corretta conoscenza dei compiti e degli obblighi, anche ordinamentali, sia degli iscritti che del Consiglio. In ogni caso il Consiglio ha svolto il suo non agevole compito con serenità e obbiettività, e sempre in vista della tutela della categoria, evitando ogni disagio per gli utenti. Particolare cura continua ad avere il Consiglio nella conservazione dei testi e monografie (in numero superiore a mille), della collana della Gazzetta Ufficiale a partire dal 1928, e delle Riviste della Biblioteca (per quelle che risultavano incomplete si è provveduto all’acquisto dei numeri mancanti); il riordino e la catalogazione sono stati affidati al personale specializzato della Biblioteca De Leo di Brindisi, che ha curato l’inserimento della nostra biblioteca nel Catalogo Italiano dei Periodici “ACNP” gestita dall’Università di Bologna, che ha un sito internet (http:=acnp.cib.unibo.it: è la prima Biblioteca di un Ordine Forense a poter essere consultata in via telematica). Le pubblicazioni hanno potuto trovare degna collocazione nelle librerie poste anche nel corridoio dell’Ordine, liberate dagli scaffali dei rappresentanti delle case editrici, nel quale, dopo i lavori di sistemazione delle pareti, hanno potuto trovare spazio insieme alle sedie, prossime alla Segreteria e alla Presidenza, e alle bacheche ove gli avvisi vengono esposti con razionalità. La delibera di intitolazione della biblioteca dell’Ordine all’Avv. Carlo Monticelli, “per i meriti acquisiti nel promuovere la cultura Quaderni

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giuridica attraverso la creazione della biblioteca e la volontà indefessa di curarne lo sviluppo e il continuo accrescimento”, dopo il compimento dei richiesti adempimenti, dovrà trovare attuazione in apposita cerimonia. Il Consiglio ha attivato e consegnato agli iscritti il tesserino di riconoscimento magnetico, che consente in termini di secondi l’accesso ai corsi di formazione; ha stipulato con Lextel – Servizi Telematici per l’Avvocatura una convenzione utilizzando la quale gli iscritti possono attivare la Casella di Posta elettronica certificata, di cui tutti i professionisti iscritti in Albi devono dotarsi, comunicandola all’Ordine di appartenenza: per i primi due anni il costo è stato assunto dall’Ordine. A partire dal terzo anno i Colleghi potranno continuare a mantenere la casella con il pagamento di € 6,00 all’anno. Come è stato, anche operativamente, spiegato e rappresentato in maniera pratico-operativa nel corso dei quattro incontri indetti presso il Consiglio dell’Ordine, svolti nell’ambito del Piano di formazione, la PEC, oltre ad essere obbligatoria ai sensi della Legge 28.1.2009, n. 2, di conversione del D.L. 29.11.2008, n. 185, assolve a una serie di funzioni, informatiche e telematiche, ormai imprescindibili per l’esercizio dell’attività (celerità di comunicazioni, ricevuta di spedizione, ricevuta di recapito, valore legale riferito anche al contenuto del documento, conservazione del documento elettronico). Il Consiglio ha anche fornito utili indicazioni e strumenti informatici, con altra convenzione, per l’acquisizione della firma digitale, che consente l’accesso alle proprie cause in ogni sede giudiziaria, allo stato utile per conoscere le movimentazioni del processo; ha indicato le modalità di accesso via Internet alle cause dei Giudici di Pace; ha inserito nel sito, ogniqualvolta ne sia stato in possesso, i ruoli delle udienze, predisponendo gli iscritti alla nuova dimensione dell’esercizio professionale e alla introduzione del processo telematico.

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5. L’attività di etica forense. La progettualità per la formazione e per l’aggiornamento della cultura professionale e deontologica. L’obbligo formativo e i piani per la formazione indetti dall’Ordine Forense di Brindisi Il Consiglio ha adempiuto alla propria funzione di salvaguardia dei principi di autonomia e indipendenza della Avvocatura da ogni tipo di condizionamenti partecipando a incontri e dibattiti, di Consiglieri e mia personale, svolgendo il compito di orientamento professionale richiesto dagli Istituti scolastici per le scolaresche dell’ultimo anno di studi, e presenziando alle Assemblee dei Presidenti di Ordine, ripetutamente indette dal Consiglio Nazionale Forense, curando la finalità di diffondere la presenza della Avvocatura del Circondario di Brindisi, nel territorio e in sede nazionale; la nostra Rivista QUADERNI, quale espressione di vita forense, ha contribuito a espandere la cultura della difesa e i principi di legalità insiti nella professione forense e a far conoscere su tutto il territorio, nazionale e locale, le funzioni e la vitalità della Avvocatura del Circondario. Al fine di richiamare fin dall’inizio i valori cui si ispira la nostra professione e l’alto significato della appartenenza all’Ordine, il Consiglio ha mantenuto e potenziato le Cerimonie della Consegna dei Tesserini ai Praticanti, del giuramento degli Abilitati nelle mani del Presidente del Tribunale alla presenza del Presidente dell’Ordine e dei Consiglieri, del giuramento degli Avvocati dinanzi al Tribunale Collegiale. Le cerimonie, tutte alla presenza mia e di Consiglieri dell’Ordine, e per la consegna dei Tesserini del Presidente del Tribunale, costituiscono momento essenziale in una cultura forense che, pur nell’ammodernamento della professione, voglia rispettare la tradizione: lo svolgimento delle cerimonie è seguito dalle famiglie degli iscritti, che svolgono un decisivo compito di sostegno, morale ed economico, nelle fasi iniziali della pratica e della professione forense, e dagli Avvocati che assumono i praticanti negli Studi, il cui

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ruolo il Consiglio ritiene decisivo e imprescindibile per un corretto, consapevole e responsabile percorso formativo. Il consenso delle famiglie e degli Avvocati, ma soprattutto dei diretti interessati, ha impegnato il Consiglio a rendere sempre più solenne e austere le cerimonie, che svolgono una funzione non formale, ma sostanziale sulla credibilità e affidabilità della categoria. La cerimonia che più si inserisce nel quadro storico dell’Avvocatura del Circondario di Brindisi, facendone parte integrante del patrimonio storico-forense, è la consegna della Toga d’Oro, agli Avvocati con cinquanta anni di attività, e della Toga d’Onore agli Avvocati primi classificati agli esami di Avvocato, che rappresenta, nella simbologia della toga, e nella funzione della tutela dei diritti che la stessa rappresenta, la libertà e la continuità della professione forense. La Cerimonia per questo biennio si è svolta il 19 dicembre 2009, e la lectio magistralis, avente come argomento “La soggettività costituzionale dell’Avvocatura”, è stata tenuta dal Prof. Avv. Aldo Loiodice, già componente del Consiglio Nazionale Forense e professore di Diritto Costituzionale nell’Università di Bari, docente di diritto amministrativo nell’Università Europea di Roma. Il Consiglio ha posto grande cura nell’aggiornamento e nella formazione professionale, attraverso la indizione dei piani formativi, approvati dal Consiglio Nazionale Forense, essendo l’obbligo della formazione continua sostenuto da direttive nazionali ed europee. L’art. 13 del Codice Deontologico già prevedeva il dovere di aggiornamento dovendo l’avvocato curare costantemente la propria preparazione professionale e accrescere le conoscenze nei campi di applicazione della attività; l’obbligo dell’apprendimento si rinviene anche nell’art. 1176, 2° comma Codice Civile laddove stabilisce che nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio delle attività professionali, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura della attività esercitata. Il Consiglio d’Europa si era già occupato della formazione con la

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Risoluzione 11.2.1999 e la Raccomandazione n. 21/2000, alle quali aveva fatto seguito la Raccomandazione 28.11.2003 del CCBE; successivamente l’art. 22 della Direttiva n. 2006/123/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12.12.2006 indicava la formazione continua quale misura di garanzia delle prestazioni professionali e, sul piano nazionale, la Legge 4.8.2006, n. 248, faceva obbligo di adottare criteri volti ad accrescere la qualità dei liberi professionisti. Su questa linea è intervenuto il Consiglio Nazionale Forense con il Regolamento sulla formazione permanente cui il Consiglio dell’Ordine di Brindisi si è uniformato con proprio Regolamento sulla base del quale ha programmato i piani di formazione che si sono sviluppati nell’ambito di quattro semestri che hanno coperto interamente il primo biennio formativo. Nessun effetto hanno sortito le iniziative volte a ostacolare la formazione; nel n. 2/2009 della Rivista, è stata pubblicata la sentenza del TAR Lazio 17.7.2009, n. 7081, che ha rigettato alcuni ricorsi avverso il Regolamento della formazione approvato dal Consiglio Nazionale Forense, ritenendone la legittimità per ogni aspetto. Gli argomenti degli incontri, per i quali rimando ai piani formativi essendo noti a tutti i Colleghi, anche di Fori vicini, che Vi hanno partecipato, sono stati scelti anche d’intesa con i Formatori (Avvocati, Professori Universitari, Magistrati) sempre su tematiche di strettissima attualità, di natura sostanziale e processuale, e su argomenti in trattazione dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione. L’Ordine di Brindisi è stato in diverse sedi portato a esempio per l’impegno nella formazione. Il Consiglio, sin dall’inizio, non solo si è fatto carico, in prima persona, della diretta gestione della formazione, anche attraverso la Fondazione, con un costo necessitato dall’uso di sale contenenti partecipanti, che all’inizio superavano le mille unità, e spazi di parcheggio (la successiva diversificazione e il numero degli incontri hanno “alleggerito”, sia pure non di molto, le partecipazioni, essendo stata Quaderni

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consentita una scelta ampia di eventi), ma ha invitato i Colleghi a non ritenere il nuovo impegno come un fastidio o come una “punizione”, ma come una risposta alle “aggressioni” da più parti derivate alla professione forense, volta ad accrescere le qualità professionali, ritrovando l’orgoglio della appartenenza alla categoria, con una nuova “filosofia” di crescita professionale, come momento di aggregazione, come avvenimento di “conoscenza”, come esigenza di affinamento delle competenze e tecniche professionali, come occasione di riflessione metodologica e di crescita di sensibilità, come momento di stimolo, di condivisione culturale, di qualificazione agli occhi di “terzi”, come concretizzazione dell’idea di eticità che è a fondamento del ruolo della difesa, con un atteggiamento culturale consapevole degli obblighi non solo giuridici, ma anche morali e sociali che l’esercizio della professione forense comporta se vuole essere in linea con la sua alta funzione. L’eccellenza dei formatori ha anche richiamato l’attenzione della formazione decentrata del Consiglio Superiore della Magistratura presso la Corte di Appello di Lecce, che unico caso nella storia del nostro percorso formativo del nostro Circondario, ha voluto unire, Magistratura e Ordine Forense di Brindisi, in una comune formazione. Il Consiglio ha indetto nel decorso biennio complessivamente ventinove eventi formativi, del minimo di tre ore ciascuno (ivi compresi i quattro eventi di aggiornamento tecnologico su firma digitale e PEC), consentendo, anche sotto l’aspetto formale dell’assolvimento dell’obbligo formativo, la possibilità di acquisizione dei previsti crediti; ha potuto constatare che anche dopo il conseguimento del minimo previsto accreditamento, le iscrizioni e le frequenze hanno registrato una ampia e interessata partecipazione, sia per il contenuto degli argomenti, che per la loro novità, oltre che per l’eccellenza dei formatori. Nell’ambito della propria competenza territoriale, ai sensi di Re-

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golamento, ha anche accreditato molti eventi e seminari, a richiesta di altri enti o associazioni. 6. Rapporti con i magistrati e con le istituzioni civili, militari e religiose del territorio Il Consiglio dell’Ordine, nel rispetto dei propri ruoli e delle proprie funzioni, ha mantenuto un continuo e serrato rapporto dialogante con tutte le Istituzioni del territorio e con gli altri Ordini e Collegi professionali. Particolare risalto, nell’ultimo anno del decorso biennio, con positiva ricaduta sulla vivacità e attenzione dell’intero Foro alle problematiche normative, sostanziali e di rito, e alla riforma dell’Ordinamento Professionale, ha avuto il rapporto con le istituzioni Governative, nella sua massima espressione del Ministro della Giustizia On. Angelino Alfano, che il 22.5.2009, per la prima volta nella storia dell’Ordine, ha aderito all’invito a partecipare alla celebrazione degli ottanta anni della istituzione del Tribunale e dell’Ordine Forense di Brindisi. Alla cerimonia, che oltre al fine di ricordare lo storico evento, si riprometteva di prospettare e discutere le esigenze degli Uffici Giudiziari del Tribunale (al momento dell’incontro privo dei vertici) hanno partecipato il Primo Presidente e il procuratore Generale della Corte di Appello di Lecce, i rappresentanti delle Istituzioni provinciali, civili e militari, l’Arcivescovo di Brindisi, Presidente e Procuratore della Repubblica facenti funzione del Tribunale, Avvocati, Magistrati, Personale. Il Ministro ha ascoltato gli interventi della Avvocatura che, per mio tramite, ha prospettato esigenze generali e del territorio e ha svolto una approfondita e minuziosa relazione sull’attività di Governo e sulle iniziative normative. Il rispetto reciproco, dovuto e realizzato, ha consentito di risolvere, soprattutto nell’interesse della collettività, destinataria dei servizi della giustizia, ogni problema operativo, segnatamente con la MagiQuaderni

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stratura, consentendo il più possibile un operare sereno e fattivo; il Consiglio, nei casi di insorgenza di contrasti, di ordine e contenuto generale è andato alla ricerca, o è stato interpellato, per risolvere le questioni, senza ricercare privilegi per l’Avvocatura, ma per affermare le sue prerogative, nella convinzione, positivamente verificata, che gli incontri sereni e ragionevoli siano più produttivi e costruttivi di scontri sterili e dannosi. Il Consiglio ha assunto netta posizione, a favore della intera Avvocatura del Circondario, per risolvere una delicata questione attinente alla serena amministrazione della giustizia nel territorio di Fasano, non esitando ad assumere iniziative, come esecutivo, e ad indire una Assemblea in esito alla quale, a conferma delle precedenti iniziative, ne ha adottate ancora altre, ponendosi come interlocutore non solo con i rappresentanti della Magistratura del Distretto, ma con lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura. È a conoscenza di tutti, per essere stato pubblicamente dichiarato, anche in occasione di cerimonie alla presenza di rappresentanti della Avvocatura Nazionale, che le Istituzioni del territorio, e in particolare le Magistrature, hanno sempre espresso lusinghieri apprezzamenti sulla competenza e sulla correttezza della Avvocatura del Circondario e che gli ospiti che si sono avvicendati nel nostro Ordine, Avvocati, Magistrati e Professori Universitari, hanno apprezzato il “clima” di fattiva operosità esistente presso il nostro Tribunale. Concretamente la considerazione e la stima che l’Avvocatura del Circondario riscuote, sono rappresentate dalla partecipazione, che ha suscitato apprezzamenti da parte di ospiti, del Presidente del Tribunale, del Procuratore della Repubblica, dei Presidenti di Sezione e di Magistrati del Tribunale e della Procura della Repubblica, alle manifestazioni indette dalla Avvocatura, tra le quali, ultima in ordine di tempo, quella della Cerimonia della consegna delle Toghe d’Oro e delle Toghe d’Onore. Le partecipazioni alle nostre manifestazioni da parte di Magistra-

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ti e Autorità costituiscono riconoscimento della appartenenza della Avvocatura alla amministrazione della giustizia, quale protagonista del sistema giuridico-forense, e considerazione per la imprescindibile funzione difensiva, oltre che approvazione del metodo con cui l’Avvocatura del Circondario, anche nella sua rappresentanza istituzionale, si è posta nel quotidiano confronto con i naturali interlocutori nella formazione del giudizio. Rivolgo un sentito ringraziamento, per la loro partecipazione ai più significativi eventi forensi, alle Autorità Civili, Militari e Religiose del territorio, e, in particolare a Mons. Rocco Talucci, Vescovo di Brindisi, per l’assistenza ai momenti di spiritualità in ricordo degli Avvocati scomparsi. 7. Rapporti con le istituzioni forensi e con le associazioni nazionali e territoriali Il Consiglio dell’Ordine ha partecipato attivamente e operativamente a tutte le manifestazioni e incontri indetti dalla Avvocatura Nazionale Istituzionale e Associata, salvo casi di concomitanti impegni in sede. Ho partecipato, insieme a Colleghi Consiglieri alle Assemblee dei Presidenti degli Ordini indette dal Consiglio Nazionale Forense presso la sede di via del Governo Vecchio in Roma, nelle quali i problemi della Avvocatura richiedevano una presenza attenta e proficua; ho quindi seguito le problematiche sulla riforma ordinamentale, sulla concreta interpretazione e applicazione delle nuove regole sui compensi professionali, sulle modifiche del Codice Deontologico, sulle modifiche al processo civile. I collegamenti con le Istituzioni Nazionali sono stati mantenuti anche attraverso la nostra rappresentanza in seno al Consiglio Nazionale Forense, con l’Avv. Antonio De Giorgi e alla Cassa di Previdenza Forense, con l’Avv. Dario Lolli. Altro momento significativo e “storico” per l’Ordine Forense di Quaderni

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Brindisi è stato rappresentato dalla elezione, per la prima volta, di un nostro iscritto, l’Avv. Dario Lolli, a Consigliere di Amministrazione della Cassa. Il Consiglio ha assicurato la propria rappresentanza ai Convegni e Congressi Nazionali, alla Conferenza Nazionale dell’Avvocatura in Roma nell’ottobre 2009 e al Congresso Nazionale Forense di Bologna. Intensi sono stati i rapporti con gli Ordini del Distretto e con l’Unione Regionale degli Ordini di Puglia, nella quale ho mantenuto la carica di Vice-Presidente, in seno alla quale sono state discusse e formulate proposte confluite in mozioni sull’ordinamento professionale, trasferite nei congressi nazionali e, in particolare è stato redatto l’intervento dell’Avvocatura, uniforme per i sette Ordini regionali. Il rapporto con la Camera Penale di Brindisi è stato intenso di intese e scambi culturali e professionali, specie in riferimento al miglioramento della attività degli Avvocati nello specifico campo del penale; il Consiglio ha anche intessuto rapporti con l’A.I.G.A. di recente ricostituzione. Il Consiglio ha potuto constatare con viva soddisfazione l’insorgere di una nuova vivacità associativa, avendo avuto comunicazione della istituzione di altre associazioni sul territorio: tra quelle in corso la costituzione della Camera minorile. 8. Il Consiglio e l’Amministrazione della Giustizia nel territorio Il Consiglio ha costantemente vigilato per una corretta amministrazione della giustizia nel territorio partecipando, informalmente o formalmente, a incontri e ottenendo attenzione e ascolto da parte dei Dirigenti degli Uffici Giudiziari per la soluzione di problematiche di carattere generale e diffuso. Uno dei problemi riguarda la questione degli organici del Personale, che non è limitato al nostro Tribunale.

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L’insediamento solenne del Presidente del Tribunale dott. Francesco Giardino e del Procuratore della Repubblica dott. Marco Dinapoli, del Presidente della Sezione GIP-GUP dott. Valerio Fracassi, del Presidente della Sezione Civile dott. Cosimo Almiento e la presa di possesso della sede di sei nuovi Magistrati, nella sede principale e in quelle Distaccate (rimane purtroppo ancora da risolvere l’organico della sede di Fasano), l’istituzione della Sezione per la famiglia, la copertura quasi integrale della Sezione lavoro, e quella completa del settore penale, dopo le movimentazioni determinate dalle riforme introdotte nell’Ordinamento Giudiziario, consentono una stabilità di organico e il pieno svolgimento della amministrazione della giustizia. A tutti i nuovi Magistrati, ad ogni livello, rinnovo, a nome di tutto il Foro, gli auguri di sereno e produttivo lavoro. Il Consiglio è intervenuto più volte per consentire un tranquillo svolgimento delle udienze: i Protocolli adottati, appena posti a confronto con i vari settori della Magistratura e approvati, potranno contribuire a favorire le condizioni per lo svolgimento più ordinato e, soprattutto in tempi contenuti nell’arco della mattinata, non potendo l’Avvocatura dedicare interi pomeriggi alle udienze, con sofferenza di altre attività di Studio che richiedono la presenza, anche per far fronte alle scadenze degli atti. Nel complesso l’amministrazione della giustizia nel territorio non soffre più rallentamenti, come molti osservatori esterni hanno rilevato, almeno rispetto ad altre realtà: la recente copertura degli organici consente ora che l’attività possa essere ripresa in pieno essendo stati assegnati tutti i ruoli delle cause civile e di lavoro. Il Consiglio ha svolto il suo ruolo propositivo, secondo le proprie attribuzioni, vigilando nei Consigli Giudiziari, specie in riferimento alle nomine dei giudici onorari, incontrando, come è noto, spessissimo il Presidente del Tribunale e tenendolo costantemente informato delle problematiche che insorgevano ottenendo ove possibile che venisse posto rimedio. Quaderni

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Ripeto e riaffermo quanto espresso in precedenti occasioni assembleari nell’auspicare che una attenzione maggiore venga posta dai magistrati di udienza al fine di consentire lo svolgimento del mandato evitando contrasti e conflitti che non giovano né ai rapporti tra avvocato e magistrato, né alla dignità delle funzioni che nei rispettivi ruoli esercitiamo, né, soprattutto, all’interesse della collettività che tutti quanti siamo chiamati a servire. 9. La fondazione della Avvocatura del circondario di Brindisi. La Scuola Forense In riferimento alla Fondazione, non posso che richiamare la mia precedente Relazione, con la quale ricordavo che uno degli impegni del Consiglio dell’Ordine è costituito dal potenziamento della Fondazione della Avvocatura del Circondario di Brindisi costituita fin dall’8.7.2005 con l’intento di creare una istituzione che consenta la gestione della Scuola di Formazione, istituendo un “Centro Studi”, per la realizzazione di iniziative per la diffusione della cultura giuridica, per l’organizzazione di convegni e seminari, per la divulgazione di pubblicazioni, tutti volti alla valorizzazione della professione forense e all’apprestamento di servizi in favore della Avvocatura. La nostra Fondazione è stata presa a modello da altri Ordini e costituisce un moderno strumento operativo (il Consiglio Nazionale Forense ha promanato tre Fondazioni, una per ogni settore operativo: formazione continua, scuole forensi, innovazione tecnologica) che va potenziato, specialmente per la gestione della formazione per l’impegno, di tempo e di energie, che la stessa comporta per il Consiglio dell’Ordine. La Scuola Forense ha proseguito solo in parte i corsi, essendo passata in prima linea la esigenza di affrontare la formazione obbligatoria; la stessa va riavviata, secondo i criteri indicati nella presentazione dei corsi, e pubblicati insieme al programma, che prevedono la indicazione di principi direttivi ispirati allo Statuto della Scuola

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con l’adozione di linee guida in funzione della divisione di aree per materie e moduli di iniziativa dei formatori, attuati attraverso la formulazione di pareri e atti nei quali possono trovare approfondimento e esposizione gli istituti giuridici applicabili ai casi concreti, orientati dai precedenti giurisprudenziali di riferimento. La Fondazione e la Scuola, devono essere potenziate per rispondere alle finalità che i rispettivi Statuti perseguono, e soprattutto, per agevolare l’accesso alla professione. Il potenziamento della Scuola, a suo tempo istituita e approvata, risponde anche ai nuovi criteri di accesso alla professione, previsti nella riforma ordinamentale professionale. 10. La stampa forense. La rivista dell’Ordine e le altre pubblicazioni Ho sempre ritenuto, e il Consiglio condivide il pensiero che ritengo sia apprezzato dall’intero Foro di Brindisi, che l’Avvocatura abbia bisogno di esprimersi attraverso una rete di comunicazione. I più immediati e diretti mezzi di comunicazione sono la posta elettronica “istituzionale” assegnata a ciascun iscritto dall’Ordine, e il sito internet www.ordineavvocatibrindisi.it, che consentono di raggiungere tutti gli iscritti per le comunicazioni più immediate e urgenti (calendari di udienze, informazioni di pratica utilità, comunicazioni di eventi, di adempimenti e scadenze); anche la Stampa Forense adempie ad un ruolo di comunicazione e informazione insostituibile: l’Avvocatura deve esprimersi attraverso una rete di comunicazione utilizzando oltre ai siti telematici, la carta stampata. Con la Rivista QUADERNI e le pubblicazioni dei Supplementi (utile strumento per evitare che il patrimonio giuridico-culturale espresso durante gli Incontri-Dibattiti venga disperso) l’Ordine di Brindisi raggiunge tutti gli iscritti e, essendo la Rivista inviata a tutti gli Ordini d’Italia, diffonde e scambia le proprie iniziative ed attività culturali. Quaderni

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Posso ripetere quanto già in passato affermato e cioè che la diffusione sul territorio della Rivista consente di comunicare lo spirito culturale che anima l’Avvocatura e di proporla come soggetto interlocutore, con tutti gli iscritti, con le Istituzioni, e con la società civile, sulle problematiche connesse alla amministrazione della giustizia, alla corretta applicazione delle leggi, alla divulgazione del principio di legalità, con conseguente apprezzamento nella valutazione della pubblica opinione della immagine culturale, dell’impegno della Avvocatura e diffusione della cultura della difesa. La Rivista, iscritta alla Associazione Nazionale Stampa Forense, con l’ultimo numero (nel quale viene pubblicata la presente relazione), completa il nono anno di vita: le pubblicazioni si sono susseguite ininterrottamente senza il salto di nessun numero, con puntualità e continuità. Ho partecipato con i Consiglieri alle Consulte indette dall’A.Sta.F. su problematiche professionali (come ricorderete la VII^ Consulta su accesso alle professioni di Avvocato, Magistrato e Giornalista si tenne a Brindisi nel settembre 2005). La Rivista continua a ricevere attestati di apprezzamento da parte di singoli professionisti ed enti; per ultimo la Rivista on-line, www. giustiziaoggi.it, ha commentato la nostra Rivista in maniera estremamente lusinghiera per la forma e per i contenuti. Sono state pubblicate le trascrizioni degli incontri formativi; i successivi incontri, già trascritti, sono in attesa di pubblicazione appena i Relatori avranno apportato le opportune integrazioni. 11. Conclusioni A conclusione della relazione morale sull’attività di un biennio di vita forense, ritengo di poter affermare la più ampia soddisfazione, mia e di quella del Consiglio per il lavoro svolto, con passione e spirito di sacrificio e di servizio, e che, nel ripercorrere, mi è sembrato spropositato rispetto alle mie forze: e difatti non avrei mai avuto la

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possibilità delle realizzazioni che ho ricordato senza il sostegno continuo, infaticabile, appropriato, solerte e puntuale dei Colleghi Consiglieri, e in special modo dei responsabili dei servizi di Tesoreria, Avv. Antonio Maurino e di Segreteria, Avv. Carlo Panzuti, che hanno, in maniera infaticabile, conferito all’Ordine tutto il meglio di sé stessi, sottraendo tempo non soltanto al riposo, del quale nessuno ha mai goduto, neppure in periodo di ferie, avendo ciascuno per quanto possibile assicurato la presenza nell’Ordine in ogni giorno dell’anno e continuativamente dato vita e pensiero e anima all’Ordine, ma, in casi estremi anche allo stesso lavoro professionale. Ringrazio tutto il personale dell’Ordine che in maniera infaticabile e competente ha consentito di soddisfare il più rapidamente possibile le richieste degli iscritti e di agevolare il lavoro del Consiglio: la possibilità di prenotare la partecipazione agli eventi formativi online potrà alleggerire il lavoro di segreteria e nel contempo evitare le code di attesa, purtroppo inevitabili agli inizi. Tante iniziative vanno approfondite e completate, molte nuove possono essere adottate, soprattutto in riferimento agli aspetti tecnologici applicati alla professione; ma posso, e i Colleghi Consiglieri con me, ritenermi gratificato dalla soddisfazione di avere reso servizi utili all’esercizio della professione che, pur procurandoci sempre più incertezze e sofferenze, tutti quanti amiamo in una maniera assoluta e che vogliamo ancora mantenere libera e indipendente, rispettata ed esaltata. Avverto la necessità di ricordare, avendoli tutti quanti nel cuore, i Colleghi che ci hanno lasciato per sempre in questo biennio, dopo avere onorato il simbolo della toga che ci contraddistingue, Angelo Amati, Carolina Colucci, Michele De Cesare, Stefano Loparco, Salvatore Picciolo, Luigi Putignano. Tutti noi custodiamo un caro, nostalgico e imperituro ricordo. Alle famiglie invio il mio saluto, a nome di tutto il Foro, con i sentimenti di amicizia e solidarietà. Quaderni

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Un saluto invio ai Colleghi che per ragioni di età o di infermità vivono nella sofferenza. Esprimo, infine, il mio più sentito ringraziamento a tutti quanti Voi Amici Colleghi che mi avete sostenuto con proposte, indicazioni, consensi o dissensi; a tutti coloro che hanno avuto pazienza e tolleranza per qualche inconveniente; a quanti hanno apprezzato la passione, la determinazione e la forza con cui ho affrontato, senza mai un cedimento o una lamentela, un compito difficilissimo: a tutti quanti esprimo la mia più profonda riconoscenza per avermi consentito l’esaltante e nobilitante privilegio di compiere il mio servizio, in favore dell’Avvocatura, del quale sono e sarò sempre orgoglioso! A tutti auguro le migliori fortune. Il Presidente Avv. AUGUSTO CONTE

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Cerimonia del conferimento della Toga d’Oro e della Toga d’Onore Biblioteca dell’Ordine 19 dicembre 2009 La Cerimonia di conferimento della “Toga d’Oro” agli Avvocati che hanno compiuto cinquanta anni di attività forense e della “Toga d’Onore” a due Avvocati primi classificati, tra i candidati di Brindisi, nelle Sessioni del 2008 e del 2009 di Esame per Avvocato presso il Distretto di Corte di Appello di Lecce, oltre che rappresentare patrimonio morale della Avvocatura del Circondario, che solennemente festeggia gli insigniti, costituisce occasione di prospettazione, non solo agli invitati e agli ospiti, ma all’intera collettività, della nobiltà e dignità della funzione della difesa. In questa cadenza biennale è stato scelto come argomento della “lectio magistralis”, “La soggettività costituzionale dell’avvocatura”, ispirato dalla considerazione che l’Avvocatura, quale componente essenziale della giurisdizione, richiede la necessità del riconoscimento costituzionale della figura dell’Avvocato attraverso il suo inserimento, come soggetto costituzionale, nella Carta di prima garanzia dei diritti, qual’è la nostra Costituzione, assicurandone comunque l’autonomia dagli altri poteri dello Stato e preservandone l’attività privata, libera e indipendente. Il tema, pubblicato nello speciale inserto unitamente ad altri interventi, è stato trattato dal Prof. Avv. Aldo Loiodice, Ordinario di Diritto Costituzionale nell’Università di Bari e docente di Diritto Amministrativo nell’Università Europea di Roma, già Consigliere Nazionale Forense per il Distretto di Corte di Appello di Bari. Gli Avvocati insigniti della Toga d’Oro, in questa tornata, sono i Colleghi Giovanni Lomartire, Stefano Cavallo, Stefano Longo, GiuQuaderni

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liano Lucarini e Consiglio Armando Parisi, che si sono sempre distinti nel loro impegno forense, alcuni come Consiglieri dell’Ordine, altri come Delegati della Cassa Forense, nell’attività associativa e anche nell’ambito della società civile, dando lustro e prestigio alla Avvocatura. I Colleghi nei loro interventi e in note scritte hanno ripercorso il tracciato della loro vita forense, gli anni della crescita, in ogni senso, della Avvocatura del Circondario, come di quella degli Uffici Giudiziari. Agli Avvocati con cinquanta anni di attività sono state consegnate targhe-ricordo. Il Presidente dell’Ordine ha ricordato, soprattutto ai giovani insigniti della Toga d’Onore, e a tutti i presenti, che la Toga è responsabilità, è legalità, è sacrificio, è impegno, e che compito dell’Avvocato è anche quello di essere elemento “purificatore” della vita giudiziaria. La Toga d’Onore è intitolata a Carmen Balestra, “luminoso esempio di aspirante a indossare la toga”, che venne a mancare nel 1988 all’età di trenta anni, subito dopo avere superato l’esame di Avvocato. Le giovani Colleghe cui è toccato il riconoscimento sono Niny Santoro per la sessione 2008 e Elisabetta Bocco per la sessione 2009, alle quali sono state donate le Toghe. Alla manifestazione, oltre a Autorità, Avvocati (tra i quali Colleghi già insigniti del riconoscimento), Magistrati, famigliari e estimatori dei festeggiati, hanno partecipato il dott. Cosimo Almiento, in rappresentanza del Presidente del Tribunale di Brindisi dott. Francesco Giardino (che impossibilitato a partecipare ha fatto pervenire anche una comunicazione di plauso per la cerimonia e per i festeggiati, ricordando che il foro di Brindisi si è sempre distinto per qualità e impegno) e il dott. Marco Dinapoli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi che sono intervenuti con considerazioni di apprezzamenti sia per gli Avvocati “anziani” che per le nuove leve.

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ATTIVITĂ€ DEL CONSIGLIO

Tavolo della Presidenza

Sala

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Toghe d’Oro e d’Onore

I consiglieri

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

Dr. Marco Dinapoli

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

Dr. Cosimo Almiento

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

Il Presidente e l’Avv. Giovanni Lomartire

Il Presidente e l’Avv. Stefano Cavallo

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

Il Presidente e l’Avv. Stefano Longo

Il Presidente e l’Avv. Giuseppe Lucarini

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Il Presidente e l’Avv. Consiglio Armando Parisi

Il Presidente e l’Avv. Niny Santoro

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Il Presidente e l’Avv. Elisabetta Bocco

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Consiglio Ordine Avvocati presso il Tribunale di Brindisi N. 25/9 Verbale di adunanza L’anno 2009 il giorno 10 del mese di settembre nei locali del Consiglio dell’Ordine al 2° piano del Palazzo di Giustizia, alle ore 10.00 si è riunito il Consiglio dell’Ordine nelle persone dei Signori: 1. Avv. Augusto CONTE 2. Avv. Carlo PANZUTI 3. Avv. Antonio MAURINO 4. Avv. Pasquale ANNICCHIARICO 5. Avv. Giacomo COFANO 6. Avv. Giustina GIORDANO 7. Avv. Mario LAVENEZIANA 8. Avv. Emanuele MILONE 9. Avv. Elisa MINERVA 10. Avv. Carmelo MOLFETTA 11. Avv. Alessandra PORTALURI 12. Avv. Paolo VADACCA

Presidente Consigliere segretario Consigliere Tesoriere Consigliere “ “ “ “ “ “ “ “

Assenti giustificati i Consiglieri Avv.ti Dario LOLLI e Mauro MASIELLO. Il Consiglio così composto ha deliberato sul seguente ordine del giorno: 1) Istanza al Consiglio Nazionale Forense e all’Organismo Unitario della Avvocatura per la promozione di esposti, indirizzati all’Autorità Garante per la concorrenza e il mercato, nei confronti di associazioni dei consumatori per violazioni delle regole a tutela della concorrenza;

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

– OMISSIS – Il Presidente dichiara aperta l’adunanza e invita il consigliere segretario, Avv. Carlo PANZUTI, a verbalizzare le operazioni. Si discute il 1° argomento all’o.d.g.: 1) Istanza al Consiglio Nazionale Forense e all’Organismo Unitario della Avvocatura per la promozione di esposti, indirizzati all’Autorità Garante per la concorrenza e il mercato, nei confronti di associazioni dei consumatori per violazioni delle regole a tutela della concorrenza. Il Presidente relaziona sull’argomento all’Ordine del Giorno relativo alla opportunità di formulare al Garante della Concorrenza e del Mercato una richiesta di intervento al fine di accertare eventuali violazioni da parte di associazioni di consumatori di norme introdotte per garantire la concorrenza e la pubblicità in favore degli utenti e reprimere eventuali abusi di posizione dominante e l’adozione di operazioni di concentrazione, con conseguente alterazione del mercato dei servizi legali, a tutela della collettività nel settore consumeristico. Il Consiglio, udita la relazione del Presidente, dopo ampia e approfondita discussione rilevato che è risultato da notizie di stampa o esposti all’Ordine la presenza sul territorio di espressioni provinciali di associazioni nazionali (Codacons, Adusbef, Confconsumatori e altre) o di associazioni locali che vantano diffusione nazionale (Tutela dei diritti, Avvocati dei consumatori) i cui referenti e responsabili si identificano, a volte esclusivamente tramite la indicazione di un solo numero di cellulare, con un professionista legale, sicché, anche sotto l’aspetto della educazione del consumatore, il “responsabile”, dopo le informative di massima, orienta l’utente verso sé stesso, quale difensore nei procedimenti, alcuni intrapresi, altri da intraprendere; essendo emerso, quindi, che: a) i responsabili suggeriscono e offrono sé stessi quali avvocati difensori, anche in via giudiziale, promuovendo giudizi in sede civile e attivando, a nome degli assistiti, procedimenti penali; Quaderni

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

b) offrono consulenza e assistenza legale gratuita, ma ottenuta la iscrizione alla associazione da parte dei consumatori, richiedono, a volte ricorrendo anche alla procedura speciale di liquidazione in Camera di Consiglio del Tribunale, da parte del giudice competente per il giudizio, i normali compensi indicati nella Tariffa Forense; c) offrono consulenza e assistenza legale su tutti i campi del diritto, anche eccedenti il “consumer law” (quali ad esempio in materia previdenziale e assistenziale, responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, e altre numerose ancora); d) i referenti delle associazioni hanno ordinariamente sede presso lo stesso luogo ove viene esercitata la professione forense, o comunque i consumatori vengono ricevuti negli stessi studi professionali legali; e) attraverso organi di stampa vengono pubblicizzati ed enfatizzati prestazioni e servizi con caratteristiche di utilità e risultati economicamente vantaggiosi, anche per pochi Euro, che possono assumere per i destinatari un fondamentale ruolo di convincimento, influenzandone e condizionandone le scelte economiche e orientandoli a favore delle proprie attività, anche in funzione della offerta di un patrocinio gratuito rivelatosi fallace. Considerato che in definitiva appare diffuso un fenomeno restrittivo della libertà di concorrenza tra i professionisti legali; un abuso di posizione dominante che, a danno dei consumatori, limita l’accesso al mercato dei servizi legali offerti dagli avvocati del libero Foro; una concentrazione in posizione di controllo delle scelte dei consumatori; l’uso di una pubblicità fuorviante; la limitazione della libertà di scelta, che è stata più volte riconosciuta, anche in materia di tutela giudiziaria, dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee; rilevato che rientra nei poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ai sensi della Legge 10.10.1990 n. 287, il compimento di una indagine nei confronti delle associazioni dei consumatori, richiedendo informazioni e acquisendo documenti dalle as-

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

sociazioni, onde adottare gli opportuni provvedimenti ove vengano accertate violazioni; in considerazione della diffusione e dimensione del fenomeno, e a tutela dei consumatori per una libera, oculata, attenta scelta dei professionisti legali nell’intraprendere una azione giudiziaria o nell’avviare una attività conciliativa o nel richiedere informative e pareri, oltre che a garanzia della concorrenza tra avvocati, fondata sulla qualità, nella offerta di prestazioni professionali alla collettività o ai singoli consumatori, ritenuto opportuno inviare copia della presente delibera al Consiglio Nazionale Forense, quale ente istituzionale nazionale, e all’Organismo Unitario dell’Avvocatura, quale rappresentanza politica, per ogni opportuna valutazione e determinazione anche in riferimento alla richiesta di istruttoria alla Autorità garante della concorrenza e del mercato; tutto quanto innanzi rilevato considerato e ritenuto, sussistendo ragioni di preoccupazioni circa la tutela dei consumatori, da un lato e della categoria professionale, dall’altro, alla unanimità delibera di inviare copia della presente al Consiglio Nazionale Forense e all’Organismo Unitario della Avvocatura per ogni opportuna determinazione di rispettiva competenza. – OMISSIS – Il Consigliere segretario f.to Avv. CARLO PANZUTI

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Il Presidente f.to Avv. AUGUSTO CONTE

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Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi

Anticipi minimi Il Consiglio, nell’adunanza del 12/01/2010; - presa in esame l’attuale incidenza degli oneri d’anticipazione e dei compensi minimi relativi all’assunzione d’incarichi professionali di natura giudiziaria; - ritenuta l’opportuntà di proporre in via generale l’ammontare degli anticipi che appaiono congrui rispetto all’attività minima necessaria, con esclusione delle spese vive che dovranno essere valutate con riferimento al singolo procedimento, li determina come segue, salvi aumenti in proporzione ad importanza e complessità della pratica e/o del processo: Procedimenti Civili 1) Per cause innanzi al Giudice di Pace (entro il valore di € 1.100,00) (oltre il valore di € 1.100,00) 2) Per cause di Tribunale 3) Per cause di Corte d’Appello 4) Per cause di Cassazione – Corte Costituzionale 5) Per ricorsi ai Tribunali Amministrativi 6) Per ricorsi al Consiglio di Stato 7) Per procedure ingiuntive: - innanzi al Giudice di Pace (entro il valore di € 1.100,00) - (oltre il valore di € 1.100,00) - innanzi al Tribunale Quaderni

€ 300,00 € 500,00 € 1.000,00 € 1.200,00 € 1.500,00 € 1.000,00 € 1.500,00

€ 300,00 € 500,00 € 1.000,00

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8) Per procedure esecutive: - mobiliari - immobiliari 9) Per pratiche di volontaria giurisdizione

€ 500,00 € 1.000,00 € 700,00

Procedimenti Penali 10) Innanzi al Giudice di Pace Penale € 500,00 11) Innanzi al Tribunale Monocratico € 800,00 € 1.000,00 12) Innanzi al Tribunale Collegiale – GIP - GUP € 1.200,00 13) Innanzi alla Corte di Appello 14) Innanzi alla Corte di Cassazione -Corte Costituzionale € 1.500,00 Brindisi lì 12/01/2010

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

Tabella sintetica difesa d’ufficio 2010 - I grado -

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ATTIVITĂ€ DEL CONSIGLIO

Tabella sintetica

- Assise - Appello - Cassazione

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AVVOCATI E COSTITUZIONE L’Avvocatura italiana soggetto costituzionale quale componente della giurisdizione

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CAMERA DEI DEPUTATI Proposta di Legge Costituzionale d’iniziativa del deputato PECORELLA

Introduzione della sezione I-bis del titolo IV della parte seconda della Costituzione, concernente l’avvocatura Presentata il 26 giugno 2009 Onorevoli Colleghi! La funzione dell’avvocatura è prevista, in tutta la sua pienezza, a livello costituzionale, nell’articolo 24 che riconosce e garantisce, come diritto inviolabile, la difesa in ogni stato e grado del procedimento. La «inviolabilità» significa, come è ovvio, non solo che nessuna legge ordinaria può limitare questo diritto, ma altresì, e in forma assai più incisiva, che non è consentito neanche al legislatore costituzionale limitare tale diritto. Ciononostante l’avvocatura, come soggetto della giurisdizione, non è richiamata in alcuna norma costituzionale, né sono definite le sue prerogative. Il che la differenzia negativamente rispetto al riconoscimento e alla costituzionalizzazione, dalle altre figure della giurisdizione: il giudice e il pubblico ministero. È chiaro che l’introduzione di norme che definiscono la figura dell’avvocato dovrà avvenire, preferibilmente, all’interno di una complessiva rielaborazione dell’intero titolo IV della parte seconda della Costituzione, di cui naturalmente dovrà modificarsi l’intestazione da «La Magistratura», in «I soggetti della giurisdizione». Peraltro, già le disposizioni vigenti del citato titolo IV sono state oggetto di proposte di riforma anche molto radicali, come l’introduzione della giuria o la separazione delle carriere: ragion per cui il legislatore doQuaderni

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vrà porre mano a tutto il settore in un unico contesto e secondo una nuova cultura della giurisdizione, che muove proprio dal nuovo articolo 111. Motivi di perplessità potranno esserci, e potranno venire proprio dall’avvocatura, oltre che, ma per motivi assai diversi, dalla magistratura. Si teme, probabilmente, che la previsione in Costituzione della figura dell’avvocato possa fare di lui un soggetto tendenzialmente pubblico: il che, del resto, sta già avvenendo, a seguito del riconoscimento delle indagini difensive, ma con il solo obiettivo di sottoporre il difensore a responsabilità, della cui esistenza è dominus la controparte, e cioè il pubblico ministero. È questa, al contrario, una buona ragione per la previsione in Costituzione della figura dell’avvocato, così da ribadirne il carattere strettamente privatistico. La presente proposta di legge costituzionale introduce la sezione I-bis del titolo IV della parte seconda della Costituzione, intestata «Avvocatura» e composta dagli articoli 110-bis e 110-ter. L’articolo 110-bis ribadisce, tra l’altro, che l’avvocatura è un’attività privata, libera e indipendente. L’indipendenza dell’avvocatura significa non soltanto autonomia dai poteri dello Stato, ma altresì, precisi limiti alle interferenze del potere economico, oltre a ribadire la regola secondo cui l’avvocato deve conservare la propria libertà anche rispetto al cliente. Lo stesso articolo 110-bis afferma che la difesa è una funzione essenziale in ogni procedimento giudiziario: ribadendo, così, non solo i princìpi dell’articolo 24, ma riconoscendo anche il ruolo dell’avvocato, insieme al diritto dell’assistito. Non meno significativo è stabilire che l’avvocatura concorre all’amministrazione della giustizia nelle diverse articolazioni: si dovrà rivedere, ad esempio, la composizione dei consigli giudiziari, del Consiglio superiore della magistratura e della stessa Corte costituzionale. Con l’articolo 110-ter si conferma che la professione forense è

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riservata a chi è iscritto agli albi, escludendo così un esercizio «libero» della stessa. Con la presente proposta di legge costituzionale si vuole colmare una lacuna della Costituzione dando all’avvocatura quella dignità di ruolo che le compete.

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Proposta di Legge costituzionale Art. 1 1. Dopo la sezione I del titolo IV della parte seconda della Costituzione è inserita la seguente: «Sezione I-bis AVVOCATURA Art. 110-bis. - L’avvocatura è un’attività privata, libera ed indipendente. La difesa è funzione essenziale in ogni procedimento giudiziario. L’esercizio della professione forense è incompatibile con lo svolgimento delle funzioni di magistrato. La legge assicura alle parti un’adeguata difesa. La difesa dei non abbienti, a carico dello Stato, è garantita dalle istituzioni dell’avvocatura con le modalità previste dalla legge. L’avvocatura concorre, con propri rappresentanti, all’amministrazione della giustizia nelle diverse articolazioni. Art. 110-ter. - L’esercizio della professione forense è consentito solo agli iscritti agli albi. La legge determina le modalità di accesso e le condizioni di permanenza negli albi. Il Consiglio nazionale forense, composto ed eletto con le forme previste dalla legge, è organo giurisdizionale in materia disciplinare». 2. La rubrica del titolo IV della parte seconda della Costituzione è sostituita dalla seguente: «I soggetti della giurisdizione».

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Dimensione costituzionale dell’avvocato di ALDO LOIODICE*

1. Verso una più forte tutela costituzionale dell’avvocato nella giurisdizione La soggettività costituzionale dell’avvocatura trova riferimenti, impliciti, in diverse disposizioni costituzionali, ma richiede una chiara esplicitazione al fine di evitare equivoci nella collocazione dell’attività libero professionale rispetto all’esercizio della funzione giurisdizionale. In tale prospettiva occorre seguire un percorso, ragionevole, di approccio ad una proposta di riforma costituzionale del Titolo IV della Costituzione, che non dovrebbe più intitolarsi solo alla “Magistratura” ma riferirsi alla “Giurisdizione” con la previsione esplicita dell’avvocato1. Si può seguire un itinerario che si snoda attraverso l’esame di alcuni profili differenziati: l’avvocato nella Costituzione oggi (e si scoprirà che vi è un riconoscimento forte, anche se implicito); le ragioni che inducono a rinforzare il ruolo costituzionale dell’avvocatura con un’espressa previsione; l’avvocato nella giurisdizione sotto il profilo costituzionale; le linee della proposta di riforma costituzionale del Titolo IV.

* Ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari e docente di diritto amministrativo nell’Università Europea di Roma. 1 Sulla funzione giurisdizionale si rinvia alle riflessioni svolte nel convegno annuale della Associazione italiana dei Costituzionalisti del 22 e 23 ottobre 2004: AA.VV., Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale, Atti del 19° Convegno annuale dell’Associazione Italiana dei costituzionalisti, CEDAM, Padova 2008.

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2. Il ruolo dell’avvocato tra concezione concorrenziale e concezione garantistica Occorre premettere che il quadro dei valori costituzionali (italiani ed europei) manifesta la specialità della professione forense, attraverso una serie di indici che non possono essere ignorati nella disciplina della professione di avvocato (attuale o futura). L’innovazione tecnologica, l’evoluzione dei mercati e l’intervento del diritto comunitario fanno emergere problemi che, tuttavia, non modificano in alcun modo la consolidata collocazione della professione forense nel ruolo di garanzia dei diritti dell’uomo (sia esso cittadino che straniero). Il conflitto, che può emergere dall’atteggiamento di chi vorrebbe privilegiare la concezione imprenditoriale e concorrenziale della professione forense (raffrontata alla concezione garantistica), non determina alcuna esigenza di innovare sul ruolo dell’avvocato e sulla sua collocazione nell’ambito della tutela giudiziaria ed extragiudiziaria dei diritti e degli interessi delle persone, potendo incidere solo sulle modalità di esercizio della professione e sui profili meno caratterizzanti di essa. È noto che, nell’ambito del diritto comunitario, la costruzione della natura giuridica delle professioni è sottoposta a riesame, anche se ciò avviene ai soli fini dell’applicazione della disciplina della concorrenza; al di fuori di tale disciplina, infatti, tutte le professioni dovrebbero riprendere la loro natura tradizionale e, quindi, anche la professione forense non dovrebbe perdere i suoi connotati peculiari2.

Di fronte a tali rischi una sottolineatura costituzionale dell’avvocatura appare opportuna e coerente con la stessa impostazione costituzionale oggi vigente. Cfr. G. F. CARTEI, V. VANNUCCI (a cura di), Diritto comunitario e ordinamento nazionale: professioni forensi, sistema giudiziario, processo amministrativo, servizio pubblico, diritto sociale, diritto del lavoro, professioni intellettuali, Giuffrè, Milano 2003. 2

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3. L’avvocato come produttore di servizi Occorre rimarcare il quadro dei valori costituzionali perché la concezione concorrenziale e mercantile, qualora non affrontata con la dovuta attenzione, rischia di snaturare l’opposta concezione radicata nella tradizione di molti ordinamenti giuridici in cui la professione intellettuale dell’avvocato ha una garanzia ed un ruolo inconfondibili (ciò, anche nell’ordinamento inglese che potrebbe sembrare il più lontano da quello italiano)3. Anche se si volesse considerare l’attività forense come una sottocategoria delle attività produttive di servizi e, quindi, la professione forense come una sottospecificazione delle professioni intellettuali appartenenti alla categoria dei produttori di servizi, ciononostante il ruolo dell’avvocatura resterebbe sempre immutato nella sostanza, nelle finalità e nelle esigenze di garanzia. L’eliminazione delle c.d. “barriere” o “frontiere giuridiche” (che sarebbero ostacolo alla concorrenza e al mercato) non può verificarsi laddove i limiti giuridici all’esercizio professionale siano giustificati dalla specialità della professione. La giustificazione di tali limiti si collega all’apprezzabilità delle restrizioni in essi contenute (accesso, albi, poteri disciplinari, tariffe, Ordini) quando i destinatari dei servizi, in questo caso i clienti dell’avvocato, non sono in grado di valutare correttamente la qualità dei servizi stessi; di qui il riemergere del ruolo tradizionale dell’avvocato nelle sue peculiarità essenziali. Ciò deriva dal quadro costituzionale italiano ed europeo. 4. Rilievo costituzionale dell’avvocato: il diritto di difesa Il riferimento costituzionale che emerge in maniera più evidente è quello dell’art. 24 Cost., laddove si precisa che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» 3 Cfr. G. ALPA, Disciplina delle professioni legali: luci ed ombre della ricetta inglese, in «Guida al Diritto (Il Sole 24-Ore)», 11 settembre 2004, n. 35, p. 106 e ss.

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(comma 1) e che «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» (comma 2); a ciò si aggiunga il comma 3 per cui «sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione»4. Che tale disposizione copra, costituzionalmente, l’attività dell’avvocato non sembra possa essere revocato in dubbio; si potrebbe, tuttavia, obiettare che il legislatore (discrezionalmente o in attuazione di norme comunitarie) possa eliminare la difesa tecnica dell’avvocato consentendo ai cittadini la sola autodifesa, con la conseguenza di un disconoscimento del rilievo costituzionale dell’avvocato. Invero, all’affermazione categorica del diritto inviolabile di difesa non si accompagna, nel testo costituzionale, l’indicazione (dotata di pari forza cogente) dei modi di esercizio di quel medesimo diritto. Ciò potrebbe avere la conseguenza di consentire al legislatore, valutata la situazione, i diritti e gli interessi in gioco, di stabilire in quali casi non sia necessaria la difesa tecnica o, addirittura, di eliminarla dai giudizi. Questa ipotesi potrebbe far ritenere che la disciplina della professione forense sia nella totale disponibilità del legislatore nazionale e, quindi, anche del legislatore comunitario. La conclusione però è priva di fondamento. 5. segue: l’autodifesa e la difesa tecnica La semplice possibilità di autodifesa, pur garantita dalla Costituzione, non esclude che la difesa tecnica dell’avvocato sia indispensabile, salvo che in poche limitate categorie di controversie. Invero l’art. 24 Cost. garantisce sia la difesa tecnica, cioè l’esistenza di un esercente la professione legale, sia l’autodifesa che, intesa quale personale partecipazione della parte, va considerata come uno tra i profili della difesa in senso sostanziale. Sul diritto di difesa si veda P. GROSSI, Il diritto di difesa nella Costituzione italiana nella sua individuazione come principio supremo nell’ordinamento costituzionale, in Aa.Vv., La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 20 luglio 2001, Giuffré, Milano 2004. 4

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Che il diritto di autodifesa sia costituzionalmente tutelato è stato affermato più volte dalla Corte costituzionale. Tale diritto trova attuazione nel codice penale di rito, come viene ricordato dalla Corte costituzionale (188/1980), secondo cui la possibilità di una piena difesa personale è riconosciuta all’imputato in tutto il corso del dibattimento ed a conclusione di esso. Tale possibilità deve essere effettivamente garantita all’imputato, rimanendo consentito di procedere senza di lui solo se l’assenza sia una libera scelta (Corte cost. 9/1982). Però, l’autodifesa è un diritto ma non un obbligo; l’imputato può rifiutare di difendersi personalmente e può anche astenersi dal presenziare al dibattimento (Corte cost. 125/1979). Diversamente dall’autodifesa, l’assistenza di un difensore, oltre ad essere un diritto costituzionalmente protetto, perché rientra nel diritto inviolabile di difesa, si configura anche come una necessità nella grandissima maggioranza dei casi. Invero nel processo penale, la difesa tecnica è obbligatoria ed è prevista la nomina d’ufficio di un difensore; secondo il costante orientamento della Corte l’obbligatorietà della difesa tecnica è certamente compatibile con la disposizione che, talvolta, esclude la presenza del difensore per casi di minore rilevanza5. Anche nel processo civile la difesa tecnica, pur presentandosi come onere, risulta indispensabile per la stessa costituzione in giudizio; analoga la situazione nel processo amministrativo6. Da altro punto di vista, non è prevista la possibilità di un rifiuto della difesa tecnica perché tale rifiuto non è garantito dall’art. 24 Cost., essendo il diritto di difesa non soltanto inviolabile ma altresì irrinunciabile.

5 Cfr. E. RANIERI, Evoluzione normativa del diritto alla difesa tecnica dell’imputato, Dipartimento di diritto pubblico e teoria generale delle istituzioni, Salerno 2004. 6 Cfr. C. PEPE, La tutela costituzionale del diritto di difesa nei giudizi contro la P.A., CEDAM, Padova 2000.

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6. segue: i valori sottesi al gratuito patrocinio Il comma 3 dell’art. 24 Cost., che prevede il patrocinio legale assicurato ai non abbienti (Corte cost. 114/1964), individua nel gratuito patrocinio e nella difesa d’ufficio gli istituti necessari a tutelare i non abbienti e manifesta l’evidente necessità della difesa tecnica7. In altri termini nell’art. 24 Cost., laddove si stabilisce la necessità di un patrocinio gratuito ai non abbienti, è evidente l’implicita convinzione del costituente che un patrocinio, pur se retribuito, debba essere assicurato anche agli abbienti. In sostanza ricorrere ad un avvocato potrebbe essere più facile per chi non è abbiente, perché può contare sul gratuito patrocinio e per chi è molto abbiente perché può contare sui propri mezzi, mentre chi si trova nella fascia mediana (tra non abbiente e molto abbiente) potrebbe avere difficoltà a sopportare le spese per onorari e spesso potrebbe essere costretto a rivolgersi a chi non è professionalmente qualificato, peggiorando così la sua situazione; occorre, quindi, tener conto di ciò nell’evoluzione del mercato professionale, ma quel che più conta è salvaguardare il valore della professionalità; questo valore, invero, è la differenza tra chi offre servizi legali senza essere qualificato e chi invece appartiene ad una categoria costituzionalmente rilevante come l’avvocato. Vi è, quindi, il primo indizio pacifico della copertura costituzionale della professione forense. D’altra parte, in dottrina, si è osservato che la disposizione sul gratuito patrocinio ha lo scopo di sollevare il libero professionista dall’obbligo di prestare assistenza gratuita in quanto, con esso, si prevede che alla sua retribuzione provveda lo Stato. In altri termini emerge un’altra ragione di approfondimento del ruolo del gratuito patrocinio che non è solo quello di stabilire che il patrocinio è comunque necessario, ma anche quella di stabilire che il patrocinio è comunque retribuito e che, soltanto a seguito di una disposizione co7 Sul gratuito patrocinio si veda F. SASSANO, Il gratuito patrocinio, Giappichelli, Torino 2004.

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stituzionale, si può immaginare che la retribuzione non faccia carico al cliente ma ad un soggetto diverso (lo Stato o altro ente). Appare allora chiaro che la difesa dei diritti e degli interessi (che è inviolabile in ogni stato e grado del procedimento) non è soltanto l’auto-difesa ma è, necessariamente, anche la difesa affidata al libero professionista. È una conclusione condivisa da tutti, ma il suo radicamento costituzionale serve a stabilire che, per il legislatore, c’è un limite nella modifica del ruolo costituzionale della professione forense in un doppio senso: in primo luogo non si può esaurire la difesa nell’autodifesa, se non in alcuni casi limitati e di scarso rilievo; in secondo luogo lo svolgimento della professione deve essere assicurato, dal legislatore, con caratteristiche tali da richiedere un’obbligatoria retribuzione e, comunque, l’impossibilità di rinunciare agli onorari professionali in misura adeguata (il che giustifica i minimi tariffari). 7. Collegamento con la funzione giurisdizionale; l’avvocato e il “giusto processo” Approfondendo l’ambito degli effetti prodotti dall’art. 24 Cost., emerge anche il suo collegamento con la funzione giurisdizionale e la conseguente esigenza di assicurare dignità, decoro e libertà all’avvocato. I lavori preparatori della Costituente confermano l’opinione esposta; in essi si chiarisce che «da questa proposizione è data veste costituzionale al principio che la difesa per mezzo di avvocato è garantita in ogni tempo e davanti ad ogni giudice» (Tupini, Res. 1° Sc. C. p. 60)8. 8 Sui lavori preparatori della Costituzione si rammenta l’utilità delle seguenti pubblicazioni: V. CARULLO, La Costituzione della Repubblica italiana illustrata nei lavori preparatori, Giuffrè, Milano 1959; Camera dei Deputati - Segretariato Generale, La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente; L. P. Comoglio, Metello Scaparone, art. 24 Cost., in Aa.Vv., Rapporti Civili, in Commentario alla Costituzione a cura di G. Branca, artt. 24-26, Zanichelli, Bologna; La Costituzione italiana - Analisi degli emendamenti, IBM Italia 1979; CRISAFULLI, PALADIN, Commentario breve alla Costituzione, CEDAM, Padova 1990; M. AINIS, T. MARTINES, Codice costituzionale, Laterza, Roma-Bari 2001.

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La presenza implicita, ma necessaria, della difesa tecnica e dell’avvocato emerge anche in altre disposizioni della Costituzione: nell’art. 111, riguardante il giusto processo, laddove stabilisce una serie di requisiti perché il processo possa considerarsi giusto ed indica, per l’accusato, gli elementi (comma 3) «necessari per preparare la sua difesa» anche nell’ultimo e penultimo comma dell’art. 111 Cost. l’opera dell’avvocato risulta indispensabile perché si prevede il ricorso in Cassazione sia in materia di libertà personale sia avverso le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti (queste ultime solo per motivi inerenti alla giurisdizione)9. Si tratta di atti difensivi estremamente tecnici, che non possono essere redatti se non da un professionista qualificato. È vero che si potrebbe obiettare che, eliminando la necessità del difensore in giudizio attraverso una legge, si potrebbe far partecipare ai giudizi soltanto le parti personalmente, che, poi, si muniscono di consulenze e di pareri tecnici forniti dai giuristi esperti. Ma questa eventualità, peraltro non ammissibile nell’ordinamento italiano, non esclude, comunque, la tutela del ruolo dell’avvocato che diventa (attraverso quegli atti che esprimono la sua conoscenza, sensibilità e preparazione) indispensabile per far esercitare alla parte il suo diritto di difesa dichiarato inviolabile10. 8. L’avvocato negli organi costituzionali o di rilievo costituzionale Sotto un diverso profilo si ha un altro indizio del ruolo costituzionale attribuito agli avvocati laddove, nella Costituzione, da tale 9 Sul tema del giusto processo si veda, fra i tanti, P. FERRUA, Il giusto processo, Zanichelli, Bologna 2007, e A. BODRITO, Giusto processo e riti speciali, Giuffrè Milano 2009. 10 Di recente la Corte di Cassazione, a sezioni unite, con la sentenza 15 dicembre 2008, n. 29294, ha affermato che il principio del “giusto processo” stabilisce «dei parametri che debbono essere tenuti necessariamente presenti anche al di fuori del particolare settore d’elezione», sicché è applicabile anche alla fase di apertura del procedimento disciplinare a carico degli avvocati, avente “natura amministrativa”.

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categoria si attingono persone che devono occupare organi costituzionali o di rilievo costituzionale. Nell’art. 104 Cost. si prevede che gli avvocati, dopo 15 anni di esercizio, siano eleggibili al Consiglio Superiore della Magistratura unitamente ai professori ordinari di università in materie giuridiche; nell’art. 106 Cost. si prevede che, oltre ai professori ordinari, possono essere nominati all’ufficio di Consiglieri di Cassazione avvocati che abbiano 15 anni di esercizio e siano iscritti negli Albi speciali per le giurisdizioni superiori; ma ancor più l’art. 135 Cost., comma 2, prevede che possano essere eletti giudici costituzionali, oltre i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ed i professori ordinari in materie giuridiche, gli avvocati dopo 20 anni di esercizio. Si tenga presente che le categorie di eleggibili a queste cariche viene ristretta a soggetti per i quali la Costituzione garantisce l’autonomia e l’indipendenza; per i magistrati l’autonomia e l’indipendenza sono previste dall’art. 104 Cost. e per i professori universitari dall’art. 33 Cost., ultimo comma, con riferimento alle istituzioni di cui essi fanno parte. Si tratta di categorie di persone alle quali la Costituzione ha ritenuto (per la loro professionalità e per le esigenze di interesse pubblico cui si collega la loro attività) di assicurare libertà, autonomia ed indipendenza. Un motivo ragionevolmente plausibile di spiegazione della scelta del costituente in favore degli avvocati, laddove possono essere scelti e concorrono anche professori universitari o magistrati, deve rintracciarsi nella tradizione degli avvocati che si è sempre collegata ad una caratteristica di dignità, autonomia e libertà. Questi profili manifestano come la disciplina forense non possa essere delineata in maniera corretta se i connotati della dignità, del decoro e della libertà non vengono assicurati in maniera effettiva. Da quanto esposto emerge il disegno costituzionale dell’avvocato che la Costituzione collega all’esercizio di un diritto inviolabile fondamentale ed all’esercizio di funzioni pubbliche quali la giurisdizione.

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9. Le competenze legislative regionali e statali nella disciplina della professione forense; i principi fondamentali e i livelli essenziali delle prestazioni Il disegno costituzionale non viene modificato dalla previsione della competenza regionale in materia di professioni. Invero l’art. 117 Cost., al comma 3, prevede tra le materie di legislazione concorrente quella delle professioni. Tale norma, tuttavia, stabilisce che i principi fondamentali siano stabiliti con legge dello Stato. In fondo i principi fondamentali devono assicurare gli obiettivi della disciplina della professione legale individuabili nella indipendenza, nell’integrità morale, nel dovere di agire nell’interesse del cliente e nel segreto professionale. Un ulteriore obiettivo è collegato alla connessione tra l’attività dell’avvocato e l’amministrazione della giustizia, che deve assicurare l’indipendenza dei professionisti attraverso standards etici e cioè tramite la deontologia. Infine l’indipendenza della professione forense deve essere assunta come un valore indefettibile in uno stato di diritto a base democratica. La professione di avvocato porta benefici alla società e arreca affidamento ai cittadini. Talvolta l’avvocato deve spingere a fondo la sua difesa a favore dei cittadini, anche nei casi più avversi in cui, nell’opinione pubblica dei c.d. benpensanti, la bilancia penda in senso contrario agli interessi del cliente. Già questa precisazione permette di cogliere la presenza di un nucleo forte normativo cui la disciplina concernente l’avvocato deve confermarsi essendo, quel nucleo, oggetto di principi fondamentali non disponibili da parte delle regioni. Ma vi è di più; ai sensi del comma 2 dell’art. 117, lett. m), lo Stato in via esclusiva deve determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili che debbono essere garantiti in maniera uguale su tutto il territorio nazionale11. A. PREDIERI, Annotazioni sull’esame di Stato e l’esercizio professionale, in «Giur. cost.», 1963, pp. 506 e ss.; V. CAIANELLO, L’inserimento delle professioni nel titolo V della Costituzione, in Aa. Vv., Atti del Convegno nazionale “Quale federalismo per le professio11

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Il diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. è un fondamentale diritto civile; appartiene invero al Titolo I della Costituzione denominato “Rapporti civili”. In conseguenza, l’intervento delle regioni sulle professioni non può eccedere i profili di incentivazione e ausilio relativi all’aggiornamento, alla formazione e alla qualificazione degli avvocati, nonché alle agevolazioni nell’utilizzo della difesa tecnica in favore delle categorie meno abbienti; inoltre la competenza regionale non può superare la soglia delle peculiarità costituzionali della figura dell’avvocato. Queste peculiarità appartengono alla legislazione esclusiva dello Stato; sono eguali su tutto il territorio nazionale e, per le ragioni che si vedranno, in tutto il territorio dell’Unione europea; né al legislatore statale, come si è detto, può riconoscersi competenza a modificare o ridurre il peso delle peculiarità tradizionali della figura dell’avvocato, ravvisabili appunto nella dignità, nel decoro e nella libertà; il che implica il riconoscimento di un divieto di ingerenza dello Stato o dei magistrati nell’esercizio dell’attività professionale, perché l’unica via percorribile (conforme a Costituzione) resta l’affidamento dei poteri disciplinari e dell’accertamento della qualità e regolarità della professione alla stessa categoria forense attraverso meccanismi di autocontrollo. In altri termini, la tradizione relativa all’organizzazione della disciplina forense e della sua applicazione viene costituzionalizzata (nei suoi profili fondanti) e, quindi, resa indisponibile al legislatore, che potrà pur modificare diversi profili dell’attuale disciplina, ma dovrà sempre assicurare che l’avvocato sia il libero, dignitoso e decoroso difensore dei diritti e degli interessi di chiunque12.

ni” del 18 marzo 2002, in www.odg.mi.it; E. BINDI, M. MANCINI, Principi costituzionali in materia di professioni e possibili contenuti della competenza legislativa statale e regionale alla luce della riforma del titolo V, in «Le Regioni», 2004, pp. 1320 e ss. 12 Cfr. L. OLIVIERI, Professioni, l’ordinamento entra nell’esclusiva statale, in «Italia Oggi», 16 ottobre 2004.

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10. Diritto al lavoro, retribuzione professionale e strumentalità del profilo imprenditoriale Il quadro descritto manifesta una specialità della professione forense che non trova fondamento soltanto negli artt. 4 e 36 della Costituzione laddove si tutelano in genere il diritto al lavoro e la sua retribuzione; l’art. 4 Cost. consente la libera scelta del lavoro e la trasforma in dovere di concorrere al progresso materiale o spirituale della società; l’art. 36 Cost. prevede una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro, in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa13. Questi principi valgono per tutti i lavoratori e vengono adattati alla peculiarità dei singoli lavori. Inoltre, la professione di avvocato, normalmente, non può essere svolta in condizioni di dipendenza. L’esercizio professionale, infatti, deve essere libero ed autonomo (per i profili caratterizzanti la professione) anche per coloro che siano preposti agli uffici legali degli enti pubblici, laddove si deve prevedere un regime speciale (proprio per la natura della professione svolta) suscettibile di non snaturare l’impegno forense. Il principio dell’art. 36 trova specificazione in riferimento alle caratteristiche di ogni lavoro e, quindi, il compenso professionale deve attingere livelli idonei ad assicurare dignità e libertà. Di qui discende che la previsione delle tariffe e dei poteri degli Ordini in materia di compensi professionali costituisce uno strumento indispensabile per assicurare all’avvocato la tutela della sua libertà ed autonomia riPer quanto riguarda la specialità della professione forense rispetto alle altre libere professioni sotto il profilo costituzionale si veda A. LOIODICE, La specialità della professione forense nel quadro dei valori costituzionali, relazione al Convegno nazionale degli Ordini forensi, organizzato dal Consiglio Nazionale Forense a Bari, il 19-20 novembre 2004; G. COLAVITTI, Interessi pubblici connessi all’ordinamento delle professioni libere: la Corte conferma l’assetto consolidato dei principi fondamentali in materia di professioni, in «Giur. cost.», 2005, pp. 4417 e ss.; G. COLAVITTI, Il rapporto di impiego pubblico a tempo parziale tra libertà di concorrenza e specialità della professione forense, in «Giur. cost.», n. 6/2006. 13

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spetto alle possibili occasioni di assoggettamento, condizionamento o disconoscimento del ruolo dell’avvocato. Da questo disegno normativo non emerge alcuna concezione mercantile o imprenditoriale della professione forense; il che non significa che uno studio professionale singolo o associato non possa configurarsi come struttura economica assimilabile (solo sotto il profilo organizzativo ed economico) ad un’impresa, ma in questo caso l’impresa è strumentale all’esercizio della professione e lo studio professionale non può essere in alcun modo assimilato ad altre imprese che svolgono attività differenti non costituzionalmente garantite. Un profilo analogo può essere rintracciato nella disciplina della professione medica che ha un rilievo costituzionale in virtù dell’art. 32 Cost. che tutela il diritto alla salute. Poiché la professione medica è indispensabile alla tutela del diritto fondamentale alla salute, la sua disciplina non può essere condizionata dai profili imprenditoriali che possono collegarsi allo svolgimento dell’attività medica attraverso case di cura, ambulatori, poliambulatori e strutture economicamente rilevanti. L’attività del medico resta tale (costituzionalmente tutelata) ed immodificabile in ogni tempo. È, questo, un altro esempio di professione costituzionalmente rilevante, come quella forense14. 11. Il diritto europeo; la costituzione europea: la concorrenza, le professioni e il collegamento all’esercizio dei pubblici poteri Il quadro delineato potrebbe subire modificazioni per effetto del diritto europeo15. G. DEMURO, Art. 15, in AA.VV., L’Europa dei diritti. Commento alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto, Bologna 2001, pp. 125 e ss. 15 Cfr. G. TALBI, L’avvocato in Europa, in «Diritto e Diritti - Riv. Giur. on line». 14

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Invero, la normativa europea, specie da quando entrerà in vigore la Costituzione europea, avrà un’efficacia diretta (ancor più forte di quella attuale) nell’ordinamento italiano; essa risulta ispirata da principi costituzionali che, qualora difformi da quelli della Costituzione italiana, potrebbero essere prioritariamente osservati ed avere efficacia derogatoria al quadro costituzionale interno16. Tale circostanza, però, in concreto, non si verifica in alcun modo, per la disciplina della professione forense, perché anche i principi costituzionali dell’Unione europea depongono nel senso della specificità della professione forense e della sua indispensabile, necessaria strumentalità rispetto alla difesa in giudizio. Si badi che non si tratta solo di tutela dell’attività giudiziaria ma anche di quella extragiudiziaria per la semplice considerazione che l’attività di consulenza e quella stragiudiziale costituiscono un ambito che, potenzialmente, può rifluire o tracimare nel livello giudiziario e che pertanto condiziona quest’ultimo e, quindi, la difesa inviolabile in giudizio. Ciò significa che, qualora l’attività stragiudiziale e di consulenza legale non sia svolta dagli avvocati, si rischia di compromettere a priori il futuro esercizio del diritto di difesa. L’essenzialità della prestazione forense si estende, pertanto, anche all’attività non contenziosa. La normativa costituzionale europea non contraddice questa prospettiva. Invero, l’art. I-5 bis intitolato “Diritto dell’Unione” della Costituzione europea stabilisce che tale Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione, nell’esercizio delle competenze a queste attribuite, hanno prevalenza sul diritto degli stati membri; rientra Per il diritto europeo si rinvia a L. DANIELE, Il diritto materiale della Comunità europea, Giuffrè, Milano 2000; F. POCAR, Diritto dell’Unione delle comunità europee, Giuffrè, Milano 2002; N. IRTI, Il mercato, in Seminario sui diritti fondamentali e le Corti in Europa, in «Osservatorio costituzionale», bollettino n. 4/2004; A. LOIODICE, Il diritto pubblico europeo, in A. LOIODICE, P. GIOCOLI NACCI, La costituzione tra interpretazione e istituzioni, Cacucci, Bari, 2004, pp. 95 e ss. 16

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nella competenza esclusiva (art. I-12) la definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno e nel settore di competenza concorrente (art. I-13) il mercato interno. Nel Parte terza, Titolo III, della Costituzione europea concernente le politiche del funzionamento dell’Unione, alla sezione 2 del capo 1, si tratta della libera circolazione delle persone e dei servizi; nell’art. III-30 si prevedono le attività delle libere professioni. Per questa via l’Unione europea potrebbe disciplinare anche la professione forense assimilandola alle altre categorie di produttori di servizi. Da un lato, però, l’art. III-24 prevede che la normativa sulla concorrenza non si applica quando alcune attività siano (sia pure occasionalmente) collegate all’esercizio dei pubblici poteri. Ma su questo punto la giurisprudenza della Corte di Giustizia non è molto chiara e, quindi, vi è uno spiraglio notevole di possibilità di intervento del legislatore comunitario. Dall’altro, poi, vi osta la tutela dei diritti fondamentali. 12. Il livello di protezione più elevato È chiaro che la normativa comunitaria dovrà osservare la Costituzione europea dal momento in cui entrerà in vigore ma, attualmente, il contenuto della Costituzione europea è già in larga parte rintracciabile nei trattati vigenti e nella Carta di Nizza; facendo riferimento al testo della Costituzione europea si deve ricordare che l’art. II-53, denominato “Livello di protezione”, stabilisce un principio in virtù del quale la prevalenza del diritto europeo su quello degli Stati membri diventa recessiva laddove alcuni contenuti delle normative interne degli Stati membri vengano “europeizzati”; in sostanza tale disposizione stabilisce che, qualora le Costituzioni degli Stati membri attribuiscano un livello di tutela superiore a quello della Carta dei diritti fondamentali incorporata nella Costituzione europea, esso prevale quale livello di protezione più alto; viceversa, qualora

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la Costituzione dei singoli Stati membri assicuri una tutela inferiore a quella europea, prevale la tutela europea17. In sostanza nell’applicare la normativa europea di fronte a chi volesse invocare il criterio di prevalenza del diritto europeo, si può opporre che esso non può annullare il principio attinente al livello di protezione più elevato. Sulla base di tali precisazioni il livello di protezione accordato al diritto di difesa tecnica dalla Costituzione italiana, qualora sia inferiore a quello europeo, viene da questo integrato; qualora, viceversa, costituisca una soglia superiore di protezione, esso resta come tale anche in deroga al diritto europeo, perché trattasi di disciplina concernente i diritti fondamentali rispetto ai quali la Costituzione europea cerca di offrire il massimo di tutela. La normativa riguardante la concorrenza, pertanto, non può prevalere sulla normativa concernente i diritti fondamentali18. Il collegamento della professione forense ai diritti fondamentali, in definitiva, non può essere annullato per esigenze di concorrenza. 13. Tradizioni costituzionali comuni e diritti fondamentali D’altra parte la stessa Costituzione europea fornisce criteri di tutela della libera professione che sono pari (e talvolta superiori) a quelli della Costituzione italiana. Invero, l’art. I-7 richiama nel comma 1 i principi della Carta di Nizza che è incorporata nella Costituzione europea; nel comma 2 i diritti della CEDU e nel comma 3 le tradizioni costituzionali comuni. Ciò precisato, è evidente che quando si va ad applicare il diritto europeo attraverso atti delle istituzioni europee, la sua applicazione deve essere conforme alla Costituzione europea e, quindi, laddove 17 C. PINELLI, A. TREU (a cura di), La disciplina delle professioni tra Costituzione italiana ed ordinamento europeo, Bologna 2009. 18 G. ALPA, I diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e il ruolo dell’Avvocatura, in «Rassegna forense», 2007, pp. 67-75.

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tale testo parla di “tradizioni costituzionali comuni ”, si deve ritenere che la disciplina forense con le sue peculiarità specifiche (rispetto alle altre professioni) debba restare garantita; trattasi, infatti, di un settore professionale speciale messo in luce dal suo particolare collegamento con un diritto civile fondamentale, quale quello della difesa prima, durante e dopo il giudizio. La Carta di Nizza (ora incorporata nella Costituzione), garantisce nell’art. II-15 la libertà professionale e nell’art. II-16 la distingue dalla libertà di impresa. Negli artt. II-47 e II-48, rispettivamente, si tutelano il diritto ad un ricorso e i diritti della difesa. Queste ultime due disposizioni somigliano al comma 1 e 2 dell’art. 24 della Costituzione italiana; si collocano, peraltro, nell’alveo della tradizione costituzionale comune in cui l’avvocatura ha un rilievo intoccabile da ogni interferenza che riduca dignità, autonomia e libertà del professionista. Vi è, poi, un profilo interpretativo di notevole rilievo che si collega all’art. II-52 denominato “Portata e interpretazione dei diritti e dei principi”. Non solo va rispettato il principio di proporzionalità nell’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti ma, nel comma 3, si richiama la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), dove si coglie la linea di ricostruzione già esposta; inoltre, nel comma 4, vi è il riconoscimento dei diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, di guisa che tali diritti devono essere interpretati in armonia con dette tradizioni. Poiché la Carta dei diritti fondamentali riconosce, negli artt. II-47 e II-48, i diritti di difesa come azione, e i diritti di difesa in giudizio come resistenza, ne deriva che tali situazioni soggettive devono essere interpretate conformemente alla tradizione costituzionale. La tradizione italiana, quanto meno da 130 anni, ha manifestato (basta vedere gli scritti di Carrara, Zanardelli e Calamadrei) una capacità di espressione e vitalità che, nella Costituzione italiana, trova risconQuaderni

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tro; la professionalità richiesta determina una specialità della figura dell’avvocato che impone una distinzione del suo ruolo (e della normativa che lo riguarda) da tutte le altre professioni liberali e da tutti gli altri produttori di servizi. La specialità, in virtù dell’art. III-24 della Costituzione europea, permette di invocare l’applicazione del comma 2 dell’art. III-24 secondo cui la legge quadro europea può escludere talune attività dall’applicazione delle disposizioni concernenti la sezione attinente alla disciplina delle libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi; anche l’art. III-30, laddove prevede le libere professioni come sottosezioni dei produttori di servizi, può riconoscere una specialità dell’attività che giustifica un trattamento differenziato rispetto agli altri produttori di servizi ed alle altre libere professioni19. Qualora questi brevi cenni, riguardanti le linee fondanti della Costituzione europea, non fossero sufficienti a rendere chiara la singolare ed autonoma collocazione della professione forense non solo nel quadro costituzionale italiano ma soprattutto in quello europeo, si dovrebbe, comunque, far ricorso ai valori costituzionali italiani che, essendo riferiti a un diritto fondamentale quale quello della difesa, rappresentano un limite per lo stesso diritto europeo o, secondo altra terminologia, un controlimite rispetto al potere di compressione (limitativo) della normativa italiana che viene affidato al diritto europeo con criterio di prevalenza20. L’occasione della determinazione delle regole della concorrenza, da parte del diritto comunitario, può essere utile per fare una rifles19 Sulle recenti proposte di modifica dell’ordinamento professionale forense v. R. BIN, Al Consiglio Nazionale Forense, la consulenza di un giurista potrebbe giovare?, in www. forumcostituzionale.it. 20 Più in generale, la riflessione induce a confermare l’idea secondo cui i rapporti tra ordinamento interno e comunitario devono essere ricostruiti in base al criterio della “sussidiarietà intercostituzionale”, in luogo della “sussidiarietà bidirezionale”, alla cui stregua, di volta in volta, prevarrebbe il primo o il secondo. Cfr. A. RUGGERI, Tradizioni costituzionali comuni e “controlimiti”, tra teoria delle fonti e teoria dell’interpretazione, in «Dir. pubbl. comp. eur.», 2003, pp. 102 e ss.

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sione sulla professione di avvocato, ma gli elementi costituzionali raccolti permettono di affermare che la tradizione resta ferma ed è tale, nei suoi connotati, da consentire il recepimento delle più ampie innovazioni normative e tecnologiche, sempre che queste non vengano a snaturare la peculiarità della professione forense. 14. L’avvocato quale coprotagonista nel giudizio Da quanto esposto emerge, quindi, che l’avvocato riceve pieno riconoscimento costituzionale a livello italiano ed europeo. Tuttavia, il vento europeo e l’influenza della mentalità inglese (condizionata dai differenti ruoli dei “sollicitors” e “barristers”) su tale vento, portato avanti dal mondo imprenditoriale ed economico, rischiano di relegare l’avvocato nel ruolo imprenditoriale di produttore di servizi, riconducibile all’art. 41 della Costituzione e non più all’art. 24 Cost., con un’evidente ed ampia discrezionalità del legislatore e conseguente svilimento delle nobili tradizioni che hanno una radice ontologica e che connotano l’effettiva funzione dell’avvocatura21. A questo rischio di svilimento occorre rispondere con il richiamo del ruolo dell’avvocato nella giurisdizione in modo da comprendere le ragioni che inducono a sottolineare costituzionalmente l’avvocatura22. Si deve affermare, infatti, che l’avvocato riveste un ruolo di coprotagonista nella giurisdizione; egli è indispensabile all’esercizio della funzione giurisdizionale ed allora la Costituzione, che pur lo riconosce implicitamente, dovrebbe chiaramente esplicitare, almeno per quanto riguarda la partecipazione all’esercizio della funzione giurisdizionale, il ruolo costituzionale dell’avvocato.

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2004. 22

Cfr. M. CLARICH, Professioni, compromessi al ribasso, in «Il Sole 24-Ore», 13 ottobre Cfr. G. ALPA, La nobiltà della professione, Cacucci, Bari 2004.

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15. La giurisdizione, la certezza del diritto e il contraddittorio Occorre chiarire il significato di questa prospettiva dedicando alcune riflessioni alla giurisdizione. Il termine “giurisdizione” deriva dal latino “juris dictio” che letteralmente significa “dire o dichiarare il diritto”; la funzione di tale dichiarazione persegue il fine di pervenire alla qualifica di singoli rapporti; il suo contenuto deve, cioè, riferirsi a rapporti in ordine ai quali si facciano valere pretese fra loro contrastanti da parte dei soggetti ad essi interessati oppure esigenze di reintegrazione dell’ordine giuridico quando sia stato violato. Se in questa definizione si vuole cogliere l’elemento differenziale della giurisdizione rispetto all’amministrazione23 in quanto risponde ad un effettivo bisogno sociale, esso consiste nel conferire al diritto oggettivo, nel momento della sua applicazione, quella particolare garanzia di certezza che si ottiene eliminando, con la pronuncia del giudice, le situazioni di incertezza che la pratica applicazione del diritto oggettivo può far sorgere ovvero reprimendo le infrazioni che attentano all’applicazione del diritto oggettivo. In questa funzione il ruolo dell’avvocato si colloca in maniera indispensabile per le ulteriori ragioni che si vanno a chiarire24. In genere i livelli di civiltà giuridica hanno condotto i diversi sistemi, pur vari tra di loro, ad adottare la giurisdizione quale funzione destinata a procedere alla risoluzione delle controversie insorte in ordine alla spettanza dei diritti o alla punizione dei delitti con il compito specifico di sottrarre la decisione delle une o la comminazione delle pene alle parti interessate che, pur essendo parti del giudizio, L. BUFFONI, Il rango costituzionale del “giusto procedimento” e l’archetipo del “processo”, in http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_ forum/paper/0076_buffoni.pdf. 24 Analoghe riflessioni potrebbero essere estese anche all’attività delle Autorità amministrative indipendenti, chiamate a svolgere funzioni c.d. “paragiurisdizionali”. 23

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non possono concorrere direttamente all’esercizio della funzione giurisdizionale. I soggetti del processo, accanto al giudice ed agli altri organi pubblici, sono le parti nei cui confronti si esplica la funzione giurisdizionale ed esse, per legge, sono tenute a collocarsi in posizione estranea rispetto al giudice. La struttura del processo, inoltre, acquisisce una connotazione dialettica perché tende all’accertamento della verità attraverso l’esposizione e lo svolgimento delle opposte ragioni e questa struttura connota il principio fondamentale del processo che è quello del contraddittorio25. Nell’esplicazione di tale principio vi sono diversi aspetti, tra i quali figura quello concernente l’onere della prova, che non è a carico del giudice ma a carico di colui che asserisce determinate circostanze di fatto e cioè delle parti; poiché le parti non stanno in giudizio personalmente, l’onere viene soddisfatto dall’avvocato; mentre per le norme di diritto (su cui la pretesa si fonda) vige il principio che impone l’obbligo della conoscenza della legge al giudice secondo il principio “iura novit curia”. L’avvocato, quindi, con la sua assistenza, corrisponde non solo all’interesse delle parti ma anche a quello della giustizia in quanto le sue deduzioni ed allegazioni ed il suo lavoro cooperano alla formazione di un retto giudizio da parte del giudice. Lo svolgimento della funzione giurisdizionale, nella sua articolazione processuale, pertanto, vede come principale soggetto il giudice ma egli non è un soggetto solitario, deve necessariamente operare in compagnia, in una cooperazione predeterminata con ruoli specifici e con diversità di compiti, ma tutti concorrenti all’unico risultato di dare certezza nell’applicazione del diritto. S. SICARDI, Politica e giurisdizione nello Stato costituzionale; modelli “buoni” e modelli “degenerati”, in www.forumcostituzionale.it. In tale ambito, V. CAIANIELLO, Le autortità indipendenti tra potere politico e società civile, in «Rass. giur. energia elettrica», 1997, pp. 37 e ss. Conf. F. MERUSI, Democrazie e autorità indipendenti, Bologna 2000, pp. 28 e 83. 25

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16. L’interpretazione giudiziale e il contributo imprescindibile dell’avvocato Il principio dell’obbligatoria conoscenza del diritto da parte del giudice ha comportato un’accentuazione del profilo tecnico professionale nell’ordinamento riguardante la selezione e la carriera dei magistrati. In tal modo si è data prevalenza ad una concezione essenzialmente restrittiva della funzione giurisdizionale intesa come mera applicazione a casi particolari dei disposti generali della legge. Tale concezione, però, è stata sottoposta a diverse verifiche; infatti, la nozione restrittiva di funzione giurisdizionale fondata esclusivamente sulla capacità tecnico-professionale del giudice è abbastanza superata; si va affermando la tendenza a ravvisare nelle decisioni dei giudici non già una mera traduzione in termini concreti della volontà legislativa, ma il risultato di un’operazione intellettuale più complessa e sofisticata nella quale si inseriscono scelte e valutazioni autonome degli stessi giudici. Si pensi ai casi in cui vi sono disposizioni legislative ambigue o vi sono vuoti legislativi, le c.d. lacune; in questo casi la giurisdizione viene a configurarsi come una funzione parzialmente produttiva di diritto in quanto non integralmente vincolata. In ogni caso al risultato del processo concorrono non solo la personale preparazione del giudice ma le sue convinzioni sulle quali influisce il contesto socio-politico-culturale, che non può essere privilegiato rispetto all’esigenza di applicare imparzialmente il diritto. D’altra parte la terzietà del giudice viene a connotare una necessaria presenza di soggetti che, nel processo, non sono terzi (ma parti) e rispetto ai quali occorre che il giudice sia imparziale26. Poiché si è visto che le parti non possono stare personalmente in giudizio, il ruolo della parte viene affidato necessariamente all’avvocato che ha il 26 L. D’AVACH, F. RICCOBONO, Equità e ragionevolezze nell’attuazione dei diritti, Guida, Napoli 2004.

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compito delicatissimo di arrecare un contributo efficace e costruttivo allo svolgimento delle funzioni che spettano al giudice. La sostanziale natura dell’interpretazione giudiziale, che manifesta un elemento di creatività, richiede la presenza necessaria dell’avvocato nel procedimento (processo) in cui si svolge la funzione giurisdizionale. Le parti sono titolari di quella quota di sovranità rappresentata dai diritti che la Costituzione attribuisce ai cittadini e che viene incisa dalle pronunce del giudice; il fatto che la parti non possono stare in giudizio personalmente ma devono stare in giudizio tramite avvocato determina conseguenze che vanno tenute presenti. Se il giudice sostituisce la sua decisione a quella delle parti, per dare certezza nell’applicazione del diritto, tale suo compito rispetto alle parti espropriate della partecipazione personale richiede un riequilibrio che viene operato, appunto, con la presenza e l’attività dell’avvocato. In tal modo l’avvocato diventa il depositario e l’affidatario della quota di sovranità appartenente alle parti processuali e che sono oggetto del giudizio e che non possono restare nella totale disponibilità del giudice. Il ruolo dell’avvocato in giudizio diventa, quindi, l’indispensabile sostegno alla correttezza e pienezza del ruolo del giudice per la rappresentazione della situazione giuridica delle parti, nella quale la sovranità trova motivo di svolgersi concretamente. Il giudice che dovesse pronunciarsi senza il contributo degli avvocati non amministrerebbe la giustizia in nome del popolo come dice l’art. 101 Cost. ma la eserciterebbe in nome proprio. Sarebbe un giudice solitario non espressivo del radicamento popolare della funzione, vista come risposta ad un bisogno sociale27. In sostanza non c’è giudice, nel processo, senza avvocato. Sulla funzione del giudice nelle società moderne, A. GARAPON, I custodi dei diritti, Feltrinelli, Milano 1997. 27

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17. La riforma del Titolo IV della Costituzione La riforma costituzionale, che è stata proposta in riferimento alla soggettività dell’avvocatura, intende mettere in evidenza una prospettiva che già esiste nella Costituzione ma che richiede un’esplicita sottolineatura28. È, infatti, opportuno che il Titolo IV invece di intitolarsi alla magistratura venga intitolato alla giurisdizione ed è necessario che vi siano norme distinte che riguardano il giudice e l’avvocatura29. Non va dimenticata la tradizione che è alla base dell’art. 82 c.p.c. in cui si parla di “ministero dell’avvocato” e che sottolinea l’esigenza che gli avvocati abbiano «piena coscienza dell’altezza morale e dell’importanza pubblica del loro ministero che li richiama ad essere i più preziosi collaboratori del giudice» (relazione al codice) e Piero Calamandrei proclamava che l’avvocato nell’esercizio del proprio ministero «deve obbedire solo alle leggi ed alla propria coscienza e non curarsi d’altro», di guisa che il difensore può essere posto sullo stesso piano del giudice quando giudica, appunto per riaffermare, anche di fronte ai pubblici poteri, la specifica situazione dell’avvocato. L’autonomia e la libertà dell’avvocato è, infatti, condizione e garanzia dell’imparzialità del giudice e quindi dell’attuazione della giustizia; in tal modo la giustizia viene amministrata effettivamente in nome del popolo (art. 101 Cost.).

28 Una proposta di modifica che accentua il contributo dell’avvocatura è nei documenti dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura italiana reperibile presso il sito internet http:// www.oua.it/.

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L’Avvocatura soggetto costituzionale nella giurisdizione di GUIDO CALVI* Alla crisi della giustizia, che è un dato ontologico nella storia del nostro paese, si accompagna oramai da decenni una profonda crisi dell’avvocatura. È stato opportuno l’accenno che il collega Grimaudo che poco fa ha fatto sulla celebrazione dei cento anni della ANM. Tutte le Autorità dello Stato sono state presenti per rendere omaggio all’impegno della Magistratura associata nella difesa della legalità e quindi della democrazia. L’assenza dell’avvocatura, come ricordava Grimaudo, non può essere sottaciuta. Credo che questa assenza non sia frutto di scortesia ma sia il segno più evidente del fatto che l’avvocatura non riesce più a rivestire il ruolo istituzionale e politico che gli compete come soggetto della giurisdizione. Occorre quindi che gli avvocati riflettano sulle cause che hanno determinato la debolezza delle organizzazioni dell’avvocatura. Non vi è dubbio che l’assenza di un’unità tra le diverse associazioni dell’avvocatura, il numero eccessivo degli avvocati e il non sempre trasparente esercizio delle funzioni abbiano determinato un giudizio spesso severo dell’opinione nei confronti del mondo forense. Una volta il giurista era considerato il “segretario del principe” ma tanto più forte è stata la conquista democratica dei principi di autonomia ed indipendenza dei soggetti della giurisdizione tanto più maggiore deve essere la qualità formale e sostanziale dell’esercizio delle funzioni. * Avvocato e Professore, Senatore della Repubblica.

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Di qui, voglio dirlo subito, l’apprezzamento per l’iniziativa proposta dall’avvocato De Tilla sulla riforma costituzionale con la quale tali principi dovranno trovare una collocazione nella nostra Carta fondamentale. Già è previsto per la magistratura, occorre ora prevederlo anche per l’avvocatura. Ed è necessario anche che sia promulgata in tempi rapidi una legge regolatrice della professione di avvocato. Un disegno di legge che rivisitava l’intero ordinamento professionale fu presentato nella scorsa legislatura in Senato. Io ne ero il primo firmatario ed il disegno di legge fu sottoscritto da più di un centinaio di senatori. Purtroppo il Parlamento non è riuscito ad approvarlo neppure in Commissione. È bene allora occorre ricordare che le norme che regolano la professione forense sono ancora quello del Regio decreto legge 27 novembre 1933 n. 1578 che a sua volta trova la sua ispirazione ed i suoi contenuti nell’ordinamento forense dell’8 giugno 1874, n. 1938. Tutti gli interventi legislativi successivi hanno inciso su singoli aspetti ma non hanno in alcun modo modificato la struttura fondamentale dell’ordinamento forense. Fin dalla prima legislatura della nostra Repubblica iniziò il tentativo di riforma con il Disegno di legge del Guardasigilli Grassi del 10 settembre 1949. Oltre al riconoscimento della personalità giuridica degli ordini forensi, il disegno di legge ripristinava l’albo chiuso che era stato “temporaneamente sospeso” con il ddl del 7 settembre 1944, n. 215. La proposta del Guardasigilli Grassi trovò contraria la Commissione giustizia proprio sul tema del numero chiuso. Nella seconda legislatura fu assunta una decisione che merita di essere considerata un punto di riferimento fondamentale per chiunque voglia sperare in una vera riforma della professione. Fu nominata

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una Commissione composta di soli avvocati e più precisamente dai Presidenti dei Consigli degli ordini distrettuali. La Commissione era di altissima qualità: per l’Emilia Romagna, era presente il Prof. Enrico Redenti e la Commissione era presieduta da Piero Calamandrei. Fu elaborato un testo che il 12 settembre 1955 fu presentato all’allora Ministro di Grazia e Giustizia, On.le Aldo Moro. Il testo era di così alta qualità che ancora oggi può essere considerato un momento fondamentale nel disegnare la riforma dell’avvocatura. Non a caso nel redigere il disegno di legge da me presentato la scorsa legislatura fu tenuto presente quell’elaborato. Il testo della Commissione Calamandrei era ispirato a un grande rigore etico. Ad esempio era previsto che per mantenere la iscrizione all’albo occorreva il requisito della effettività dell’esercizio professionale, che gli albi dovevano essere revisionati ogni due anni dai Consigli, erano fissati requisiti severi di ineleggibilità (art. 86) ai Consigli prevedendo addirittura la decadenza automatica dalla carica allorquando il consigliere fosse stato assente senza giustificato motivo a tre riunioni consecutive. Ma ciò che vorrei sottolineare con più forza è quanto previsto dall’art. 3: “gli ordini nell’esercizio delle loro funzioni e gli avvocati e i procuratori nell’esercizio delle loro funzioni sono soggetti soltanto alla legge”. Ecco dove possiamo rinvenire la radice lontana ma pur sempre attuale dalla quale l’OUA si è mossa per la proposta di riforma costituzionale. Infatti nell’art. 3 vi era affermato con chiarezza il Principio di indipendenza dell’avvocatura. Il modello era certamente l’art. 101 della Costituzione e si tendeva a equiparare l’indipendenza dell’avvocatura a quella della magistratura. Poiché il progetto elaborato dalla Commissione Calamandrei non fu poi approvato dal Parlamento, è sorto il sospetto che questa equiparazione non fosse apprezzata né dalla magistratura né da taluni esponenti politici. Quaderni

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Dopo cinquant’anni forse si può nuovamente tentare di riproporre l’introduzione del Principio di indipendenza dell’avvocatura sperando che la cultura politica e istituzionale abbia nel frattempo fatto progressi. Un notevole seppur circoscritto passo in avanti circa la parità tra accusa e difesa si può rinvenire nell’art. 111 della Costituzione. L’introduzione di questa nuova norma costituzionale limita, come non poteva non essere, la parità solo al momento della formazione della prova nel processo penale. Ed essa nasce non quale risposta alla sentenza della Corte Costituzionale che aveva censurato la riforma dell’art. 513 c.p.p. ma da altre esigenze. La nostra Carta costituzionale è tra le poche del mondo occidentale a non prevedere un modello di processo. E ciò consentiva il permanere di istituti propri del sistema inquisitorio. L’art. 111 Cost. in realtà prefigura la necessità di una riforma del sistema processual-penalistico avendo come riferimento il modello accusatorio e cioè parità tra le parti nella formazione della prova, nessun segreto e terzietà del Giudice. Su questa strada occorre che l’avvocatura si impegni ad elaborare strumenti processuali che rafforzino le garanzie del cittadino in termini sostanziali e non solo inutilmente formali come oggi spesso avviene. Ora vorrei fare un cenno ad un argomento che, so per certo, non troverà molti consensi in questa assemblea. A me non ha mai convinto il fatto che l’avvocatura abbia elevato la separazione delle carriere a progetto primario per la tutela delle garanzie del cittadino. Certo, il sistema accusatorio dovrebbe prevedere una separazione delle carriere ma tutti sappiamo che il modello di questo processo ha avuto diverse configurazioni. In taluni paesi il PM è elettivo, in altri, come in Francia, è subordinato all’esecutivo. A me sembra che il nostro sistema sia sufficientemente equilibrato. Sono invece preoccupato per le riforme che vedo all’orizzonte. Contrariamente a quanti pensano che la separazione delle carriere

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possa portare ad un allarmante rafforzamento dei poteri dell’organo inquirente, trasformando il PM in una sorta di “capo della polizia”, io, invece, ho una preoccupazione di natura diversa. A me se sembra che il disegno che si sta costruendo intorno alla separazione sia decisamente pericoloso e tutt’altro che garantista. La separazione delle carriere e il rafforzamento dei poteri della Polizia giudiziaria sono semplicemente l’indebolimento del controllo di giurisdizione della magistratura sugli atti della polizia. Cioè lentamente si va scivolando verso un sistema nel quale la polizia, cioè il Ministero dell’Interno, cioè l’esecutivo, hanno un potere sempre più svincolato dal controllo di legalità. Se è così credo che si perderanno molte garanzie. Il problema non è sul singolo magistrato magari inesperto o sul singolo poliziotto particolarmente capace. Il problema è di carattere teorico generale. La subordinazione della polizia giudiziaria al Pubblico ministero è la migliore forma di controllo di giurisdizione degli atti delegati alla polizia. Quando così non era, tutti ricorderanno, quali atti di arbitrio e di violenza accadevano. Ricordate il film “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto” e ricordate che cosa è accaduto a Genova in occasione del G8? Per concludere affinché gli avvocati possano essere non solo soggetti della giurisdizione ma i più autentici garanti dei diritti dei cittadini, debbono tornare a riflettere sulla loro qualità di giuristi. Ad essi è delegato il compito di tutela delle prerogative dei diritti che la nostra carta costituzionale garantisce. È questa la funzione che mi sembra sia venuta meno negli ultimi anni. Ed è questa funzione che noi dobbiamo recuperare se vogliamo tornare ad essere come quel grande giurista napoletano Mario Pagano che fu condannato a morte ed ucciso perché si oppose alla tortura come mezzo di prova. Quaderni

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L’avvocatura soggetto costituzionale di ANNIBALE MARINI*

Quando, si parla dei principi fondamentali della giurisdizione, il nostro compito, il compito dei giuristi, non è solo quello di individuarli ma di verificare se ed in quale misura essi risultino dotati di effettività e siano, quindi, parte integrante e costitutiva dell’ordinamento. E se l’esito di tale indagine è negativo, la conclusione è quella dell’inesistenza del principio o, il che è lo stesso, di un principio solo apparente. Ciò che si traduce, poi, in un grave vulnus dell’ordinamento che su quel principio, almeno formalmente, riposa. Volendo a questo punto fissare l’ordine di trattazione del tema sopra indicato, occorre, dunque, procedere all’individuazione di quei principi che possono definirsi fondamentali della giurisdizione e, successivamente, accertare il loro grado o, se si preferisce, la loro misura di effettività. Ed è questo appunto il compito cui mi accingo iniziando dal primo di tali momenti. La domanda che ci dobbiamo porre in proposito consiste nello stabilire quali tra i principi attinenti alla giurisdizione possono e devono considerarsi fondamentali. E la risposta non è semplice posto che ogni principio, essendo il risultato di un processo deduttivo condotto con riferimento ad un dato settore normativo o, talvolta, all’intero ordinamento, risulta dotato di una generalità più o meno ampia e in questo senso si presenta come il fondamento di una data disciplina. Così, nel campo del di*Presidente Emerito della Corte Costituzionale.

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ritto civile, la buona fede, la tutela del contraente debole, la libertà testamentaria e via dicendo sono principi generali o, con variazione talvolta puramente terminologica, fondamentali dell’ordinamento. Occorre, allora, nel rispondere all’interrogativo che precede, abbandonare criteri d’ordine sostanziale e far riferimento a criteri d’ordine formale nel senso di considerare fondamentali quei principi che trovano la loro espressione nella legge fondamentale del nostro ordinamento e precisamente nella Costituzione. Sicchè, ed è la conclusione, possono definirsi fondamentali tutti e solo i principi costituzionali in tema di giurisdizione. E se i principi costituzionali sulla giurisdizione sono fondamentali è del pari evidente che la loro assenza di effettività si traduce in un grave pregiudizio della stessa giurisdizione. Tra questi principi quelli che presentano, anche per il loro immediato interesse applicativo, un particolare interesse sono tre: 1) il principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.); 2) il principio della parità delle parti nel processo (art. 111 Cost.); 3) il principio della inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del giudizio e, collegato a questo, il principio della tutela dei non abbienti (art. 24 Cost.). Si tratta, allora, di vedere se ed in quale misura questi principi possono considerarsi dotati di una loro effettività e, in caso di risposta negativa, quali siano le cause e quali i rimedi di quella che può considerarsi una grave patologia dell’intero sistema. Diverso è, invece, il problema del ruolo che va riconosciuto all’Avvocatura in relazione ai principi fondamentali della giurisdizione come sopra precisati. Ed in proposito, e per quanto è consentito in questa sede, occorre richiamare quella considerazione dell’Avvocatura quale componente essenziale della giurisdizione che, a prima vista, può forse, Quaderni

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come accade per tutte le definizioni, lasciare perplessi e che, invece, ad una più attenta riflessione, finisce per trovare una giustificazione sostanziale nel fatto che i principi fondamentali della giurisdizione devono essere attuati e non possono non essere attuati anche dall’Avvocatura. Sicché, quest’ultima entra a pieno titolo nel processo attuativo del principi costituzionali, acquistando la veste di protagonista di quel processo e, quindi, uno specifico rilievo istituzionale. Passando, ora, ad una valutazione dei principi fondamentali della giurisdizione, il primo che abbiamo individuato, quello cioè della ragionevole durata del processo, nonostante la sua solenne enunciazione nell’art. 111 Cost., può considerarsi sistematicamente violato nel nostro Paese che per tale illecito ha collezionato un numero di condanne della Corte di Strasburgo superiore a quello di tutti gli altri Paesi europei. Sicché, si tratta, in definitiva, di un principio solo enunciato, ma non attuato e perciò privo di qualsiasi effettività. Se mi è consentita un’osservazione di carattere corporativo, direi che l’unico settore nel quale vige il principio della ragionevole durata del processo è quello della giustizia costituzionale essendo noto che i tempi di definizione dei giudizi di costituzionalità non superano quasi mai la durata di un anno e sono comunque assai brevi. Ferma, dunque, la patologica durata dei processi, occorrerebbe individuarne le cause e indicarne i rimedi. Tra le cause, il discorso sarebbe lungo e complesso, non ricomprenderei, comunque, come talvolta si è fatto, l’ostruzionismo o, comunque, la mancata collaborazione dell’Avvocatura alla sollecita definizione dei processi. E ciò sia perché gli avvocati sono le vittime della durata abnorme dei giudizi per la perdita di fiducia nella giustizia e, di riflesso, nell’attività forense sia perché i tempi della giustizia non sono certo scanditi dagli avvocati. Né è vero che gli avvocati siano responsabili dell’alto grado di

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litigiosità che esiste nel nostro Paese, che rinviene, invece, le sue cause in fattori ben diversi dal numero degli avvocati e da una loro asserita modestia professionale. Gli avvocati sono troppi e poco preparati, e possiamo essere (parzialmente, ma solo parzialmente) d’accordo, ma una cosa certa è che non sono essi i responsabili della lentezza della giustizia, da cui, invece, come si è detto, risultano, sotto vari aspetti, pregiudicati. E se finalmente è stato recentemente attivato un processo riformatore di codici ormai obsoleti o, comunque, superati; processo, i cui effetti positivi non mancheranno di avvertirsi nel breve e medio periodo, non può tacersi che le cause, almeno le principali, della lentezza della giustizia sono da individuarsi in una disciplina unitaria di vicende giudiziarie di scarsa o nessuna importanza e di vicende di grande rilievo economico o sociale. Con il brillante risultato di ottenere (parlo della giustizia civile) tempi biblici per la definizione delle prime e di demandare le seconde alla c.d. giustizia privata (o arbitrale). Mentre non si può non accennare (parlo sempre della giustizia civile) anche al cattivo uso che i magistrati hanno fatto e continuano a fare del loro potere-dovere di condannare il soccombente al pagamento delle spese di giudizio, finendo in tal modo per rendere paragratuito il giudizio ed incentivando proprio quella litigiosità che per ragioni storiche è assai diffusa nel tessuto sociale del nostro paese. Senza ascoltare il monito di antica saggezza, il nostro Praetor finisce così per occuparsi prevalentemente “de minimis”, con la conseguenza che l’esito finale di tutti i giudizi, sia di quelli de minimis che di quelli de maximis, finisce per essere o la prescrizione del reato o la inutilità della sentenza conclusiva dei giudizi. Ma quali i rimedi? L’intervento della Corte Costituzionale in questa materia serve poco o niente, essendo evidente che l’abnorme durata del processo non può certo essere eliminata da una pronuncia caducatoria di una o più norme, ma, come si è detto, da una radicale Quaderni

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riforma dell’ordinamento di esclusiva competenza del Parlamento. L’unica via di salvezza, almeno fino ad ora, ci viene, dunque, dall’Europa ed in particolare dalla Corte di Strasburgo e dalle condanne da quest’ultima inflitte al nostro Paese per l’abnorme durata dei processi. Anche se, non andrebbe dimenticato che le condanne di Strasburgo meriterebbero una immediata esecuzione che allo stato manca. Quel che interessa evidenziare, tuttavia, è l’irreparabile pregiudizio che la lentezza dei giudizi viene ad arrecare non solo al nostro tessuto economico ed allo sviluppo degli investimenti stranieri nel nostro Paese, ma anche, e direi soprattutto, allo stesso principio di legalità. Vulnus quest’ultimo evidenziato dalla corrente e ricorrente constatazione secondo cui “giustizia ritardata è giustizia negata”. E ciò comporta la ormai indilazionabile necessità di bilanciare l’esigenza della ricorribilità ad un giudice di grado superiore a quello che ha emesso una data decisione con il principio della ragionevole durata del processo, trovando un punto di equilibrio tra aspetti egualmente necessari al concetto di giusto processo. Occorre, cioè, ricordare che una costante e continua violazione del principio della ragionevole durata del processo viene a negare proprio quella giustizia che il processo tende ad assicurare. Tutela, dunque e sempre, della persona che invoca giustizia, ma coniugata alla essenziale garanzia di una non irragionevole durata del processo. E passiamo all’altro principio: quello, anch’esso fondamentale, relativo alla parità delle parti nel processo. Consentitemi anche in proposito di procedere, come già fatto, per semplici cenni e pervenire, dunque, alla conclusione che anche siffatto principio, considerato nel suo significato politico-costituzionale, continua ad essere inattuato, o comunque, insufficientemente attuato nella realtà giuridica del nostro paese. E spiego subito il perché. Mi sembra, infatti, che l’ostacolo maggiore all’attuazione di quel principio consista, per quanto riguarda la giustizia penale, nella sto-

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rica unificazione delle carriere del pubblico ministero e del giudice ai quali è, paradossalmente, attribuito uno stesso status nonostante la assoluta diversità delle rispettive funzioni. Ciò che, è appena il caso di dire, non si verifica in alcun altro settore dell’ordinamento. In altri termini, quando una delle parti del processo e precisamente il Pubblico Ministero ha lo stesso status del giudice la diversità delle parti (e cioè del pubblico ministero e del difensore) è in re ipsa e prescinde dalla disciplina interna al processo. Il principio di parità richiede, logicamente, che le parti del processo (e non solo nel processo) siano in posizione di effettiva eguaglianza (uso volutamente un termine atecnico) al di là della loro diversa possibile coloritura, pubblicistica e privatistica. Se, infatti, il difensore in quanto tale e perché tale non può non avere natura privata, (essendo l’avvocato pubblico una triste eredità di regimi dittatoriali) il pubblico ministero non può non essere dotato di poteri pubblicistici che, tuttavia, diversamente da quelli del giudice, devono essere bilanciati da altri poteri attribuiti ai difensori in quella dialettica tra accusa e difesa che non altera la parità delle parti del processo. Quando, invece, una soltanto delle due parti (come oggi accade) e precisamente il p.m. è investito di uno status identico a quello del giudice, ipotizzare una sua parità con il difensore costituisce esercizio di una modesta retorica tanto datata quanto fuorviante. Mi sia consentito ricordare che quello della parità è un processo lungo e difficile anche se qualcosa si è fatto dall’epoca in cui nei giudizi di legittimità il procuratore generale presso la Corte di Cassazione partecipava alla camera di consiglio e diveniva un ulteriore componente (occulto) del collegio, tanto molto raramente le sue conclusioni risultavano difformi dalla sentenza di cui rappresentavano un’anticipazione ad uso e consumo degli avvocati. Si trattava di un caso limite (fortunatamente ormai eliminato), ma significativo, di quanto può accadere quando p.m. e giudice non vengono separati non solo nelle funzioni (il che è ovvio), ma nel loro Quaderni

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status giuridico, a cominciare dallo stesso concorso di accesso alla carriera che deve essere (e non può non essere) diverso per le due categorie essendo funzionale ad una diversa preparazione professionale. A solo titolo esemplificativo, un tema sul retratto successorio sarebbe impensabile per l’accesso alla carriera di p.m., così come sarebbe atipica (per non dire stravagante) la scelta di un argomento di medicina legale per l’accesso alla carriera di giudice. Conclusivamente sul punto, fino a quando la separazione delle carriere o, come si dice, degli ordini, non sarà attuata, avremo una parità puramente formale del pubblico ministero e del difensore e avremo anche, e corrispondentemente, una insoddisfacente terzietà del giudice. E vengo all’ultimo principio che, come ho detto, riguarda la difesa dei non abbienti, principio che, ove non attuato, finisce per vanificare lo stesso diritto di difesa e cioè uno dei diritti essenziali della persona. La norma secondo cui la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del giudizio significa che non ci può essere giurisdizione senza difesa e non ci può essere difesa senza il patrocinio di un avvocato liberamente scelto dalla parte, dotato di capacità professionale e in quanto tale retribuito con onere a carico dello Stato. Da ciò discende il dovere dell’avvocato prescelto dal non abbiente di prestare la sua opera con diligenza e professionalità, restando in caso contrario, soggetto alle sanzioni disciplinari previste per l’inosservanza dei suoi doveri. A questo punto, ritorna ancora una volta l’interrogativo se possa ritenersi compiutamente attuato nel nostro Paese il diritto alla difesa dei non abbienti. E la risposta, come ben sanno gli avvocati oggi presenti, è negativa nel senso che la c.d. difesa d’ufficio è solo una parodia (e talvolta una brutta parodia) della vera difesa e che, purtroppo, quando ciò accade diventa una parodia anche la giurisdizione che rimane priva del suo momento essenziale riducendosi ad un manichino senza vita.

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E allora? Allora dobbiamo avere ben presente che il diritto alla difesa è un diritto fondamentale della persona come il diritto alla salute, all’istruzione e via dicendo e che, pertanto, è del tutto ingiustificata la posizione di Cenerentola che gli è stata in passato riservata nella realtà giuridica del nostro Paese, al di là di enfatiche e ricorrenti dichiarazioni di segno contrario. Posizione di Cenerentola che non fa certo onore ad un Paese come il nostro di antica civiltà giuridica. Vorrei finire con una riflessione. È stato di recente scritto da Franco Galgano che una accusa mossa di frequente ai giuristi è quella di essere stati storicamente sempre dalla parte del potere costituito secondo la nota formula del giurista segretario del principe. Ma lo stesso Franco Galgano, che pur aveva mostrato di condividere quell’accusa, doveva riconoscere, con grande onestà intellettuale, di essersi sbagliato e citava il caso di Mario Pagano che aveva pagato con la vita il rifiuto di riconoscere alla tortura, sulla quale si reggeva il regime borbonico, la dignità di un valido mezzo di prova. E ciò in quanto, aggiungo, il mezzo di prova non può mai comportare in nome della giustizia la violazione di quei diritti che della giustizia rappresentano il fondamento. A distanza di secoli il sacrificio di Mario Pagano conserva la sua attualità in quella che può definirsi la lotta per il diritto che nel presente momento assume le sembianze della lotta per l’attuazione dei principi che ho indicato quale fondamento del giusto processo e che non possono essere disattesi senza vanificare quello Stato di diritto che resta una delle conquiste più significative della civiltà contemporanea.

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La previsione dell’avvocatura quale soggetto costituzionale 1

di RICCARDO CHIEPPA* 1. L’avvocato nella previsione costituzionale La previsione diretta degli avvocati in Costituzione si rinviene in quattro disposizioni: tre delle quali riguardano requisiti attitudinali per la nomina elettiva come giudice della Corte costituzionale (art. 135, comma secondo), o come componente del Consiglio superiore della Magistratura (art. 104, comma quarto), o per la chiamata all’ufficio di consiglieri di cassazione ed una quarta norma concerne un caso di incompatibilità nell’ufficio di giudice della Corte costituzionale (art. 135, comma sesto: incompatibilità con l’esercizio della professione di avvocato). Il requisito attitudinale, accompagnato dal possesso di una notevole anzianità di esercizio professionale, è previsto, accanto a quello di professore ordinario universitario in materie giuridiche, per componente del CSM e per consigliere di cassazione e, insieme alla ulteriore previsione alternativa di magistrato delle giurisdizioni superiori, per giudice costituzionale, così comprovando un alto apprezzamento in sede di Costituente delle attitudini della classe forense collegata a notevole anzianità di effettivo esercizio professionale. In relazione alla significativa previsione di precedente esperienza professionale come “avvocati dopo 15 (o venti) anni di esercizio”, configurata quando nell’ordinamento professionale vi era un * Pres. Emerito Corte Costituzionale, Pres. Onorario del Consiglio di Stato. 1 Il testo costituisce, con alcune limitate varianti e l’aggiunta delle note, e di varianti formali, la relazione tenuta alla VI Conferenza nazionale dell’Avvocatura, Roma 21 novembre 2009, organizzata dall’OUA (Organismo unitario della Avvocatura italiana).

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normale precedente periodo minimo di esercizio professionale come procuratore legale, si impone ora un adeguamento a seguito della unificazione delle figure professionali. Su di un altro piano l’incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato è prevista in Costituzione per il giudice costituzionale, insieme a quella di membro del Parlamento o di un Consiglio regionale oltre ad ogni carica ed ufficio indicato da legge ordinaria, cui si fa rinvio. Questa previsione è stata attuata, anche in base all’art. 1 legge cost. 11 marzo 1953, n. 1, con l’art. 7 della legge 11 marzo 1953, n. 87, che, con una quanto mai giusta ampiezza, ha previsto una incompatibilità generale (raffrontabile con quella della previsione e della attuazione egualmente ampia per il Presidente della Repubblica: art. 84, comma secondo Cost.: “incompatibile con qualsiasi altra carica”). Infatti per il giudice costituzionale è esclusa l’assunzione o la conservazione di altri uffici o impieghi pubblici o privati o l’esercizio di qualsiasi attività professionale (quindi anche quella di avvocato, prevista espressamente in Costituzione), e attività commerciale o industriale o di amministratore o sindaco in società con fine di lucro. Inoltre la Costituzione prevede indirettamente la funzione dell’avvocato attraverso le garanzie di inviolabilità della difesa processuale in ogni stato e grado del procedimento avanti a qualsiasi giudice (art. 24, comma secondo), principio ulteriormente esplicitato e rafforzato dalle regole del giusto processo e delle condizioni di parità delle parti in ogni processo (art. 111, comma primo e secondo)2. V. per la notevole rilevanza della garenzia della difesa processuale, Corte cost. sent. n. 20 del 2009: «Gli articoli 24 e 113, Cost., enunciano il principio dell’effettività del diritto di difesa, il primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica amministrazione. Entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti ed operano esclusivamente sul piano processuale (in tal senso, ex plurimis, le sentenze n. 182 del 2008, nn. 180, 181, 282, 420 del 2007, n. 101 del 2003 e n. 419 del 2000). A sua volta, il principio del giusto processo, consacrato nell’art. 111, Cost., è finalizzato ad assicurare che gli strumenti procedurali vigenti pongano accusa e difesa in una posizione di 2

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In realtà in sede di Assemblea costituente in sede di 1^ sottocommissione vi fu una proposta, aggiuntiva all’articolo riguardante la difesa in giudizio (divenuto 24 nel testo definitivo della Costituzione). Dell’on. Mastrojanni, preoccupato di talune limitazioni alla difesa a mezzo degli avvocati in tempo di guerra e per talune fasi giurisdizionali: la proposta volta ad una maggiore garanzia di tempo, “anche in tempo di guerra”, consisteva nella specificazione che “La difesa è garantita in ogni grado e stato processuale, in ogni tempo e davanti a qualsiasi giurisdizione. Essa è affidata solo agli avvocati”. La proposta non fu accolta in sede di sottocommissione perché ritenuta in parte inutile considerando la formula “in ogni stato” comprensiva anche del “tempo”, mentre fu ritenuta a rischio una garanzia espressa della “difesa solo attraverso difensori di fiducia”. In realtà vi era una precisa volontà di dare veste costituzionale al principio che la difesa per mezzo di avvocato fosse garentita in ogni tempo e davanti ad ogni giudice (intervento del presidente on. Tupini, Resoconto, I Sc, p. 60). D’altro canto in sede di Assemblea costituente il vero dibattito dialettico sui diritti dei cittadini – specificamente sulla tutela e difesa in giudizio – fu quello di non accontentarsi dell’affermazione e proclamazione degli stessi diritti. Nella precisa volontà di una Costituzione veramente democratica, si cercò di spostare il centro di gravità sulla garanzia di tali diritti, e quindi sui mezzi per l’esercizio del diritto di difesa, ritenendo necessario assicurare realmente la possibilità di questa difesa3, dare il modo di esercitare questo diritto, stabilendo che ognuno deve essere assistito convenientemente in giudizio. parità e offrano idonea tutela ai diritti sostanziali su cui si controverte nel processo, attraverso la piena attuazione del principio del contraddittorio, del principio di ragionevole durata del procedimento, della motivazione della decisione. Anche in tal caso si tratta di garanzie di carattere esclusivamente processuale». 3 V. LA ROCCA, Res. Ass. costituente, p. 2532; CARULLO, La Costituzione della Repubblica italiana, Milano, Giuffrè, 1959, p. 69; v. anche ONIDA, La Costituzione, Bologna, Il Mulino, 2004, 74, a proposito del diritto al giudice e alla difesa giudiziaria come oggetto di un diritto fondamentale, costituzionalmente garantito, che è strumento e condizione per la tutela di tutti gli altri.

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La vera preoccupazione fu quella di assicurare ai non abbienti, ai disagiati e agli indigenti – si noti su un piano di parità tra le parti – una giusta posizione processuale con una adeguata difesa: furono richiamati i precedenti del diritto romano (legge Cinzia contro abusi e la proibizione di compensi intendendo la gratuità come honorificum munus), dell’ordinamento carolingio con i messi di Carlo Magno per la protezione dei poveri, della istituzione dell’advocatus pauperorum nel diritto canonico, della tradizione di molti Comuni italiani con una avvocatura speciale a difesa del povero (fu ricordato che Giuseppe Mazzini esercitava nel foro genovese l’avvocatura dei poveri prima del suo arresto), fino alla legge Rattazzi del 1859. Protagonisti di questo dibattito furono l’on. La Rocca (originariamente favorevole ad una avvocatura dei poveri), mentre l’on. Persico e l’on. Paolo Rossi furono decisamente contrari alla istituzione di una Avvocatura speciale e favorevoli ad un perfezionamento del gratuito patrocinio. Su questa ultima tesi fu raggiunta una intesa concordata tra gli on. La Rocca, Persico e Nobile che portò ad un testo accettato dalla Commissione e votato dall’Assemblea, divenuto poi art. 24, comma terzo della Costituzione, con l’aggiunta successiva, in sede di coordinamento finale, accanto al concetto della difesa, di quello dell’azione (mezzi per agire e difendersi). Del resto la soluzione finale era perfettamente in linea con l’affermazione del primo comma e dell’intero dibattito secondo cui azione in giudizio, tutela dei propri diritti ed interessi legittimi sono una endiadi unitariamente garantita a tutti. Così l’obiettivo di una adeguata tutela per tutti fu raggiunto puntando sull’utilizzo di un patrocinio gratuito (tale dovrebbe essere per chi non ha mezzi e non necessariamente come onere del legale) patrocinio opportunamente perfezionato, con il netto superamento delle caratteristiche talvolta usuali di molto meno di una formalità, ma strutturato “allo scopo di assicurare effettivamente la difesa dei non abbienti”. Quaderni

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Trionfò così implicitamente l’utilizzo della libera professione escludendosi l’idea di vincolarsi ad una “istituzione stabile” attraverso una “avvocatura speciale,” con propria carriera e avvocati ad hoc, lasciando invece discrezionalità al legislatore di configurare gli appositi istituti giuridici che assicurino ai non abbienti i mezzi – si noti l’espressione i mezzi – per agire e difendersi, in modo da potere realizzare a favore degli interessati anche una libertà di scegliere a chi affidarsi per l’azione e la difesa. La previsione costituzionale è quanto mai aperta, imponendo solo la messa a disposizione di mezzi attraverso appositi istituti giuridici, che possono spaziare tra facoltative forme di patronato, collegate o meno ad organizzazioni di categoria, purché adeguatamente sussidiate, fino alla assunzione di oneri economici per gli onorari e spese a favore di chi esercita tali difese per i non abbienti, ovvero ogni altro sistema di messa a disposizione di mezzi per avvalersi di assistenza tecnica nei giudizi. Vi è, tuttavia, da notare che il vigente sistema del patrocinio a spese dello Stato4, quanto mai giusto nelle finalità di principio, presenta una serie di anomalie finanziarie per talune distorsioni e notevoli esborsi delle finanze pubbliche (originariamente non previsti e prevedibili), specialmente per taluni eccessi di ricorsi seriali in tutti i gradi di giudizio con esito negativo, soprattutto nel settore di tutela giudiziaria di extracomunitari (spese certamente non recuperabili dall’Erario). Questo assume notevole gravità dal momento vi è un ricorrente difetto di mezzi a disposizione per l’espletamento delle stesse funzioni di giustizia e talvolta anche per una assistenza ade4 V. art. 32, comma 2, del d.lgs. n. 271 del 1989, nel testo introdotto dall’art. 17 della legge n. 60 del 2001, poi trasfuso nell’art. 116 del d.lgs. n. 113 del 2002 e riprodotto nell’art. 116 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia); da rilevare che una questione di legittimità costituzionale relativa alla mancanza di copertura finanziaria è stata dichiarata infondata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 266 del 2003, cui sono seguite le ordinanze di manifesta infondatezza 328 del 2003, 67 del 2004, 171 del 2004, 4 128 del 2005.

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guata a livelli minimi a favore degli anzidetti soggetti in difficoltà. Tali risorse finanziarie potrebbero essere meglio utilizzate per una giustizia e assistenza più efficiente. 2. Ordinamento professionale forense, competenze dello Stato e delle Regioni Tutto l’ordinamento forense (e anche la disciplina dell’assistenza professionale giudiziale e consultiva giuridica alle Amministrazioni statali5) rientra nella competenza legislativa statale in quanto inscindibilmente collegato e connesso con la lett. l) del comma secondo dell’art. 117 della Costituzione (giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale, giustizia amministrativa), tenuto conto della interpretazione restrittiva, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale6 della competenza concorrente regionale in materia di “professioni” (art. 117, comma terzo Cost.) e della estraneità delle Regioni rispetto al settore giustizia. Alle Regioni spetta una competenza residuale in ordine all’ordinamento e all’organizzazione amministrativa dei propri uffici legali e di quelli degli enti pubblici regionali, con il rispetto delle norme sulla professione forense fissate in sede unitaria nazionale, oltre, beninteso, taluni interventi strumentali come la messa a diposizione di mezzi per l’assistenza giudiziale. 5 Da segnalare, per quanto riguarda le amministrazioni statali che fruiscono dell’assistenza dell’Avvocatura dello stato, Tar Lazio 7 luglio 2009 n. 6527, con annullamento di un bando di gara per un servizio legale triennale per l’assistenza in materia di protezione delle denominazioni di origine dei prodotti italiani (ministero politiche agricole) sotto il profilo che il ricorso ad avvocati del libero foro non può essere in modo sistematico ed, in ogni caso, ammissibile solo con carattere di eccezionalità, specificamente motivata. 6 V. da ultimo Corte cost. sent. 8 maggio 2009, n. 138; n. 222, 179 e 93 del 2008; n. 300, n. 57 del 2007; n. 449, 424, 423, 153 e 40 del 2006, nonché la sentenza n. 353 del 2003. V. anche il d.lgs. n. 30 del 2006, art. 1 e 4, con ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni. A questo ultimo riguardo occorre, inoltre, tenere presente che la materia della professione di avvocato e dell’ordinamento forense è inscindibilmente collegata e connessa con il sistema giurisdizione e processo, rientrante nella competenza esclusiva statale (art. 117, comma secondo, Costituzione).

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Inoltre le stesse Regioni non possono imporre la configurazione di eventuali servizi legali o vincoli ad enti pubblici o a Comuni e Province diretti ad utilizzazione dei servizi regionali nel settore legale7. Del resto la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni attribuite agli stessi Comuni e Province rientrano nella potestà regolamentare dei medesimi Enti, ormai costituzionalmente garantita (art. 117, comma sesto, Cost.). D’altro canto appare assai dubbia sul piano sostanziale una utilizzazione da parte di enti diversi dalla Regione di avvocati iscritti in albo speciale, che, secondo norme di spettanza statale, sono abilitati a svolgere attività di avvocato soltanto “per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera” e non a favore di soggetti autonomi rispetto all’organizzazione regionale in senso allargato. Un intervento regionale del genere di quello ipotizzato può, altresì, assumere profili di contrasto con le norme della concorrenza nella professione di avvocato. 3. Giusto processo, contraddittorio e posizione degli avvocati Il principio del giusto processo e del contraddittorio, quale riaffermato ed esplicitato dall’art. 111 Cost., come rafforzativo della garanzia giudiziaria (diritto di avvalersi della giustizia e di difesa processuale), in posizione di parità ed eguaglianza delle parti, esige che ogni pronuncia, tanto più se sfavorevole ad una delle parti sia preceduta dalla possibilità di effettivo contraddittorio, di modo che gli avvocati, che svolgono la difesa di ciascuna parte, devono essere posti in grado di intervenire tempestivamente esprimendo le ragioni 7 V. Tar Lombardia 7 febbraio 2008, ordinanza di rimessione alla Corte cost. della questione di l.c. dell’art. 1, comma 2, legge reg. Lombardia 27 dicembre 2006, n. 30 per il caso di imposizione ad Enti pubblici. La Corte, con ordinanza n. 43 del 2009, ha disposto la restituzione degli atti al giudice remittente in quanto era sopravvenuta l’abrogazione della disposizione censurata con l’eliminazione dell’obbligo per gli enti pubblici operanti nella Regione di fare ricorso agli avvocati della Regione.

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difensive sul profilo introdotto per la prima volta in giudizio8. Questo comporta che tutte le volte che sia introdotta d’ufficio una eccezione di decadenza o di inammissibilità o altro profilo pregiu8 V. COMOGLIO, FERRI e TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Il Mulino, 2005, vol. I, cap. III, Le Garanzie costituzionali; Denti, Questioni rilevabili d’ufficio e contraddittorio, in Riv. dir. proc., 1968, 217 ss., che si sofferma su una “visione dei rapporti tra i poteri del giudice ed i poteri delle parti, che trova il suo fondamento nell’art. 101 cod. proc. civ., interpretato alla luce dello art. 24, 2° comma della Costituzione”, opinione criticata da Ferri C., Contraddittorio e poteri decisori del giudice, in Studi Urbinati, anno XLIX, n. 33, Città di Castello 1984, che , partendo dall’art. 24, comma 2, Cost., ritiene che dalla norma «discenda la necessità dell’integrale attuazione del contraddittorio in ogni fase del procedimento ed in particolare la necessità che le parti siano poste in condizione di poter interloquire e difendersi preventivamente su ogni aspetto della decisione». V. in particolare E. BERNINI, Principio del contraddittorio ed arbitrato, PhD thesis, Luiss Guido Carli, eprints.luiss.it/119/1/bernini-20090319.pdf, che, in una premessa di carattere generale, offre una amplissima rassegna dell’alterno svolgimento del dibattito, sia sul piano dottrinale, sia negli interventi normativi in Francia (dal d. 13 ottobre 1965, art. 82, con la previsione che «aucun moyen, même d’ordre public, non soulevé par les parties ne pourra être examiné d’office sans que celles-ci aîent été appellés à prèsenter leur observation à cette egard»; d. 9 settembre 1971, art. 16, con l’eccezione dei moyens d’ordre public; confermato dal d. 20 luglio 1972, con l’eliminazione della eccezione e la espressa prescrizione al presidente dell’organo giudicante di riaprire la discussione; nella nuova formulazione delle modifiche nel testo unificato del cod, proc. civ., l’art. 16 rovescia completamente l’indirizzo e non prevede più che il giudice sia tenuto a rispettare il principio del contraddittorio, ma semplicemente che lo faccia rispettare alle parti; disposizione annullata dal Conseil d’État, sentenza 18 ottobre 1979, in Dalloz 1979, 606, nella parte in cui dispensava il giudice dall’osservare il principio del contraddittorio, allorquando rilevi d’ufficio una questione di puro diritto; fino alla nuova riforma dell’art. 16 cod. proc. civ. del 12 maggio 1981, che contiene la definitiva riaffermazione di una ampia necessità del previo contraddittorio di parte su qualunque questione rilevata d’ufficio: - “Le juge doit, en toutes circonstances, faire observer et observer lui-même le principe de la contradiction. - Le juge ne peut retenir dans sa décision les moyens, explications et les documents invoqués ou produits par le parties que si celles-ci ont été à même d’en debattre contradictoirement…. ne peut fonder sa décision sur les moyens de droit qu’il a relevés d’office sans avoir au préalable invité les parties à presenter leurs observations”). L’accurato lavoro di Bernini è completato, per la parte che qui interessa, dalle evoluzioni della giurisprudenza in Italia. Per la recente dottrina italiana v. anche C. CECCHELLA, Le relazioni tra le parti, i giudici e i difensori, Relazione nazionale al 12° Congresso Mondiale di diritto processuale, Città del Messico 22-26 settembre 2003, in www.judicium.it; CAPPONI, Trattazione della causa, ruolo del giudice, cultura del contraddittorio nel d.d.l. Mastella sulle «Disposizioni per la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile», ivi; FABIANI, Sasso nello stagno, Postilla minima sul rito societario dopo la legge 28/12/2005 n. 263, ivi; B. SASSANI, Nuovo giudizio di Cassazione, in Riv. Dir. Proc., 2006, 217 in particolare al n. 17, Questioni sollevate d’ufficio e contraddittorio; E. F. RICCI, La sentenza «della terza via» e il contraddittorio, in Riv. dir. proc., 2006, 750, che esclude che l’omissione da parte del giudice di indicare alle parti la questione rilevabile d’ufficio, ponga un problema di rispetto del contraddittorio, che sarebbe in ogni caso garantito ogni qual volta la parte ha la possibilità di giovarsi di

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diziale o preclusivo al giudizio, il giudice è tenuto ad assicurare il contraddittorio, annunciando anche in sede di discussione in udienza il problema, in modo da rendere possibile una difesa9. una difesa tecnica, in quanto l’art. 183 c.p.c. (che prevede che il giudice «indica alle parti le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione) può invece essere collegato al principio del contraddittorio, con il significato di mezzo attraverso il quale si può giungere a una migliore ricostruzione dei fatti e della loro interpretazione giuridica. Sul piano normativo v., ora, per i giudizi in Cassazione l’art. 384 c.p.c., nel testo novellato dal d lgs. N. 40 del 2006, con l’obbligo di assegnare termine per depositare osservazioni su questioni rilevate d’ufficio e le osservazioni di CARRATTA, Le riforme del processo civile, diretto da Chiarloni, tomo primo, 503, Bologna, 2007, nel senso della applicabilità ai soli casi di decisione di merito da parte della Corte di cassazione, interpretazione restrittiva messa in dubbio da C. DI IASI, I poteri d’ufficio del giudice alla luce dei principi di efficienza e del giusto processo, relazione in http://appinter.csm.it/incontrirelaz/16576.pdf. 9 V. per la svolta iniziale della giurisprudenza: Cass. 21 novembre 2001, n. 14637, in Giust. civ., 2002, I, 1611, con nota adesiva di F. P. LUISO, Questione rilevate di ufficio e contraddittorio: una sentenza «rivoluzionaria»?, www.judicium.it/archivio/pluiso03.html, sentenza pubblicata anche in Giur. it., 2002, 1363, con nota contraria di S. Chiarloni; Cass. 27 luglio 2005 n. 15705 e 5 agosto 2005, n. 16577, in Foro it., 2006, 1, 3174 con nota di E. FABIANI, Rilievo di ufficio di questioni da parte del giudice, obbligo di sollevare il contraddittorio delle parti e nullità della sentenza; nonché in Riv. dir. proc., 2006, 747; Cass. 31 ottobre 2005, n. 31108 in Giur. it. 2006, 1456 e Corr. giur., 2006, 507, con nota di C. Consolo; Cass. 9 giugno 2008, n. 15194, secondo la quale «il giudice non può decidere la lite in base ad una questione rilevata d’ufficio senza averla previamente sottoposta alle parti, al fine di provocare sulla stessa il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle rispettive difese in relazione al mutato quadro della materia del contendere, dovendo invece procedere alla segnalazione della questione medesima e riaprire su di essa il dibattito, dando spazio alle consequenziali attività delle parti. Infatti, ove lo stesso giudice decida in base a questione rilevata d’ufficio e non segnalata alle parti, si avrebbe violazione del diritto di difesa per mancato esercizio del contraddittorio, con conseguente nullità della emessa pronuncia”. V. anche la sentenza Cons. Stato, ad plen., n. 1 del 2000, che afferma in maniera netta che “il giudice amministrativo, prima di decidere una questione rilevata d’ufficio deve indicarla alle parti, per consentirne la trattazione, in attuazione del principio del contraddittorio: da notare che tale indirizzo nella giurisprudenza amministrativa ha avuto scarso seguito in pronunce successive, probabilmente anche per una consuetudine dei più attenti presidenti di collegio ad un dialogo collaborativo in udienza sulle questioni da trattare e quindi anche sulle questioni non sollevate in precedenza. V. per qualche riferimento C. Conti 9 febbraio 2003 n. 75, Riv. Corte Conti, 2002, 125; Corte Conti n. 208 del 2001, ivi, 2001, 152; in sede di controllo preventivo Corte Conti sez. controllo 7 dicembre 1999, n. 107, ivi, 1999, 19. Per un riferimento a contraddittorio successivo v. Corte cost. ord. 30 luglio 2009, n. 255, riguardo all’applicazione di ufficio di amnistia e indulto e sulla rilevante possibilità di chiedere nuova sottoposizione della questione in contraddittorio. Da segnalare infine la recente sentenza della Corte europea dei diritti umani, sez. II, Cimolino c/Italia, (Ricorso n. 12532/05), 22 settembre 2009, che ha confermato il dovere del giudice di rispettare il principio del contraddittorio, quando rigetta un ricorso e decide una controversia sulla base di un motivo o una riqualificazione giuridica dei fatti operata d’uffi-

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Questo ultimo aspetto coinvolge anche l’imparzialità del giudice e la parità delle parti, che esigono che i giudice deve essere in una posizione nella quale tutti gli interessati (parti del processo) possano raffigurarlo come soggetto che deciderà non secondo un pregiudizio che lo leghi ad un interesse in gioco, ma secondo legge, dopo avere sentito le parti, rispettando i diritti di tutti10. 4. Ordinamento professionale forense e ordinamento comunitario Deve innanzitutto essere posta in rilievo la attenzione data alla particolare posizione dell’avvocatura dal Parlamento europeo, che cio, ma ha risolto il caso escludendo che vi sia stata violazione, in quanto avendo il giudice posta a fondamento del rigetto anche un altro profilo, non nuovo, non avrebbe impedito al ricorrente di presentare le sue argomentazioni su una questione determinante per l’esito del procedimento, in quanto il ricorso sarebbe stato, anche per altra via, rigettato – le relative doglianze erano state esaminate e dichiarate infondate dal giudice (Corte di Cassazione) –. Si riporta la parte della motivazione della Corte europea di particolare interesse: «43. - Il concetto di processo equo comprende il diritto ad un processo in contraddittorio il quale implica il diritto per le parti di portare a conoscenza dell’avversario gli elementi necessari al successo delle loro pretese, ma anche di prendere visione di ogni atto ed osservazione presentati al giudice per influenzare la sua decisione e di discuterli (Vermeulen c/Belgio, sentenza del 20 febbraio 1996, Raccolta 1996-I, p. 234, § 33; Nideröst-Huber c/Svizzera, sentenza del 18 febbraio 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-I, pp. 107-108, § 24). Il principio vale per le osservazioni e gli atti presentati dalle parti, ma anche da un magistrato indipendente quale il commissario del Governo (Kress c/Francia [GC], n. 39594/98, CEDU 2001-VI; APBP c/Francia, n. 38436/97, 21 marzo 2002), da un’amministrazione (sentenza Krčmář e altri c/Repubblica ceca, n. 35376/97, § 39, 3 marzo 2000) o dal giudice autore della sentenza impugnata (Nideröst-Huber, succitata)». «4.- Anche il giudice deve rispettare il principio del contraddittorio, in particolare quando rigetta un ricorso o decide una controversia sulla base di un motivo sollevato d’ufficio o di una riqualificazione giuridica dei fatti operata d’ufficio (Skondrianos c/Grecia, nn. 63000/00, 74291/01 e 74292/01, §§ 29-30, 18 dicembre 2003; Clinique des Acacias e altri c/Francia, nn. 65399/01, 65406/01, 65405/01 e 65407/01, § 38, 13 ottobre 2005; Prikyan e Angelova c/Bulgaria, n. 44624/98, § 42, 16 febbraio 2006; Drassich c/Italia, n. 25575/04, §§ 31 e 32, 11 dicembre 2007)». «45.- Innanzitutto, la Corte conviene con il Governo che la Corte di cassazione si è avvalsa del suo potere incontestato di decidere la causa sulla base di una questione sollevata d’ufficio. Solo la mancata comunicazione alle parti dell’intenzione di ammettere d’ufficio detta questione potrebbe porre un problema rispetto alla Convenzione». La Corte di Strasburgo ha quindi escluso che vi sia stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, in relazione alla duplice via seguita nella motivazione dalla Corte di Cassazione. 10 ONIDA, La Costituzione, cit, p. 108.

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con risoluzione 23 marzo 200611 ha riaffermato il pieno riconoscimento della “funzione cruciale esercitata dalle professioni legali in una società democratica, al fine di garantire il rispetto dei diritti fondamentali, lo stato di diritto e la sicurezza nell’applicazione della legge, sia quando gli avvocati rappresentano e difendono i clienti in tribunale che quando danno parere legale ai loro clienti”. Il Parlamento europeo è partito dalla duplice considerazione “che la protezione adeguata dei diritti umani e delle libertà fondamentali, cui ha diritto ogni persona, nel campo economico, sociale, culturale, civile e politico, richiede che ogni persona abbia effettivo accesso ai servizi legali forniti da una professione legale indipendente” e che “qualsiasi riforma delle professioni legali ha conseguenze importanti che vanno al di là delle norme della concorrenza incidendo nel campo della libertà, della sicurezza e della giustizia e in modo più ampio, sulla protezione dello stato di diritto nell’Unione europea”. In realtà l’approccio comunitario specifico per la professione forense appare legato all’interesse generale al servizio e alla funzione sociale12, accanto alla particolare rilevanza della salvaguardia degli interessi del consumatore e quindi della concorrenza, in un bilanciamento che mantenga ferma la funzione esercitata dalle professioni legali per il rispetto dei diritti fondamentali. 5. La funzione dell’avvocato alla luce delle garenzie dei diritti fondamentali13 La presenza dell’avvocato nei giudizi è stata configurata come 11 Risoluzione del Parlamento europeo sulle professioni legali e l’interesse generale nel funzionamento dei sistemi giuridici, approvata il 23 marzo 2006. 12 V. anche A. DE GIORGI, Il ruolo sociale dell’avvocatura italiana in Rassegna forense, 2008, p. 843. 13 V. sull’avvocatura come componente essenziale della giurisdizione e come soggetto costituzionale A. MARINI, in Convegno “L’avvocatura come soggetto costituzionale nella giurisdizione, proposta di modifica costituzionale, Fermo 26-27 giugno 2009; A. LOIODICE, La soggettività costituzionale dell’Avvocatura, ivi; G. CALVI, ivi.

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strumento per porre rimedio alle naturali disparità delle parti, per prestigio personale, per censo, posizione sociale, peso politico o altro, servendo ad impedire che le regole del giuoco, cioè le norme, vengano ad un certo punto messe da parte a vantaggio di “armi improprie”, vale a dire di criteri di giudizio alternativi rispetto alle norme stesse. In realtà la presenza necessaria dell’avvocato-difensore è correlata alla eccezionalità della autodifesa della parte e ad un presunto stato di incapacità, cui la stessa parte si troverebbe esposta nel processo, come stato di minorazione di gestire di persona per il tecnicismo del processo e per la naturale passione della parte, ma soprattutto serve a impedire turbamenti al contraddittorio determinato da una disparità tra le parti14. Significativa, a questo proposito, è la tendenziale avversità dei giudici amministrativi – richiamata da Agrifoglio15 – a far partecipare le parti alla discussione in udienza, “con buona pace della «popolarità» dell’azione (nei giudizi elettorali) e della previsione legislativa che li abilita a stare in giudizio personalmente”. 6. Il necessario apporto dell’avvocatura per una efficienza nel settore giustizia: inseparabilità rispetto al concorso concertato tra tutte le componenti del settore compresa la magistratura Giuseppe Chiovenda, a proposito degli avvocati sottolineava che “meglio di una professione il loro ufficio è una funzione, non solo dal punto di vista giuridico, ma politico sociale, perché stando tra le parti e i giudici, sono l’elemento traverso cui i rapporti fra l’amministrazione della giustizia e i cittadini possono migliorare, crescendo da un lato l’autorità, dall’altro la fiducia, dal che dipende il miglioramento degli istituti processuali”16. AGRIFOGLIO, op. cit., p. 87. Ivi, p. 43 e 86. 16 G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, Jovene, 1936, vol. II, sez. I, p. 253. 14 15

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Su questo profilo quanto mai attuale è il pensiero espresso dall’indimenticabile Piero Calamandrei: “in regime di democrazia il processo deve essere… un colloquio civile tra persone poste sullo stesso livello umano”, di qui “l’importanza …degli avvocati, interlocutori necessari di questo dialogo. L’esito del processo, quindi la sorte della giustizia, dipende dall’amichevole e leale svolgimento di questo colloquio: dalle buone relazioni tra giudici e gli avvocati dipende, più che dalla bontà delle leggi, il funzionamento della giustizia. Giudici ed avvocati somigliano, nel processo, ad un sistema di vasi comunicanti: cultura e lealtà si mantengono costantemente, per i giudici e gli avvocati, allo stesso livello; si innalzano o calano per gli uni e per gli altri, in misura eguale e costante17. I buoni giudici fanno i buoni avvocati e viceversa: i magistrati che disprezzano i difensori, disprezzano se stessi; ma gli avvocati che non rispettano la dignità del magistrato offendono la dignità della toga… Gli avvocati nel processo rappresentano la libertà... per arrivare alla giustizia bisogna passare attraverso la libertà… strumento indispensabile per conquistare una maggiore giustizia”18. “L’avvocato è il simbolo pericoloso della ragione critica, della obiezione ad ogni conformismo; nei regimi di oppressione e di viltà, l’ultimo rifugio della libertà è la toga” (fine della citazione). 17 V. anche, sul rapporto di cooperazione tra magistrati e avvocati basata sulla insostituibile utilità e necessità sociale dell’opera del difensore e sulla reciproca dignità ed elevazione della magistratura ed avvocatura, V. CHIEPPA, Principi di un etica professionale del magistrato, in Studi in onore di E. Eula, Vol. I, 116, Milano, Giuffrè, 1957; G. CONTENTO, La deontologia dell’avvocato, in Deontologia delle professioni giuridiche, a cura della sez. di Bari dell’UGCI, Bari, Cacucci, 1989, p. 126 ss., sulla necessità dell’avvocato per la difesa come diritto inviolabile e sulla sua funzione di vigilanza del rispetto delle regole, del gioco, come funzione sociale e di collaborazione; v. anche, sulla funzione “fondante” o “costituente” dell’avvocato difensore, in funzione di libertà, come figura essenziale tra i principali tutori della persona umana, M. CIOFFI, L’avvocato come esperto in strutture di supporto, La funzione costituente e consulente, in Iustitia, 1990, 346. 18 CALAMANDREI, Processo e democrazia, Padova, Cedam, 1954, Conferenze tenute alla Facoltà di diritto dell’Università nazionale del Messico, La dielettricità del processo, p. 130, 132; v. anche sul rapporto tra indipendenza degli avvocati e imparzialità dei giudici e sul rapporto tra rispetto degli avvocati e dignità dei magistrati, in L’elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, Le Monnier, 3^ ed. raddoppiata. 1954, pp. XXVIII, e 52.

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Calamandrei ricordò, in quella occasione, che obiettivo di spedizioni punitive squadristiche dei primi tempi di instaurazione del regime furono anche gli studi degli avvocati: sulla fine del 1924 in una sola giornata ne furono incendiati a Firenze più di venti. Posso aggiungere – in base a miei ricordi anche familiari, che alla fine degli anni venti – inizio degli anni trenta, in pieno regime, le ultime voci di libertà non furono decisioni delle magistrature19, compresa quella amministrativa, ma alcune pronunce della Reale commissione straordinaria superiore, quale collegio giurisdizionale degli avvocati con funzioni corrispondenti all’attuale Consiglio superiore forense. Questa giustizia speciale seppe dare, proprio perché ancora permeata dalla provenienza da libera professione, dimostrazione di indipendenza, annullando alcuni rifiuti di iscrizione all’albo degli avvocati per esclusivi e dichiarati motivi politici, nonostante il regime ormai consolidato20. L’anzidetta inseparabilità dell’apporto dei magistrati e degli avvocati per un efficienza nel settore giustizia21 porta ad un altro postulato, cioè ogni scelta di modifica fondamentale o di riforma del sistema giustizia, sia per gli aspetti ordinamentali che per quelli meramente processuali, deve necessariamente passare attraverso un dialogato 19 Per difetto di coraggio, v. ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 350. In realtà il riscatto della magistratura ordinaria si è avuto a partire dal 1942 e per il Consiglio di Stato, ancora prima, nella applicazione, giustamente e dichiaratamente elusiva, di alcune norme razziali, ai professori universitari. 20 RI CHIEPPA, Le testimonianze nell’Associazione magistrati: una guida per un futuro migliore nella Giustizia in Italia, in Giornale Storia costituzionale, 2009, p. 247. 21 B. PERRONE, Questa povera giustizia, in Iustitia, 2009, p. 261, secondo cui le buone idee, per essere realizzate, devono… marciare sulle gambe degli uomini. È urgente e necessario, in altre parole, il concorso solidale di tutti gli operatori di giustizia”: che, in vario modo e nei distinti ambiti di responsabilità, debbono contribuire a realizzare il risultato sperato con il rischio che le croniche difficoltà della giustizia civile ancora una volta non potranno essere superate. V. anche le lodevoli iniziative come il “Patto per la Giustizia e per i Cittadini, promosso nel corso della “Giornata nazionale per la giustizia” svoltasi per la prima volta in Italia il 5 maggio 2009, che ha condotto il 9-10 luglio scorso alla stipula del “Patto” con il quale le maggiori associazioni rappresentative degli operatori del sistema giustizia propongono al Governo delle linee guida condivise che dimostrano la possibilità di fare funzionare la giustizia e di fornire ai cittadini un servizio più rapido ed efficiente, in grado di garantire agli utenti il diritto costituzionale della “ragionevole durata” del processo civile e penale.

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confronto e partecipazione delle due componenti che costituiscono i pilastri della funzione giustizia. Il processo e l’ordinamento delle magistrature e dell’avvocatura sono settori assai delicati di funzionamento e presentano tanti aspetti tecnico-giuridico legati alla efficienza dell’intero sistema giustizia, per cui sarebbe irragionevole ogni decisione squisitamente politica, che prescinda dall’indispensabile apporto delle rappresentanze istituzionali delle magistrature e dell’avvocatura. Le vie finora seguite, anche in tempi risalenti, sono state diverse: a) una apposita specifica previsione normativa di una elaborazione preparatoria di un testo organico codicistico affidato ad un comitato di composizione mista; b) il ricorso ad una delega legislativa con l’inserzione, tra i principi e criteri direttivi della delega, il coinvolgimento o il parere delle parti (sociali) interessate22; c) il ricorso ad una delega legislativa con la previsione di una commissione preparatoria di composizione mista, con l’apporto di avvocati, magistrati e professori universitari; d) il ricorso ad una delega legislativa in uno specifico settore processuale (amministrativo) con l‘affidamento ad organo consultivo della attività redigente e con la prescrizione della partecipazione di tutte le componenti del determinato settore di giustizia23. 22 Disegno di legge su “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2009”, nel testo approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 22 settembre 2009 (AC 2449 A) e ora all’esame del Senato (S 1781): art. 2, principi e criteri direttivi generali della delega legislativa, lett. g) nella predisposizione dei decreti legislativi, relativi alle direttive elencate negli allegati A e B, si tiene conto delle esigenze di coordinamento tra le norme previste nelle direttive medesime e quanto stabilito dalla legislazione vigente, con particolare riferimento alla normativa in materia di lavoro e politiche sociali, per la cui revisione è assicurato il coinvolgimento delle parti sociali interessate, ai fini della definizione di eventuali specifici avvisi comuni e dell’acquisizione, ove richiesto dalla complessità della materia, di un parere delle stesse parti sociali sui relativi schemi di decreto legislativo. 23 V. la delega per il riassetto della disciplina del processo amministrativo (art. 44 legge n. 69 del 2009, con Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile).

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7. Ulteriore rafforzamento della posizione dell’avvocato in Costituzione: iniziative e concrete esigenze Nel 2009 si sono manifestate in maniera decisa alcune iniziative dirette a qualificare sul piano costituzionale la posizione funzionale dell’avvocatura nell’esercizio della giurisdizione, con l’inserimento nel titolo IV della Costituzione di alcune norme specifiche e l’allargamento dell’ambito a tutti i soggetti della giurisdizione compresa l’avvocatura. Una iniziativa, originata dall’impegno appassionato dell’avv. Maurizio De Tilla – degno di apprezzamento ed ammirazione –, è nata nell’ambito dell’Organismo unitario dell’avvocatura italiana (OUA) ed ha trascinato, in buona parte, ampie adesioni nell’ambiente forense. Questa proposta si articola in una pluralità d’obiettivi: il primo prioritario, partendo dalla esigenza di autonomia delle funzioni (si noti al plurale) della giurisdizione e della rilevanza costituzionale di tutti i soggetti, che vi partecipano come protagonisti necessari (giudici e difesa delle parti alla luce dell’art. 24 Cost.), vuole inserire un sistema di bilanciamento e di partecipazione di tutte le componenti della giustizia (ciascuna beninteso conservando la propria autonomia e specificità, il proprio ruolo e i propri organi). Su questa parte della proposta ritengo che si possa essere tutti completamente d’accordo sulla base della concezione di Calamandrei del rapporto giudici-avvocati come “vasi comunicanti” e della raffigurazione dell’avvocato e del giudice come ciascuno avanti ad uno specchio. Sul piano costituzionale soccorre all’affermazione dei suddetti principi il rilievo della essenzialità ed inviolabilità del fattore difesa. Infine aiuta in questa convinzione soprattutto l’elemento della esperienza come realmente vissuta e realizzata, che deve costituire, nel campo degli istituti organizzatori del diritto-giustizia, una sorta di cartina al tornasole per misurarne la effettività e l’efficienza, come endiadi inseparabile per una ragionevolezza delle innovazioni. Infatti, si può facilmente constatare che quando si perviene a Quaderni

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soluzioni dialogate e condivise gli istituti funzionano in modo largamente più efficiente e spedito e proprio nel settore giustizia gli esempi possono essere innumerevoli. Questo può verificarsi, ed è comprovato, sia nella soluzione di problemi prettamente organizzatori come la sede di organi giurisdizionali per armonizzarlo con la localizzazione degli altri organi delle diverse articolazioni, come il calendario delle udienze e perfino il loro carico e la distribuzione razionale e programmata, degli orari, così ancora per tutti i diversi profili degli adempimenti processuali. Ne ho avuto personale conferma negli uffici giurisdizionali in cui ho prestato servizio, ove, attraverso il concorso collaborativo e partecipativo degli avvocati e giudici, si è arrivati a rapido svolgimento dei procedimenti e smaltimento delle pendenze con ritmi talvolta superiori al 125% del carico sopravvenuto: tutt’altro si verifica quando vi è una conflittualità permanente o una mancanza di cooperazione reciprocamente rispettosa. Questo apporto e concorso fondamentale di tutte le componenti della giurisdizione non deve essere applicato in modo riduttivo e limitato alla sola “amministrazione della giustizia nelle diverse articolazioni”, come potrebbe ricavarsi dalla lettera della proposta, ma deve essere istituzionalizzato con applicazione anche al settore normativo, utilizzando uno schema, che ha dato dei risultati razionalmente apprezzabili nelle giurisdizioni amministrative, quando è stato applicato puntualmente. Mi riferisco alla previsione24 che “i procedimenti legislativi che comportino il conferimento di nuove attribuzioni…, nonché la soppressione o la modificazioni di quelle esistenti e che comunque riguardino l’ordinamento e le funzioni (la norma si riferisce al Consiglio di Stato e Corte dei Conti), sono adottati previo parere”. Occorrerà ampliare la previsione a tutte le componenti della giurisdizione e alle norme fondamentali dell’ordinamento processuale. 24

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R.d.l. 9 febbraio 1939, n. 273, convertito in legge 2 giugno 1939, n. 739.

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L’anzidetta proposta può essere anche immediatamente attuata in via pragmatica con la richiesta di un parere e con una consultazione, indipendentemente da ogni introducendo obbligo legislativo, anche utilizzando uno dei meccanismi di delega legislativa concertata di cui ho fatto cenno, salvo a sanzionarla legislativamente anche con un garanzia costituzionale. Un secondo obiettivo accessorio della proposta (sinteticamente OUA De Tilla) ha funzioni esplicative delle funzioni dell’avvocato, della terzietà del giudice, della parità delle parti nel processo e della ragionevole durata di un processo giusto insieme ad un obbligo di adeguatezza degli strumenti e costi della giustizia. Il problema degli strumenti e costi è giustamente essenziale per qualsiasi riforma o innovazione positiva nel servizio giustizia e per raggiungere i livelli essenziali delle relative prestazioni concernenti diritti civili e sociali. Se il servizio giustizia non funziona adeguatamente, difetta la protezione dei diritti fondamentali del cittadino, del lavoratore e della stessa attività economica soprattutto in periodo di crisi. I ritardi della giustizia allontanano spesso gli investimenti. Attenzione particolare è prestata agli strumenti per assicurare una effettiva difesa dei non abbienti, esplicitando l’onere “a carico dello Stato”, spostando – in modo condivisibile – il centro di elargizione verso “le istituzioni dell’avvocatura” con modalità stabilite dalla legge: attenzione alle esigenze di una libera scelta dell’avvocato, sia pure entro un elenco di avvocati disponibili o inclusi di ufficio, evitando ghetti che rievochino la ormai superata avvocatura dei poveri. Quanto alla posizione e all’esercizio della professione di avvocato sono previste una incompatibilità assoluta con le funzioni di magistrato, razionalmente da intendersi rispetto a tutte le giurisdizioni compresa quella tributaria e a tutte le funzioni compresa quella onoraria. Un terzo obiettivo autonomo è quello della netta distinzione e separazione tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti, relativi Quaderni

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ruoli e quindi modalità di accesso. Certamente sul punto possono esistere problemi, spesso collegati a situazioni locali e personali, risolvibili più adeguatamente e con adeguata ponderazione25 anche con accorgimenti meno drastici e separatisti. Occorre prevedere esclusioni tassative di passaggi di funzioni o ritorno nella stessa Regione, limiti temporali a passaggi di funzioni, stabilendo un congruo periodo minimo di intervallo, ed in ogni caso solo se accompagnati da accertati requisiti attitudinali e giustificazioni adeguate. Occorre evitare, in maniera rigorosa, che la scelta sia del singolo per motivi predominati di località, ovvero che si verifichi contiguità territoriali di funzioni o indirette incompatibilità in ogni trasferimento o passaggio, anche per funzioni superiori. Maggiore apprezzamento, invece, può riscuotere, sul punto della separazione delle carriere, la equilibrata presa di posizione della III Conferenza nazionale dell’avvocatura tenutasi a Riva del Garda nel 2008. Il vero problema da affrontare per un migliore ed imparziale servizio giustizia, per quanto riguarda i magistrati (giudicanti o requirenti che siano), è relativo alla loro localizzazione territoriale, derivante da un distorto sistema di progressione economica, di funzioni e di mutamenti di sede, per cui si sta verificando, troppo spesso, un fenomeno di magistrati stanziali (ai mie tempi della magistratura assolutamente inusuale o eccezionale), che rimangono nella stessa sede o in circoscritto ambito territoriale per tutta o la prevalente durata del servizio, tranne nella generalità dei casi nel periodo “di frontiera” del primo esercizio di funzioni dopo la nomina. Questo provoca26, 25 Occorre fare attenzione, soprattutto per il processo penale, della “duale” esigenza primaria di eguaglianza di posizioni e di poteri, sia della parte privata, che del PM, per cui devitalizzando la posizione del PM si rischia anche di mettere in gioco talune conquiste paritarie (ancorché incomplete), come quelle nel campo investigativo e della offerte di prove acquisite o promosse dagli avvocati difensori. 26 Consentitemi – anche a costo di dispiacere a qualcuno – di essere sincero per avere indossato le diverse toghe per oltre 56 anni, appartenendo alla generazione della metà degli anni 20.

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come fenomeno naturale non sempre addebitabile specificamente al singolo soggetto, incrostazioni di consuetudine, di relazioni, e legami familiari, di amicizie e di colleganza o di precedenti rapporti, frequenti rischi di incompatibilità con magistrati nella stessa sede o con avvocati per maggiore o minore prossimità di parentela o di convivenza (anagrafica), rimediati solo formalmente, con compiacenti assegnazioni a settori differenti di attività o con iscrizioni in albi viciniori, ma contigui e comuni per ambito di utenza. A sua volta il fenomeno ha effetti sulla diminuzione di arricchimento di esperienza e di varianza di acquisizioni culturali e di pratica giuridica, attraverso nuovi e più larghi contatti con altri colleghi magistrati e sopratutto con un diverso ambiente di avvocati e con una serie di problemi giuridico-sociali differenti. Devo confessare che in questo giudizio negativo sulla tendenza stanziale e su legami territoriali dei giudici (requirenti e giudicanti che siano) – questo è il più attuale dei problemi di imparzialità anche sul profilo dell’apparire – sono stato influenzato da continui riscontri nel mio peregrinare tra le diverse regioni e da ricorrenti sussurrii nell’ambiente forense (non riguardanti l’ufficio di cui ero responsabile). In un certo senso sono “pregiudicato” (ed insieme mi ritengo fortunato) per le mie variazioni periodiche di esercizio di funzioni da Roma in Sardegna, nel Lazio, ancora a Roma, in Sicilia, a Roma ed in Trentino-Alto Adige, con arricchimento di conoscenze ed esperienze giuridiche, anche per il variare (e ne sono consapevole) del mondo forense in cui ho operato come magistrato prima ordinario, poi amministrativo. Di ciò sono riconoscente anche alla classe forense, alla quale mi onoro di essere appartenuto27, sia pure per breve periodo, all’inizio della mia attività. 27 Questa è anche la ragione del pronto accoglimento, con entusiasmo, dell’invito ad intervenire alla Conferenza dell’Avvocatura, formulatomi dall’avv. Antonio Giorgino, con il quale, a parte la comune origine pugliese, mi lega una amicizia familiare che risale a tre generazioni.

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Di questi problemi è ora che si occupi il CSM ed il legislatore che, senza modificare il principio di inamovibilità del giudice in mancanza di suo consenso (art. 107, comma primo, Costituzione), potrebbe stabilire che vi sia un limite massimo di anni di permanenza nello stesso ufficio o sede, per l’avvenire computabili per progressioni o variazioni di funzioni, ferma l’esigenza di una puntuale ed effettiva applicazione delle regole sulle incompatibilità. L’altra iniziativa sul piano di proposta di legge costituzionale concernente l’avvocatura è quella presentata alla Camera dei deputati dall’on. Pecorella (N. 2556), che, limitata al solo aspetto fondamentale del riconoscimento della avvocatura come soggetto costituzionale, segue per questa parte la proposta OUA De Tilla, arricchita da una più chiara conferma del carattere squisitamente privato della relativa attività, oltreché libera ed indipendente, per cui merita tutti gli apprezzamenti che ho svolto per questa parte alla proposta De Tilla. Chiudo con un augurio che un intervento di riforma del settore della giustizia sia prontamente effettuato – se ne parla da troppo tempo sotto tutte le bandiere di schieramenti, senza realizzazioni concrete produttive di buon funzionamento –: l’unica via praticabile, con risultati valevoli per lungo periodo, è quella attraverso un apporto aperto di tutti gli organi e le componenti della giustizia (magistratura ed avvocatura nessuna esclusa) in un dialogo pacato e costruttivo. Questo dialogo, valido strumento di comprensione e quindi di confronto e scambio – ripetutamente invocato anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano –, è agevolato da un linguaggio culturale comune agli operatori della giustizia. Il dialogo deve essere sempre aperto e pacato (immune da pregiudizi e da conflittualità preconcetta di schieramento), con l’umiltà essenziale in ogni civile discorso nel rispettoso raffronto tra più soggetti, ciascuno orientato dal principio di leale collaborazione e da uno spirito di servizio, nell’interesse esclusivo della collettività.

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Il metodo del dialogo deve escludere una “diffidenza” o manifestazione di sfiducia o di chiusura preconcetta, purtroppo troppo spesso strisciante in questi periodi, nessuna parte è immune. Questo del dialogo leale, invece, non è altro che il metodo essenziale che deve guidare ogni società civile, democratica e pluralista in senso moderno ed è stato il metodo dei nostri Padri Costituenti. Quando si tratta di riforme essenziali, lo dobbiamo ricordare e pretendere tutti, sia come semplici componenti della comunità sociale, sia come titolari di pubblici uffici, sia quando impegnati in organizzazioni sindacali e di categoria, ciò vale – e soprattutto – per chi concorre a determinare con metodo democratico la politica nazionale. L’anzidetto spirito di leale collaborazione nel metodo del dialogo, che hanno testimoniato coloro che ci hanno preceduti, e tentano di perseguire gli organi e le istituzioni più responsabili, quell’ideale comune di rinnovamento della giustizia italiana, che deve animare tutti, al di sopra delle persone, degli orientamenti politici e degli interessi particolari, deve costituire – come ho avuto occasione di ricordare in un recente convegno con la magistratura associata – un impegno di tutti e quindi una certezza da realizzare con risultati soprattutto destinati a durare, per il bene della società italiana.

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L’esaltante impegno per la giustizia di JULIÁN HERRANZ*

Il titolo di questo intervento non è mio ma è stato preso da un’incisiva frase del Santo Padre Benedetto XVI. Egli, infatti, ha scritto nella recente enciclica Caritas in veritate: «È la consapevolezza dell’Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante impegno per la giustizia»1. Sì, cari amici, Dio è particolarmente vicino a quanti in vario modo sono impegnati nella tutela e nell’amministrazione della giustizia. Anche perché Lui stesso ha voluto essere Legislatore, Giudice e Avvocato nostro. Proprio così: avvocato. Voi sapete che Gesù Cristo Nostro Signore, nel riferirsi nell’ultima Cena con gli Apostoli allo Spirito Santo, ne parla come di un “paraclito”, cioè di un consigliere, di un avvocato. Il termine “paraclito” era infatti usato nel mondo greco per indicare appunto la funzione dell’avvocato, di colui che rappresenta, assiste e agisce a nome dell’assistito nei processi davanti al giudice, al quale compete invece la funzione di interpretare ed applicare le leggi. Ecco il tema sul quale vorrei centrare il mio modesto intervento: le leggi, la razionalità e la legittimità delle leggi in base alle quali gli Avvocati e i Magistrati impegnati nel mondo giudiziario e del Diritto in genere devono svolgere la loro attività professionale. Parlerò, ovviamente, nel massimo rispetto delle vostre opinioni personali in merito e senza addentrarmi nei problemi professionali * Presidente Emerito del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. 1 Enciclica Caritas in veritate, del 29-06-2009, n. 78.

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specifici dell’Ordinamento forense, che saranno oggetto di altre relazioni ben più qualificate. Permettetemi che prenda spunto dal problema più generale di cui oggi si parla e discute tanto in Italia e anche in altre Nazioni: la crisi della giustizia nell’ordinamento giuridico civile in rapporto all’ordine dei valori etici e spirituali. Si tratta di una crisi – con evidenti risvolti politici – che sembra stia avvenendo non solo a causa dei conflitti di competenza ed invasioni di campo tra i tre poteri legislativo, giudiziale e esecutivo, ma anche e forse primariamente per il divorzio che si è instaurato progressivamente tra la morale e il diritto positivo, tra l’etica e l’attività legislativa e conseguentemente giurisprudenziale ed esecutiva di governo. Alla radice della crisi Non c’è alcun dubbio che il fenomeno più positivo della moderna scienza giuridica e delle legislazioni democratiche – specie nelle Costituzioni elaborate dopo i regimi totalitari del secolo scorso – è stato lo sviluppo dottrinale e normativo sui diritti fondamentali dell’uomo, ciò che ha contribuito a mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, che non è lo Stato ma la persona umana, con la sua inalienabile dignità e libertà. Questo progresso normativo – evidenziato nella “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” del 1947 – ha rappresentato un notevole progresso giuridico, che peraltro si riallaccia alla grande tradizione del Diritto classico. È un fatto paradossale però che, dalla seconda metà del secolo scorso, stia prevalendo nelle leggi ordinarie di non pochi ordinamenti civili il principio giuridico-positivo, frutto del relativismo morale, secondo cui in una società democratica la razionalità delle leggi dipenderebbe soltanto ed unicamente da quello che la maggioranza dei voti decida che venga stabilito, permesso o proibito. Siamo così di fronte a quella che è stata giustamente chiamata una deriva “totaliQuaderni

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taria” della Democrazia. Tale deriva si sta verificando in quei sistemi democratici in cui – come ai tempi dell’assolutismo monarchico – si pretende di attribuire al Legislatore, cioè al “Popolo sovrano” rappresentato nei parlamenti, un potere illimitato, assoluto: una potestà capace sia di limitare i diritti innati ed inalienabili enunciati nella citata “Dichiarazione” dell’ONU, sia di inventare i cosiddetti “nuovi diritti”, solitamente aberranti dal punto di vista sociale, propugnati da confuse ideologie libertarie. Si tratta di ideologie e di presunti diritti contrari al bene comune della società, che le leggi devono sempre tutelare, e – come nel caso della “ideologia del genere” – di teorie che negano la normale e differenziata realtà biologica e caratteriale della persona-uomo e della persona-donna, nonché il grande e primario valore sociale ed educativo del matrimonio e della famiglia come istituzioni naturali che vanno protette dalle leggi. A ragione, parlando al mondo accademico di una nazione appena uscita dalla dittatura comunista, avvertiva Giovanni Paolo II che «il rischio dei regimi democratici è di risolversi in un sistema di regole non sufficientemente radicate in quei valori irrinunciabili, perché fondati sull’essenza dell’uomo, che debbono essere alla base di ogni convivenza, e che nessuna maggioranza può rinnegare senza provocare funeste conseguenze per l’uomo e per la società (...). Totalitarismi di opposto segno e democrazie malate hanno sconvolto la storia del nostro secolo»2. Purtroppo è un fatto che in ambedue i casi – totalitarismi del passato e democrazie ammalate del presente – la razionalità delle leggi non è stata più vincolata alla corrispondenza della norma con la natura umana, con la verità oggettiva sulla dignità dell’uomo, con i valori morali oggettivi e permanenti che invece il Diritto dovrebbe difendere e tutelare, per poter ordinare rettamente i comportamenti sociali, proteggere istituzioni basilari ed evitare il progressivo sviluppo di una società selvaggia. Discorso nell’Università di Vilnius, 5 settembre 1993: L’Osservatore Romano, 5-IX1993, p. 1. 2

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Ma, illustri e cari amici, non possiamo avere una visione negativa o pessimista del futuro. È necessario reagire facendo ricorso alla ragione e alla fede. Direi che è l’ora delle intelligenze libere e serene, soprattutto nel campo della sociologia e dell’antropologia giuridica, oltre che della religione e della spiritualità. È infatti un dato storico – basta leggere senza pregiudizi perfino il Contratto sociale di Rousseau – che la società democratica è nata da una filosofia sociale che, nonostante tutti i suoi limiti e debolezze, non metteva affatto in dubbio l’esistenza di una verità oggettiva sulla persona umana e di universali valori morali da rispettare. Democrazia era il modo di eleggere i governanti, di dettare leggi e di decidere – entro determinati limiti – i loro contenuti, di distinguere i tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – e garantirne l’ indipendenza, di controllare l’esercizio della funzione pubblica di governo ed assicurarne la legalità. Ma era fuori questione che questi parlamenti, questi governanti e questi giudici dovevano rispettare quel patrimonio di civiltà, di verità e di valori morali oggettivi, che era radicato o comunque si presumeva che doveva esserlo nelle coscienze dei cittadini, cristiani o non cristiani. Anzi, il Diritto, le leggi e conseguentemente la giurisprudenza e gli atti di governo avevano anche in questo un altissimo valore pedagogico per il popolo. Purtroppo, le ideologie libertarie cui accennavamo prima, fondate sul relativismo morale, nel togliere alla democrazia il suo fondamento di principi e di valori oggettivi, hanno sfumato pericolosamente i limiti della razionalità e della legittimità delle leggi. Ciò ha indebolito profondamente l’ordinamento giuridico democratico di fronte alla tentazione di una libertà denaturalizzata: di una libertà, cioè, senza il riferimento veramente liberatorio della verità oggettiva sulla dignità e sui diritti inalienabili dell’uomo e della donna. La democrazia – disse Giovanni Paolo II – «non implica che tutto si possa votare, che il sistema giuridico dipenda soltanto dalla volontà della maggioranza e che non si possa pretendere la verità nella Quaderni

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politica. Al contrario bisogna rifiutare con fermezza la tesi secondo la quale il relativismo e l’agnosticismo sarebbero la migliore base filosofica per una democrazia, visto che quest’ultima per funzionare esigerebbe da parte dei cittadini l’ammettere che sono incapaci di comprendere la verità (...). Una tale democrazia rischierebbe di trasformarsi nella peggiore delle tirannie»3. E Benedetto XVI ha chiaramente denunciato nella recente enciclica Caritas in veritate: «Si assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità»4. Pochi giorni or sono, lunedì scorso, nel suo energico discorso all’Assemblea Generale della FAO, Benedetto XVI ha nuovamente messo in evidenza, per contrasto con la pretesa di alcuni nelle società opulente di veder riconosciuti dalle leggi statali pretesi diritti soggettivi al superfluo, al profitto ad ogni costo e perfino alla trasgressione e al vizio, la mancanza invece di giustizia con cui vengono di fatto ignorati i veri diritti fondamentali, come quello al cibo, all’acqua potabile, all’abitazione, all’istruzione elementare o alle più necessarie cure mediche e sanitarie. Il Papa lo aveva già scritto nella Caritas in veritate: «L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. I doveri delimitano i diritti perché rimandano al quadro antropologico ed etico entro la cui verità anche questi ultimi si inseriscono e così non diventano arbitrio. Per questo motivo i doveri rafforzano i diritti e propongono la loro difesa e promozione come un impegno da assumere a servizio del bene. Se, invece, i diritti dell’uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini, essi possono 3 GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione a un gruppo di Vescovi in visita ad limina: L’Osservatore Romano, 29- XI-1992, p. 5. 4 Enciclica Caritas in veritate, n. 43.

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essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune. I Governi e gli Organismi internazionali possono allora dimenticare l’oggettività e l’“indisponibilità” dei diritti»5. Un compito urgente Sono cosciente che a questo punto del nostro discorso qualcuno potrebbe valutare le precedenti affermazioni in chiave moralista o clericale e potrebbe obiettare: ma non ci si accorge che parlando così si confondono pericolosamente la Morale e il Diritto? Non ci si accorge che il precetto morale si appella alla coscienza, mentre la norma giuridica – a livello sia legislativo che giurisdizionale – riguarda invece i rapporti esterni, la condotta sociale dell’uomo? Non ci si accorge che in tutto questo ragionamento, oltre a detta commistione concettuale, traspare una certa nostalgia della cristianità medievale e del sistema politico giuridico dello Stato confessionale o teocratico? Facciamo notare subito, a scanso di equivoci, un fatto solitamente tralasciato dai sostenitori dell’agnosticismo religioso e del relativismo morale nel Diritto dello Stato: ad opporsi alla legislazione permissiva dell’aborto, alle leggi che liberalizzano la droga, che facilitano il dilagare della pornografia, che indeboliscono la famiglia come istituzione naturale, che permettono l’eutanasia, la manipolazione eugenetica dei geni e degli embrioni ed altri attentati contro la dignità dell’essere umano, non è soltanto il magistero della Chiesa Cattolica, ma lo sono anche le dichiarazioni più o meno formali di altre confessioni cristiane e di altre religioni (dall’Islam all’Ebraismo e non solo queste). Anzi vi si oppongono anche, apertamente oppure con timidezza per il timore di essere subito etichettati come di destra, non pochi rappresentanti di quella parte del mondo intel5

Ibidem.

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lettuale che si dichiara religiosamente indifferente, ma culturalmente umanista. Questi ultimi agiscono così perché sanno benissimo che a opporsi a tali leggi amorali non è soltanto la ragione illuminata dalla fede, ma prima ancora quella che già i classici greci e latini del diritto e della filosofia chiamavano la retta ragione, espressione del senso morale originale, capace di distinguere il bene del male, la verità dell’errore. Dicano quel che dicano coloro che la negano6, è pure un fatto che la legge naturale – scolpita da Dio nel cuore della persona, soggetto relazionale di diritti e doveri – è rimasta nei suoi principi sostanzialmente inalterata attraverso la storia, anzi è stata un fattore decisivo nello sviluppo civile dei popoli e delle culture. Questa legge – a cui ci si è appellati nei processi contro i crimini nazisti e contro i crimini nell’ex-Iugoslavia – non è stata inventata dal Cristianesimo né da nessun’altra religione. La Chiesa Cattolica si limita a ricordare che «nei suoi precetti principali essa è stata esposta nel Decalogo» e che costuisce «il fondamento necessario alla legge civile, la quale ad essa si riallaccia sia con una riflessione che trae le conseguenze dai principi della legge naturale, sia con aggiunte di natura positiva e giuridica»7. Comunque, non sembra consistente l’eventuale obiezione di commistione concettuale tra Morale e Diritto. Infatti, è vero che la Morale e il Diritto sono due scienze diverse, che riguardano l’uomo da prospettive e con finalità differenti. La Morale si occupa primariamente del perfezionamento della persona umana: riguarda cioè l’insieme delle esigenze emananti dalla struttura ontologica dell’uomo, in quanto essere creato e dotato di una particolare natura, dignità Per una critica sintetica delle varie obiezioni contro la legge naturale, cfr. tra gli altri, J.P. SCHOUPPE, Le Droit Canonique, Bruxelles 1991, pp. 18-38. 7 Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1955 e 1959; cfr. anche GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al Simposio Internazionale di Diritto Canonico organizzato dal Pontificio Consiglio perl’Interpretazione dei Testi Legislativi, 23 aprile 1993: Communicationes, 25 (1993), pp. 12 ss. e L’Osservatore Romano, 25-04-1993, p. 4. 6

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e finalità. Il Diritto, invece, si occupa primariamente dell’ordine sociale: riguarda cioè l’insieme di strutture che ordinano la comunità civile, la società. Ma se il fatto più rilevante e positivo del progresso della scienza del Diritto, dopo le catastrofi socio-politiche del secolo XX, è stato proprio quello di mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, la persona, fondamento e fine della società, è ovvio che il Diritto di una sana democrazia deve tenere conto di quale sia la struttura ontologica della persona umana: la sua natura di essere non soltanto animale e istintivo ma intelligente, libero e con una dimensione trascendente e religiosa dello spirito che non può essere ignorata, né mortificata. Altrimenti il Diritto – anche se lo si volesse chiamare progressista – sarebbe antinaturale, essenzialmente immorale, strumento di un ordinamento sociale totalitario, nonostante lo si voglia chiamare democratico. Qui non c’è spazio – in pura onestà scientifica – per il relativismo etico (negare cioè l’esistenza di una verità oggettiva, metafisica ma anche biologica sull’uomo), come non c’è spazio (se si vuole evitare l’abbrutimento della società) per difendere la legittimità di un Diritto positivo divorziato dalla Morale. Noi, uomini di diritto e cittadini del Terzo Millennio, ci domandiamo oggi: che cosa fare per evitare questo suicidio giuridico – concetto simile a quello di aborto legale – della democrazia? È ovvio che questa domanda riguarda non soltanto i politici, i legislatori, i giudici o gli avvocati, ma anche i sociologi, gli antropologi, i filosofi del diritto, anzi tutte quelle intelligenze libere e oneste che guardano non senza inquietudine il futuro dell’umanità. Penso che la risposta non possa essere che questa: bisogna recuperare l’autentico concetto di libertà personale, che non può essere separato dalla verità oggettiva (non soggettiva e relativistica) sulla natura e dignità della persona umana; bisogna riallacciare la giustizia alla verità: alla verità sull’uomo e sulla donna; alla verità sull’inizio ed il valore della vita umana; alla verità sul matrimonio cioè, l’unione stabile di un uomo ed una Quaderni

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donna aperta alla fecondità; alla verità sull’unico e possibile concetto di tolleranza e di ordine; alla verità infine sullo stesso concetto di legge, che deve sempre tutelare il bene comune della società e non “presunti diritti” personali o di gruppo di carattere arbitrario o trasgressivo. In una parola, alla verità sulla indisponibile dignità della persona umana e sui diritti fondamentali e istituzioni naturali che da questa dignità scaturiscono. Tali diritti e istituzioni sono preesistenti al concetto stesso di democrazia e precedono la logica di qualsiasi ordinamento giuridico positivo e di qualsiasi potere politico costituito. Illustrissimi e cari amici: riflettendo su tutto ciò, mi permetterei di dire che la rilevanza del vostro lavoro professionale al servizio dei veri diritti della persona, non è soltanto di ordine sociologico e culturale – e questo è già molto! –, ma ha anche una particolare dimensione spirituale e cristiana: diciamolo con parole di Benedetto XVI, è un “esaltante impegno per la giustizia”. Dio benedica il vostro lavoro! Roma, 20 novembre 2009

Cardinale JULIÁN HERRANZ

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L’avvocatura come soggetto costituzionale di GIAN FRANCO RICCI* 1. Il processo serve alle parti e le parti servono al processo Processus est actus trium personarum: iudicis, actoris et rei. L’antico brocardo esprime in incisiva maniera l’essenza stessa della funzione giurisdizionale. Non vi può essere giudizio se non nella presenza necessitata di tre persone: il giudice, colui che esperisce l’iniziativa giudiziaria e colui che dalla stessa si difende. Questa realtà, perpetrata nei secoli, è sempre rimasta identica ed è ribadita in modo inequivoco dalla nota frase, scritta, sia pure per il processo civile, da Tito Carnacini nella sua opera Tutela giurisdizionale e tecnica del processo: «se il processo serve alle parti le parti servono al processo». Non c’è dunque giudizio, se oltre al giudice non vi siano dei contendenti. La presenza del primo serve a soddisfare il bisogno di giustizia. La presenza dei secondi, serve affinché la tutela giudiziaria possa realizzarsi. E non c’è alcun dubbio, che allorché si parla di parte del processo, si debba in realtà di parlare di avvocati nel processo. Senza di essi la parte è muta. Non può parlare, perché il tecnicismo del giudizio glielo impedisce. Ed è proprio per questo che la legge impone che il tecnico parli per lei. L’essenzialità dell’avvocato nel processo è del resto ribadita con efficacia dalle parole di Calamandrei, pronunciate nella Prolusione * Avvocato. Ordinario nell’Università di Bologna.

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senese del 1920 su L’avvocatura e la riforma del processo civile, per cui «nessuna legge può essere applicata con frutto, se il giudice nella esplicazione del suo ufficio non si trova coadiuvato da un ordine di professionisti, nel quale la coscienza dei doveri che l’avvocato si assume nella condotta del processo civile sia nitida ed imperiosa». 2. L’essenzialità dell’avvocato nello svolgimento della funzione giudiziaria Il ruolo essenziale dell’Avvocatura nell’esercizio della funzione giurisdizionale non sempre è stato compreso in passato e neppure lo è sempre attualmente: né dagli studiosi, né dai politici. È infatti cosa nota che se un aspirante ad un Cattedra universitaria di Diritto processuale civile scrive per esempio un libro su Il regolamento di competenza o simili, ed un aspirante ad una cattedra di Procedura penale scrive un libro su Le indagini preliminari o su qualche altro tema del codice, ove tali scritti siano ben fatti, il candidato può avere la fortuna di vincere il concorso. Ma se l’aspirante scrivesse un libro, per quanto eccellentemente redatto, per esempio su Il giudizio disciplinare di fronte al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, avrebbe ben poche possibilità di successo. Eppure di questioni processuali è pieno zeppo anche tale tipo di procedimento, per cui ben potrebbe concorrere anch’esso ad un concorso ad una Cattedra di procedura. La risposta sarebbe però quella, per cui la materia su cui è stata scritta l’opera, non è materia che a stretto rigore interessi il diritto processuale. Per effetto di tale ottica completamente erronea, l’Avvocatura viene dunque considerata non molto di più di un semplice accessorio alla funzione giudiziaria. È per esempio noto come prima della redazione del Codice di procedura civile del 1942, le Cattedre in tale materia avessero un oggetto ben più ampio di quello odierno e si nominassero quale Cattedre di Procedura civile e Ordinamento

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giudiziario. Vi si studiava cioè, oltreché lo svolgimento del processo, anche la struttura e l’ordinamento della Magistratura. Ma non v’è mai stata alcuna occasione in cui la denominazione fosse stata ampliata, tanto da ricomprendervi anche lo studio dell’Ordinamento forense. Di chi la colpa? Senza dubbio in primis di noi docenti universitari, che raramente abbiamo evidenziato il rilievo decisivo dell’Avvocatura nell’applicazione della legge. Anzi, direi che v’è stato anche da parte dei maggiori studiosi un atteggiamento contrario, che potrebbe definirsi di palese sudditanza nei confronti del giudice. Anche lo stesso Calamandrei, che forse fra tutti i processualisti è quello che più si occupato del tema degli avvocati, ne ha sempre parlato con accenti che ne subordinavano la posizione a quella del magistrato. È noto che Egli scrive nell’Elogio dei giudici fatto da un avvocato (il titolo senz’altro è già di per se significativo della posizione di cui sopra si parlava) queste parole: «L’aforisma iura novit curia non è soltanto una regola di diritto processuale, la quale significa che il giudice deve trovar d’ufficio la norma che serve al fatto; ma è anche una norma di galateo forense, la quale avverte che l’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri! Sarà un grande giurista, ma è certo un pessimo psicologo (e quindi un mediocre avvocato) colui che, parlando ai giudici come se fosse in cattedra, li indispettisce colla ostentazione della sua sapienza». Ma la funzione dell’avvocato non è solo quella di difendere il cliente, bensì anche quella di contribuire a correggere l’errore del giudicante onde evitare che questo si risolva a danno del primo. Il che gli antichi avevano ben capito, quando decidevano: error iudicis est error partis. Altro è che la segnalazione dell’errore debba essere fatta nella debita forma, con educazione e signorilità, quale si addice ad un avvocato di livello. Ma sempre con quella fermezza e decisione Quaderni

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che possano esprimere con efficacia che l’avvocato è portatore di un «ministero» essenziale per la realizzazione della tutela giudiziaria. Se fare questo significa essere cattivi psicologi, ebbene è preferibile essere definiti tali, piuttosto che cattivi avvocati che piegano la loro funzione alle convenienze del caso, rinunziando a quella dignità di cui la loro alta funzione li rende portatori. Lo stesso Carnelutti, forse il più grande dei nostri avvocati, ha scritto pagine bellissime su questo tema nella sua opera Vita di avvocato. Ed al contrario di quello che aveva fatto Floriot, magnifico avvocato di Francia dell’epoca, che in un suo libro aveva esaltato le glorie dell’Avvocatura, Carnelutti ne esalta invece quel lato meno evidente, ma sicuramente più elevato, che riguarda le pene e le sofferenze dell’avvocato. Per l’avvocato – egli dice – non v’è tormento più grande dell’attesa del verdetto del giudice allorché uscirà dalla camera di Consiglio. Nonostante che ciò venisse affermato dall’Autore quando ormai aveva dietro le spalle una carriera forense lunghissima e piena di successi, egli diceva che ancora non era riuscito ad abituarsi a quel tormento. Parole magiche e piene di profonda umanità, pari a quelle con le quali egli paragonava la sua vita ad uno di quei lunghi sentieri di montagna, prossimo ormai alla fine, lungo il quale ogni tanto si vedeva piantata una croce: essa simboleggiava non tanto una sconfitta legale, quanto il fatto di non essere riuscito in quell’occasione a salvare il suo difeso. Grande emotività dunque, dettata dal fatto che a differenza del giudice che esercita il suo ruolo in modo oggettivo e per così dire asettico, l’avvocato lo svolge con sofferenza fisica e psicologica oltre che con grande calore umano. Ed è proprio ciò che nobilita l’Avvocatura. Il fatto che essa svolga una funzione coessenziale a quella del giudice, ma con maggiore calore e sofferenza.

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3. L’ingiustificata mancata menzione dell’Avvocatura nella Carta Costituzionale La figura dell’avvocato è ingiustamente trascurata negli studi universitari, nelle aule giudiziarie ed in quelle parlamentari. Eppure l’Ordine forense rappresenta una grande forza, che non sarebbe sbagliato definire addirittura superiore a quella dell’Ordine giudiziario. Se quest’ultimo si blocca per uno sciopero, la funzione giurisdizionale ne risente negativamente ma non muore. L’avvocato sarà sempre in grado di risolvere i problemi della giustizia con metodi alternativi a quelli dello Stato, come l’arbitrato e la transazione. Ma se si ferma l’avvocatura, la giustizia muore. Il giudice del solo non può far nulla. La coessenzialità fra giudice e avvocato di cui sopra si parlava, sembra dunque fare guadagnare un margine di credito all’Avvocatura. Ma qui non interessa valutare se conti più la posizione dell’uno o quella dell’altro. Ciò che interessa rilevare è che la posizione del secondo non è meno fondamentale di quella del primo. Già questa impostazione, che nessuno potrebbe seriamente contestare, sarebbe di per se sufficiente a far sì che l’Avvocatura debba essere contemplata dalla Carta Costituzionale come soggetto essenziale ed imprescindibile per l’esercizio della funzione giudiziaria. La stessa impostazione del Titolo IV della Parte II della Costituzione, titolato a “La Magistratura”, con le due sezioni dedicate rispettivamente all’“Ordinamento giurisdizionale” (la prima) e alle “Norme sulla giurisdizione” (la seconda), non può dirsi tecnicamente esatta. Essa è il probabile residuo della visione di un’idea autoritaria che considera la tutela giudiziaria come un servizio che lo Stato rende al cittadino. Per questo il Titolo è dedicato alla Magistratura, che è colei che eroga il servizio. Ma da tale visione è assente ogni connotato dello Stato democratico, lo Stato di oggi, nel quale la funzione giudiziaria non va più vista solo come un servizio che esso può concedere, ma anche come oggetto dell’aspirazione di un diritto del cittadino ad ottenerla. Lo stesso riconoscimento del diritto di azione confinato nell’art. Quaderni

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24 Cost., dovrebbe essere definitivamente ricompreso fra le norme sulla funzione giurisdizionale. Fra le quali, all’art. 112 campeggia la figura dell’azione penale, ma non quella dell’azione civile. E ciò per la ragione alla quale si accennava in precedenza. Il titolare dell’azione penale è pur sempre un magistrato, cioè un appartenente dell’Ordine giudiziario, quell’ordine che secondo l’idea del tempo era considerato l’unico depositario della funzione giudiziaria. Ma nessun cenno nelle norme costituzionali sulla giurisdizione v’è all’altro protagonista fondamentale della realtà giudiziaria, cioè all’Avvocato, che è colui che esperimenta l’altro tipo di azione, quella civile, altrettanto importante quanto quella penale se non di più, proprio perché nella stessa si riverbera il desiderio e l’ansia del cittadino ad ottenere giustizia. E nessun cenno c’è neppure all’avvocato, quale contraltare necessario all’azione penale. 4. Proposte e rimedi Dunque l’impostazione dell’intero Titolo IV della Parte II della Costituzione, è superata dai tempi, dagli eventi e dal mutato clima ideologico. La proposta che ne deriva, che ovviamente in questa sede può essere esposta solo per grandi linee, è quella di sostituire la rubrica di tale Titolo intitolandolo alla Funzione giudiziaria. Nel suo ambito dovrebbero poi essere distinte tre sezioni. La prima, per rispetto se vogliamo, alla funzione pubblica, da intitolare alla Magistratura; la seconda all’Avvocatura; la terza dovrebbe riguardare le Norme sulla giurisdizione, nel cui ambito andrebbero raccolte, oltre alle disposizioni in essa già inserite, anche le altre sparse nella Carta costituzionale che interessano la funzione giudiziaria: come l’art. 24 (sul diritto di azione civile e sul diritto di difesa), l’art. 25 (sul diritto al giudice naturale) e l’art. 27 (sulla presunzione di innocenza). Del resto, tale nuovo assetto ci appare il più compatibile con la struttura stessa della Costituzione, che infatti dedica il Titolo prece-

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dente a quello che riguarda la Magistratura (cioè il Titolo III) al Governo, inteso non come soggetto costituzionale (dato che non esiste alcun organo che può definirsi tale), ma come «funzione» governativa, ricomprendendovi poi le tre sezioni de Il Consiglio dei Ministri, de La pubblica amministrazione e de Gli organi ausiliari. E ciò corrisponde perfettamente all’idea qui esposta di dedicare il successivo titolo alla «funzione» giudiziaria, distinguendone nelle rispettive prime due sezioni i protagonisti (magistratura e avvocatura) e nella terza le norme fondamentali sull’espletamento della funzione. Non è qui il caso di indicare quali precise prescrizioni dovrebbero essere inserite nel capo dedicato all’Avvocatura, perché ciò richiederebbe una meditazione lunga e complessa volta a mettere in luce i principi cardine dell’Ordine forense, che credo non possa essere fatta in questa sede. Qui ciò che interessa è quello di avere messo a fuoco il problema. Ci si aspetta dunque che le forze dell’Avvocatura, rappresentate dall’OUA, dal Consiglio Nazionale Forense e dai singoli Consigli dell’Ordine, si muovano in questo senso, sensibilizzando il Governo ed il Parlamento ad intraprendere un’iniziativa legislativa che porti all’elaborazione di una Legge costituzionale che modifichi nel senso sopra detto il Titolo IV della Parte II Costituzione, inserendovi anche l’Ordine forense come protagonista indispensabile della funzione giudiziaria. Nel contempo dovrebbe anche essere costituita una Commissione dall’OUA e dal Consiglio Nazionale forense congiuntamente, per studiare in dettaglio la normativa concernente l’avvocatura da inserire nella Costituzione. Non è difficile mettere insieme un gruppo di giuristi (avvocati e docenti universitari) in grado di farlo. Molto più complessa e comunque la prima iniziativa, quella di sensibilizzare gli organi Statuali al mutamento costituzionale. Ma è finalmente venuto il momento di farlo. La realtà pratica lo richiede, ma soprattutto lo richiede l’essenza stessa dell’Avvocatura, soggetto già nella sostanza con valenza costituzionale, anche se fino ad oggi non lo è nella forma. Quaderni

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Rapporti tra Economia e Diritto di ENRICO GRECO* La brillante relazione che il Procuratore della Repubblica di Bari Dott. Antonio Laudati ha tenuto in occasione dell’incontro dello scorso 5 ottobre organizzato dall’Ordine degli Avvocati e dalla Fondazione della Avvocatura di Brindisi presso la Cantina “Due Palme” di Cellino San Marco, ha tuttavia prodotto uno strascico, almeno nel sottoscritto, di incertezza e di perplessità. Infatti, nel suo intervento di straordinario interesse, che ha tenuto per tutto il tempo della sua durata la platea di avvocati in religioso silenzio, per la sua pregnante attualità e per la penetrante sagacia del suo contenuto, il Procuratore Laudati ha (più volte) ripetuto della enorme distanza che vi sarebbe tra il mondo della economia ed quello del diritto, concludendo che “mentre l’economia risolve i problemi, il diritto ne crea di nuovi”. Questo punto di vista, come ripeto, più volte ribadito nel corso di quel sontuoso intervento, ha finito per sollecitare una nota di dubbio nel sottoscritto e, man mano che ci riflettevo, e nei giorni successivi, riuscivo a razionalizzare tale perplessità fino a considerare la possibilità di rappresentarla in queste poche righe. Io penso che il mondo del diritto e quello dell’economia, lungi dall’essere così distanti tra loro, rappresentino due facce della stessa medaglia. * Avvocato del Foro di Brindisi.

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Proverei a partire dal presupposto che ogni struttura oggi esistente nella nostra società e creata dall’ingegno dell’uomo, deve la sua esistenza al diritto. Il diritto infatti, non è altro che un fondamentale creatore di strutture, laddove per strutture devono intendersi tutte quelle vocazioni dell’uomo soggette a regolamentazione, ogni impianto civile da esso creato, sicché l’economia non può sfuggire a questa regola essendo essa stessa struttura creata e regolamentata dal diritto. Naturalmente è ovvio che ogni struttura che il diritto crea verrà da esso successivamente regolamentata attraverso la emanazione di norme, per cui ben si può dire che il diritto influisce sull’economia sia come istituzione e sia come norma. In altri termini, il diritto, per svolgere appieno la sua funzione, deve appropriarsi, cioè deve fagocitare ogni azione umana, attribuendole una sorta di marchio di riconoscimento che è il nomen, da cui si fanno derivare le relative regole i consequenziali effetti. Ogni azione insomma, viene qualificata dal diritto con quel nomen, e, anche in economia (struttura creata dal diritto), ogni azione avrà un suo nomen. Da questa considerazione discendono almeno due importanti deduzioni. La prima è che non vi sono azioni economiche che sfuggano alla qualificazione giuridica, per cui diritto ed economia non sono comparti separati e tanto meno contrapposti, anzi, sono aspetti inscindibili perché l’economia rientra a pieno titolo nell’alveo di competenza del diritto. La seconda, è che ogni idea, prassi o consuetudine (volendo ipotizzare la nascita dell’economia come avulsa dal diritto e proveniente ab origine da una usanza, o da una pratica comune), per affermarsi nella realtà concreta, deve per forza di cose trasfondersi in norme giuridiche e, solo da quel momento – e non prima – quella “consuetudine” o quella “prassi” acquisisce dignità di regola, acquisisce cioè

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quel nomen che eleva quella “prassi” a rango di principio tutelato dal diritto. Volendo sfrondare queste considerazioni da ogni speculazione teorica, e quindi calandosi nel concreto, vi è da chiedersi dove sarebbe l’economia oggi se il diritto non le avesse fornito alcuni tra i più importanti pilastri del suo sistema. Per esempio dove sarebbe l’economia se il diritto non le avesse fornito quella fondamentale figura che è la personalità giuridica, figura che ha spalancato orizzonti prima impensabili per quel settore favorendone lo sviluppo. Il rilievo economico della personalità giuridica è noto a tutti (si pensi alle società per azioni). Oppure (altro istituto del diritto offerto alla economia) alla creazione dell’obbligo giuridico, che il Carnelluti definiva come “una subordinazione di interesse, attuata mediante un vincolo della volontà”. Ma ancora, nel settore dei prodotti bancari, l’apporto determinante dei criteri civilistici della Diligenza – Correttezza – Trasparenza, o l’intera materia del credito. Ma mille altri istituti il diritto ha asservito alla economia per consentirle di svolgere il suo insostituibile compito di sviluppo sociale. Eppure, l’affermazione che il diritto ed economia siano strutture lontane tra di loro, continua, da un lato, (anche se sporadicamente) ad essere proposta. Tuttavia mi sembra di una qualche utilità chiedersi la ragione di questo, cioè del perché si affermi che diritto ed economia sono mondi lontani tra loro. Probabilmente la ragione sta in quella moderna tendenza “rampantista” che proverei a definire come la “Nuova frontiera della Economia”, che tende, (e tenta), di rivendicare una sorta di indipendenza dal diritto, la quale tuttavia, è più fittizia e proclamata che reale. Mi spiego. Posto quindi che il diritto regola il modo immediato o indiretto Quaderni

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qualsiasi aspetto della società (ivi compresa l’economia), e che la società (specie quella dei nostri tempi) è in continua ebollizione, il diritto, in questa sua incessante opera, finisce inevitabilmente per essere soggetto a continue pressioni da parte dei diversi settori della società, le quali mirano a condizionare quella attività, qualche volta addirittura a modificarla a vantaggio dei propri interessi. Quelle pressioni sono cioè originate da ciascuno degli interessi in gioco che aspirano evidentemente ad una regolamentazione di maggior favore. Naturalmente si tratta di una vera e propria competizione, aperta a tutti gli interessi, quelli religiosi, quelli politici ma anche quelli economici. Ciascun interesse (o settore) tenta di piegare il diritto ai propri interessi e, tra i sistemi più utilizzati vi sono quello di cercare di formare una autonomia del proprio settore rivendicando una antica ideologia, naturalmente affiancata dal sostegno di una istituzione che veicoli i propri interessi attraverso organismi di potere, e, non meno importante, l’opera dei mass-media che assecondi il tutto. Il mondo dell’economia pensandoci bene, tutto questo lo fa benissimo, e ha finito per creare la convinzione di essere un settore autonomo dal diritto da cui invece ha preso origine, e da cui continua a prendere linfa vitale. Diritto ed economia effettivamente, nell’ambito delle rispettive sfere di competenze, si pongono in maniera assai dissimile. Diverso è il linguaggio usato, diversi i contesti sociali, diverse le esperienze e perfino diverse le rispettive finalità. E tuttavia, ogni innovazione o tentativo di innovazione da parte della economia, la quale voglia prescindere da una parallela innovazione nella regolamentazione dei principi, non potrà avere effetti positivi. Mi pare plausibile sostenere che una delle ragioni della valutazione circa la distanza tra diritto ed economia, risieda nella flessibilità

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del nostro sistema, il quale consente innovazioni e riforme all’interno dei diversi settori che lo compongono, senza soverchie difficoltà, alimentando così l’idea che ogni innovazione promani dal settore interessato (economia, religione, politica ecc.) in maniera del tutto autonoma ed “autosufficiente”. Cioè, la nascita di metodologie, regole o norme che riguardano un settore (in questo caso l’economia), riesce più agevole quanto più il sistema sia flessibile, ed aumentano in proporzione al grado di rigidità dello stesso e, la facilità nella creazione di regole innovative nell’ambito di un settore, sembrano provenire direttamente da quel settore e non per quel settore. Le norme, le innovazioni, le regole nuove, quelle “che risolvono i problemi e non li creano” (come detto in apertura) sembrano promanare dal mondo della economia, e invece promanano dal mondo del diritto per l’economia vale a dire a vantaggio del settore economico.

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Sull’illegittimità costituzionale del “lodo Alfano”:

il bilanciamento tra l’interesse oggettivo e “apprezzabile” al “sereno svolgimento” delle funzioni pubbliche da una parte e il diritto di difesa (e la sensibilità personale) dell’imputato dall’altra nella sentenza n. 262/09 della Corte di ANTONELLO DENUZZO*

I toni della contesa tra i giuristi che aveva accompagnato l’approvazione del “lodo Schifani” e la sua dichiarazione di incostituzionalità con la sentenza n. 24 del 2004 della Corte costituzionale sembravano, in tempi più recenti, avere assunto linee più razionali. Per esempio, poteva considerarsi un fatto positivo l’abbandono dell’argomento (propugnato a sostegno della legittimità di quel primo “lodo”) secondo cui la soggezione alla giurisdizione dei componenti degli organi elettivi sarebbe di per sé contraria al principio della sovranità popolare e dunque chi vince le elezioni ha il diritto di governare senza essere turbato da indagini giudiziarie troppo zelanti. Al contrario, proprio la nascita dello Stato costituzionale fondato sulla sovranità popolare postula la necessità che il potere, sia pure conseguito con libere elezioni, sia sottoposto a vincoli giuridici e Avvocato del Foro di Brindisi e componente del Consiglio direttivo A.I.G.A., sezione di Brindisi. Dottore di Ricerca in Diritto costituzionale, Università del Salento. Professore a contratto di Diritto pubblico per le arti e lo spettacolo presso l’Università di Bari, sede di Brindisi. *

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non soltanto di tipo politico. Tanto è vero che la stessa Costituzione prevede espressamente la sottoponibilità alla giurisdizione – sia pure con regole processuali particolari – dei componenti del Governo per i reati funzionali e – limitatamente però ai reati di attentato alla Costituzione e di alto tradimento – del Capo dello Stato (artt. 90 e 96 Cost.). Una discussione piuttosto pacata aveva circondato anche le note per così dire “assolutorie”, sotto il profilo della conformità alla sentenza n. 24 del 2004, diffuse dalla Presidenza della Repubblica prima in occasione dell’autorizzazione alla presentazione in Parlamento del disegno di legge recante il “lodo Alfano”, poi della promulgazione della legge n. 124 del 2008. In generale, non si è mancato di precisare come le valutazioni del Capo dello Stato, finalizzate esclusivamente all’esercizio delle proprie competenze, non possano essere accostate a quelle spettanti alla Consulta nel giudizio sulle leggi, né potrebbero, neppure in via di fatto, ipotecare in un senso o nell’altro la futura decisione di quest’ultima. Nel complesso, il dibattito tra i giuristi sembrava così avviato nella direzione di uno scontro di natura tecnico-giuridica e sembrava essersi assestato condensandosi prevalentemente sul quesito centrale posto dalla vicenda, quello circa la legittimità dell’uso della legge ordinaria o la necessità del ricorso alla legge costituzionale per introdurre il beneficio oggetto del “lodo”. Con l’approssimarsi della celebrazione del giudizio sul “lodo Alfano”, la polemica, com’era prevedibile, si è tuttavia riaccesa. Meno scontato era che tale polemica sfociasse nello strepito attizzato dall’inedito tenore della memoria presentata alla Corte dall’Avvocatura dello Stato. Una memoria che sottolineava le ricadute negative determinate dalla sottoposizione a procedimento penale del titolare di un’alta carica: “Più elevata è la carica e maggiore è la curiosità del pubblico… con la curiosità del pubblico aumenta anche la richiesta di pubblicità Quaderni

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sui mezzi di comunicazione che ne trattano, che a sua volta induce ad insistere sull’argomento”. Il pericolo, definito “estremo” nella memoria, è quello delle dimissioni dell’alta carica, ma si rischia anche il formarsi di una “forte corrente di opinione contraria”, che renderebbe precarie le condizioni personali di serenità che devono essere assicurate all’interessato. Quello che importa in questa sede non è soffermarsi su questo “avvertimento” (o forse semplicemente un lapsus calami) dell’Avvocatura, ma incentrare l’attenzione sui profili propriamente tecnico-giuridici della questione. Costituzionalmente illegittima “per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 138 Cost., in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost.”: così la Corte costituzionale ha deciso, dopo la sentenza n. 24 del 2004 che ha annullato il “lodo Schifani”, la fine pure della legge n. 124 del 2008 sulla sospensione del processo nei confronti delle quattro alte cariche dello Stato. I motivi che fondano la decisione della Corte sono di due ordini: da un lato l’introduzione di uno ius singulare in deroga all’art. 3 Cost. senza specifica disposizione costituzionale, dall’altro l’irragionevolezza intrinseca della norma di limitazione della prerogativa alle quattro cariche dello Stato. In relazione al primo, la Corte chiarisce che le prerogative sono dirette a tutelare lo svolgimento delle funzioni degli organi costituzionali, attraverso la protezione dei titolari delle relative cariche, sia per atti funzionali che per atti extrafunzionali: istituti al contempo “fisiologici al funzionamento dello Stato” e “derogatori rispetto al principio di eguaglianza”. Poiché le prerogative sono “sistematicamente regolate da norme di carattere costituzionale” (come nel caso degli artt. 68, 90 e 96 Cost.), il legislatore ordinario “può intervenire solo per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, essendogli preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato”. La Corte esclude in proposito una riserva di legge costituzionale, ma si tratta, mi permetto di osser-

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vare, di un passaggio non condivisibile, che contraddice la premessa: la deroga all’art. 3 Cost. è legittima solo se con norma costituzionale, perché così esige la Costituzione, rappresentando lo status dei titolari di organi supremi una materia costituzionalmente riservata. Dimostrato che già la legge n. 140 del 2003 dissimulava, mediante la sospensione del processo, una prerogativa, la Corte conclude che anche la legge n. 124 del 2008, malgrado le novità introdotte, è diretta a garantire non il diritto di difesa dell’imputato, ma la “protezione delle funzioni di alcuni organi costituzionali”. Anche la nuova legge, come quella del 2003, istituisce dunque una prerogativa che deroga al principio di eguaglianza, determinando “una evidente disparità di trattamento delle alte cariche rispetto a tutti gli altri cittadini”. È vero, ricorda la Corte, che il principio di eguaglianza esige che situazioni eguali siano trattate in modo eguale e situazioni diverse in maniera differente. Nel caso di specie, tuttavia, posto che il differente trattamento innanzi alla giurisdizione riguarda il titolare di un organo costituzionale e si allega quale causa giustificatrice l’esigenza di proteggere le funzioni dell’organo, la conseguenza deve essere che “un tale ius singulare abbia una precisa copertura costituzionale”. Al motivo principale ed assorbente la Corte aggiunge la violazione pure del principio di eguaglianza-ragionevolezza, sotto il profilo sia della disparità di trattamento fra Presidenti e componenti degli organi collegiali sia del pari trattamento di cariche disomogenee. Le differenze strutturali e funzionali che distinguono i Presidenti dagli altri componenti non sono tali da alterare il complessivo disegno costituente, dato che sono le Camere ed il Governo rispettivamente titolari della funzione legislativa e dell’indirizzo politico. La Corte costituzionale respinge il rilievo del premier come primus super pares, con l’avvertimento tranchant che una legge ordinaria “non è idonea a modificare la posizione costituzionale del Presidente del Consiglio dei Ministri”. Malgrado la tesi suggestiva della difesa privata, che ha argomentato utilizzando la novella elettorale Quaderni

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del 2005, cioè l’indicazione sulla scheda del nome del candidato premier, neppure l’accresciuta legittimazione politica derivante da una forma di elezione sostanzialmente diretta può essere di per se stessa una giustificazione di pregio costituzionale alla sottrazione (anche meramente temporanea) degli eletti al diritto comune, che è quanto avviene appunto quando si prevede la sospensione dei processi che li riguardano per reati comuni, commessi cioè come qualsiasi comune cittadino e senza alcuna connessione con l’esercizio delle funzioni. La disomogeneità tra cariche è riaffermata, invece, sia per le fonti di investitura sia per la natura della funzione, sicché la fonte popolare o il carattere politico non sono tratti esclusivi dei quattro privilegiati, ma tratti comuni anche ad altri organi. Nodo cruciale della questione, allora, è la sufficienza o meno della legge ordinaria a disciplinare benefici come quello che il “lodo Alfano” pretendeva di introdurre; nodo cruciale che, a differenza che nella vicenda del “lodo Schifani”, questa volta era stato ritualmente, espressamente e specificamente evidenziato nelle motivazioni e nei dispositivi delle ordinanze di rimessione. Mi limiterò ad alcune osservazioni essenziali. In via puramente astratta, la sospensione temporanea, a favore delle più alte cariche dello Stato, della giurisdizione penale per reati comuni potrebbe non costituire, di per sé, una violazione del principio di eguaglianza. Anzi, una simile disciplina differenziata non si potrebbe definire una violazione del principio di eguaglianza perché proprio tale principio, correttamente inteso, impone il trattamento differenziato di situazioni diverse. Applicando le note regole generali, però, una differenziazione siffatta, per essere legittima, dovrebbe avere un fondamento giustificativo e dunque rispondere al canone della ragionevolezza: in tal caso, la speciale misura di vantaggio non esigerebbe di essere adottata con una legge costituzionale, ma sarebbe sufficiente una legge ordinaria, come avviene comunemente per le discipline differenziate nella prassi legislativa.

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A questo punto, però, entra in scena un elemento ulteriore, che mette in luce come, nell’ipotesi specifica, la ragione per la quale il ricorso alla legge ordinaria non era sufficiente non stava nel fatto che essa introduceva una differenza tra cittadini ed alte cariche dello Stato non conforme all’art. 3 Cost. Il “lodo Alfano”, infatti, veniva giustificato con il fine di assicurare protezione all’interesse (definito “apprezzabile” dalla sentenza n. 24 del 2004) al sereno svolgimento delle altissime funzioni pubbliche connesse alla carica. Se così è, tuttavia, se cioè si tratta di una misura attribuita non in vista di un interesse personale del titolare della carica, ma di un interesse oggettivo dell’istituzione alla quale egli appartiene, allora siamo in presenza di una forma di immunità funzionale vera e propria a favore dei quattro Presidenti. Ad una simile qualificazione non osta il fatto che la sospensione del processo si riferisse a reati diversi da quelli funzionali, poiché anche da processi per reati comuni può derivare il turbamento alla serenità dei Presidenti, dannoso all’esercizio delle relative funzioni. È proprio da qui che scaturisce l’illegittimità costituzionale della previsione con legge ordinaria di una simile guarentigia: il sistema delle immunità funzionali di cui agli artt. 68, 90, 96, 122 comma 4 Cost. ed all’art. 31 della legge cost. n. 3 del 1948 è un sistema fissato con disposizioni di grado costituzionale, perché contribuisce a definire lo status costituzionale dei titolari delle alte cariche in questione. Vale a dire che quando la Costituzione non dice, lo spazio vuoto di eventuali ulteriori garanzie che le disposizioni costituzionali non toccano non si può considerare lo spazio del costituzionalmente lecito, attingibile da legge ordinaria, ma è riservato esclusivamente alle valutazioni del legislatore costituzionale, che sole possono definire compiutamente la posizione costituzionale degli organi costituzionali di vertice. Esiste, dunque, sullo status delle supreme cariche pubbliche, una riserva di legge costituzionale nella quale il legislatore ordinario non Quaderni

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può filtrarsi neppure per introdurre guarentigie aggiuntive a quelle costituzionalmente previste. In contrario non vale il richiamo all’unico e risalente precedente della giurisprudenza costituzionale (la sentenza n. 148 del 1983) concernente le immunità dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura disposte con legge ordinaria, per la diversità delle posizioni di tali Consiglieri rispetto alle “alte cariche dello Stato” e soprattutto per l’assai controversa possibilità di qualificare questo Consiglio come organo costituzionale. Al riconoscimento dell’esistenza di questa riserva di legge costituzionale non osta neppure il silenzio, sul punto, della sentenza del 2004 sul “lodo Schifani”: in quella occasione la questione non era stata prospettata formalmente alla Corte e dunque il silenzio di questa non poteva essere interpretato come implicito assenso all’uso della legge ordinaria. A questa chiave di lettura della (complessa) questione si contrappone l’impostazione seguita nella memoria dell’Avvocatura dello Stato, che individuava lo scopo del “lodo Alfano” non nella tutela della serenità nell’esercizio della funzione, ma – formalmente – nel bilanciamento ragionevole tra questo interesse ed il diritto alla difesa del titolare della carica e – sostanzialmente – in tale ultimo diritto. In altre parole, secondo questa diversa prospettiva (che disattendeva l’indicazione principale della sentenza n. 24 del 2004 della Corte e spostava sul diritto di difesa del Presidente il peso decisivo del ragionamento), il beneficio non verrebbe concesso per assicurare il corretto svolgimento della funzione depurandolo dalle preoccupazioni di un processo, ma per consentire al titolare dell’alta carica di agire, in futuro, in piena libertà difensiva, senza l’impedimento rappresentato dalle funzioni pubbliche e dunque al riparo dalla speculazione politica e dei media scatenata dallo svolgimento del processo. Considerazioni del genere, tuttavia, concernono la sensibilità personale dell’imputato e non quella del titolare della funzione pubblica che, liberamente accettata, dovrebbe costituire invece il criterio di misura delle proprie azioni.

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In realtà, la violazione dell’art. 138 Cost. e, quindi, l’incompetenza assoluta della legge ordinaria era ben presente già nel precedente del 2004. La stessa Corte, infatti, aveva individuato quel vizio dall’ordinanza del giudice a quo, laddove faceva riferimento alla violazione del sistema costituzionale delle norme sulle prerogative costituzionali (artt. 68, 90 e 96 Cost.) e, quindi, implicitamente al contrasto pure con l’art. 138 Cost. Piuttosto, nel 2004 la Corte ha compiuto un’inversione logica e giuridica dell’ordine dei parametri, anteponendo la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. a quella degli artt. 68, 90, 96 e 138 Cost. (dati per assorbiti e, quindi, non utilizzati affatto). Peraltro, la deroga all’eguaglianza innanzi alla giurisdizione lì veniva ritenuta possibile in astratto e in concreto giustificata nel valore, riconosciuto come fondamentale, del sereno svolgimento delle funzioni costituzionali. Il vizio della legge era che l’automatismo generalizzato della sospensione intaccava il diritto di difesa (di imputato e parte civile). Non c’era affatto, neppure nel motivo principale di accoglimento, un problema di natura costituzionale della disciplina, essendo la legge viziata da un irragionevole bilanciamento di valori. In altre parole, è certamente vero che la sentenza n. 24 del 2004 ha ammesso che i casi di sospensione dei processi non costituiscono un numero chiuso e non debbono essere preordinati necessariamente a ragioni endoprocessuali. La Corte, tuttavia, non si è pronunciata sul quesito circa la necessità di adottare, nel caso particolare, la forma della legge costituzionale perché l’ordinanza di rimessione non aveva sollevato formalmente un dubbio specifico in proposito, né aveva indicato in dispositivo il parametro dell’art. 138 Cost. Nel caso del “lodo Schifani”, l’ordinanza di rimessione lamentava infatti che la legge impugnata introducesse benefici diversi da quelli previsti dagli artt. 68, 90 e 96 Cost., ma non dubitava della possibilità, in via di principio, della legge ordinaria di entrare nel campo delle immunità costituzionali: di qui la mancata menzione dell’art. 138 Quaderni

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Cost. Insomma, il giudice a quo proponeva specifici vizi di contenuto e non un vizio formale. La Corte ha seguito questa impostazione e si è limitata a replicare puntualmente alle singole censure senza pronunziare sul vizio formale né in senso positivo né in senso negativo. Nel caso più recente, la memoria dell’Avvocatura ha negato natura di garanzia funzionale alla sospensione del processo sottolineando come il “lodo Alfano” rimettesse l’operatività del beneficio alla libera scelta del titolare del munus pubblico. Posto che il fondamento giustificativo di tale beneficio non può che consistere nella garanzia del sereno svolgimento della funzione, l’introduzione di un potere di rinuncia incondizionato e illimitato in favore del titolare della carica appare, invece, soltanto un’ulteriore incoerenza del “lodo Alfano” rispetto al fine da perseguire e dunque una ragione di incostituzionalità. Proprio nell’attribuzione di un tale potere di rinuncia si annidava, anzi, una prevedibile obiezione: se la sospensione è rivolta a garantire l’interesse oggettivo al sereno svolgimento della funzione e non l’interesse personale alla serenità del titolare della carica, è coerente poi rimettere del tutto alle valutazioni di quest’ultimo la salvaguardia di tale interesse oggettivo, consentendogli di rinunciare alla sospensione a seconda della sua sensibilità per dedicare il suo tempo alle proprie vicende processuali piuttosto che al doveroso adempimento dei compiti istituzionali? A seguire la linea argomentativa dell’Avvocatura, mi pare che il discorso finisca inevitabilmente con l’avvitarsi in una spirale: se la sospensione processuale prevista dal “lodo Alfano” non è un’immunità a garanzia della funzione, che cosa è? E quale sarebbe, in questa prospettiva, la giustificazione di questa protezione differenziata per reati comuni? Del resto, la pressione mediatica non è certo minore e meno deleteria per i comuni cittadini che debbono rispondere degli stessi reati. In definitiva, il vero vizio del “lodo Alfano” resta la violazione di una riserva costituzionale in materia di prerogative: solo attivando

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la revisione costituzionale si potrebbe perciò stabilire una deroga all’eguaglianza dei cittadini in favore di una delle alte cariche dello Stato. Né mi pare che si possa trovare un diverso e costituzionalmente valido fondamento giustificativo a tale deroga al principio della pari sottoposizione degli eletti alla giurisdizione nella diversità di posizione di taluni soggetti rispetto ai comuni cittadini che non rivestono quelle cariche. È evidente che la differenza di posizione esiste. Il problema è – come sottolineava la sentenza n. 24 del 2004 – verificare se il trattamento differenziato sia “ragionevole”, “non arbitrario”. Pur ammettendo che la ragione giustificativa risieda nel necessario perseguimento del “sereno svolgimento delle funzioni”, definito un “interesse apprezzabile” dalla Corte, resta il fatto che (ancora secondo la sentenza n. 24 del 2004) il perseguimento di tale interesse deve avvenire “in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto”. Ebbene, la logica sottesa al sistema costituzionale delle garanzie del libero e corretto svolgimento delle funzioni pubbliche “apicali” deve essere individuata non perdendo di vista il principio fondamentale dell’art. 3 Cost. Questo sistema reca alcune specifiche disposizioni a tutela di tale svolgimento nella forma di misure speciali – derogatorie rispetto al diritto comune – a vantaggio dei titolari delle funzioni medesime ed in riferimento esclusivo a reati funzionali, mentre sancisce a chiare lettere l’eguale sottoposizione alle leggi civili, penali e amministrative della responsabilità di tutti i pubblici funzionari (art. 28 Cost.). Il sistema delle guarentigie costituzionali delle funzioni pubbliche costituisce perciò un sistema chiuso, che descrive in modo tassativo – non estensibile perché derogatorio – lo status del funzionario interessato e che può essere modificato o integrato solo con successive leggi costituzionali. E non si può eludere il problema sostenendo che la sospensione del processo penale per le “alte cariche” sia cosa diversa dalle imQuaderni

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munità funzionali. Infatti, nonostante la diversità dei meccanismi di funzionamento e della estensione oggettiva, ciò che rileva è il fatto che tutti questi meccanismi sono accomunati dall’essere trattamenti differenziati e più favorevoli per i Presidenti, radicati nella necessità di garanzia dello svolgimento della funzione. Sia le immunità vere e proprie, sia la sottrazione alla giustizia (sia pure a tempo determinato) dei titolari della carica, per di più con riguardo a reati extrafunzionali, concorrono come tasselli a comporre lo status del titolare della funzione “apicale”, che non può non risultare da norme di grado costituzionale. Una guarentigia ulteriore, si trattasse pure, come nel “lodo Alfano”, della sottrazione temporanea alla giustizia delle “alte cariche” mediante la sospensione dei processi per reati extrafunzionali, è necessario che sia introdotta debitamente e cioè mediante una legge costituzionale, che si armonizzi con le altre disposizioni costituzionali recanti diritti fondamentali di altri soggetti o principi fondamentali, secondo le indicazioni puntuali della sentenza n. 24 del 2004.

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In hoc signo iudicas: breve excursus giurisprudenziale sub signo crucis di GIANMICHELE PAVONE *

1. Le prime pronunce sub signo crucis “In hoc signo vinces” è la frase che la leggenda riconduce alla conversione dell’imperatore romano Costantino al Cristianesimo, pronunciata da Colui che gli garantì che se avesse marciato con la croce come vessillo avrebbe sconfitto i nemici di Roma1. Ad essa ci ispiriamo in questa sede per ripercorrere in un breve excursus, le pronunce giurisprudenziali dell’ultimo decennio che hanno avuto ad oggetto uno dei simboli più densi di significato della cultura cristiana, ben guardandoci dal dare voce ad argomentazioni polemiche ed evitando di indugiare in disquisizioni che non siano squisitamente giuridiche. Nelle venticinque pronunce prese in esame, l’argomento “crocifisso” è stato affrontato con riferimento alle sue localizzazioni spaziali naturali: le aule scolastiche, i seggi elettorali e le aule dei tribunali. La presenza della croce nelle scuole è la tematica che ha visto maggiormente impegnata la magistratura e che più di tutte ha suscitato un vespaio mediatico. La presenza del crocifisso è stata, infat-

* Praticante abilitato. 1 La comparsa in cielo di questa scritta accanto a una croce sarebbe uno dei segni prodigiosi che avrebbero preceduto la prima vittoria di Costantino su Massenzio, il 28 ottobre 312, nella pianura tra Rivoli e Pianezza, allo sbocco della Valsusa. A partire dal Rinascimento, l’episodio compare ampiamente nell’iconografia cristiana.

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ti, criticata negli anni non solo da alcuni genitori di alunni di fede islamica (più precisamente: Abel Smith e Soile Tuulikki Lautsi), ma anche da alcuni insegnanti. 2. Le doglianze dei genitori: a) Abel Smith e la scuola “Antonio Silveri” di Ofena (AQ) Nel 2003 la questione è stata sottoposta al T.A.R. Lazio2 su ricorso proposto dall’Unione Musulmani d’Italia, in persona del presidente e legale rappresentante Adel Smith3. In particolare, i Ministeri dell’Istruzione, della Salute e dell’Interno erano stati diffidati ed invitati a rimuovere dai locali di rispettiva competenza quel particolare tipo di simbolo religioso costituito dal crocifisso. Nessuna risposta è pervenuta dagli stessi ed il T.A.R. del Lazio ha giudicato legittimo tale il silenzio-rifiuto poiché nei procedimenti ad iniziativa privata la formazione del silenzio-rifiuto giurisdizionalmente impugnabile ai sensi dell’art. 25 T.U. delle disposizioni sugli impiegati civili dello Stato approvato con D.P.R. n. 3 del 1957, si ritiene integrata non solo decorsi 30 giorni dalla diffida, ma anche decorsi 60 giorni dall’istanza ad adempiere, non seguita da riscontri dell’amministrazione. Lo stesso Smith, con ricorso depositato il 30 settembre 2003, con2 T.A.R. Lazio, sez. III, 8 ottobre 2003, n. 8128, in Giornale Dir. Amm. 2003, 12, 1308 (nota di FERRARI). 3 Adel Smith, nato ad Alessandria d’Egitto il 9 marzo 1960, dirige a Ofena (L’Aquila) un partito politico, più che un’associazione, denominato Unione dei Musulmani d’Italia, costituito a Palestrina (RM), il 5 maggio 2001 (da non confondere con l’Unione Musulmani in Italia dell’imām torinese Abdulaziz Khounati, nata successivamente). Secondo il giornalista Magdi Allam l’Unione dei Musulmani d’Italia, che vanta cinquemila membri, ne ha più probabilmente due – Smith e il suo fidato collaboratore Abdul Haqq Massimo Zucchi – più “una decina di simpatizzanti albanesi” (ALLAM, Bin Laden in Italia. Viaggio nell’islam radicale, Mondadori, Milano 2002, p. 124). Smith è anche autore di alcuni libri come: L’Islam castiga Oriana Fallaci. Lettera a una vecchia mai cresciuta, Alethes, Carchitti (Roma) 2002; Guai a voi, scribi e farisei. Il dovere di odiare lo Stato di Israele, Alethes, Carchitti (Roma) 2004.

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venne in giudizio l’istituto scolastico Navelli4, in persona del Dirigente pro-tempore ed Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in persona del Ministro pro-tempore, formulando istanza cautelare ex art. 700 c.p.c. volta alle rimozione del crocifisso dalle aule della scuola materna ed elementare frequentata dai figli minori dello stesso, Adam e Khaled Smith di fede islamica. Il Tribunale de L’Aquila, ritenendo ammissibile la domanda proposta anche da uno solo dei genitori, con ordinanza del 23 ottobre 20035, accolse il ricorso sul presupposto che: quanto al fumus boni iuris, l’originaria disciplina che imponeva l’esposizione del simbolo, risalente agli anni ‘20 del secolo scorso, appariva abrogata per incompatibilità nell’attuale sistema imperniato sui principi di laicità dello Stato e di pluralismo confessionale e culturale sanciti nella Carta costituzionale e non ignorati nel nuovo concordato con la Chiesa (accordo di revisione del 1984); quanto al periculum in mora, la permanenza nelle suddette aule del crocifisso come simbolo di una religione non condivisa comportava il protrarsi della lesione – non risarcibile in termini puramente economici – di un diritto di libertà. Più precisamente, in base all’interpretazione data dal Tribunale, l’esplicita abrogazione del principio che indicava il Cattolicesimo come religione ufficiale dello Stato italiano, contenuta nel punto 1, in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale agli Accordi di modifica del Concordato lateranense del 19296, ha introdotto un 4 L’Istituto comprensivo di scuola materna ed elementare di Navelli, circolo scolastico cui appartiene la scuola “Antonio Silveri” di Ofena (AQ). 5 Trib. L’Aquila, ord. 23 ottobre 2003, pubblicata sulle seguenti riviste: Dir. eccl., 2003, fasc. II, p. 249; Giur. merito, 2003, p. 2529; Gius, 2003, p. 2862; Foro it., 2004, fasc. I, p. 1262; Giur. merito, 2004, p. 605 (nota di: TERRUSI, Considerazioni su un uso improprio della tutela d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., rispetto a presunta lesione del diritto di libertà religiosa); Giust. civ., 2004, fasc. I, p. 3167 (nota di: DALLA TORRE, Dio o Marianna? Annotazioni minime sulla questione del crocifisso a scuola; SAGNA). 6 Gli accordi di modifica del Concordato lateranense sono stati ratificati ed immessi nell’ordinamento italiano con la legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modifiche al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), in Suppl. ord. G.U. 10 aprile 1985, n. 85.

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nuovo assetto normativo che si pone in contrasto insanabile con la disciplina regolamentare che impone l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, con la conseguenza che devono ritenersi implicitamente abrogate anche le norme che imponevano di esporre il crocifisso negli istituti scolastici (r.d. 30 aprile 1924 n. 9657, art. 118, e r.d. 26 aprile 1928 n. 12978, art. 119). In via incidentale, il Tribunale ha chiarito che la domanda tendente alla rimozione del crocifisso dalle aule di una scuola pubblica attiene ad una controversia in materia di diritti soggettivi – segnatamente di diritti di libertà costituzionalmente garantiti – e, come tale, rientra nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria. Non è ravvisabile, per converso, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi, tra i quali è annoverata la pubblica istruzione, giacché detta giurisdizione non si estende ai rapporti individuali di utenza con soggetti privati. Infatti, l’istanza cautelare volta ad ottenere la rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche, in quanto funzionale all’esercizio di un’azione di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c., rientra nell’esclusione sancita dalla lett. e) dell’art. 33, co. 2, d.lg. n. 80 del 19989, che sottrae le azioni risarcitorie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. L’istituto scolastico venne quindi condannato, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., a rimuovere il crocifisso esposto nelle aule frequentate dai figli di Adel Smith, giacché tale esposizione, imposta da una disciplina regolamentare da ritenersi oggi abrogata per incompatibilità, si Regio Decreto 30 aprile 1924, n. 965 (Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media), in G.U. n. 148 del 25 giugno 1924. 8 Regio Decreto 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare), in Suppl. ord. G.U. n. 167 del 19 luglio 1928. 9 Decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), in G.U. 8 aprile 1998, n. 82, s.o. 65/L. 7

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pone in contrasto con i principi di necessaria salvaguardia del pluralismo religioso e culturale affermati nelle sentenze n. 203 del 1989 e 13 del 1991 della Corte costituzionale, lede il diritto di libertà religiosa e costituisce illecito civile rilevante ex art. 2043 e 2058 c.c. Meno di un mese dopo, il Tribunale de L’Aquila10, chiamato a pronunciarsi sul reclamo proposto avverso la predetta ordinanza11, ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c., dall’Istituto Navelli, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda proposta, revocando, per l’effetto, l’ordinanza pronunciata in prima istanza. Il Tribunale dichiarò, inoltre, inammissibile l’intervento nel procedimento di Mimoza Halo, moglie del ricorrente e madre dei minori Adam e Khaled Smith, e dell’Associazione Nazionale Cattolici Usurati (A.N.C.U.)12, per motivazioni che non rilevano in questa sede. L’azione, così come era stata proposta, infatti, si configurava come azione di accertamento di un obbligo in capo alla p.a. (petitum mediato) con conseguente condanna ad un facere (la rimozione del crocifisso, petitum immediato), non essendo ravvisabile nel contenuto del ricorso un’azione risarcitoria ovvero la funzionalità della domanda cautelare ex art. 700 c.p.c. al fruttuoso esercizio di una futura azione di responsabilità aquiliana. Rilevava il collegio che, in effetti, era stata proposta nessuna domanda risarcitoria, né per equivalente né in forma specifica, dal ricorrente la cui azione mirava esclusivamente ed espressamente alla rimozione del crocifisso dalle aule frequentate dai propri figli. La controversia tra un utente Trib. L’Aquila, 19 novembre 2003, in Foro it., 2004, fasc. I, p. 1262; PQM, 2003, fasc. II, p. 71 (nota di: GUASCO). 11 Trib. L’Aquila, 23 ottobre 2003, cit. 12 L’Associazione Nazionale Cattolici Usurati (A.N.C.U. Onlus), è nata nel 2000 per tutelare, mediante assistenza legale interna, gli iscritti o comunque tutti i cittadini che sono incorsi in vicende di usura, estorsione, racket, illeciti bancari, assicurativi ed amministrativi, truffe, vizi di procedura giudiziaria, fallimenti ed ogni altra forma di disagio finanziario dovuti ad illegalità e non. http://www.ancu.it/chi_siamo.htm. 10

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del servizio scolastico e l’amministrazione pubblica non riguarda un rapporto individuale di utenza con soggetti privati ai sensi dell’art. 33, lett. e), del d.lgs. n. 80/1998 e, pertanto, non è sottratta alla giurisdizione amministrativa esclusiva, in particolare quando sia invocata l’applicazione di norme, quali sono quelle che prevedono l’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche, che spiegano i loro effetti verso una platea indifferenziata di soggetti. Conoscere della domanda, di conseguenza, non spettava al giudice ordinario, ma al giudice amministrativo. In tale circostanza, il Tribunale affermava sostanzialmente che: la presenza del crocifisso nell’aula di una scuola pubblica non è contraria alla legge e non costituisce lesione del diritto di libertà religiosa, bensì arredo scolastico e, come tale, rientrante nelle generali attribuzioni della pubblica amministrazione. Deciso a condurre a termine la propria battaglia, smith propose Regolamento preventivo di giurisdizione in Cassazione, deciso con la pronuncia a sezioni unite del 10 luglio 2006, n. 1561413. La decisione fu la seguente: la controversia avente ad oggetto la contestazione della legittimità dell’affissione del Crocifisso nelle aule scolastiche, avvenuta – pur in mancanza di una espressa previsione di legge impositiva dell’obbligo – sulla base di provvedimenti dell’autorità scolastica conseguenti a scelte dell’Amministrazione, contenute in regolamenti e circolari ministeriali, riguardanti le modalità di erogazione del pubblico servizio, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 33 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80 (e succ. mod.), venendo in discussione provvedimenti dell’autorità scolastica che, essendo attuativi di disposizioni di carattere generale adottate nell’esercizio del potere amministrativo, sono riconducibili alla p.a.-autorità. Cass. civ., sez. un., 10 luglio 2006, n. 15614, pubblicata sulle seguenti riviste: Foro amm. CDS 2006, 11, 3007; Foro It., 2006, 10, 1, 2714; Giornale Dir. Amm., 2006, 8, 885; Giust. civ. Mass. 2006, 7-8; Mass. Giur. It., 2006. 13

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Di conseguenza, va proposta davanti al g.a. la domanda di condanna dell’Amministrazione a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche. 3. segue – b) Soile Tuulikki Lautsi e l’I.C. “Vittorino da Feltre” di Abano Terme (PD) Mentre il Tribunale de L’Aquila si arrovellava sulle richieste di Smith, la stessa tematica era affrontata in relazione ad un altro istituto scolastico della provincia di Padova. La Sig.ra Soile Tuulikki Lautsi14, di origini finlandesi, in proprio e quale genitrice dei minori Dataico e Sami Albertin con ricorso del 24 luglio 2002 aveva, infatti, convenuto in giudizio il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, davanti al T.A.R. Veneto da per l’annullamento della delibera del Consiglio di Istituto dell’I. C. “Vittorino da Feltre” di Abano Terme (Padova), del 27 maggio 2002 nella parte in cui stabiliva di lasciare esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi15. Il ricorrente, in particolare, sollevava, in primis, questione di legittimità costituzionale, in relazione al principio di laicità dello Stato, quale risulta dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 cost., degli artt. 159 e 190 14 Soile Tuulikki Lautsi (nata in Finlandia, cittadina italiana dal 1987) sposata con Massimo Albertin, medico di origini venete associato all’U.A.A.R. (Unione Atei e Agnostici Razionalisti). 15 Nella riunione del 22 aprile 2002, un rappresentante dei genitori pose la questione della presenza dei simboli religiosi negli ambienti scolastici, chiedendo che, nel rispetto della laicità dello Stato e della scuola pubblica, venisse decisa l’esclusione dell’affissione di crocefissi e di qualsiasi altra immagine di carattere religioso, indipendentemente dalla confessione di riferimento, nelle aule d’insegnamento e negli altri ambienti della scuola “Vittorino da Feltre” e venisse, quindi, deciso di togliere quelli che vi erano. La discussione rinviata al 27 maggio 2002, quando pur facendosi significativamente presente che bisognava educare gli studenti “al rispetto della libertà di idee e di pensiero per tutti”, veniva contraddittoriamente deliberato di lasciare esposti i simboli religiosi nella scuola, respingendo la proposta avanzata. http://www.uaar.it/uaar/campagne/scrocifiggiamo/20.html.

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del d.lg. 16 aprile 1994 n. 29716, come specificati rispettivamente dall’art. 119, r.d. 26 aprile 1928 n. 1297 (Tab. C) e dall’art. 118, r.d. 30 aprile 1924 n. 965, nella parte in cui includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche, e dell’art. 676 del predetto d.lg. n. 297 del 1994, nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni di cui all’art. 119 r.d. n. 1297 del 1928 (Tab. C) ed all’art. 118 r.d. n. 965 del 1924. L’ordinanza del 14 gennaio 2004, n. 5617, stabiliva quindi che la questione non fosse manifestamente infondata, ammettendo la pregiudiziale di costituzionalità delle disposizioni regolamentari da cui si discende l’obbligo di esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, perché queste, pur non potendo essere oggetto diretto di controllo di costituzionalità, dato il loro rango regolamentare, sarebbero state suscettibili di controllo indiretto, in quanto si riteneva che specificassero ed integrassero i disposti legislativi impugnati, degli art. 159 e 190 del d.lg. n. 297 del 1994, il cui art. 676, a sua volta, avrebbe costituito una norma primaria “attraverso la quale l’obbligo di esposizione del Crocifisso conserva vigenza nell’ordinamento positivo”. La Corte costituzionale si pronunciò sulla questione incidentale con ordinanza del 15 dicembre 2004, n. 38918, stabilendo che l’obDecreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), in Suppl. ord. G.U. n. 115 del 19 maggio 1994. 17 T.A.R. Veneto - Venezia, sez. I, 14 gennaio 2004, n. 56, pubblicata sulle seguenti riviste: Dir. eccl. 2004, II, 271; Foro amm. TAR 2004, 64, 362 (nota di: MICHELETTI, Esposizione del Crocefisso nei locali pubblici e ordinamento democratico. Spunti di riflessione); Foro it. 2004, III, 235 (nota di: COLASANTI, Crocifisso: il dubbio si poteva risolvere in via interpretativa); Nuovo dir. 2005, 898 (nota di: NAZZARO). 18 C. Cost., 15 dicembre 2004, n. 389, pubblicata sulle seguenti riviste: Dir. e Giust. 2005, 3, 85 (nota di: PUGIOTTO, Verdetto pilatesco sul crocifisso in aula - Dopo l’ordinanza si naviga a vista); Foro amm. CDS 2004, 12, 3411; Foro it. 2005, I, 1; Giust. civ. 2005, 2, 324; Giur. cost. 2004, 6; Nuovo dir. 2005, 898 (nota di: NAZZARO). Si veda inoltre: VERONESI, La Corte costituzionale, il Tar e il crocifisso: il seguito dell’ordinanza n. 389/2004, su Dir. e Giust on line, 8 aprile 2005, http://www.dirittoegiustiziaonline.it. 16

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bligo di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche discende da norme regolamentari, e non da disposizioni di legge. È manifestamente inammissibile, pertanto, la q.l.c. degli artt. 159 e 160 d.lg. 297 del 1994, perché non è da tali norme che discende il suddetto obbligo. Dato atto dell’inammissibilità di tale questione, il giudizio proseguì davanti al T.A.R. Veneto fino alla sentenza del 22 marzo 2005, n. 111019. Con la pronuncia in questione, il Tribunale Amministrativo del Veneto affermò, in primo luogo, che la controversia avente per oggetto la legittimità della delibera di un Consiglio d’Istituto diretta ad esporre il crocifisso nelle aule scolastiche dovesse rientrare nella giurisdizione amministrativa, sia perché veniva impugnato un atto amministrativo discrezionale, sia in quanto il diritto di libertà era stato asseritamente leso da una attività amministrativa e veniva fatto valere, in via indiretta, con la richiesta di rimozione della citata delibera. L’atto impugnato, invero, si riferiva ad un arredo scolastico, seppure certamente sui generis, ed è dunque espressione di una potestà organizzativa dell’amministrazione scolastica, a fronte della quale i singoli utenti sono titolari di un interesse legittimo. Il T.A.R., stabilì quindi che l’art. 118 r.d. 30 aprile 1924 n. 965 e l’art. 119 r.d. 26 aprile 1928 n. 1297 (Tab. C), che prevedono la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, dovessero considerarsi disposizioni regolamentari in vigore, non essendo state abrogate, nè espressamente nè implicitamente, da successive norme di rango costituzionale, legislativo ovvero regolamentare (segnatamente, dalle modificazioni apportate al Concordato dell’11 febbraio 1929 fra la Santa Sede e l’Italia con la l. 25 marzo 1985 n. 121 e dalle T.A.R. Veneto - Venezia, sez. III, 22 marzo 2005, n. 1110, pubblicata sulle seguenti riviste: Corr. merito 2005, 847; Dir. e Giust. 2005, n. 16, 75, (nota di: FICARRA, Io, legale del ricorrente, vi spiego perché non sono d’accordo con i giudici del TAR); Dir. famiglia 2006, 1, 90; Foro amm. TAR 2005, 3, 648; Foro it. 2005, III, 329; Nuovo dir. 2005, 898 (nota di: NAZZARO). 19

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disposizioni del d.lg. 297 del 16 aprile 1994, t.u. delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione): il r.d. n. 965 del 1924 ed il r.d. n. 1297 del 1928 costituiscono, quindi, fonti regolamentari anche oggi vigenti, come asserito, peraltro, dall’ordinanza della Corte costituzionale. In conclusione, il crocifisso, inteso come simbolo di una particolare storia, cultura e identità nazionale, oltreché di alcuni principi laici della comunità, poteva essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto ciò non solo non contrastava ma addirittura confermava il principio di laicità dello Stato. Anche questa vicenda, come nel caso di Ofena, ha determinato la mobilitazione delle associazioni ed in particolare: dell’Associazione italiana genitori (A.Ge.)20 di Padova, nella persona del Presidente Linicio Bano, e dell’associazione Forum, rappresentata e difesa dal Presidente, Avv. Ivone Cacciavillani. Avverso la sentenza del T.A.R., Soile Lautsi propose appello, deciso dal Consiglio di Stato con la pronuncia del 13 febbraio 2006, n. 55621. Confermando la decisione impugnata, si ribadì che l’art. 118 r.d. 30 aprile 1924 n. 965 e l’art. 119 r.d. 26 aprile 1928 n. 1297, che prevedono la collocazione del crocifisso nelle aule delle scuole statali, non dovessero considerarsi in contrasto con il principio di laicità dello Stato. 20 L’A.Ge., Associazione Italiana Genitori Onlus, fondata nel 1968, è la Federazione nazionale delle associazioni dei genitori. Le associazioni locali A.Ge. raccolgono gruppi di genitori volonterosi che, ispirandosi ai valori della Costituzione italiana e all’etica cristiana, intendono partecipare alla vita scolastica e sociale per fare della famiglia un soggetto politico. Le associazioni A.Ge. locali sono collegate in associazioni o delegazioni provinciali e regionali e sono federate nell’Associazione nazionale. Ogni Associazione è formata da volontari che promuovono una rete di solidarietà tra i genitori e partecipano alla vita del territorio, a partire dalla scuola. http://www.age.it. 21 Cons. Stato, sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 556, pubblicata sulle seguenti riviste: Dir. e Giust. 2006, 10, 66 (nota di: MORELLI, Se il Crocifisso è simbolo di laicità l’ossimoro costituzionale è servito; FUCCILLO); Dir. famiglia 2006, 3, 1031; Foro amm. CDS 2006, 2, 544; Foro it. 2006, III, 181 (nota di: TRAVI, Simboli religiosi e giudice amministrativo); Giur. it. 2007, 4, 836 (nota di: RATTI).

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Il simbolo del crocifisso, infatti, esprime, anche per i non credenti, in forma sintetica valori civilmente rilevanti, posti a fondamento del nostro ordinamento (tolleranza, rispetto dei diritti e delle libertà della persona, solidarietà, non discriminazione). Ne consegue che l’esposizione del suddetto simbolo nelle aule scolastiche, in quanto propugnazione dei suddetti valori laici, non viola il principio di laicità dello Stato (che è anch’esso principio fondamentale del nostro ordinamento). La Sig.ra Lautsi, infine, ha sottoposto la questione alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che si è pronunciata recentemente con la sentenza Lautsi v. Italia del 3 novembre 200922, stabilendo – con conseguente enorme clamore mediatico – che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è “una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione”. Tuttavia, non avendo il potere di imporre la rimozione dei crocifissi dalle scuole italiane ed europee, la Corte ha condannato l’Italia a risarcire 5.000 euro alla ricorrente per danni morali. 4. Le doglianze degli insegnanti I docenti hanno modo di vedere il crocifisso nelle scuole tanto quanto gli alunni e non mancano le pronunce giurisprudenziali che riguardano tale simbolo religioso nelle stesse aule, dal loro punto di vista, non quali luoghi di studio ma di lavoro. Una prima pronuncia sul punto, risalente nel tempo ed isolata rispetto alle altre, è la sentenza della Pretura di Roma del 17 maggio C.E.D.U, Chamber judgment, Lautsi v. Italy (application no. 30814/06), 03.11.2009, CRUCIFIX IN CLASSROOMS: CONTRARY TO PARENTS’ RIGHT TO EDUCATE THEIR CHILDREN IN LINE WITH THEIR CONVICTIONS AND TO CHILDREN’S RIGHT TO FREEDOM OF RELIGION, http://www.coe.int. 22

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198623. Il magistrato stabilì che non sussisteva alcun atto discriminatorio per motivi religiosi nei confronti di un insegnante da parte del dirigente scolastico che, dando esecuzione alla volontà più volte espressa dagli alunni, aveva imposto nella classe il crocifisso. Tale comportamento, lungi dal configurarsi come discriminatorio, doveva piuttosto essere interpretato alla luce dell’esigenza di garantire il pluralismo culturale e religioso, la coscienza morale e religiosa, invitando anche i docenti al rispetto della volontà espressa dal consiglio di classe. Nel 2006 sull’argomento si è pronunciato il T.A.R. Lombardia24 su ricorso proposto dal Prof. Angelo Lazzarini, insegnante presso la scuola elementare di Vallio Terme (BS), per l’annullamento del provvedimento del direttore didattico del 21 novembre 1991 riguardante l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. In base a quanto statuito in tale pronuncia: il provvedimento che dispone la collocazione del crocifisso nelle aule scolastiche non lede la libertà di insegnamento, né viola il principio della laicità dello Stato. Infatti, la visibilità dei simboli religiosi all’interno degli edifici scolastici pubblici trova la sua fonte in consuetudini radicate, rilevanti finché condivise da quanti utilizzano a vario titolo detti edifici. In ogni caso, l’autonomia delle singole istituzioni scolastiche consente alle stesse di trovare all’interno del proprio ambito, attraverso il coinvolgimento democratico di insegnanti, studenti e genitori, negli appositi organismi rappresentativi, la soluzione del problema della presenza o no del crocifisso nelle aule scolastiche. Nel 2009 il Tribunale di Terni25 stabilì, in relazione alle doglianze espresse dal Prof. Franco Coppoli26, che non sussiste alcun atto diPretura di Roma, 17 maggio 1986, in Riv. giur. scuola, 1986, p. 619. T.A.R. Lombardia - Brescia, 22 maggio 2006, n. 603, in: Dir. famiglia 2007, 2, 631 (nota di: MENNILLO, Il Crocifisso nelle scuole elementari pubbliche: libertà di insegnamento, “sovranità” del Consiglio di interclasse e laicità dello Stato). 25 Trib. Terni, ord. 24 giugno 2009. 26 Il Prof. F. C., era insegnante di lettere per la classe di concorso A050 presso l’istituto “F. R.” di Reggio Emilia, in assegnazione provvisoria presso l’Istituto Professionale di Stato per i Servizi”A.C.” di Terni. 23 24

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scriminatorio per motivi religiosi nei confronti di un insegnante da parte di un dirigente scolastico nel caso in cui quest’ultimo, dando esecuzione alla volontà più volte espressa dagli alunni, abbia imposto nella classe il crocifisso. Tale comportamento, lungi dal configurarsi come discriminatorio, deve piuttosto essere interpretato alla luce dell’esigenza di garantire il pluralismo culturale e religioso, la coscienza morale e religiosa, invitando anche i docenti al rispetto della volontà espressa dal consiglio di classe. 5. Il crocifisso nei seggi elettorali Nella dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati a seggi elettorali è prevedibile che siano ricompresi crocifissi o altre immagini religiose. Il che genera situazioni conflittuali seppur limitate temporalmente alle operazioni elettorali. La Cassazione con sentenza del 01 marzo 2000, n. 427327, ha stabilito che costituisce giustificato motivo di rifiuto dell’ufficio di presidente, scrutatore o segretario di seggio elettorale – ove non sia stato l’agente a domandare di essere ad esso designato – la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l’adempimento dell’incarico a causa dell’organizzazione elettorale in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi destinati a seggi elettorali, pur se casualmente non di quello di specifica destinazione, del crocifisso o di altre immagini religiose. Il 22 maggio 2002 si è pronunciato il T.A.R. Lazio28 sul ricorCassazione penale sez. IV, 01 marzo 2000, n. 4273, pubblicata su: Cass. pen. 2001, 1013; Dir. eccl. 2000, II, 217; Dir. eccl. 2001, II, 254 (nota di: RECCHIA); Foro it. 2000, II, 521; Giur. cost. 2000, 1121 (nota di: DI COSIMO, Simboli religiosi nei locali pubblici: le mobili frontiere dell’obiezione di coscienza); Giur. it. 2002, 374; Giust. pen. 2000, II, 626. 28 T.A.R. Lazio, sez. I, 22 maggio 2002, n. 4558, in Dir. eccl. 2002, II, 197. 27

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so proposto dall’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (U.A.A.R.)29 contro il Ministero dell’Interno a seguito della diffida, notificata il 10 dicembre 2001, intesa ad ottenere che il predetto Ministero emanasse le necessarie disposizioni affinché venissero rimossi crocifissi e simboli religiosi dai seggi elettorali prima dell’inizio delle operazioni di voto. Il ricorso venne dichiarato inammissibile, non essendo previsto nelle leggi vigenti e nella Costituzione alcun divieto al riguardo, con ciò lasciando intendere che il Ministero non sarebbe stato tenuto ad adottare particolari disposizioni per la rimozione di tali oggetti. In effetti, secondo i principi stabiliti dalla Costituzione in tema di libertà religiosa, come interpretati dalla Corte costituzionale, non sussiste né un obbligo né un divieto circa l’esposizione di oggetti sacri negli uffici pubblici in genere. Nel 2005 si sono pronunciati nell’ordine i seguenti Tribunali di merito: Bologna, Napoli e L’Aquila. Il primo, il 24 marzo 200530, sull’istanza cautelare ex art. 700 c.p.c. volta alle rimozione del crocifisso dalle aule destinate a seggi elettorali, stabilì che la presenza – peraltro eventuale e non certa – del crocifisso in tali luoghi costituisse unicamente un arredo, del tutto marginale, sia per l’ingombro, sia per la visibilità, e non provocasse, di per sé, l’imposizione di un credo religioso o di alcuna forma di venerazione, né obbligasse a tenere una condotta di adorazione o a dichiarare la posizione dell’elettore in materia religiosa. Ad avviso dei magistrati bolognesi, inoltre, la presenza del crocifisso (la semplice permanenza dello stesso nei seggi durante lo svolgimento delle operazioni di voto, nelle consultazioni elettorali o referendarie) 29 L’UAAR, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, è l’associazione nazionale che rappresenta le ragioni dei cittadini atei e agnostici. Persegue tre scopi: tutelare i diritti civili dei cittadini che non appartengono ad una religione; difendere e affermare la laicità dello Stato; promuovere la valorizzazione sociale e culturale delle concezioni del mondo non religiose. http://www.uaar.it/uaar. 30 Trib. Bologna, sez. I, 24 marzo 2005, in Dir. famiglia 2006, 1, 151.

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non poteva ritenersi idonea ad assumere una connotazione particolare che, in qualche modo, condizionasse, subordinassse o, comunque, influenzasse la formazione dell’opinione politica o l’espressione del voto da parte degli elettori, ovvero valesse ad identificare gli elettori cristiani, ovvero, ancora, ad introdurre una discriminazione tra questi ultimi e tutti gli altri elettori. Non era verosimile, quindi, secondo tale interpretazione, che un non-simbolo, quale è il crocifisso per i non cristiani e per i non credenti potesse per essi avere una qualche influenza negativa, o costituire una remora psicologica riguardo all’espressione del voto od ai convincimenti religiosi e, men che meno, provocare un turbamento dell’animo tale da privare, in tutto o in parte, il votante delle sue capacità morali, critiche e di giudizio. Il Tribunale di Napoli si pronunciò su questa tematica in due circostanze, a brevissima distanza temporale tra loro: il 26 marzo ed il 31 marzo del 2005. Nella prima ordinanza31 ex art. 669-bis e 700 c.p.c. il Tribunale si espresse nei seguenti termini: non è ravvisabile alcuna violazione della libertà religiosa e di pensiero, del principio di uguaglianza, del diritto alla riservatezza nella mera esposizione di un simbolo come il crocifìsso, nel quale notoriamente si identifica ancora oggi sotto il profilo spirituale, la larghissima maggioranza dei cittadini italiani, sicché, in assenza di qualsivoglia divieto normativo, la presenza dello stesso nelle aule scolastiche, anche ove adibite a seggi elettorali, costituisce semplicemente la testimonianza di tale diffuso sentimento, senza alcuna valenza discriminatoria nei confronti delle altre religioni e delle più diverse correnti di pensiero, la cui libera professione è, senza alcun dubbio, consentita e garantita dallo Stato. Nella seconda32 si stabilì che la controversia sulla vigenza delle norme che prevedono, con effetti verso una platea indifferenziata dì 31 32

Trib. Napoli, ord. 26 marzo 2005, in Dir. famiglia 2006, 1, 157. Trib. Napoli, ord. 31 marzo 2005, in Foro it. 2005, I,1575.

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soggetti (gli elettori), la presenza del crocifisso nei seggi elettorali non attenesse ad un rapporto esclusivamente “individuale” di utenza del pubblico servizio (nella specie, l’organizzazione delle consultazioni elettorali e referendarie), ai sensi dell’art. 33, co. 2, lett. e), d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, e fosse pertanto attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Anche per il Tribunale di L’Aquila, due pronunce si sono succedute in breve tempo: il 1 aprile ed il 9 giugno 2005. Il primo aprile 200533 tale Organo statuì “il principio di libertà religiosa, collegato al principio di uguaglianza, importa che a nessuno può essere imposta per legge una prestazione od un comportamento di contenuto religioso, ovvero contrastante con i suoi convincimenti in materia di trascendenza e di culto, nonché di libertà di pensiero”. Tuttavia, si evidenziava come il crocifisso non potesse essere considerato un simbolo esclusivamente religioso: in una società come quella italiana, definita correttamente di “antica cristianità” e per la quale – si afferma nella sentenza – “è innegabile che i principi del cristianesimo facciano parte del suo patrimonio storico”, non poteva escludersi il carattere anche culturale del crocifisso in quanto espressione, appunto, del patrimonio storico di un popolo, alla cui identità culturale il simbolo dovesse anche riferirsi. Tala carattere culturale (c.d. laicizzazione del simbolo) spiegherebbe e giustificherebbe la sua esposizione in uffici pubblici anche dopo l’abrogazione del principio confessionale: considerando la sua natura c.d. laica, pertanto, con la pronuncia in questione, veniva escluso il contrasto tra la sua mera presenza ed il principio di laicità dello Stato. Con la seconda sentenza34 i giudici del Tribunale de L’Aquila si espressero in maniera non dissimile dal contenuto della sentenza del 26 marzo del Tribunale di Napoli. Si affermò, infatti, che la cir33 34

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Trib. L’Aquila, 1 aprile 2005, in Dir. famiglia 2006, 1, 164. Trib. L’Aquila, 9 giugno 2005, in: Dir. famiglia 2006, 1, 183.

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costanza che in taluni locali scolastici da adibire a seggi elettorali fosse presente il crocifisso (simbolo di una ben precisa, ed ancora oggi condivisa, convinzione e scelta “culturale” e “storica” della nostra gente), non poteva essere certo considerata come strumento od espressione di una vincolante o, comunque, impegnativa e condizionante scelta turbatrice della libertà religiosa o di pensiero, del principio-cardine dell’uguaglianza tra i cittadini, o del diritto alla riservatezza: la presenza, peraltro sporadica e solo casuale, nei seggi elettorali di un simbolo “passivo” come il crocifisso – ad avviso dei magistrati de L’Aquila – non imponeva alcuna condivisione religiosa, non vincolava ad atti e comportamenti anche solo di carattere gestuale, che fossero, anche solo indirettamente, espressione di una sintonia o di una convinzione di implicita aderenza ad una fede o culto diversi da quelli propri del cittadino votante; il crocifisso, invero, era e rimaneva una presenza assolutamente anonima e totalmente irrilevante per chi non vi si riconoscesse, presenza che, in quanto tale, non sarebbe valsa a sollecitare o a condizionare scelte e comportamenti personali di chi era chiamato al voto. 6. Il crocifisso nelle aule di udienza: Adel Smith e Luigi Tosti La diatribe relative alla presenza del crocifisso non sono mancate neppure con riguardo alle pareti delle stesse aule dei tribunali. Una prima pronuncia, rilevante in questa direzione riguarda ancora una volta Adel Smith, sul quale abbiamo già avuto modo di dilungarci. La Cassazione35, in questo caso, era stata chiamata a pronunciarsi sull’istanza di rimessione dallo stesso formulata durante il processo a suo carico per il reato di vilipendio della religione 35

Cass. pen., sez. III, 28 settembre 2005, n. 41571, in Foro it. 2006, 3, 163.

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cattolica36, fondata sulla presenza del crocifisso nell’aula di udienza. La Suprema Corte dichiarò l’inammissibilità della stessa “per mancanza dell’imprescindibile carattere locale della situazione idonea a turbare l’imparzialità e la serenità del giudizio […] avendo tale situazione dimensione nazionale ed essendo evidente l’inidoneità della translatio iudiciii ad evitare o rimuovere la situazione denunciata come pregiudiziale”. Nel 2004, il Dott. Luigi Tosti, giudice monocratico assegnato al Tribunale di Camerino, rifiutandosi di tenere udienza poiché non si riconosceva nel crocifisso esposto nelle aule del medesimo come di tutti i Tribunali, chiese al Ministero della Giustizia di provvedere alla rimozione di tale simbolo. Avendo ricevuto, in risposta, un rifiuto e lamentando la lesione di un suo diritto soggettivo, propose ricorso al T.A.R. Marche per la condanna dell’Amministrazione della giustizia e del Presidente del Tribunale di Camerino alla rimozione immediata del crocifisso dalle aule di tale Tribunale, nonché da quelle di tutti gli uffici giudiziari italiani o, in via gradata, all’esposizione in tutte le aule giudiziarie italiane di tutti gli altri simboli religiosi, atei ed agnostici (compresa la menorah ebraica). La domanda venne dichiarata inammissibile il 22 marzo 200637 per difetto di giurisdizione del g.a., considerato che la natura sostanziale della pretesa del ricorrente era qualificabile alla stregua di La vicenda ebbe origine nel novembre del 2002, quando Smith era stato rinviato a giudizio per il reato di cui all’art. 403 co.1 e 2 c.p. per avere, durante un dibattito in una trasmissione televisiva sull’emittente privata “Tele Nuovo”, offeso la religione dello Stato mediante vilipendio di chi la professa, definendo la Chiesa Cattolica “una grande associazione a delinquere” e mediante vilipendio del Cardinale Biffi (Vescovo della Curia di Bologna) definito “miserabile” e del Sommo Pontefice indicato come “capo di questa istituzione che io definisco associazione a delinquere”. Nel 2001, Smith era già stato denunciato per il reato di vilipendio della religione cattolica (ex art. 406 c.p.), a seguito delle dichiarazioni rese il 5 novembre 2001 nel programma televisivo “Porta a Porta”. Smith, più precisamente, era stato querelato da una signora che non aveva gradito le seguenti dichiarazioni rese dallo stesso mentre parlava del crocifisso: “Rappresenta il cadavere di un uomo nudo affisso su un pezzo di legno, perché questa era la condanna che i romani infliggevano ai peggiori criminali”. 37 T.A.R. Marche, sez. I, 22 marzo 2006, n. 94, in: Foro amm. TAR 2006, 3, 959. 36

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un diritto soggettivo assoluto riconosciuto dalla Costituzione (diritto alla libertà religiosa e diritto all’uguaglianza) e che la controversia non era riconducibile alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come “ridefinita” dalla sentenza della Corte costituzionale del 6 luglio 2004, n. 204, essendo evidente che in materia non sussisteva alcuna “situazione d’inestricabile compenetrazione di interessi legittimi e di diritti soggettivi”, né la p.a. poteva agire in veste di autorità, esercitando poteri discrezionali, essendo al contrario unicamente tenuta a rispettare e garantire la libertà degli interessati. Lo stesso magistrato, pertanto, il 5 dicembre 2005, propose ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Ad avviso del ricorrente, lo stesso sarebbe sorto a seguito della circolare del Ministero di Grazia e Giustizia - Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/186738, relativa alla “Collocazione del Crocifisso nelle aule di udienza” ed al consequenziale diniego dell’attuale Ministro della giustizia alla rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie. La pronuncia della Corte costituzionale39 del 24 marzo seguente lo dichiarò inammissibile. Nella specie, la Corte sottolineò che il ricorrente, precedentemente al momento della proposizione del ricorso, aveva deciso di astenersi, e di fatto si era astenuto, dall’esercizio delle funzioni giurisdizionali, per cui non poteva ritenersi investito di alcun processo e che nel ricorso non veniva prospettata alcuna menomazione delle attribuzioni costituzionalmente attribuite agli appartenenti all’ordine giudiziario, ma solamente la situazione di disagio del magistrato per lo stato dell’ambiente in cui era chiamato a svolgere la propria attività. Sempre nel 2005, il Tribunale de L’Aquila40 condannò il Dott. Luigi Tosti per il reato di omissione di atti d’ufficio (art. 328, co. 2, Circolare del Ministro Rocco, Ministro Grazia e Giustizia, Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/1867, (Collocazione del crocefisso nelle aule di udienza). 39 C. Cost., ord. 24 marzo 2006, n. 127, in Foro It., 2006, 5, 1, 1265. 40 Trib. L’Aquila, 18 novembre 2005, in Foro it. 2006, 3, 192. 38

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c.p.). Più precisamente statuì: “integra gli estremi del reato di rifiuto di atti d’ufficio, di cui all’art. 328, co. 2, c.p., il comportamento del magistrato, giudice di tribunale, il quale rifiuti indebitamente di tenere senza ritardo le udienze per i procedimenti ad esso assegnati, indicando, come motivo della decisione di astenersi, la presenza del crocifisso nei locali destinati alla trattazione delle cause”. Contemporaneamente, il 26 febbraio 2006 lo stesso magistrato inviò un esposto al Ministro di Giustizia, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ed al Consiglio Superiore della Magistratura, sul quale quest’ultimo si è pronunciato il 23 novembre 200641. Ad avviso di tale organo di controllo: la richiesta avanzata non appariva manifestamente infondata, in quanto l’esposizione del crocifisso, in funzione di solenne “ammonimento di verità e di giustizia”, costituiva “utilizzazione di un simbolo religioso come mezzo per il perseguimento di finalità dello Stato”, in contrasto con il principio supremo di laicità dello Stato, e poteva, inoltre, provocare nei non credenti “turbamenti, casi di coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle proprie convinzioni”, in contrasto con la libertà di coscienza e di religione. Il mancato accoglimento della pretesa di rimozione, seppur non manifestamente infondata, non poteva, tuttavia, giustificare una ripetuta e prolungata assenza dal servizio, che danneggiava gravemente sia gli utenti che l’erario su cui continuava a gravare l’onere di corrispondere la retribuzione dovuta. La sezione disciplinare, ritenne quindi, di sospendere in via provvisoria il magistrato dalle funzioni e dallo stipendio, in considerazione che i fatti in questione avevano inciso in modo profondo e radicale sulla credibilità del magistrato incolpato, che non avrebbe potuto svolgere con adeguato prestigio le sue funzioni in nessun altro ufficio.

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Cons. Sup. Magistratura, 23 novembre 2006, in Foro it. 2007, 11, 589.

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7. Conclusioni Al termine di questo breve excursus possiamo affermare con certezza che il crocifisso non può più essere considerato solo come simbolo religioso e tantomeno come un mero simbolo storico e culturale. Effettivamente, sarebbe riduttiva e semplicistica tanto la prima quanto la seconda qualificazione se avvalorate acriticamente, senza prima approfondire la particolare incidenza dello stesso sul concetto di laicità, giuridicamente e costituzionalmente garantito, che si intende preservare e difendere a spada tratta. Nell’attuale realtà sociale il crocifisso va considerato, oltre che come simbolo di un’evoluzione storica e culturale e, quindi, dell’identità stessa del Popolo italiano, anche quale segno di un sistema di valori che innervano la nostra Carta costituzionale. Esposto al di fuori dei luoghi di culto, lo stesso, infatti, non assume significato discriminatorio sotto il profilo religioso, ma rappresenta e richiama, in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo), l’origine religiosa di valori civilmente rilevanti, e segnatamente di quei valori che ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile, quali i valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana42. Il segno della croce va, perciò, considerato anche come simbolo religioso del Cristianesimo, non certo nella totalità dei significati con tutte le sue implicazioni e sovrastrutture, ma nella misura in cui i suoi valori fondanti di accettazione e rispetto del prossimo – che del Cristianesimo costituiscono le fondamenta e l’architrave – sono stati trasfusi nei principi costituzionali di libertà dello Stato, sancendo 42

In tal senso: Cons. Stato, sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 556, cit.

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così visivamente ed in un’ottica educativa la condivisione di alcuni principi fondamentali della Repubblica italiana con il patrimonio cristiano. Alla luce di tale interpretazione, il crocifisso può essere legittimamente collocato nelle aule delle scuole pubbliche e dei tribunali, in quanto non solo non contrasta ma, addirittura, afferma e conferma il principio della laicità dello Stato, il quale, peraltro, è connotato da una relativa indeterminatezza di contenuto, che ha trovato differenti realizzazioni nelle diverse nazioni. Non è ravvisabile, pertanto, alcuna violazione della libertà religiosa e di pensiero o del principio di uguaglianza, ovvero del diritto alla riservatezza, nella mera esposizione di siffatto simbolo, nel quale notoriamente si identifica ancora oggi sotto il profilo spirituale, la larghissima maggioranza dei cittadini italiani, sicché la presenza dello stesso costituisce semplicemente la testimonianza di tale diffuso sentimento, senza alcuna valenza discriminatoria nei confronti delle altre religioni e delle più diverse correnti di pensiero, la cui libera professione è, senza alcun dubbio, consentita e garantita dallo Stato. Sarebbe, al contrario, paradossale e contraddittorio escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in nome di una laicità che ha certamente una delle sue fonti non secondarie proprio nella religione cristiana43.

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In tal senso: T.A.R. Veneto, sez. III, 22 marzo 2005, n. 1110, cit.

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CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FORENSE

CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FORENSE Roma, 29 Dicembre 2009

Ai Signori Presidenti dei Consigli degli Ordini Forensi Al Presidente del Consiglio Nazionale Forense

Al Presidente dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura Alle Associazioni Forensi

e p.c. Ai Signori Componenti il Comitato dei Delegati Loro Sedi

Illustre Presidente, ho il piacere di comunicarTi che, con nota del Ministero del Lavoro in data 18/12/2009 (pervenuta ufficialmente all’Ente il 28/12/2009) e successivo comunicato, la cui pubblicazione in Gazzetta Ufficiale è programmata per il giorno 31/12/2009, si è definitivamente concluso l’iter di approvazione della Riforma Previdenziale Forense deliberata dal Comitato dei Delegati di questa Cassa fin dal settembre 2008. L’importante provvedimento, pur con alcune modifiche imposte dai Ministeri Vigilanti, garantisce la sostenibilità dell’Ente anche oltre i 30 anni richiesti dall’art. 1, comma 763 della legge finanziaria 2007, consentendo, così, di programmare un sereno futuro previdenziale alle giovani generazioni di avvocati. Il nuovo Regolamento delle prestazioni previdenziali e il nuovo Regolamento dei Contributi inizieranno a spiegare i loro effetti a partire dal 1° gennaio 2010, con apposite previsioni transitorie per alcuni istituti. Quaderni

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Oltre ad allegarTi il testo dei nuovi Regolamenti, peraltro già presenti sul sito Internet della Cassa (www.cassaforense.it), Ti prego di far dare urgente diffusione tra tutti gli iscritti all’Albo del Tuo Foro, nonché fra i praticanti già iscritti alla Cassa, della notizia, che, a partire dal 1° gennaio 2010, tutte le fatture professionali emesse dovranno essere gravate del contributo integrativo in misura del 4% (anziché del 2%, aliquota vigente fino al 31/12/2009). A tal fine allego una bozza di avviso da affiggere presso i locali dell’Ordine e/o da inviare a mezzo posta elettronica. La Cassa Forense provvederà, naturalmente, nei prossimi giorni, a mettere a punto tutte le necessarie attività informative per divulgare le nuove disposizioni (pubblicazioni, corsi di aggiornamento, sito internet, ecc.). Con i più cordiali saluti e auguri per il nuovo anno. Avv. MARCO UBERINI

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Regolamento per le prestazioni previdenziali Art. 1 Prestazioni 1. La Cassa corrisponde le seguenti prestazioni previdenziali: a) Pensione di vecchiaia; b) Pensione di anzianità; c) Pensione di invalidità; d) Pensione di inabilità; e) Pensione di reversibilità; f) Pensione indiretta; g) Pensione di vecchiaia contributiva. 2. Tutte le pensioni sono corrisposte su domanda degli aventi diritto. 3. I trattamenti pensionistici decorrono dal primo giorno del mese successivo a quello in cui è avvenuta la presentazione della domanda per le pensioni indicate nelle lettere c) d) g) e dal primo del mese successivo all’evento da cui nasce il diritto per le pensioni indicate alle lettere a) e) f). 4. L’erogazione delle pensioni di anzianità, di cui al punto b), avverrà dai termini previsti dai commi 6 ed 8 dell’art. 59 della Legge 449/97. 5. Ai fini del diritto a pensione, si calcolano, per intero, l’anno solare in cui ha avuto decorrenza l’iscrizione e l’anno in cui si maturano i requisiti per l’ammissione al trattamento. 6. I trattamenti conseguiti a seguito di totalizzazione sono disciplinati dall’apposita normativa speciale. 7. Gli anni oggetto di riscatto e ricongiunzione, regolarmente Quaderni

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adempiuti, sono equiparati ad ogni effetto agli anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa. Art. 2 Pensione di vecchiaia 1. La pensione di vecchiaia è corrisposta a coloro che abbiano maturato i seguenti requisiti: - fino al 31 dicembre 2010, 65 anni di età e almeno 30 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; - dal 1° gennaio 2011, 66 anni di età e almeno 31 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; - dal 1° gennaio 2014, 67 anni di età e almeno 32 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; - dal 1° gennaio 2017, 68 anni di età e almeno 33 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; - dal 1° gennaio 2019, 69 anni di età e almeno 34 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; - dal 1° gennaio 2021, 70 anni di età e almeno 35 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa. 2. È facoltà dell’iscritto anticipare, rispetto a quanto previsto dal comma precedente, il conseguimento del trattamento pensionistico a partire dal compimento del 65° anno di età, fermo restando i requisiti della anzianità di iscrizione e contribuzione di cui al comma precedente. In tal caso il trattamento decorre dal primo giorno del mese successivo alla trasmissione dell’istanza, ovvero dal mese successivo al raggiungimento dei requisiti minimi previsti, ove non già maturati al momento dell’invio della domanda. Art. 3 Misura della pensione La pensione di vecchiaia è costituita dalla somma di due distinte

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quote confluenti in un trattamento unitario. Una prima quota, detta di base, calcolata secondo il criterio retributivo previsto dal successivo art. 4 ed una seconda quota detta modulare, calcolata secondo il criterio contributivo previsto dal successivo art. 6. Art. 4 Determinazione della quota di base 1. Per coloro che maturano i requisiti dal 1° gennaio dell’anno successivo all’approvazione del presente Regolamento, salvo quanto previsto per il periodo transitorio di cui all’art. 14, la quota di base della pensione di vecchiaia è calcolata sulla media dei redditi professionali, rivalutati come previsto al successivo comma 6, dichiarati dall’iscritto ai fini Irpef, per tutti gli anni di iscrizione maturati fino all’anno antecedente a quello della decorrenza del trattamento pensionistico, esclusi i peggiori cinque di essi. 2. La media dei redditi deve comprendere almeno 30 anni. Non è prevista l’esclusione dei peggiori cinque redditi professionali, qualora gli anni di iscrizione maturati siano inferiori a: - 25 anni fino al 31 dicembre 2010; - 26 anni fino al 31 dicembre 2013; - 27 anni fino al 31 dicembre 2016; - 28 anni fino al 31 dicembre 2018; - 29 anni fino al 31 dicembre 2020; - 30 anni dal 1° gennaio 2021. 3. Ai fini della determinazione del trattamento si considerano soltanto gli anni di contribuzione e di effettiva iscrizione come previsto dagli articoli 2 e 3 della legge n. 319/75. Per il calcolo della media, si considera soltanto la parte di reddito professionale compresa entro il tetto reddituale di cui all’art. 2 comma 1, lettera a) del Regolamento dei contributi. 4. È fatto salvo quanto stabilito con separato Regolamento in ordine al recupero di anni resi inefficaci per intervenuta prescrizione a seguito di versamenti parziali. Quaderni

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5. L’importo medio, così determinato, viene moltiplicato, per ciascun anno di effettiva iscrizione e contribuzione, per un coefficiente dell’1,50% sulla somma compresa tra 0 e i 3/4 del tetto reddituale e dell’1,20% sulla restante parte. 6. I redditi annuali dichiarati, escluso l’ultimo, sono rivalutati in base alla variazione dell’indice annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati e operai rilevata dall’ISTAT. A tal fine il Consiglio di Amministrazione redige ed aggiorna, entro il 31 maggio di ciascun anno, sulla base dei dati pubblicati dall’ISTAT, apposita tabella dei coefficienti di rivalutazione relativi ad ogni anno. La delibera viene comunicata ai Ministeri vigilanti per la relativa approvazione che si intende data se non viene negata entro i due mesi successivi alla comunicazione. Gli aumenti hanno decorrenza dal 1° gennaio successivo alla data della delibera del Consiglio di Amministrazione. 7. In caso di anticipazione della pensione ai sensi del comma 2 dell’art. 2, l’importo della quota di base, calcolata secondo i criteri previsti dal precedente comma 5, verrà ridotto nella misura dello 0,41% per ogni mese di anticipazione rispetto al requisito anagrafico previsto all’art. 2, comma 1. La riduzione di cui innanzi non si applica ove l’iscritto al raggiungimento del 65° anno di età, ovvero al momento successivo della trasmissione della domanda di pensione, abbia raggiunto il requisito della effettiva iscrizione e contribuzione per almeno 40 anni. Art. 5 Integrazione al trattamento minimo 1. Su domanda dell’avente diritto, qualora applicando i criteri di calcolo di cui agli artt. 4, 6 e 14 del presente regolamento la pensione annua sia inferiore ad € 10.160,00, preso come base l’anno 2008, è corrisposta un’integrazione sino al raggiungimento del suddetto importo.

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2. Tale importo è rivalutato annualmente con i criteri di cui all’art. 13 del presente regolamento. È escluso ogni collegamento automatico di tale importo minimo con il contributo soggettivo minimo. 3. L’integrazione al trattamento minimo compete solo nell’ipotesi in cui il reddito complessivo dell’iscritto e del coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, comprensivo dei redditi da pensione nonché di quelli soggetti a tassazione separata o a ritenuta alla fonte, non sia superiore al triplo del trattamento minimo. Essa compete solo sino al raggiungimento del reddito complessivo massimo pari a tre volte il trattamento minimo di cui sopra, salvo quanto previsto al comma 4 del presente articolo. 4. Ai fini del computo del reddito massimo di cui sopra non si considerano il reddito della casa di abitazione del titolare della pensione, anche se imputabile al coniuge, il trattamento di fine rapporto e le erogazioni ad esso equiparate. Per i fini di cui alla presente normativa si considera la media dei redditi effettivamente percepiti nei tre anni precedenti quello per il quale si chiede l’integrazione al trattamento minimo della pensione. 5. All’atto della presentazione della domanda di integrazione al trattamento minimo il richiedente dovrà sottoscrivere autocertificazione relativa ai requisiti reddituali di cui ai precedenti commi, impegnandosi a comunicare le variazioni che comportino la perdita del diritto all’integrazione. In ogni caso ogni tre anni il pensionato dovrà ripetere la domanda di integrazione con le modalità di cui sopra. 6. La quota modulare e gli eventuali supplementi di pensione assorbono, sino a concorrenza, l’integrazione al trattamento minimo della pensione. 7. Qualora risulti che il pensionato abbia ricevuto l’integrazione al minimo a seguito di dichiarazioni non rispondenti al vero, egli è tenuto, oltrechè alla restituzione delle somme indebitamente percepite, maggiorate degli interessi, al pagamento di una sanzione, come prevista dal comma successivo. Quaderni

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8. La sanzione di cui al comma precedente è pari al 30% delle somme lorde indebitamente percepite, ferme le eventuali sanzioni previste dalle leggi penali. Art. 6 Determinazione della quota modulare 1. La quota modulare della pensione di vecchiaia è determinata secondo il metodo di calcolo contributivo definito dalla legge 335/95 e dal presente articolo. Il montante contributivo individuale al 31 dicembre di ciascun anno è costituito dalla somma dei contributi obbligatori e facoltativi versati dall’iscritto ai sensi degli artt. 3 e 4 del Regolamento dei contributi. Il montante contributivo individuale è rivalutato su base composta al 31 dicembre di ogni anno ad un tasso annuo di capitalizzazione pari al 90% della variazione media quinquennale del tasso di rendimento netto del patrimonio investito dalla Cassa in tale periodo, con un valore minimo dell’1,5%. Tale valore minimo è garantito da un fondo di riserva di rischio alimentato dal rimanente 10% del rendimento non attribuito all’iscritto. 2. All’atto del pensionamento il montante viene trasformato in rendita secondo i seguenti criteri: − per i primi 5 anni di applicazione del presente regolamento, utilizzando i coefficienti per età, come previsti dalla legge 335/95 e successive modifiche ed in uso presso gli Enti di cui al D.lgs. 103/96; − successivamente con coefficienti per età costruiti tenendo conto delle particolari caratteristiche demografiche della categoria e dei conseguenti effetti attuariali, come risultanti dalla redazione dei bilanci tecnici. 3. In caso di anticipazione della pensione di cui al comma 2 dell’art. 2, la quota modulare non sarà soggetta ad alcuna riduzione. 4. I contributi versati per gli anni dichiarati inefficaci ai sensi degli artt. 2 e 3 della legge 319/75 non concorrono a formare il montante contributivo.

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5. Il mancato pagamento della quota modulare volontaria non comporta l’inefficacia dell’anno ai fini pensionistici. Art. 7 Pensione di anzianità 1. La pensione di anzianità, calcolata con i criteri previsti dagli artt. 4, 5 e 6, è corrisposta, a domanda dell’interessato, a colui che abbia maturato i seguenti requisiti: − fino al 31 dicembre 2011, 58 anni di età e almeno 35 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; − dal 1° gennaio 2012, 58 anni di età e almeno 36 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; − dal 1° gennaio 2014, 59 anni di età e almeno 37 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; − dal 1° gennaio 2016, 60 anni di età e almeno 38 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; − dal 1° gennaio 2018, 61 anni di età e almeno 39 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa; − dal 1° gennaio 2020, 62 anni di età e almeno 40 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa. 2. La corresponsione della pensione è in ogni caso subordinata alla cancellazione dall’albo degli avvocati e dall’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori. Essa è incompatibile con la reiscrizione ad uno degli albi suddetti. Verificatasi l’incompatibilità, la pensione di anzianità è sospesa sino all’eliminazione della relativa causa, con diritto della Cassa a ripetere i ratei di pensione corrisposti dall’insorgere della incompatibilità stessa. Art. 8 Pensione di vecchiaia contributiva 1. Coloro che abbiano raggiunto il requisito anagrafico della

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pensione di vecchiaia e non abbiano maturato l’anzianità prevista dall’art. 2 del presente regolamento, ma con più di cinque anni di effettiva iscrizione e contribuzione e che non si siano avvalsi dell’istituto della ricongiunzione verso altro Ente previdenziale ovvero della totalizzazione, hanno diritto a chiedere la liquidazione di una pensione di vecchiaia contributiva, salvo che intendano proseguire nei versamenti dei contributi al fine di raggiungere una maggiore anzianità o maturare prestazioni di tipo retributivo. 2. Il calcolo della quota di base della pensione, è effettuato secondo i criteri previsti dalla legge 335/95 e successive modifiche, in rapporto al montante contributivo formato dai contributi soggettivi versati entro il tetto reddituale di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) del Regolamento dei contributi, nonché dalle somme corrisposte a titolo di riscatto e/o di ricongiunzione. La pensione di vecchiaia contributiva non prevede la corresponsione dell’integrazione al minimo di cui all’art. 5. 3. Per il calcolo della quota modulare si applicano le disposizioni dell’art. 6. 4. I contributi versati per gli anni dichiarati inefficaci ai sensi degli artt. 2 e 3 della legge 319/75 non concorrono a formare il montante contributivo. 5. La pensione di vecchiaia contributiva è reversibile in favore dei soggetti e nelle misure di cui al successivo art. 12, con esclusione di un minimo garantito. 6. Ai superstiti dell’iscritto, indicati all’art. 12, che non abbiano diritto alla pensione indiretta, in presenza di un’anzianità di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa del dante causa di almeno cinque anni, viene liquidata, a domanda, una somma pari ai contributi soggettivi di cui agli artt. 2, 3 e 4 del Regolamento dei contributi, maggiorati degli interessi legali calcolati dal 1° gennaio successivo al versamento. 7. Colui che matura la pensione ai sensi del presente articolo e

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prosegue nell’esercizio della professione, è tenuto al versamento dei soli contributi previsti dagli artt. 2, comma 4 e 6 comma 8 del Regolamento dei contributi, senza diritto alla corresponsione di supplementi di pensione. Art. 9 Pensione di inabilità 1. La pensione di inabilità spetta qualora concorrano le seguenti condizioni: a) la capacità dell’iscritto all’esercizio della professione sia esclusa, a causa di malattia od infortunio sopravvenuti all’iscrizione, in modo permanente e totale; b) l’iscritto abbia maturato almeno cinque anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa e l’iscrizione sia in atto, continuativamente da data anteriore al compimento del quarantesimo anno di età dell’iscritto medesimo. 2. Per il calcolo della quota di base della pensione si applicano le disposizioni dell’art. 4 e 5, 1° comma. 3. Gli anni ai quali va commisurata la pensione sono aumentati di dieci, sino a raggiungere il massimo di: - 35 fino al 31 dicembre 2010; - 36 fino al 31 dicembre 2013; - 37 fino al 31 dicembre 2016; - 38 fino al 31 dicembre 2018; - 39 fino al 31 dicembre 2020; - 40 dal 1° gennaio 2021. Ove la liquidazione avvenga per quote, come previsto dall’art. 14, gli anni aggiunti vengono calcolati nell’ultima quota. 4. Per il calcolo della quota modulare si applicano le disposizioni dell’art. 6. 5. La concessione della pensione è subordinata alla cancellazione dagli albi professionali ed è sospesa in caso di nuova iscrizione, fatto Quaderni

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salvo il diritto della Cassa a ripetere i ratei di pensione corrisposti dalla data della reiscrizione. 6. Entro i 10 anni successivi alla concessione della pensione, la Cassa può, in qualsiasi momento, assoggettare a revisione la permanenza della condizione di inabilità. 7. L’erogazione della pensione è sospesa nei confronti del pensionato che non si presti alla revisione. Art. 10 Pensione di invalidità 1. La pensione di invalidità spetta all’iscritto la cui capacità all’esercizio della professione sia ridotta in modo continuativo, a meno di un terzo, per infermità o difetto fisico o mentale, sopravvenuti dopo l’iscrizione. Debbono altresì concorrere le condizioni di cui all’art. 9, primo comma, lettera b). 2. Sussiste il diritto a pensione anche quando l’infermità o i difetti fisici o mentali invalidanti preesistono al rapporto assicurativo, purché vi sia stato un successivo aggravamento o siano sopraggiunte nuove infermità che abbiano provocato la riduzione a meno di un terzo della capacità lavorativa. 3. La misura della quota di base della pensione è pari al 70% di quella risultante dall’applicazione dell’art. 4 e non può essere inferiore al 70% della pensione prevista dall’art. 5, 1° comma per l’anno della decorrenza. La quota modulare verrà liquidata, a norma dell’art. 6, al compimento dell’età anagrafica prevista dall’art. 2 o al momento della cancellazione del pensionato da tutti gli albi, se antecedente. 4. La Cassa accerta ogni tre anni, limitatamente alle pensioni che all’atto della concessione siano state dichiarate revisionabili, la persistenza dell’invalidità e, tenuto conto anche dell’ esercizio professionale eventualmente svolto dal pensionato, conferma o revoca la concessione della pensione. La concessione è definitiva quando l’in-

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validità, dopo la concessione, è stata confermata altre due volte. 5. L’erogazione della pensione è sospesa nei confronti del pensionato che non si presti alla revisione. 6. Il pensionato di invalidità che abbia proseguito l’esercizio della professione ed abbia maturato il diritto ad una delle pensioni di vecchiaia o di anzianità, può chiedere, con decorrenza dal mese successivo alla presentazione della relativa istanza, la corresponsione del trattamento in sostituzione della pensione di invalidità. Art. 11 Norme comuni alle pensioni di inabilità e invalidità 1. La inabilità e l’invalidità sono accertate secondo quanto prescrive l’apposito Regolamento. 2. In caso di infortunio, le pensioni di inabilità ed invalidità non sono concesse e, se concesse, sono revocate, qualora il danno sia stato risarcito ed il risarcimento ecceda la somma corrispondente alla capitalizzazione della pensione annua dovuta; sono invece proporzionalmente ridotte in caso che il risarcimento sia inferiore. A tali effetti non si tiene conto del risarcimento derivante da assicurazione per infortuni stipulata dall’iscritto. 3. In caso di inabilità o invalidità dovuta ad infortunio la Cassa è surrogata nel diritto al risarcimento ai sensi e nei limiti dell’articolo 1916 del codice civile, in concorso con l’assicuratore di cui al comma precedente, ove questi abbia diritto alla surroga. Art. 12 Pensioni di reversibilità e indirette 1. Alle condizioni stabilite per gli impiegati dello Stato le pensioni sono reversibili a favore del coniuge superstite, dei figli minorenni o maggiorenni inabili a proficuo lavoro o a figli maggiorenni che se-

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guono corsi di studi, sino al compimento della durata minima legale del corso di studi seguito e comunque, nel caso di studi universitari, non oltre il compimento del ventiseiesimo anno di età, nelle seguenti percentuali: a) del 60 per cento al solo coniuge; dell’80 per cento al coniuge con un solo figlio; del 100 per cento al coniuge con due o più figli; b) in mancanza del coniuge o alla sua morte, del 60 per cento ad un solo figlio; dell’80 per cento a due figli; del 100 per cento a tre o più figli. 2. Ai fini del calcolo di cui al comma precedente la pensione di invalidità si considera aumentata di tre settimi relativamente alla quota base determinata ai sensi dell’art. 4. 3. La pensione indiretta spetta, nei casi ed alle condizioni di cui al comma 1, al coniuge superstite ed ai figli dell’iscritto defunto senza diritto a pensione, sempre che quest’ultimo abbia maturato almeno dieci anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa. Essa spetta nelle percentuali di cui al comma 1 lettere a) e b) su un importo calcolato come per la pensione di vecchiaia. Gli anni ai quali va commisurata la pensione sono aumentati di dieci, sino a raggiungere il massimo complessivo di: - 35 fino al 31 dicembre 2010 - 36 fino al 31 dicembre 2013 - 37 fino al 31 dicembre 2016 - 38 fino al 31 dicembre 2018 - 39 fino al 31 dicembre 2020 - 40 dal 1° gennaio 2021. Ove la liquidazione avvenga per quote, come previsto dall’art. 14, gli anni aggiunti vengono calcolati nell’ultima quota. Per il calcolo della quota modulare si applicano le disposizioni dell’art. 6. 4. La pensione indiretta spetta solo ai superstiti di chi sia stato iscritto alla Cassa con carattere di continuità a partire da data anteriore al compimento del quarantesimo anno di età, anche se l’iscri-

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zione era cessata al momento del decesso, purché la cessazione non sia avvenuta prima di tre anni anteriori al decesso. 5. L’ammontare complessivo della quota di base del trattamento non può essere inferiore al trattamento integrato al minimo pensionistico di cui all’art. 5, 1° comma del presente Regolamento, previsto per l’anno di decorrenza. Art. 13 Aumento dei trattamenti 1. Gli importi delle pensioni erogate dalla Cassa sono aumentati annualmente, a partire dal secondo anno successivo a quello di decorrenza, con delibera del Consiglio di Amministrazione, in proporzione alla variazione dell’indice annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, con riferimento all’anno di decorrenza della pensione e calcolato dall’Istituto Nazionale di Statistica. 2. La delibera viene comunicata ai Ministeri vigilanti e, trascorsi due mesi dal ricevimento della comunicazione, senza che sia pervenuto formale diniego, si intende approvata. 3. Gli aumenti hanno decorrenza dal 1° gennaio successivo alla data della delibera. 4. Le pensioni sono pagate in tredici mensilità di eguale importo. La tredicesima mensilità è pagata nel mese di dicembre. Art. 14 Disposizioni transitorie relative alla misura della pensione 1. Tenendo conto dei criteri di gradualità e di equità tra generazioni, per coloro che alla data del 31 dicembre 2007 abbiano compiuto almeno 40 anni di età e maturato almeno cinque anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa, avendo presente il principio del pro rata, di cui al comma 763 della legge 296/2006, l’importo della pensione di base sarà costituito dalla somma di più quote. 2. La prima e la eventuale seconda quota, corrispondenti all’anQuaderni

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zianità maturata alla data del 31 dicembre 2007, calcolate secondo i criteri fissati dalla delibera del Comitato dei Delegati del 19 gennaio 2001, approvata con provvedimento ministeriale del 27 novembre 2001; l’ulteriore quota, corrispondente all’anzianità maturata successivamente al 31 dicembre 2007, calcolata secondo le modalità previste dall’art. 4 del presente Regolamento. 3. La quota modulare, determinata secondo i criteri di cui all’art. 6, viene sommata alla quota di base per confluire in un trattamento unitario della prestazione pensionistica. Art. 15 Disposizioni transitorie relative ai supplementi di pensione di cui all’art. 2 - comma 1 1. Alle pensioni con decorrenza successiva al 1° gennaio 2021 non sono liquidati supplementi. La normativa previgente, relativa ai supplementi, si applica solo per i trattamenti già maturati alla data del 31 dicembre 2010. Per le pensioni di vecchiaia maturate nel periodo transitorio, ai sensi dell’art. 2, comma 1, i supplementi verranno liquidati secondo le seguenti modalità: - per le pensioni decorrenti dal 1° febbraio 2011 al 1° gennaio 2014 un unico supplemento dopo quattro anni dal pensionamento; - per le pensioni decorrenti dal 1° febbraio 2014 al 1° gennaio 2017 un unico supplemento dopo tre anni dal pensionamento; - per le pensioni decorrenti dal 1° febbraio 2017 al 1° gennaio 2019 un unico supplemento dopo due anni dal pensionamento; - per le pensioni decorrenti dal 1° febbraio 2019 al 1° gennaio 2021 un unico supplemento dopo un anno dal pensionamento. Il supplemento è comunque dovuto dal mese successivo alla cancellazione dagli Albi, anche per causa di morte, quando tale cancellazione sia antecedente alla maturazione del diritto. 2. La modalità di calcolo del supplemento è disciplinata dai commi 4 e 5 dell’art. 50 del Regolamento Generale.

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Regolamento dei Contributi Art. 1 Tipologia dei contributi 1. Sono dovuti alla Cassa in forza di quanto disposto dell’art. 1, comma 3 del D.lgs 30/6/1994 n. 509 ed in conformità a quanto stabilito dal presente Regolamento i seguenti contributi: 1) Contributo soggettivo di base e modulare; 2) Contributo integrativo; 3) Contributo di maternità. Art. 2 Contributo soggettivo di base 1. Ogni iscritto alla Cassa ed ogni iscritto agli Albi professionali tenuto all’iscrizione alla Cassa è obbligato a versare, con le modalità stabilite dal presente Regolamento, un contributo soggettivo proporzionale al reddito professionale netto prodotto nell’anno, quale risulta dalla relativa dichiarazione ai fini dell’IRPEF e dalle successive definizioni. Tale contributo, per l’anno 2009, è determinato come segue, salvo quanto disposto all’art. 8 del presente Regolamento: a) reddito sino a € 86.700,00 tredici per cento; b) reddito eccedente € 86.700,00 tre per cento. 2. È in ogni caso dovuto un contributo minimo pari a € 1.310,00 per l’anno 2009, € 2.100,00 per l’anno 2010 e € 2.400,00 per l’anno 2011. Per gli anni successivi, tale contributo minimo sarà soggetto alla rivalutazione di cui all’art. 8 del presente Regolamento. 3. Il contributo minimo di cui al comma precedente è escluso dall’anno solare successivo alla maturazione del diritto a pensione di vecchiaia. Quaderni

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4. A partire dal primo anno solare successivo alla maturazione del diritto a pensione ovvero alla maturazione dell’ultimo supplemento ove previsto, i pensionati di vecchiaia devono corrispondere il contributo di cui al primo comma, sino al tetto reddituale fissato alla lettera a), in misura pari al 5% del reddito professionale netto ai fini IRPEF. Per la parte eccedente il tetto reddituale indicato al primo comma, lettera a) il contributo si riduce al 3%. Art. 3 Contributo soggettivo modulare obbligatorio 1. I soggetti di cui all’art. 2 sono altresì tenuti a versare, a decorrere dal 2010, un contributo soggettivo modulare pari all’1% del reddito professionale netto dichiarato ai fini IRPEF sino al tetto reddituale di cui al precedente art. 2, lettera a), destinato al montante individuale nominale su cui si calcola la quota modulare del trattamento pensionistico. 2. È in ogni caso dovuto un contributo minimo pari a € 160,00 per l’anno 2010 e € 180,00 per l’anno 2011. Per gli anni successivi, tale contributo minimo sarà soggetto alla rivalutazione di cui all’art. 8 del presente Regolamento. 3. I pensionati, con la sola eccezione dei pensionati di invalidità, sono esclusi dai versamenti di cui ai precedenti commi. Art. 4 Contributo soggettivo modulare obbligatorio 1. I soggetti di cui all’art. 2 sono altresì tenuti a versare, a decorrere dal 2010, un contributo soggettivo modulare pari all’1% del reddito professionale netto dichiarato ai fini IRPEF sino al tetto reddituale di cui al precedente art. 2, lettera a), destinato al montante individuale nominale su cui si calcola la quota modulare del trattamento pensionistico.

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2. È in ogni caso dovuto un contributo minimo pari a € 160,00 per l’anno 2010 e € 180,00 per l’anno 2011. Per gli anni successivi, tale contributo minimo sarà soggetto alla rivalutazione di cui all’art. 8 del presente Regolamento. 3. I pensionati, con la sola eccezione dei pensionati di invalidità, sono esclusi dai versamenti di cui ai precedenti commi. Art. 5 Agevolazioni per i giovani 1. Per le domande di iscrizione presentate successivamente al 1° gennaio 2009 che comportino una decorrenza di iscrizione anteriore al compimento del trentacinquesimo anno di età, il contributo soggettivo minimo di base e modulare è ridotto alla metà per i primi cinque anni di iscrizione alla Cassa; restano invariate le percentuali per il calcolo dei contributi dovuti in autoliquidazione di cui all’articolo 2 comma 1, all’articolo 3, comma 1 e all’art. 4. Art. 6 Contributo integrativo 1. Tutti gli avvocati iscritti agli Albi nonché i praticanti avvocati iscritti alla Cassa devono applicare una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai fini dell’IVA. 2. I contribuenti minimi di cui all’art. 1 commi 96/117 della legge 24/12/2007 n. 244 devono applicare la maggiorazione in fattura commisurandola al corrispettivo lordo dell’operazione. 3. L’ammontare complessivo delle maggiorazioni, corrispondente alla somma ottenuta applicando la percentuale di cui all’ultimo comma del presente articolo sull’intero volume annuo d’affari prodotto ovvero sul totale lordo delle operazioni fatturate nell’anno per i soggetti di cui al comma 2, deve essere versato alla Cassa indipendente-

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mente dall’effettivo pagamento che ne abbia eseguito il debitore. 4. La maggiorazione è ripetibile nei confronti del cliente. 5. Le associazioni o società di professionisti devono applicare la maggiorazione per la quota di competenza di ogni socio o associato iscritto agli Albi di avvocato o praticante iscritto alla Cassa. 6. L’ammontare complessivo annuo delle maggiorazioni obbligatorie dovute alla Cassa dal singolo professionista è calcolato su una percentuale del volume d’affari della associazione o società pari alla percentuale degli utili spettante al professionista stesso. 7. Gli iscritti alla Cassa sono annualmente tenuti a versare, con esclusione degli anni corrispondenti al periodo di praticantato con abilitazione al patrocinio e ai primi cinque anni di iscrizione all’Albo, per il titolo di cui al primo comma, un importo minimo, comunque dovuto, pari a € 395,00 per l’anno 2009, € 550,00 per l’anno 2010 ed € 650,00 per l’anno 2011. Per gli anni successivi, tale contributo minimo sarà soggetto alla rivalutazione di cui all’art. 8 del presente Regolamento. Per gli anni di iscrizione corrispondenti al periodo di praticantato e per i primi cinque anni di iscrizione agli Albi è, comunque, dovuto il contributo integrativo in proporzione all’effettivo volume d’affari dichiarato. 8. Il contributo di cui ai commi precedenti è dovuto anche dai pensionati di vecchiaia che restano iscritti all’Albo degli avvocati o all’Albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori; ma l’obbligo del contributo minimo è escluso a partire dall’anno solare successivo alla maturazione del diritto a pensione. 9. Salvo quanto disposto dall’art. 9 primo comma, la maggiorazione percentuale è stabilita nella misura del 4%. Il contributo integrativo non concorre alla formazione del reddito professionale e non è quindi soggetto all’IRPEF.

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Art. 7 Contributo di maternità 1. Al fine di provvedere all’erogazione della indennità di maternità di cui al D.lgs. 151/2001, ogni avvocato o praticante avvocato iscritto alla Cassa è obbligato a versare un contributo annuo determinato dal Consiglio di Amministrazione. Per l’anno 2008 il predetto contributo ammonta a € 173,00. Art. 8 Rivalutazione 1. Il tetto reddituale ed i contributi minimi di cui agli articoli 2, 3 e 6 sono aumentati annualmente, con apposita delibera del Consiglio di Amministrazione, in proporzione alle variazioni dell’indice annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati calcolata dall’Istituto nazionale di statistica arrotondando i relativi importi rispettivamente ai 50 Euro e ai 5 Euro più vicini. La delibera viene comunicata ai Ministeri vigilanti per la relativa approvazione che si intende data se non viene negata entro i due mesi successivi alla comunicazione. 2. Gli aumenti hanno decorrenza dal 1° gennaio successivo all’anno della delibera del Consiglio di Amministrazione. Art. 9 Variabilità dei contributi 1. In relazione alle esigenze di equilibrio finanziario della Cassa, la percentuale del contributo soggettivo e del contributo integrativo nonché l’entità dei contributi minimi possono essere variate con delibera del Comitato dei Delegati adottata con la procedura di cui all’art. 20 del Regolamento Generale. 2. La variazione avrà effetto dall’anno successivo alla approvazione ministeriale di cui all’art. 3 del D.lgs. 509/1994. Quaderni

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Art. 10 L’obbligo della comunicazione 1. Tutti gli avvocati che risultino iscritti, anche per frazione di anno, negli Albi professionali nell’anno anteriore a quello della dichiarazione, devono comunicare alla Cassa, secondo le modalità stabilite dal Consiglio di Amministrazione, con lettera raccomandata o in via telematica, entro il 30 settembre di ogni anno, l’ammontare del reddito professionale netto di cui all’art. 2, conseguito ai fini IRPEF per l’anno precedente, nonché il volume complessivo d’affari di cui all’art. 6 conseguito ai fini dell’IVA, per il medesimo anno. La comunicazione deve essere fatta anche se le dichiarazioni fiscali non sono state presentate o sono negative e deve contenere le indicazioni del codice fiscale e della partita IVA. 2. Il Consiglio di Amministrazione della Cassa potrà stabilire che l’invio della comunicazione di cui al primo comma avvenga esclusivamente in via telematica fissando appositi termini. 3. Nella stessa comunicazione devono essere dichiarati anche gli accertamenti divenuti definitivi, nel corso dell’anno precedente, degli imponibili IRPEF e dei volumi d’affari IVA, qualora comportino variazioni degli imponibili dichiarati. Deve altresì essere esercitata l’eventuale opzione per la quota modulare volontaria relativa all’anno in corso, indicandone la percentuale e il corrispondente importo da versare in autoliquidazione. 4. Nel caso di versamenti insufficienti essi andranno imputati, nell’ambito della prescrizione quinquennale, prima ai contributi obbligatori, soggettivo e integrativo, poi ai contributi modulari obbligatori e, quindi, ai contributi modulari volontari. 5. Relativamente al volume d’affari dei partecipanti a società o ad associazione di professionisti si applicano i criteri di cui all’art. 6, quinto e sesto comma del presente Regolamento. 6. La stessa comunicazione deve essere inviata dai praticanti abilitati che risultino iscritti alla Cassa nell’anno anteriore a quello della dichiarazione.

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7. Non costituisce motivo di esenzione dall’obbligo di invio della comunicazione la mancanza di una partita IVA, l’inesistenza di reddito o di volume d’affari, l’iscrizione al solo Albo speciale dei Cassazionisti, l’esistenza di situazioni di incompatibilità. 8. Gli avvocati iscritti anche in altri Albi professionali e alle relative Casse previdenziali, che abbiano esercitato l’opzione a favore di una di tali Casse, se prevista da specifiche norme di legge, non hanno l’obbligo di inviare le prescritte comunicazioni. Essi devono provare l’avvenuto esercizio dell’opzione per escludere gli obblighi contributivi e dichiarativi. 9. Gli avvocati che esercitano la professione all’estero hanno l’obbligo di inviare le prescritte comunicazioni se conservano l’iscrizione in un Albo italiano e devono indicare solo la parte, se esistente, di reddito o di volume d’affari soggetta a tassazione in Italia. 10. Gli avvocati, che si cancellano dagli Albi e i praticanti, che si cancellano dalla Cassa, hanno l’obbligo di inviare le prescritte comunicazioni anche nell’anno successivo a quello della cancellazione e ne sono esonerati solo dopo tale anno. Art. 11 Sanzioni disciplinari 1. Trascorsi 60 giorni dalla ricezione di una diffida notificata a cura della Cassa per lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero mediante consegna su casella di posta certificata, la perdurante omissione della comunicazione di cui all’art. 10 viene segnalata dalla Cassa al Consiglio dell’Ordine di appartenenza dell’iscritto ai fini della sospensione dello stesso dall’esercizio professionale a tempo indeterminato da deliberarsi dal Consiglio dell’Ordine con le forme del procedimento disciplinare e con l’applicazione del terzo comma dell’articolo 2 della legge 3 agosto 1949, n. 536; la sospensione revocata quando l’interessato dimostra di aver provveduto all’invio della comunicazione dovuta. Quaderni

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2. Nel caso di iscritti al solo Albo speciale per il patrocinio avanti le Corti Superiori, la segnalazione di cui al comma precedente va eseguita nei confronti del Consiglio Nazionale Forense. Art. 12 Predisposizione e trasmissione della modulistica agli iscritti 1. Il Consiglio di Amministrazione della Cassa può predisporre modalità di trasmissione della comunicazione secondo le forme ritenute più idonee, sia in via telematica che in forma cartacea. A tal fine la Cassa può mettere a disposizione di ogni soggetto tenuto all’invio della comunicazione funzionalità informatiche personalizzate o specifica modulistica; in questo ultimo caso la Cassa può spedire in tempo utile, prima della scadenza del termine indicato nell’art. 10, la modulistica ai diretti interessati ovvero ai Consigli dell’Ordine. 2. La Cassa può spedire analogo modulo per le associazioni e le società tra professionisti, senza dati prestampati, a chi ne faccia richiesta e alle associazioni e società presenti nei propri archivi anagrafici. 3. La spedizione di cui ai commi precedenti non costituisce obbligo per la Cassa, ma solo un mezzo per facilitare l’invio delle comunicazioni. L’obbligo di invio telematico fa venire meno la fornitura di moduli cartacei. 4. La Cassa, inoltre, può provvedere a spedire a ciascun Consiglio dell’Ordine un numero di moduli adeguato al numero degli iscritti, da utilizzare da coloro che non abbiano ricevuto il modulo dalla Cassa o lo abbiano smarrito o deteriorato, ovvero alle associazioni e società tra professionisti, che lo richiedano. 5. Qualora i moduli a disposizione del Consiglio dell’Ordine non risultassero sufficienti, la Cassa provvede, su richiesta del Consiglio stesso, fatta con qualsiasi mezzo, a spedire i moduli occorrenti. 6. La mancata o intempestiva ricezione del modulo inviato dalla Cassa non esonera dall’obbligo di inviare la prescritta comunicazione nel termine previsto dal presente Regolamento.

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7. La Cassa fornisce istruzioni per la compilazione del modulo e provvede, inoltre, in tempo utile, alla spedizione dei bollettini per il pagamento di quanto dovuto ovvero ad approntare idonee procedure per il pagamento on-line. Art. 13 Ulteriori informazioni da parte della Cassa 1. La Cassa informa dei termini e delle modalità per le comunicazioni attraverso il proprio sito internet; ulteriori informazioni potranno essere trasmesse a mezzo di posta elettronica e mediante l’affissione di manifesti negli uffici giudiziari e nelle sedi dei Consigli dell’Ordine, a cura di questi ultimi. 2. La Cassa può inoltre dare le informazioni di cui al comma precedente con altri mezzi ritenuti idonei ad assicurarne la miglior diffusione. Art. 14 Modalità e forma per l’invio della comunicazione 1. Il modulo, contenente le prescritte comunicazioni, deve essere inviato alla Cassa in via telematica o a mezzo posta con raccomandata semplice. 2. Le modalità di invio telematico, stabilite dal Consiglio di Amministrazione della Cassa, dovranno, comunque, garantire la sicurezza e riservatezza dei dati oltre che l’identità del dichiarante. 3. Il modulo cartaceo, ove previsto, deve essere predisposto in forma tale da poter essere inviato alla Cassa, opportunamente piegato e chiuso, senza busta, con l’indirizzo della Cassa prestampato. Art. 15 Contenuto della comunicazione 1. La comunicazione, salvo il caso di invio telematico per il quale Quaderni

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saranno previste specifiche procedure identificative, deve contenere i seguenti dati: a) le generalità complete del dichiarante e il Foro di appartenenza; b) il codice fiscale; c) l’ammontare del reddito professionale dichiarato ai fini dell’IRPEF; d) il volume d’affari IVA; e) l’indicazione del contributo soggettivo dovuto; f) l’indicazione del contributo integrativo dovuto; g) l’indicazione del contributo modulare obbligatorio; h) la percentuale del contributo modulare volontario e il relativo importo; i) la sottoscrizione del dichiarante. 2. La Cassa può inoltre richiedere altri dati ritenuti utili dal Consiglio di Amministrazione. Art. 16 Elementi essenziali della comunicazione Comunicazione incompleta, errata o non conforme al vero 1. La comunicazione priva di uno dei suoi elementi essenziali equivale a comunicazione omessa. Sono essenziali: a) l’identificazione del dichiarante; b) l’ammontare del reddito professionale dichiarato ai fini dell’IRPEF; c) l’ammontare del volume d’affari IVA. 2. In caso di mancata sottoscrizione del modulo cartaceo il dichiarante è invitato a ripresentare la dichiarazione entro trenta giorni, completa in ogni sua parte, compresa la sottoscrizione del modulo cartaceo. 3. Il mancato invio, entro il termine di cui al comma precedente, equivale a comunicazione omessa. 4. La presentazione di dichiarazione in altra forma, se contenente

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i prescritti dati fiscali, è equiparata all’invio della comunicazione. 5. La comunicazione non è conforme al vero, quando riporta come reddito denunciato ai fini dell’IRPEF o volume d’affari IVA un importo diverso da quello dichiarato al fisco, salvo quanto previsto dai successivi artt. 18 e 19. 6. Quando, su istanza o ricorso dell’interessato, il Consiglio di Amministrazione ritenga che la difformità dal vero della comunicazione sia dovuta ad errore materiale o scusabile, non si fa luogo alla sanzione prevista dall’art. 5 del Regolamento per la disciplina delle sanzioni, salvo gli effetti dei ritardati pagamenti. Art. 17 Comunicazione del reddito professionale 1. La comunicazione del reddito professionale dichiarato ai fini dell’IRPEF deve riguardare il reddito prodotto nell’anno al quale la comunicazione si riferisce. 2. Il reddito dichiarato è quello risultante dalla dichiarazione annuale dei redditi delle persone fisiche quale “reddito netto (o perdita) delle attività professionali”. 3. Per i soci o associati di società o associazioni di professionisti, il reddito dichiarato è quello di partecipazione imputato al singolo professionista nell’apposito modello della dichiarazione ai fini IRPEF. Nell’ipotesi di redditi professionali prodotti, sia partecipando alla società o associazione, sia in modo autonomo, il reddito da dichiarare è costituito dalla somma dei redditi dichiarati al fisco come reddito di partecipazione e come reddito individuale. Art. 18 Comunicazione del volume d’affari 1. La comunicazione deve riguardare il volume d’affari relativo all’anno precedente. L’importo da dichiarare è quello risultante dalla dichiarazione IVA, detratto l’importo del contributo integraQuaderni

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tivo. I contribuenti minimi di cui all’art. 1 commi 96/117 della L. 24/12/2007 n. 244 devono dichiarare la somma complessiva dei corrispettivi lordi fatturati. 2. Qualora l’attività professionale venga svolta in forma di società o associazione professionale si applicano i criteri di cui al 3° comma dell’art. 17 del presente Regolamento. Art. 19 Comunicazioni delle definizioni per anni anteriori 1. Con la comunicazione, devono essere specificati, qualora comportino variazioni degli imponibili dichiarati, i redditi professionali definiti a seguito di accertamento ai fini dell’IRPEF ed i volumi d’affari definiti, a seguito di accertamento ai fini dell’IVA, nell’anno anteriore a quello nel quale viene inviata la comunicazione. 2. Nella dichiarazione del reddito e del volume d’affari definiti, a seguito di accertamento, deve essere specificato l’anno di produzione, a cui la definizione si riferisce. 3. Il pagamento dei contributi dovuti a seguito di definizione, per anno o per anni anteriori a quello a cui si riferisce la comunicazione ordinaria, deve essere eseguito entro gli stessi termini dei contributi dovuti in eccedenza rispetto a quelli minimi, senza l’applicazione di penalità o interessi, se dichiarati e pagati tempestivamente e con le modalità indicate dalla Cassa nelle note illustrative annuali per la compilazione del modello. La contribuzione di cui all’art. 4 non subisce modificazioni a seguito di accertamento. Art. 20 Comunicazione per le società o associazioni di professionisti 1. Gli obbligati alla comunicazione di cui all’art. 10 che compartecipino a società o ad associazioni professionali, devono comunicare anche i redditi ed il volume d’affari della intera società o associazione, negli stessi termini previsti dal medesimo art. 10.

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2. La comunicazione, da inviare con lettera raccomandata o in via telematica, secondo le modalità che saranno fissate dal Consiglio di Amministrazione, può essere sottoscritta anche da uno solo dei soci o associati, se obbligato ex art. 10, o da chi ne abbia la rappresentanza. 3. La comunicazione deve contenere: a) la denominazione; b) cognome e nome di tutti i soci o associati, compresi quelli iscritti ad Albi, elenchi o registri diversi da quelli forensi; c) ordine territoriale di iscrizione dei singoli soci o associati; d) sede della società o associazione; e) numero di codice fiscale o di partita IVA della società o associazione; f) numero di codice fiscale dei singoli soci o associati; g) le quote di partecipazione agli utili dei singoli; h) le quote di volume d’affari da attribuire ai singoli in conformità a quanto prescritto nell’art. 6, commi 5 e 6 del presente Regolamento. Art. 21 Indicazione dei dati nella comunicazione per le società o associazioni 1. Nella comunicazione per le società o associazioni, devono essere indicate le somme complessive di redditi o di volumi d’affari di competenza di tutti i soci o associati iscritti alla Cassa, esclusi cioè i soci o associati non iscritti ad alcun titolo, in quanto non iscritti ad un Albo forense o praticanti non iscritti alla Cassa; devono inoltre essere indicati i redditi e i volumi d’affari imputati ai singoli. 2. La quota di volume di affari per ogni singolo socio o associato, è pari alla percentuale degli utili spettanti al singolo professionista, nel senso che essa va attribuita calcolando sul volume d’affari complessivo le stesse percentuali con cui si distribuiscono gli utili per i soci o associati. Quaderni

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Art. 22 Rettifica delle comunicazioni non conformi al vero 1. Coloro che, per qualunque motivo, abbiano reso alla Cassa una comunicazione non conforme al vero, possono provvedere alla rettifica dei dati errati entro 150 giorni dal termine di cui al precedente art. 10, 1° comma, inviando una nuova comunicazione. 2. Trascorso il termine di cui al comma precedente la rettifica sarà possibile solo se accompagnata da idonea documentazione fiscale. 3. Qualora la rettifica operata ai sensi del 2° comma del presente articolo comporti il versamento di maggiori contributi si applicano le disposizioni di cui all’art. 8 del Regolamento per la disciplina delle sanzioni. Ai fini della contribuzione di cui all’art. 4 del presente Regolamento la rettifica è irrilevante e non comporta alcun obbligo o facoltà di integrazione. Art. 23 Versamento della rata di acconto 1. Salvo quanto previsto dal comma 1 dell’art. 26 del presente Regolamento entro il 31 luglio di ogni anno, ciascun iscritto alla Cassa deve provvedere al pagamento di una rata di acconto da computarsi sulla determinazione definitiva dei contributi dovuti ai sensi degli artt. 2, 3 e 6, detratti i contributi minimi, pari al 50% delle somme dovute. 2. Entro lo stesso termine di cui al primo comma, gli iscritti all’Albo, che non siano iscritti alla Cassa, dovranno provvedere al pagamento di una rata di acconto da computarsi sulla determinazione definitiva del contributo integrativo dovuto, ai sensi dell’art. 6, pari al 50% della somma dovuta. 3. Qualora il versamento dell’acconto di cui ai commi precedenti risulti inferiore alla misura ivi prevista, entro un margine del 5%, e sia successivamente compensato nei termini previsti dall’art. 24, non si dà luogo all’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 6 dell’apposito Regolamento.

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Art. 24 Versamento del saldo 1. Gli obbligati all’invio della comunicazione devono calcolare l’ammontare dei contributi ai sensi degli artt. 2, 3 e 6 ed eventualmente dell’art. 4, e devono indicarne l’ammontare complessivo. Essi devono altresì indicare la misura delle quote dei contributi minimi pagate dell’anno di competenza, ai sensi dell’art. 25 e della prima rata versata, in autoliquidazione, nei termini di cui all’art. 23. La somma risultante, detraendo i contributi pagati da quelli dovuti, comprensiva dell’intero importo di cui al contributo volontario ex art. 4, dovrà essere corrisposta entro il 31 dicembre dell’anno in cui la comunicazione deve essere inviata. Art. 25 Riscossione dei contributi minimi 1. La riscossione dei contributi minimi, dovuti ai sensi degli articoli 2, 3 e 6 del presente Regolamento, viene effettuata nel corso dello stesso anno di competenza, secondo modalità e termini stabiliti dal Consiglio di Amministrazione. Art. 26 Modalità di pagamento dei contributi in autoliquidazione 1. Il pagamento dei contributi, dovuti in autoliquidazione e calcolati ai sensi degli artt. 23 e 24 deve essere eseguito, con le modalità e i termini previsti dal presente Regolamento o eventualmente modificati dal Consiglio di Amministrazione, arrotondando gli importi dovuti all’euro più vicino. 2. Il pagamento non è dovuto, ove l’eccedenza non superi i dieci euro. 3. Il pagamento dei contributi di cui agli articoli 2, 3, 4 e 6 dovuto in autoliquidazione deve essere eseguito con versamenti distinti. Il Consiglio di Amministrazione ha facoltà di individuare modalità di Quaderni

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pagamento specifiche per il versamento del contributo soggettivo di base, modulare obbligatorio e modulare volontario. 4. Nel caso di appartenenza a società o associazione di professionisti, il pagamento dei contributi deve essere eseguito da ogni singolo socio o associato, per l’importo da ciascuno di essi dovuto. 5. L’omissione o il ritardo nel pagamento dei contributi dovuti legittima la Cassa a provvedere alla riscossione di quanto dovuto a mezzo dei ruoli, o a mezzo di altri strumenti ritenuti idonei, con l’aggiunta degli interessi e delle sanzioni. La procedura di riscossione deve essere preceduta dalla trasmissione da parte della Cassa di un avviso bonario che inviti l’iscritto a un versamento diretto in alternativa all’iscrizione al ruolo, fermo restando le altre modalità previste nell’apposito Regolamento per la disciplina delle sanzioni. 6. In ogni caso il tasso di interesse di cui al comma precedente non potrà essere inferiore al tasso legale. 7. Il mancato o incompleto versamento della contribuzione volontaria modulare non costituisce inadempimento e non è sanzionato. Il pagamento inferiore a quanto dichiarato nella comunicazione obbligatoria verrà comunque utilizzato per la formazione del montante individuale dell’iscritto previsto dall’art. 6 del Regolamento per le prestazioni previdenziali. Per la contribuzione volontaria di cui all’art. 4 del presente Regolamento non è consentito il pagamento tardivo e le somme corrisposte a tale titolo successivamente alla scadenza, salvo quanto previsto all’art. 10, 4° comma, vengono restituite. Art. 27 Richiesta di informazioni agli uffici fiscali 1. La Cassa ha il diritto di richiedere in ogni momento ai competenti uffici dell’Anagrafe Tributaria informazioni sulle singole dichiarazioni degli iscritti agli Albi e sui relativi accertamenti definitivi.

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2. La Cassa può inoltre chiedere agli stessi uffici informazioni, oltre che sui redditi derivanti dall’esercizio della professione forense, anche sui redditi di lavoro autonomo, di lavoro dipendente, di impresa o di capitale per tutti gli iscritti agli Albi di Avvocato. Art. 28 Comunicazioni tra Cassa Forense e Ordini 1. Le comunicazioni obbligatorie da parte dei Consigli dell’Ordine per la trasmissione dei dati relativi alla tenuta degli Albi devono avvenire esclusivamente in via telematica secondo le modalità e le procedure previste dalla Cassa. Art. 29 Entrata in vigore delle disposizioni regolamentari 1. Il presente Regolamento sostituisce quello approvato con delibera del Comitato dei Delegati nella riunione dell’11 gennaio 2002 e approvato con decreto interministeriale 7 febbraio 2003 e successive modificazioni. Ogni disposizione contraria si intende modificata e sostituita. Il presente Regolamento è soggetto alla prescritta approvazione ministeriale ed entra in vigore dal primo gennaio dell’anno successivo alla predetta approvazione ministeriale. Art. 30 Disposizione transitoria L’aliquota del contributo integrativo prevista dall’art. 6, comma 9, variata dal presente Regolamento dal 2% al 4%, è vigente fino al 31 dicembre 2015. Al termine di tale periodo, in occasione della redazione del bilancio tecnico al 31 dicembre 2015, si procederà ad una verifica da sottoporre ai Ministeri vigilanti, relativamente agli aspetti di sostenibilità della gestione. Quaderni

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Il Tribunale di “Terra di Lavoro” in Santa Maria Capua Vetere di GIUSEPPE GAROFALO*

L’istituzione del Tribunale della provincia di Terra di Lavoro con sede in Santa Maria Capua Vetere non fu un isolato atto amministrativo per soddisfare posizioni campanilistiche, elettorali o esigenze pratiche di gestione giudiziaria, né è sorto per caso. Fu la conclusione di un decennio di rivoluzioni e controrivoluzioni politiche, sociali, giudiziarie, rinchiuso nell’ambito della Legge del 30 Piovoso (19 febbraio ’99), seguita dal progetto di costituzione, rimasto inattuato, della Repubblica Napoletana; Legge 20 Maggio 1808 di Giuseppe Bonaparte sul riordino dei Tribunali; e più tardi Legge 29 Maggio 1817 sull’organizzazione giudiziaria del Regno delle due Sicilie; Legge organica 17 Febbraio 1861. La celebrazione odierna si limita a quella giudiziaria che non può ignorare del tutto quella politica di cui è figlia. Il decennio rivoluzionario che precedette l’istituzione del Tribunale, ebbe inizio nel gennaio 1799 con la Repubblica Napoletana che si trovò di fronte un mondo giudiziario che era... “selva da nessun sentiero segnata”, come la definiva un alto magistrato. * Avvocato del Foro di S. Maria Capua Vetere. Relazione tenuta in Santa Maria Capua Vetere il 9.10.2009 in occasione della Cerimonia del Bicentenario della istituzione del Tribunale di Terra di Lavoro.

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Era la somma di 500 anni di legislazione sveva, angioina, aragonese, spagnola, con l’aggiunta di prassi, usi, costumi, interpretazioni, responsi dei dottori. La foresta della legislazione era accompagnata da quella ancora più impenetrabile dell’ordinamento giudiziario. Nel Regno di Napoli, diviso in dodici province, vi erano tre grandi Tribunali, antichi e meno antichi, con sede in Napoli. La Regia Camera della Sommaria, la Gran Corte della Vicaria, il Regio Sacro Consiglio, a cui si era aggiunto il Supremo Magistrato del Commercio. La Regia Camera della Sommaria era il Tribunale del Fisco. Aveva una competenza vastissima: tasse, appalti, incassi, spese pubbliche, feudi, ed ogni vertenza in cui il fisco fosse attore o convenuto. Era regolamentata dai Riti, raccolta di leggi e prassi, opera di Andrea d’Isernia. Era divisa in tre sezioni, aveva 10 presidenti, e un numero infinito di attuari e scrivani. Ne facevano parte anche i giudici “idioti”, così chiamati i componenti del Tribunale che non possedevano il dottorato in legge. Sulle questioni di diritto i giudici “idioti” non votavano. Le decisioni della Sommaria erano chiamate “arresti”. La Gran Corte della Vicaria era il giudice ordinario civile e penale del Regno. Si componeva in 4 “ruote” (sezioni) due civili e due penali, ciascuna composta da tre giudici. Quelle penali erano presiedute da un consigliere del Sacro Consiglio. Era regolamentato dai “Riti della Vicaria”, compilati e pubblicati sotto il Regno della Regina Giovanna II, la lussuriosa. La Gran Corte della Vicaria era il giudice di appello dei 12 Tribunali provinciali e giudice di prima istanza di Terra di Lavoro. Il Sacro Consiglio era il Supremo Tribunale Napoletano. Istituito da Alfonso D’Aragona nel 1444, era composto da 24 consiglieri di cui 20 divisi in 4 sezioni e dei rimanenti 4, due presiedevano le due ruote della Vicaria, il terzo ricopriva la carica di Quaderni

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governatore di Capua e il quarto quella di consultore del viceré di Sicilia. Era giudice di primo grado della città di Napoli e giudice di appello della Gran Corte della Vicaria. Per legge a questo Tribunale non potevano essere presentate istanze e richieste, ma solo suppliche perché rappresentava il re e quando parlava, parlava il re. Le sue sentenze facevano testo in Europa. Il Supremo Magistrato del Commercio era il più giovane. Era stato istituito solo nel 1739 da Carlo III. Composto da magistrati e commercianti, era stato creato per dare slancio al commercio, soffocato dalle procedure dei Tribunali. Udienze Provinciali: In ciascuna provincia esisteva un Tribunale detto “udienza”, formato dal governatore della provincia e da due giudici, detti uditori. Ne facevano parte l’avvocato fiscale, l’equivalente dell’attuale Pubblico Ministero e l’avvocato dei poveri. Ai grandi Tribunali si affiancava una miriade di Tribunali settoriali. 1) Il Commissario di Campagna. Era il braccio giudiziario del Giudice Generale contro i delinquenti, un organismo presieduto da un membro del governo, creato per combattere reati lesivi della sicurezza e incolumità collettiva. Per approssimazione su ragioni e finalità potrebbe dirsi un lontano antenato della D.D.A. Aveva competenza territoriale limitata alla sola Terra di Lavoro. Operava in forza di giustizia delegata, (delegata dal re tramite il viceré), cioè quasi senza regole, salvo quelle del diritto comune, quale la difesa dell’accusato. Aveva una struttura autosufficiente: un cancelliere, più scrivani, un usciere, soldati, il boia, più sedi distaccate provviste di carceri, un’amministrazione propria soggetta a rendiconto alla Camera della Sommaria. 2) Il Tribunale Misto. Era composto da magistrati laici ed ecclesiastici, competente a decidere sui conflitti in materia di immunità personale, reale e locale. Era stato istituito nel 1741 in occasione

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del Trattato di accomodamento (concordato) tra la Santa Sede e la Corte di Napoli. 3) Tribunale della dogana delle pecore di Foggia. Decideva su tutto ciò che riguardava la dogana delle pecore. Tutti quelli che avevano rapporti diretti o indiretti con le pecore, i pascoli, il latte, i formaggi, e finanche i costruttori di fuscelle, erano sotratti civilmente e penalmente alla giurisdizione ordinaria. 4) Tribunale delle arti e mestieri: la seta e la lana avevano i propri Tribunali, e così altre attività. 5) La Corte delle meretrici. Era in tribunale competente a giudicare tutti gli affari civili e i reati connessi alla prostituzione, compreso il lenocinio, ma non l’aborto. Riscuoteva la gabella delle meretrici, la tassa che abilitava all’esercizio della prostituzione. Custodiva i registri delle “ingabellate”, cioè delle prostitute. La sua struttura era: un giudice nominato dal viceré entro una terna proposta dall’appaltatore delle gabelle, uno scrivano, un portiere, più percettori. Era cessata di esistere nel 1640 quando la città di Napoli per liberare le sue sfortunate figlie aveva riscattato la gabella versando alla Corte Spagnola un milione di ducati. La sua giurisprudenza era ancora in parte utilizzata dalla Vicaria. 6) Uditore dell’esercito. Era il responsabile della giustizia militare. 7) La Giustizia feudale. Ogni feudo piccolo o grande aveva la sua giurisdizione civile e penale. Solo negli ultimi tempi gli era stata sottratta quella relativa agli omicidi. Gennaio 1799: la Repubblica Napoletana non perdé tempo a rivedere dalle fondamenta la giustizia. Non potendo abbattere in un giorno un secolare meccanismo giudiziario, dettò misure e regole provvisorie, ma di fondo: 1) Cambio dei nomi dei Tribunali napoletani: a) la Camera della Sommaria viene chiamata Camera dei Conti Nazionali; Quaderni

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b) la Gran Corte della Vicaria assume il nome di Gran Corte Nazionale; c) il Sacro Consiglio è chiamato Supremo Consiglio Nazionale. Il cambio dei nomi ebbe solo un valore psicologico e servì ad indicare la rottura col passato. Tutti i magistrati vennero invitati a rimanere al loro posto e ad applicare le leggi vigenti. 2) Redazione degli atti giudiziari in lingua italiana e non più in latino. 3) Abolizione della tortura. 4) Abolizione dei diritti feudali. 5) Divisione del territorio, ai fini amministrativi e giudiziari, in distretti, cantoni e comuni. 6) Per smaltire i numerosi processi per detenuti che affollavano le carceri, furono create due commissioni: la prima, la Commissione di Polizia, composta da un commissario di governo e 5 giudici, presieduta a turno di un mese da ciascuno dei componenti, giudicava dei delitti che comportavano una pena non superiore a 6 mesi. La seconda era composta da un commissario di governo e 7 giudici. I processi dovevano terminare entro 5 giorni. I provvedimenti definitivi sull’ordinamento giudiziario furono dati con la Costituzione, compilata dal Comitato di Legislazione di cui era anima e responsabile Mario Pagano. Il modello francese era così articolato: Giudice di Pace: uno per ogni capoluogo di cantone, assistito da 2 assessori. Competenza: cause civili non superiori a 300 ducati e cause penali comportanti la pena non superiore ad un mese di carcere o alla multa di 50 ducati. Tribunali civili: 3 in ogni dipartimento, ciascuno composto da 3 giudici. Competenza: cause del valore superiore a 300 ducati. Giudicavano in appello le sentenze dei Giudici di Pace e quelle del Tribunale di

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Commercio. Sull’appello contro le sentenze di un Tribunale Civile decideva un altro Tribunale dello stesso dipartimento. Tribunale di Commercio: composto da 5 giudici. Giudicava inappellabilmente le cause del commercio di terra e di mare non superiore a cento ducati. Per le cause di valore superiore si poteva appellare ad un Tribunale del dipartimento. Tribunale criminale: uno per ogni dipartimento composto da 3 giudici, ciascuno dei quali, a rotazione di 3 mesi, faceva da presidente. Per le cause criminali erano previste due giurie, una di accusa e l’altra di giudizio, i cui componenti erano elettivi. Corte di Cassazione: era composta da 7 membri. Annullava “i decreti fatti contro le forme legali o contro un caso espresso di legge”. Tribunale di Censura: uno in ogni cantone, composta da 5 membri eletti dall’assemblea, che Mario Pagano definiva “i sacerdoti della Patria”. Competenza: “vigilare sui costumi del popolo e dei pubblici funzionari” (compresi i magistrati), privando dei diritti civili che si rendesse colpevole di vizi e dissolutezze. La funzione dei Tribunali di Censura era precisata e regolamentata: “la loro facoltà non deve estendersi ad imporre sospensione dei diritti civili oltre il terzo anno, né potrà sui pubblici funzionari esercitare la censura se non dopo spirato il tempo delle loro funzioni, ed allora potranno essere puniti ancora per quei vizi, che nel corso delle loro cariche avranno forse manifestati. In tal modo sarà rispettata l’autorità dei pubblici funzionari, ed imbrigliata la baldanza dei viziosi”. Il controllo dell’operato dei magistrati era stato sempre a cuore a Mario Pagano aveva proposto l’istituzione di una magistratura col compito di “sovraintendere ai costumi, alle leggi e all’amministrazione della Giustizia, vigilando perché i primi non si corrompano, perché non vengano proposte leggi cattive o inutili perché quelle Quaderni

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emanate non siano neglette e perché i processi si tengano senza inganni o raggiri”. Il Tribunale di Censura manteneva in vita lo spirito di un istituto secolare: il sindacato. Obbligava il giudice a dare conto, ogni due anni, del proprio operato. Introdotto da Federico II con la 101° costituzione di Melfi, era stato sostanzialmente confermato da Carlo D’Angiò. Le leggi sveve e angioine prevedevano che il sindacato del giudice, a termine del suo mandato, dovesse farlo un altro giudice, il successore. Gli aragonesi rivoluzionarono il sindacato. Per evitare che continuasse ad essere un affare tra soci, come scriveva Giuseppe Maria Galanti, doveva essere esercitato da sindacatori non magistrati, nominati dai rappresentanti delle amministrazioni dove il giudice da sindacare aveva esercitato il suo ufficio. I giudici della Vicaria di Napoli erano sindacati dalla amministrazione della città attraverso suoi delegati. Che succederebbe oggi se quelle regole fossero ancora in vigore? Non c’è bisogno di fantasia per raffigurarselo. La procedura di sindacato era meticolosa e i sindacatori avevano la qualifica di giudici ordinari, abilitati a cercare le prove, interrogare i testimoni e arrestare i falsi. Il Tribunale di Censura si richiamava al modello aragonese. Il vituperato Codice del Regno delle due Sicilie recepì il principio del sindacato (art. 164 legge 29 maggio 1817), sia pure limitatamente ai giudici del circondario e riconducendolo non al modello aragonese. Nell’ultimo mese del triennio di servizio del giudice del circondario, i cittadini venivano invitati con pubblico manifesto a dare notizia delle trasgressioni del giudice per riferirle al ministro. Al controllo previsto dal Tribunale di Censura, la costituzione repubblicana aggiungeva una norma generale di sbarramento e di principio (Titolo VIII – artt. 101 e 102), che oggi farebbe felici i politici. Stabiliva: “I giudici non possono mescolarsi nell’esercizio

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del potere legislativo, né fare alcun regolamento. Non possono arrestare o sospendere l’esecuzione di alcuna legge, né citare dinanzi a loro gli amministratori per ragioni delle loro funzioni”. Divieto ribadito dall’art. 199 legge 29 Maggio 1817 dalla restaurata monarchia borbonica. L’ordinamento giudiziario repubblicano non entrò in esecuzione perché la controrivoluzione guidata dal Cardinale Ruffo, alla testa dell’armata della Santa Fede, abbatté la Repubblica. I capi e promotori, grazie anche, e soprattutto, alla inqualificabile slealtà dell’Ammiraglio Nelson, finirono impiccati o decapitati in Piazza Mercato, compreso Mario Pagano. La costituzione repubblicana compilata con l’impiego di un alto livello di cultura non andò mai in esecuzione. La restaurazione ripristinò l’antica legislazione e ordinamento giudiziario, aboliti dalla Repubblica. Un nuovo Tribunale di sangue, la Giunta dei rei di Stato, arricchì il boia. Sessanta impiccati e venti decapitati nei soli primi quattro mesi di attività. Una manciata di anni, solo 7, e di nuovo un radicale sconvolgimento. L’armata francese, nel febbraio 1806, occupò il regno, a cui diede un nuovo re, Giuseppe Bonaparte. In attesa di emanare nuove leggi, il governo tenne in vigore la vecchia legislazione a cui con Legge 8 agosto 1806 affiancò 4 Tribunali straordinari che coprivano tutto il territorio del regno, competenti a “conoscere esclusivamente di tutti i delitti contro la pubblica sicurezza commessi a mano armata in campagna o sulle pubbliche vie; degli attruppamenti sediziosi e armati; delle unioni clandestine; delle sommosse popolari; della reclutazione dello spionaggio e di ogni altra colpevole corrispondenza a favore dei nemici; e finalmente degli autori dei libelli o voce manifestamente diretta a turbare la pubblica quiete; e dei vagabondi”. Ciascun Tribunale era composto da 8 membri, 5 civili e 3 militari. A parità di voti prevaleva quello favorevole all’imputato. Malgrado seguissero le regole di rito accusatorio con l’acquisizione delle proQuaderni

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ve al dibattimento, i Tribunali straordinari scrissero indimenticabili pagine di malagiustizia. Quello di Terra di Lavoro si rese responsabile del più straziante caso della storia giudiziaria del regno. Ad un vecchio farmacista sessantaseienne, noto filoborbonico, in corrispondenza con gli ambienti della Corte, fuggita a Palermo, indagato per il grave attentato al Ministro di Polizia Cristoforo Saliceti, il giudice che conduceva le indagini, membro del Tribunale, promise la grazia se avesse fatto i nomi di coloro che avevano messo la bomba sotto il palazzo dove abitava il Ministro. Il vecchio farmacista, Onofrio Viscardi, accettò il patto e dichiarò che autori dell’attentato erano stati i suoi figli con altri venuti da Palermo. Il Tribunale condannò, tra gli altri, i due figli di Viscardi. Uno a 22 anni di ferri e l’altro a morte per impiccagione. Sentenza eseguita il giorno dopo in Piazza Mercato. I napoletani tremarono per l’orrore. Non per l’impiccagione, da anni spettacolo quotidiano ad opera di rivoluzionari e controrivoluzionari, ma per l’accusa del padre contro i figli, una rivoluzione anche quella, ma contro natura. Nella Gran Corte della Vicaria, che ancora funzionava, nella porta accanto all’aula dove sedeva il Tribunale straordinario, una sentenza come quella sarebbe stata impensabile. Per sua giurisprudenza, i giudici, seguendo le leggi romane, non avrebbero utilizzato la testimonianza del padre contro i figli né quella dei figli contro il padre. “Perciocché o le voci della natura sono ascoltate da sì stretti congiunti, e il favore corrompe la testimonianza; o tacciano nel di loro seno, e conviene allora dire una ferina scellaragine abbia il loro cuore depravato”. Lo aveva scritto Mario Pagano, l’impiccato di qualche anno prima. I napoletani tremarono ancora di più quando si accertò che quei due fratelli, uno impiccato e l’altro ai lavori forzati, erano innocenti. Il giudice commissario che aveva stretto il patto con il vecchio padre

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accusatore, non potendo negare la tragedia si limitò a dire che il processo era stato regolare. Il giudice era Pietro Colletta, l’autore della Storia del Reame di Napoli. Né questo fu l’unico episodio di malagiustizia del Tribunale straordinario. Michele Pezza, più noto come “Fra Diavolo”, temuto guerrigliero, protagonista di colpi di mano e imboscate contro le truppe Francesi, inquadrato col grado di colonnello nell’esercito borbonico, in violazione di tutti gli usi e le leggi di guerra, invocate dallo stesso colonnello francese, padre di Victor Hugo, che lo aveva catturato, fu condannato a morte come brigante e impiccato in Piazza Mercato. La vicenda di Giambattista Rodio superò i limiti della ingiustizia, per diventare assassinio. Avvocato, era stato uno dei capi dell’armata della Santa Fede del Cardinale Ruffo nel ’99. Per i suoi servizi era stato nominato brigadiere e fatto marchese. Accusato di aver sobillato la popolazione a rivoltarsi contro i Francesi, era stato deferito alla commissione militare che il 25 aprile 1806 lo aveva assolto. Per capovolgere la sentenza il giorno dopo fu convocata un’altra commissione, che seduta stante, lo condannò a morte e lo fece fucilare alla schiena “così quel misero in dieci ore fu giudicato due volte, assolto e condannato, libero e spento; ed aveva moglie figliuoli, servizi e fama. La inumanità spiacque a tutti, fu grande ed universale il terrore”. Lo scrisse Pietro Colletta che era componente di una delle Commissioni. Dopo due anni e più di convivenza con la vecchia legislazione, il 20 maggio 1808 S. Maestà Giuseppe Bonaparte firmò tre decreti: 1) abolizione dei monasteri di clausura; 2) abolizione dei Banchi e creazione di un unico Banco di Corte; 3) riordino dei Tribunali. Con quest’ultimo fissò in ciascuna provincia un Tribunale di priQuaderni

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ma istanza. Quello della più grande e popolata provincia del Regno, Terra di Lavoro, fu fissato in Santa Maria di Capua. Il giorno dopo, 21 maggio 1808, il re partì da Napoli per non più tornarvi. Se ne andò alla chetichella, diversamente da come era venuto. La regina rimase ancora un mese e se ne andò con grande pompa, anche lei diversamente da come era venuta. Lo spirito mordace dei napoletani si espresse in un manifesto Lo Rre E’ benuto da regnante E’ partuto da brigante La Regina E’ benuta da mappina E’ partuta da Regina. Il decreto, oltre ad un Tribunale di prima istanza in ogni provincia, e all’ufficio della Procura Generale , istituì quattro Tribunali di Appello: Napoli, Lanciano, Altamura e Catanzaro. Toccò a Gioacchino Murat, successore di Giuseppe Bonaparte, messo sul trono di Spagna, eseguirlo nel termine previsto, 6 mesi. Primo problema: i componenti dei vari Tribunali. La maggior parte dei nominati alla Corte di Cassazione erano giudici provenienti dai vecchi tribunali. Il reclutamento dei componenti fu risolto faticosamente e senza applausi. Per la Cassazione furono nominati in maggioranza vecchi magistrati che avevano vissuto rivoluzioni e controrivoluzioni con relative vecchie e nuove legislazioni, e prestato giuramento a queste e a quelle. Per i Tribunali di Appello insieme a vecchi magistrati furono utilizzati patrioti, perseguitati dai borbonici. Per i Tribunali di prima istanza, i nominati dal governo, oltre a non raccogliere il plauso della pubblica opinione, furono, ad eccezione di qualcuno, definiti dal più autorevole diarista dell’epoca “la feccia del Tribunale e della gente”.

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Il 30 dicembre 1808 furono dichiarate estinte tutte le giurisdizioni antiche. Il diarista annotò: “dopo il corso di circa sei secoli abolito il Tribunale della Gran Corte della Vicaria, e dopo 4 l’augusto Sacro Consiglio e per quanto a me sembra coi vecchi Tribunali è sepolto ancora decoro della magistratura e dell’avvocatura napoletana, tanto rispettabile presso le nazioni straniere”. Cinque giudici di Cassazione ebbero il compito di fare da liquidatori delle antiche giurisdizioni e dei processi che vi pendevano. Con una cerimonia solenne il 7 gennaio 1809 si insediò in Castel Capuano, sul cui portone c’era scritto “Restaurazione della giustizia”, la Corte di Cassazione, presenti i presidenti ed i procuratori dei Tribunali di Appello e di quello Criminale, che a loro volta, prestato il giuramento, furono messi nei rispettivi uffici. Il cerimoniale contenuto in un particolareggiato decreto, non prevedeva la presenza, ad eccezione di quelli di Napoli, del presidente e del procuratore dei Tribunali di prima istanza delle provincie. Il giorno dopo, 8 gennaio 1809, tutti quelli che avevano giurato in Castel Capuano, vestiti dei suntuosi abiti, minuziosamente descritti in un apposito decreto, in lungo corteo di carrozze, da Castel Capuano si recarono a palazzo per rendere omaggio al re. Il diarista riferisce che il popolo “si burlava di questa mascherata”. Al passaggio del corteo c’era chi diceva che era la Congrega dei Pellegrini (che aveva la veste rossa), che andava a prendere un cadavere; chi sosteneva che erano i giustiziandi diretti al patibolo; chi riteneva che erano le maschere. “Insomma è sembrata una buffonata”. Quella che al popolo era apparsa una buffonata era stata oggetto di due decreti che regolavano gli abiti dei magistrati e i dettagli dei gesti cui ciascun partecipante era tenuto. Un momento di vanità, mondanità e frivolezza. Dietro il solenne cerimoniale c’era stato un violento scontro di principio tra i poteri. Un gruppo di magistrati, chiesta udienza al MiQuaderni

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nistro di Giustizia, gli avevano detto che essi, per motivi di coscienza, non se la sentivano di applicare la legge istitutiva del divorzio. Proponevano di cambiare la formula del giuramento da prestare. Invece di giurare di osservare le leggi avrebbero potuto giurare fedeltà e obbedienza al re, come si faceva in passato. Questo gli dava modo di non applicare la legge e contemporaneamente non venir meno al giuramento. Ascoltata la proposta, il re reagì nel suo stile di generale di cavalleria: “A chi non piace la legge o non si sente di applicarla, può andarsene anche a casa”. Se ne andò uno solo, Raffaele Tramaglia, che il re premiò per la sua coerenza assegnandoli una pensione equivalente a metà dello stipendio. Tutti gli altri rimasero e prestarono giuramento, ma decisero di resistere e svuotare la legge attraverso l’interpretazione. L’occasione non tardò a presentarsi: due istanze di divorzio, una a Santa Maria e l’altra a Napoli. A Santa Maria, come negli altri Tribunali di prima istanza, regnava confusione perché nessuno sapeva come fare i processi anche in mancanza di un codice di rito. Si decise di aspettare ed eventualmente uniformarsi a Napoli. L’istanza presentata a Napoli era di una semplicità disarmante provvista di prove evidenti. Un tal Moscati chiedeva il divorzio perché la moglie lo aveva lasciato da anni e viveva notoriamente more uxorio con un altro uomo. Giudice commissario della causa era Domenico Criteri uno di quegli obiettori di coscienza che avevano deciso di resistere. E resisté imperterrito. Respinse l’istanza con una motivazione tra l’insipienza e la provocazione. Sostenne che la legge non era applicabile al suo caso perché quando la moglie lo aveva abbandonato l’istituto del divorzio non esisteva. L’ira del Ministro della Giustizia e del re costrinsero il giudice alle dimissioni.

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A Castelcapuano si accorsero che l’era della Repubblica dei Togati era finita e che al Governo c’era chi faceva rispettare i ruoli. L’ordinamento giudiziario, introdotto da Giuseppe Bonaparte, contrariamente a quanto vigeva in Francia e a cui si era ispirato Mario Pagano nel redigere la Costituzione della Repubblica Napoletana, non instituì per i processi penali nessun tipo di giuria. L’occupazione francese durò un decennio. Con la caduta di Napoleone cadde anche il trono di Murat e tornarono i Borboni che, il 20 maggio 1815, riassunsero la sovranità nei territori del Regno al di qua del Faro. Contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, il governo di S. Maestà Ferdinando IV non rimise in vita l’antica legislazione che i Francesi avevano abrogata, ma elaborò un nuovo ordinamento giudiziario, il Codice del Regno delle due Sicilie, che a quello francese si ispirava. Per effetto della organizzazione giudiziaria del regno approvata con Legge 29 maggio 1817, presso ciascun tribunale esistente fu istituita anche una Gran Corte Criminale composta da un presidente e 6 giudici. Solo per il tribunale di Napoli e di Santa Maria la Gran Corte era costituita in “due camere” cioè due sezioni. Per determinati reati la Gran Corte Criminale si trasformava in Gran Corte Speciale con 8 giudici votanti. Il Codice del Regno delle due Sicilie cessò di avere vigore il 14 febbraio 1861, che è la data dell’ordine del giorno indirizzato all’Armata di Gaeta da Francesco II al momento di lasciare il regno. Con l’avvento dell’Unità l’organizzazione giudiziaria ebbe una nuova articolazione: 2) giudici conciliatori; 3) giudici di mandamento; 4) tribunali di circondario; 5) tribunali di commercio; 6) corti di appello; 7) corti di assise; Quaderni

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8) corti di cassazione; Con la Legge organica del 17 febbraio 1861 fu introdotta nell’ordinamento giudiziario per i giudizi di corte d’assise, la giuria popolare che la costituzione repubblicana elaborata da Mario Pagano prevedeva e che i francesi non introdussero malgrado vigesse in Francia. La legge organica richiamò in vita un istituto che nell’antica legislazione napoletana aveva scritto pagine di storia giudiziaria: l’avvocato dei poveri. Per questo organismo, data l’attualità della materia, va spesa qualche riga in più. La legislazione del regno di Napoli, sveva, angioina, spagnola, non ha mai ignorato o trascurato il problema della difesa di coloro che per mancanza di mezzi finanziari erano impossibilitati a sostenere e difendere i loro diritti e ragioni. La 33a costituzione di Federico di Svevia, secondo la compilazione di Pier delle Vigne, pubblicata nel 1231 nell’assemblea di Melfi, stabiliva che i minori, le vedove, gli orfani e i poveri, andavano difesi, anche se la lite era contro il fisco, da avvocati esercenti la libera professione forense, pagati dall’Erario, di volta in volta per le loro prestazioni, esenti da qualsiasi spesa di Giustizia, comprese le indennità a testimoni. A distanza di 700 e più anni l’attuale legge sul gratuito patrocinio non è riuscita a fare di meglio. Potrebbe definirsi una copia monca rispetto a quella di Melfi. Malriuscita perché la Costituzione di Federico non si fermava alla difesa giudiziaria in senso stretto. Andava oltre. Prevedeva la somministrazione di alimenti ai litiganti poveri perché potessero attendere più tranquillamente alle loro cause. Non erano previsti limiti di spesa. I Riti della Vicaria, in particolare il 23°, pubblicati dalla regina Giovanna II, circa due secoli dopo, non alterarono il principio, ma restrinsero la borsa.

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Gli avvocati che assumevano la difesa dei poveri, erano sì pagati dall’erario, ma nei limiti della ripartizione dei proventi, cioé delle pene pecuniarie pagate dai condannati, tra i Giudici dei tribunali. All’epoca l’amministrazione della giustizia cercava di autofinanziarsi. Furono poi gli Aragonesi a risolvere il problema della difesa dei non abbienti, in maniera rivoluzionaria, che i moderni legislatori non immaginano nemmeno. Sua maestà Alfonso D’Aragona con la XIV grazia del 1473, istituì presso la Gran Corte della Vicaria e ciascun tribunale provinciale del Regno, l’ufficio dell’avvocato dei poveri. L’avvocato dei poveri non era più un privato pagato dallo Stato, ma un funzionario dello Stato il cui ufficio era parte organica dei Tribunali. Veniva nominato allo stesso modo con cui venivano nominati i Giudici ed aveva uno stipendio annuo pressoché pari a quello dell’avvocato fiscale (P. M.) del quale assunse il ruolo di contrappeso. Godeva di vari privilegi: aveva la precedenza nelle udienze; difendeva a capo coperto davanti al Sacro Consiglio. Prima che le indagini venissero chiuse, gli atti del processo dovevano essere consegnati all’avvocato dei poveri per eventuali contestazioni e richieste. Delle tre ore di servizio pomeridiano, i Giudici erano obbligati a dedicargliene una. I due avvocati dei poveri presso la Gran Corte della Vicaria oltre ai non abbienti di Napoli e della Provincia di Terra di Lavoro, assumevano la difesa in appello di tutti gli altri condannati dai Tribunali Provinciali. Un compito particolarmente gravoso che comportava una corrispondenza, imposta per legge, con i colleghi che avevano difeso i condannati davanti ai Tribunali Provinciali di prima istanza. In più occasioni gli avvocati dei poveri della Gran Corte della Vicaria si avvalsero dei processi loro affidati per affrontare questioni di principio valide non solo per i poveri. La più significativa fu quella sulla rilevanza della ignoranza della legge penale in una società analfabeta soffocata da legislazione sterminata, in parte superata dal tempo, ma sempre tutta in vigore. Quaderni

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Fu sollevata dall’avvocato dei poveri davanti al Sacro Consiglio per strappare alla forca un condannato della Gran Corte della Vicaria per il furto di un mantello in particolari circostanze di tempo e di luogo. La Repubblica Napoletana era consapevole dell’importanza della difesa dei non abbienti e non ignorava i precedenti. Non si sa perché abbandonò l’ufficio dell’avvocato dei poveri, che era una realtà, per incamminarsi sulla via dell’assistenza affidata a privati. Il 25 Febbraio 1799 il Comitato di Polizia generale del Governo provvisorio, premesso che era intendimento della Repubblica non processare le opere pie, invitò la congregazione di S. Ivone a “seguitare la detta opera in tutti i suoi rami, secondo il metodo antico, con quello zelo e fervore, che si conviene ad un vero cittadino. Salute e Fratellanza”. Per comprendere il significato di questo invito è necessario qualche chiarimento. La Congrega di Sant’Ivone era un’opera pia, i cui componenti erano i più noti avvocati e i più alti magistrati. Il loro compito era quello di assistere i poveri nelle cause civili, fossero attori o convenuti. Il povero che non aveva la possibilità di affrontare un giudizio civile contro un ricco o un potente, si rivolgeva alla Congrega che, esaminata e dibattuta la questione, se la riteneva giusta e difendibile, la curava in proprio, affidandola a un avvocato confratello. Essere confratello della Congrega di S. Ivone era un grande onore e conferiva prestigio. I confratelli avvocati nelle cause sostenute per conto della Congregazione avevano la precedenza su tutti. Per le cause penali la Sala Patriottica, un’associazione politica, istituì un ufficio, una specie di patronato, affidato a tre avvocati, per la difesa dei poveri e si affrettò a chiarire che quello era un “concerto privato” della Sala per “beneficiare l’umanità afflitta dal passato governo”. La Legge organica del 17 febbraio 1861 che riportò nell’ordina-

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mento giudiziario del regno unitario l’avvocato dei poveri, era stata preceduta dalla Legge preunitaria 13 febbraio 1859 di Urbano Rattazzi, ministro piemontese con Cavour. La legge Rattazzi (art. 3), valida per il regno sabaudo, dichiarava gli avvocati dei poveri e i loro sostituti “funzionari dell’ordine giudiziario” alla pari “dei giudici di ogni grado, gli uffiziali del pubblico ministero, e i segretari”. Più dettagliata su questo punto la Legge organica del 17 febbraio 1861 (art. 169) estesa dal 1862 a tutto il regno: “l’avvocato dei poveri ed i suoi sostituti hanno gli onori della magistratura e siedono nel Tribunale o Corte cui sono addetti nelle adunanze generali prevedute dall’art. 129 (inaugurazione anno giudiziario) della presente legge, ed intervengono coi tribunali e le corti in tutte le solenni cerimonie a cui questi magistrati sono chiamati”. Solo 3 anni durò l’avvocatura dei poveri presso il Tribunale di Santa Maria. Fu soppressa con Legge 6 dicembre 1865 per motivi finanziari. Al suo posto fu introdotto il gratuito patrocinio e l’avvocato d’ufficio. A quella legge si uniformò il Decreto 30 Dicembre 1923, rimasto in vigore fino al 1990 e seguito dal Testo Unico 30 maggio 2002 n. 115, con tutte le anomalie. La classe forense che si riunisce oggi in convegno nazionale, nel rispetto delle sue tradizioni, può intervenire per sanarle. Più volte nella sua storia sul Tribunale di Santa Maria, il più grande delle provincie meridionali, dopo Napoli, è caduta l’attenzione internazionale per processi, dai risvolti politici o di grande interesse collettivo, che vi si celebravano. Di questi mi limito a ricordarne solo alcuni. Processo La Gala Una feroce banda, capeggiata da Giona La Gala, seminava terrore e morte tra Maddaloni e Arienzo. Un medico, ritenuto un delatore, convocato in montagna, era stato ucciso e fatto a pezzi che qualcuno aveva anche mangiato. Per dare una parvenza di legittimazione alle Quaderni

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brutali imprese innalzavano bandiera borbonica. L’assalto alle carceri di Caserta e la liberazione dei prigionieri accreditava la loro figura di insorgenti contro il governo piemontese. E accreditava anche la voce che il loro referente fosse la giovane regina Sofia, esule a Roma e non rassegnata alla perdita del trono di Napoli. La banda, braccata dall’esercito e destinata ad una esecuzione sommaria sul porto, trovò modo di imbarcarsi su una nave francese per riparare in Francia. Ciascun componente della banda era provvisto di passaporto dello Stato Pontificio. Francia e Stato Pontificio tifavano per il re di Napoli. Nei suoi confronti il Papa aveva un debito. Non più di un decennio prima Pio IX, costretto a fuggire da Roma, aveva trovato rifugio a Gaeta, accoltovi e protetto dal Re di Napoli, padre dello spodestato Francesco. La Francia per conto suo aveva fatto anche di più. La flotta francese si era messa tra Gaeta e la flotta piemontese per impedire assalti. E con un battello francese, Francesco II, l’ultimo Re di Napoli, aveva lasciato il territorio del regno. La nave francese con a bordo i componenti della banda La Gala, diretta a Marsiglia, fece scalo a Genova. Il ministro di polizia, il napoletano Silvio Spaventa, li fece arrestare e tradurre in carcere. Violenta protesta di Napoleone III che denunziava la violazione del territorio francese. Tale era da considerarsi la nave. Pretese che gli fossero consegnati i prigionieri per poi decidere se restituirli o trattenerli in Francia come rifugiati. Negare la consegna dei prigionieri significava creare un incidente diplomatico e guastare i rapporti con la Francia, del cui aiuto l’Italia, appena unita, aveva bisogno. Napoleone III mantenne la parola e restituì i prigionieri che furono giudicati dalla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere. Non disponendo il tribunale di un’aula che potesse accogliere i numerosi

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imputati e garantire la sicurezza, il processo fu celebrato nella Caserma posta di fronte al carcere, attuale Caserma Pica, dove si appresta ad essere trasferita parte del tribunale. Attesi i risvolti politici del processo, furono presenti numerosi inviati stranieri e un osservatore speciale di Napoleone III per garantire che fossero rispettate le condizioni con cui erano stati restituiti i prigionieri che assegnavano al processo la cognizione dei soli reati commessi, senza riferimenti né espliciti né impliciti, a situazioni politiche. Processo alla Banda del Maltese Carlo Cafiero, di ricca famiglia pugliese, socialista e internazionalista e Enrico Malatesta di Santa Maria Capua Vetere discepolo di Bakunin, anarchico alla testa di un pugno di uomini tentarono di provocare una sollevazione delle popolazioni meridionali contro il governo. Nella primavera del 1877 si concentrarono, in tutto una ventina di uomini, sul massiccio del Maltese. Intercettati dalla polizia nei pressi di San Lupo in provincia di Benevento aprirono il fuoco e uccisero un carabiniere e ne ferirono un altro. Attraverso sentieri di montagna ripararono in provincia di Caserta dove, nei comuni di Gallo e Letino, dichiarato decaduto il Re, proclamarono la repubblica sociale. Accerchiati e arrestati tutti, furono rinchiusi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Contro gli arrestati furono aperti due processi, uno presso la procura del Re di Benevento per l’omicidio e il ferimento dei due carabinieri e l’altro presso la procura di Santa Maria Capua Vetere per attentato alla sicurezza interna dello Stato. L’istruttoria a Santa Maria Capua Vetere fu complessa e di largo respiro, anche se su di essa pendeva la minaccia del ministro dell’interno Giovanni Nicotera, di investire del processo un Tribunale Militare. A conclusione. Il Procuratore Generale chiese l’unificazione dei due processi e il Quaderni

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rinvio a giudizio degli imputati davanti la Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere. Venuto a morte il re, Vittorio Emanuele II, il nuovo re, Umberto I, proclamò l’amnistia per i reati politici. Rimasto il solo carico dell’uccisione e del ferimento dei due carabinieri, ritenuto reato comune, gli imputati furono rinviati a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Benevento, competente per territorio. I giudici di quella Corte assolsero tutti gli imputati. Il tribunale e il carcere di Santa Maria Capua Vetere nella pendenza del giudizio finirono sui giornali di tutta Europa, non solo per l’aspetto politico del processo e la pericolosità degli imputati, ma anche per un episodio singolare, quasi di colore, che suscitò ilarità e incredulità, anche esse a livello internazionale. Il 21 giugno 1877 il console d’Italia a Ginevra informò il ministro dell’Interno che gli internazionalisti della “Banda del Maltese” capeggiata da Carlo Cafiero ed Enrico Malatesta, prigionieri nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere in attesa di giudizio innanzi alla Corte d’Assise di Benevento, erano riusciti a far pervenire una loro lettera al Bureau federale di Neuchàtel. Alla richiesta di spiegazioni del ministro, il direttore delle carceri e il procuratore del Re di Santa Maria Capua Vetere esclusero categoricamente che il fatto potesse essersi verificato sia perché gli agenti di custodia addetti alla sorveglianza erano persone di provata fede, sia perché i prigionieri erano guardati a vista in ogni movimento del giorno e della notte. Ad ogni buon conto per scrupolo professionale il direttore diede ordine di privare i detenuti di qualsiasi strumento di scrittura e dispose che i prigionieri potevano scrivere due volte alla settimana alla presenza delle guardie e in una sala apposita su carta e con penna fornita al momento dalla direzione del carcere. Dopo solo 20 giorni il ministro allarmato informò il direttore delle carceri che alla riunione del comitato della sezione italiana di Ginevra, Andrea Costa aveva tirato fuori un’altra lettera di Carlo Cafiero proveniente dalla prigione di Santa Maria Capua Vetere.

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Il direttore rispose per la seconda volta che il fatto era impossibile e che il tutto era una millanteria degli internazionalisti diretti ad accreditare una forza inesistente. Esasperò ancora lo scrupolo professionale e fece sorvegliare i sorveglianti dentro e fuori la prigione. Per quasi un mese Carmine Esposito, un agente di custodia fece impazzire il commissario di Santa Maria Capua Vetere ed altri esperti indagatori fatti venire apposta. Smontato dal servizio, ogni giorno se ne andava alla stazione e se ne stava in contemplazione a vedere passare i treni. La Svizzera e i treni facevano giurare che fosse lui la talpa: tutti i sospetti risultarono infondati. Carmine Esposito era nient’altro che un romantico che si contentava di affidare ai treni i suoi sogni di terre lontane. I prigionieri furono trasferiti dal 10° comprensorio, il nucleo di agenti fu cambiato e il nutrito drappello di soldati di guardia all’esterno rinforzato. Le palomme non hanno mai conosciuto barriere. A distanza di poco meno di due mesi il giornale “L’Anarchia” di Napoli scrisse che gli internazionalisti prigionieri, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere si erano costituiti in sezioni col nome di “Banda del Maltese” e che avevano inviato ad Andrea Costa il mandato, sottoscritto da tutti, a rappresentarli al congresso di Verniers. Come se la notizia non bastasse, il “Buletin de l’Association des travailleurs”, che si stampava a Sonvillieurs, cantone di Berna, pubblicò il testo del mandato con le firme dei detenuti. Il solito direttore diede la solita versione: le firme erano apocrife perché non era assolutamente possibile che i detenuti, rinchiusi in camerate diverse, avessero potuto firmare lo stesso foglio. Il Ministro lo mise a tacere perché si accertò che le firme erano autentiche. Artefici dell’operazione erano stati due camorristi, il detenuto Vincenzo Esposito e il prestinaio esterno Camillo Palmiero, figlio di quel Ferdinando Palmiero, “pedecchiuso” uno dei capi camorra di Caserta, arrestati nella repressione del ’62. A distanza di Quaderni

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tempo fu sequestrata la micro attrezzatura per scrivere che solo i camorristi possedevano ed erano in grado di fornire. Andrea Costa rivelò ai compagni esuli in Svizzera che per ogni documento che usciva dal carcere, Cafiero pagava 40 lire. Processo Carnevale Era stato rinviato dalla Corte di Cassazione da Palermo alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere. Salvatore Carnevale, socialista, sindacalista, guidava il movimento popolare per l’occupazione delle terre. Fu ucciso una mattina mentre percorreva un “tratturo” per recarsi al lavoro. Furono arrestati quali autori dell’omicidio quattro “campieri”, indicati come mafiosi di un feudo della principessa Notarbartolo. L’istruttoria presso il tribunale di Palermo fu agitata da manovre sotterranee per scagionare gli imputati. Silenzio dei testimoni, falsi alibi, ritrattazioni di dichiarazioni già rese furono il terreno per invocare la legittima suspicione. Il processo davanti la Corte di Assise di Santa Maria fu lungo e a volte drammatico. Gli imputati furono condannati all’ergastolo e fu segnalato che quella era la prima sentenza che interrompeva l’abituale serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Vari furono i motivi che richiamarono a Santa Maria la stampa internazionale: 1) lo sfondo politico e mafioso del processo; 2) il libro di Carlo Levi “Le parole sono pietre” riferito al linguaggio asciutto e di denunzia di Francesca Serio la madre dell’assassinato; 3) la presenza al processo dello stesso Levi, interessato anche a verificare se gli imputati corrispondevano ai connotati morali che la Serio gli aveva attribuito e a lui riferiti in lunghi colloqui. La serie di assoluzioni si interruppe solo per un momento per riprendere, con l’assoluzione degli imputati in appello, il suo corso. Parlare del passato remoto del tribunale non mi è stato difficile.

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I documenti costituiscono una guida sicura. Parlare del suo passato prossimo è stato più difficoltoso perché il tempo non ha ancora ingiallito le carte. Parlare del tribunale oggi è estremamente difficoltoso, a meno che non ci si voglia fermare alle esteriorità fatte di arresti in massa, maxiprocessi e condanne all’ergastolo. Il lettore sprovveduto potrebbe confonderle con quelle che seguirono la famigerata Legge Pica (1863-1865). Il tempo rimetterà al loro posto, nella speranza che non ne manchi alcuna, le tessere del mosaico della giustizia. Santa Maria Capua Vetere, 9 Ottobre 2009

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Il sistema delle pene nei codici penali del Regno delle Due Sicilie e del Regno di Sardegna Prima parte di AUGUSTO CONTE

INTRODUZIONE Gli illuministi: origine e funzione delle pene La crisi del sistema delle sanzioni penali nel nostro Ordinamento, manifestata dal sovraffollamento delle Carceri, non mitigata né dai condoni, né dagli istituti disciplinati dall’Ordinamento Penitenziario, e soprattutto, determinata dalla constatazione della inefficacia delle pene, unitamente al dibattito in corso sulla “legalità” delle pene, suggerisce una rivisitazione storico-giuridica della applicazione delle pene nelle legislazioni degli ultimi secoli nei due principali ordinamenti preunitari costituiti dal Regno delle Due Sicilie e dal Regno di Sardegna. Su entrambi i sistemi avevano spiegato influenza i riformatori illuministi, che ispirarono la riforma in senso umanitario del diritto penale, tra i quali Gaetano Filangieri (1752-1788), Cesare Beccaria (1748-1799), Pietro Verri (1728-1797) e Francesco Mario Pagano (1748-1799) per i quali la pena nella sua essenza tipica è “una restaurazione dell’ordine ed una riparazione dé nostri violati diritti1”,

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FRANCESCO MARIO PAGANO, Scritti politici, V, cap. XIII.

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e consiste nella “perdita di un diritto per un diritto violato2”, per “stabilire “le giuste pene alle ingiuste azioni degli uomini3”; e l’origine risiede nei “motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della società. Questi motivi sono le pene stabilite contro agl’infrattori delle leggi4”. Tra gli illuministi occasione di una maggiore applicazione, nella pratica del Foro, della teorica del processo criminale e delle pene5 ebbe Francesco Mario Pagano, che oltre a impegnarsi nell’insegnamento si era dedicato fin da 1775 all’esercizio della professione forense, attività da lui rivendicata quale componente essenziale dell’approccio alle tematiche del Diritto Criminale6; gli altri Autori FRANCESCO MARIO PAGANO, Principii del Codice Penale, opera postuma dell’illustre e sventurato Pagano, Milano, 1803, presso Agnello Nobile - libraio stampatore. Capitolo XII° - “Delle pene”, p. 48. 3 FRANCESCO MARIO PAGANO, Principii, “Al lettore...”. 4 CESARE BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Oscar Mondadori, 1991.§ I. Origine delle pene. Nel § XXVII. Dolcezza delle pene, Beccaria afferma che “uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse” e nel § XIX “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e tanto più utile”. Beccaria fonda il diritto di punire nel diritto di limitazione della libertà esercitato dal corpo sociale: ogni esercizio di tale diritto non necessario alla difesa del corpo sociale non costituisce più un diritto, ma un abuso. Il libro, pubblicato inizialmente anonimo, che si faceva interprete di una più equa e umana aspirazione di giustizia, segnò l’inizio di una fondamentale riforma della giustizia punitiva. Anche Beccaria si era dedicato agli studi di economia pubblicando nel 1762 “Dei disordini e dei rimedi delle monete nello Stato di Milano nel 1762”, al quale seguì “Lezioni ed elementi di economia” pubblicato postumo nel 1804. Il suo Libro più famoso, senza nome di autore, né di editore, né di paese, comparve nel 1764 e risuonò enormemente in tutta Europa, venendo raccolto con entusiasmo da saggi, giureconsulti e da tutti gli spiriti elevati e le anime generose. In pochi mesi furono esaurite tre edizioni, fu tradotto in tutte le lingue europee e commentato da Voltaire, Diderot, Morellet, Brissot de Warville, Servan e altri. 5 Come riconosce l’Editore Agnello Nobile di Milano nella edizione dei Principii del Codice Penale del 1803. 6 Lucano di nascita studiò e si laureò in legge a Napoli approfondendo la legislazione e la giurisprudenza romana e greca; l’attività di criminalista gli valse il conseguimento del rivolgimento delle discipline penali, con il trasferimento del fondamento della imputabilità e della pena dalla prova estrinseca del reato, ottenuta con l’impiego della tortura, al convincimento interiore del giudice; autore delle “Considerazioni sul processo criminale” tenne la 2

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illuministi avevano avuto solo in parte dimestichezza con il Foro; Pietro Verri, autore delle Osservazioni sulla tortura, che svolse funzioni legali come “protettore dei carcerati”7, era soprattutto un economista che aveva iniziato la carriera militare. Cesare Beccaria, poi, affermava che “non ho mai potuto piegarmi agli studi forensi né mettermi in questa mia patria alla carriera della toga”. Gaetano Filangieri per compiacere la famiglia aveva abbracciato l’avvocatura per poi passare alla carriera militare al servizio di Ferdinando IV° di Borbone, continuando gli studi anche in materia di procedura penale, nella quale fu un precursore, interrotti per la grave malattia che lo condusse a prematura morte; pubblicò nel 1780 “La scienza della legislazione”, che ebbe influenza importante sulle riforme legali europee quanto l’opera di Beccaria8.

cattedra di Diritto criminale e sostenne la superiorità del processo accusatorio su quello inquisitorio. I “Principi del Codice Penale” furono pubblicati postumi. Fu avvocato dei poveri presso il Tribunale dell’Ammiragliato e del Consolato del mare e difensore di ufficio degli arrestati delle società patriottiche e delle logge massoniche; poi giudice dello stesso Tribunale. Durante la Rivoluzione del 1999 fu Presidente del comitato legislativo. Dalla nave inglese su cui si rifugiò dopo la capitolazione della repubblica partenopea fu consegnato dall’Ammiraglio Nelson ai Borboni e condannato a morte con Cirillo e Ciaia il 29.10.1999. 7 Pietro Verri prese posizione sulla questione relativa alla abolizione della tortura come mezzo di prova; scrisse fra il 1770 e il 1777 “Osservazioni sulla tortura” prendendo le mosse dal “voluminoso processo manoscritto” a carico dei presunti “untori”, il commissario della sanità Guglielmo Piazza, autoaccusatosi reo delle unzioni pestilenziali e accusatore del barbiere Gian Giacomo Mora, a seguito “dello strazio e dé spasmi sofferti” per effetto della tortura, e sulla cui abitazione diroccata fu fatta erigere la “colonna infame”; sostenne Pietro Verri “che è cosa ingiusta, pericolosissima e crudele l’adoperar le torture”, in conflitto con chi le riteneva necessarie alla sicurezza pubblica dando la possibilità al giudice di individuare i delitti, lasciandoli, in mancanza, impuniti. Anche Beccaria si espresse contro la tortura per la sua iniquità “perché un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice” e perché la confessione estorta non ha alcun valore probatorio. 8 Filangieri fu un fautore del processo accusatorio rispetto a quello inquisitorio, e auspicava una separazione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, con l’istituzione di “magistrati accusatori”, cui fosse affidata “la funzione di inquisire, ma non di giudicare; di accusare, ma non di punire” (La scienza della legislazione, vol. I, pp. 413-414). Anche Filangieri si espresse contro gli strumenti tipici della procedura inquisitoria: la carcerazione preventiva e la tortura; specie quando descrive le carceri “dove la libertà umana è circondata da ferri e dove l’innocenza si trova confusa col delitto... dove è sepolto...il cittadino

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Le codificazioni di riferimento Le codificazioni argomento di riflessione sono tre leggi del Regno delle Due Sicilie; le prime due del periodo “francese”: la Legge su i delitti e sulle pene del 20 maggio 1808, n. 143, emanata da Giuseppe Bonaparte (“per la Grazia di Dio, Re di Napoli e di Sicilia, Principe Francese, Grand’Elettore dell’Impero”); la Legge sulla giurisdizione di polizia e sulla giustizia correzionale del 22 maggio 1808, n. 1539; le Leggi penali del Codice del Regno delle Due Sicilie del 31 marzo 1819, “sanzionato il 26 marzo 1819, pubblicato a Napoli da Ferdinando I° (già Ferdinando IV° prima della Restaurazione) “per la Grazia di Dio Re delle Due Sicilie, di Gerusalemme, ecc., Infante di Spagna, Duca di Parma, Piacenza, Castro, ecc. ecc., Gran Principe Ereditario di Toscana, ecc. ecc. ecc.”10; l’altra codificazione è costituita dal Codice del Regno di Sardegna del 26 ottobre 1839, entrato in vigore nel gennaio 1840. La legislazione penale del Regno delle Due Sicilie, sia del periodo francese che dopo la Restaurazione era molto apprezzata nel continente europeo “specialmente per quel che riguarda le leggi penali

innocente che un inimico occulto ha calunniato e che ha avuto il coraggio di sostenere la sua innocenza...” (La scienza... , vol. I, p. 418). Quanto alla tortura si doleva che “la legge che la prescrive sussiste ancora nelle nazioni più culte: sussiste infelicemente anche nelle più libere”, essendo “ingiusta, perniciosa, contraria agli interessi di qualunque società, in qualunque luogo ed in qualunque tempo...” (La scienza..., vol. I, pp. 438 e 448). Scriveva Goethe che “nel portamento di Filangieri si riconosce subito il soldato, il gentiluomo e l’uomo di mondo, ma la sua apparenza è addolcita da una espressione di tenera sensibilità morale...inoltre è appassionatamente devoto al suo sovrano ed al suo paese, benché non possa approvare tutto quello che succede...in particolar modo gli piaceva parlare di Montesquieu, Beccaria e di alcuni dei suoi stessi scritti, sempre improntato alla migliore buona volontà, e con il cuore portato con giovanile entusiasmo a fare il bene”. 9 Quando entrarono in vigore, il 1° novembre 1808, sul trono del Regno delle Due Sicilie a Giuseppe Bonaparte, passato al Regno di Spagna il 15 luglio 1808, era subentrato il cognato Gioacchino Murat. 10 Il Codice era ripartito in cinque parti, Leggi Civili; Leggi Penali; Leggi della Procedura né giudizi civili; Leggi della Procedura né giudizi penali; Leggi di eccezione per gli affari di Commercio.

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propriamente dette, può benissimo aspirare alla primaria tra i Codici di Europa. La sua pubblicazione non data che al 1819, ma era questa un’opera che da lungo tempo si era andata preparando, ed i cui principii si erano, potremmo quasi dire, insinuati nella giurisprudenza prima che fossero stati convertiti in leggi scritte. L’antico diritto penale componevasi delle tradizioni Romane, a cui fu Federico II° il primo che arrecò positive innovazioni. Dopo di lui i Sovrani posteriori molte prammatiche ed ordinanze vennero pubblicando, che composero in certa guisa una specie di diritto patrio, e nel 1789 si ebbe fino un Codice ordinato di delitti e pene militari: ma è principalmente ai nostri patrii giureconsulti, ed alle lucubrazioni dei nostri Tribunali che andiam debitori di essersi qui veduti, prima che nelle altre parti d’Italia e di Europa, fruttificare i germi che il Beccaria ed il Vico ed il Filangieri avevano affidato alla moderna civiltà. Fu così che quando nel 1808 fu trapiantato il Codice dell’impero francese, nella riduzione che se ne fece, apparvero sensibili miglioramenti, che resero la figliuola assai più pregevole della madre. Quelle leggi non erano però che il preludio di miglioramenti ancor più radicali. Essi videro la luce nel Codice del 1819 nel quale si raggiunge un grado di perfezione, cui le legislazioni dopo tanti anni trascorsi non sono ancor dell’intutto pervenute”.11 La legge 20.5.2008, n. 143 del Regno delle Due Sicilie nel periodo “francese” 1. L’art. 46 della Legge 20.5.1808, n. 143, su i delitti e sulle pene, stabiliva: “La pena è la privazione di tutti, o di parte dei diritti naturali e civili dell’uomo, pronunziata dalla legge per correggere i 11 Teorica del Codice Penale di Adolfo Chauveau, Avvocato ai Consigli del Re ed alla Corte di Cassazione del Belgio, Trattato di diritto penale comparato, Edizione Italiana eseguita nello Studio dell’Avvocato Leopoldo Tarantini. Napoli. Dallo stabilimento dell’antologia legale di Domenico Capasso. Strada S. Sebastiano, n. 51, nel Cortile dei R.R.P.P. Gesuiti. I° Piano, 1853. Vol. I°, pag. 11, nota 3.

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colpevoli, per riparare a’ danni cagionati dal delitto, e per frenare coll’esempio la reiterazione del delitto stesso”12. La Legge, che conteneva un vero e proprio codice penale, pieno di definizioni e classificazioni13 sanzionava penalmente solo i delitti, pubblici e privati, a seconda della perseguibilità di ufficio o meno, e i delitti contro la società e contro gli individui; la materia delle contravvenzioni di polizia e di giustizia correzionale era regolata a parte dalla Legge sulla giurisdizione di polizia e sulla giustizia correzionale del 22.5.1808, n. 153. Il successivo art. 47 elencava le pene “adottate” dalla legge: la morte; la pena dé ferri; la pena della deportazione; la detenzione; il bando dal Regno, l’interdizione dà pubblici ufizj; le pene specialmente esemplari. Lo stesso articolo spiegava che “di queste pene le prime quattro sono sempre le principali. Il bando dal Regno e l’interdizione dà pubblici ufizj possono essere e principali e accessorie. Le pene specialmente esemplari sono sempre accessorie delle precedenti”. La “scala penale” di applicazione è “modulata secondo il sistema dei gradi... e quindi il giudice, una volta accertate le circostanze del delitto, ha dei margini di discrezionalità piuttosto ristretti per infliggere la pena”14. Ogni genere di pena veniva applicata secondo “modificazioni” e “gradi” definiti dalla legge per quei casi “nei quali le circostanze Nella definizione riecheggiano i principi e le definizioni di emenda e prevenzione indicati nelle premesse quale fondamento della essenza della pena. 13 MARIO DA PASSARO, La codificazione a Napoli nel periodo francese, in “Le Leggi Penali di Giuseppe Bonaparte per il Regno di Napoli (1808)”, Cedam, Padova 1998. L’Autore ritiene che, soprattutto nella parte generale, la Legge assume talora più l’aspetto di un trattato scientifico che di un testo normativo; la riflessione riceve conferma dalla semplice lettura delle disposizioni generali che nella Sezione Prima definisce, divide e classifica i delitti, con notevoli definizioni dei delitti dolosi e notevolissime e attualissime definizioni dei delitti colposi. 14 MARIO DA PASSARO, cit. 12

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scusanti, che nascono dalla qualità del delitto o dalla qualità delle persone, proibiscono la stretta applicazione del genere”15; l’intensità del dolo costituiva un rilevante parametro per la commisurazione della pena, come si rileva dall’art. 48, Legge 20.5.1808, n. 143 – che facoltà il Tribunale criminale a dichiarare, quando lo esiga la qualità del fatto, la inapplicabilità delle pene previste nella legge, rimettendo la punizione del delitto ai magistrati della giustizia correzionale – in relazione agli artt. 5 e 16, comma 2° della Legge 22.5.1808, n. 153 sulla giurisdizione di polizia e sulla giustizia correzionale, che fanno riferimento ai delitti “che la legge scusa per lo piccolo grado di dolo” e in presenza di casi in cui per la natura del delitto i giudici “trovino nel calcolo della sentenza non essere luogo ad altra pena, fuorché alla correzionale”. 1-1. La pena di morte è comminata in trentaquattro ipotesi criminose quattro delle quali si riferiscono a reati contro il patrimonio quando si tratti di furti “qualificati”16: il furto con ferite che abbiano comportato la mutilazione o la deformazione della persona offesa, o in danno del Principe e della famiglia Reale, o contro i genitori, o qualora dalle ferite consegua la morte (art. 202), o siano state commesse con armi o abbiano comportato pericolo o debilitazione della vita è punito ai sensi dell’art. 249 con la morte esemplare; il furto di cose sacre o di gran valore con violenza armata contro i custodi è punito con la pena di morte ai sensi dell’art. 254; il furto di domestici all’interno delle case dei padroni (ritenuto “tradimento”) e con violenza allo stesso padrone e agli altri domestici è punito con la morte esemplare ai sensi dell’art. 257; l’art. 108 punisce con la morte Così si esprime l’art. 50, Legge 20.5.1808, n. 143. È “qualificato” il furto in presenza di queste circostanze: “per lo mezzo, per la qualità della cosa involata, per la qualità della persona, per lo luogo ove si commette il furto, per lo tempo, per la recidiva”, i furti commessi con armi, con violenza, con effrazioni, per occasione d’incendio, di ruina, di naufragio, o con abuso dell’altrui “infelicità”, con travestimento, con abuso di crudeltà, con abuso di confidenza, come previsto dagli artt. 246 e 247, Legge 20.5.1808, n. 143. 15 16

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esemplare i delitti, tentati o consumati, di furto commessi con armi da persone sole o con altri o da tre persone riunite anche senza armi qualora siano eseguiti nelle pubbliche strade o in case di campagna e “siano intervenute ferite di qualunque natura”17. Non deve meravigliare il peso (peraltro meno rigoroso rispetto a quello francese) delle punizioni per i reati contro il patrimonio, con o senza violenza. Nel Regno delle Due Sicilie e in particolare a Napoli tali reati davano luogo a vere e proprie occupazioni lavorative e esistevano vere e proprie scuole a pagamento, a contenuto teorico-pratico, per affinare l’arte del rubare, alle quali i genitori a proprie spese avviavano i figli ottenendo anche varie specializzazioni che consentivano l’ingresso nelle “paranze” ai “saccolari”, ai “grilli”, alle “serpi”, alle “zoccole”, ai “basaiuoli”, ai “caporali”18. Il codice napoleonico del 1808 ridimensionava la tutela penale del patrimonio rispetto alla legislazione francese (il Codice era “filtrato” anche dal Codice Lombardo del Regno d’Italia del 1806, alla cui realizzazione alcuni anni prima aveva anche partecipato Cesare Beccaria, che nel suo “Dei delitti e delle pene” riteneva il furto “il delitto della miseria e della disperazione” che doveva essere punito solo con pena pecuniaria ove non fosse compiuto con violenza. Tra gli illuministi Gaetano Filangieri sottopose a forte critica la legislazione francese che punendo il semplice furto con la morte, analogamente all’assassino, finiva con il far diventare il ladro un assassino “senza esporlo a maggior pene... Per punire i furti colla morte si son dunque moltiplicati gli assassini in Francia”. GAETANO FILANGIERI, La scienza della legislazione. 1783, Paris, 1853, Libro II, parte II^, Capo XXX, p. 194. 18 ABELE DE BLASIO, La mala vita a Napoli tra Otto e Novecento, Napoli. Stamperia del Valentino, 2007, pp. 21 sgg. Per la repressione dei reati contro il patrimonio, lo stesso Autore cita l’Editto del 7.4.1783 di Ferdinando IV°, che per la finalità della sicurezza, alla quale non aveva posto rimedio la Prammatica del 6.1.1779, considerata l’audacia dei ladri e la compromissione del sistema sociale stabiliva “che a render meno attiva e men pericolosa la loro colpevole industria e sorprendente destrezza del male operare, abbiamo stimato, previo parere della nostra Real Camera di S. Chiara, formare il presente Editto, col quale vogliamo e sovranamente comandiamo che dal dì della pubblicazione del medesimo siano sottoposti alla pena di due tratti di corda i ladri Borsaioli o Saccolari, qualora costoro recidivando nel delitto rubino per la seconda vola. E per assicurare l’esistenza del primo furto, e l’identità del reo, vogliamo che si riecheggia il processo fiscale del primo furto, colla pruova almeno indiziaria a tortura contro il reo: nulla importando che tale processo non sia completo, e che nel medesimo il ladro non sia stato costituito, né abbia avuto difese, né sia stato condannato. E la stessa pena s’intenda che debba aver luogo, qualora nuovamente inciampasse nello stesso 17

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L’art. 49 stabiliva che la pena della morte “si dà colla decapitazione. La morte esemplare si dà colla forca, si dà colla veste d’infamia, di cui si copre il reo prima dell’esecuzione, si dà col monumento dell’infamia perenne”. La discussione sulla pena di morte, primo grado della scala penale coinvolse gli intellettuali illuministi e i teorici delle leggi penali; secondo Beccaria nel sacrificio che ciascuno fa della propria frazione di libertà non è compreso il più grande dei beni, cioè la vita. Sostenne però che la pena poteva essere giustificata solo in condizioni eccezionali per reati contro la società19, in momenti eccezionali di mutamenti politici. Rousseau riteneva, invece, che i malfattori dovevano essere condannati a morte per il “diritto di guerra” essendosi essi dichiarati nemici della società con i loro misfatti20. Filangieri riteneva invece che nello stato di natura, avendo tutti gli uomini il diritto di punire la violazione delle leggi naturali, e quindi di togliere la vita al trasgressore, questo diritto si era trasmesso alla società, e deposto nelle mani del potere sociale21. Le opposte ragioni facevano appello al diritto personale e inviolabile all’esistenza, contraddetto dal ricorso al concetto di giustizia sodelitto”. (Le regole processuali dell’epoca, denominate Pratica Criminale, erano contenute nelle riforme avviate da Carlo III° e poi attuate da Ferdinando IV, sotto la guida di Bernardo Tanucci; le regole processuali sono state commentate in una precedente serie pubblicata da QUADERNI). In passato le pene erano state anche più severe: dalle Prammatiche viceregnali risulta che i furti notturni commessi nella Città erano puniti con la pena di morte (viceré don Pietro di Toledo, dopo il 1513) e, successivamente (conte di Olivares 1595) i condannati per furto erano segnati con un “piccolo ferro di cavallo alle spalle”: SALVATORE DI GIACOMO, Saggi insoliti sulla Città di Napoli, Stamperia del Valentino, Napoli, 2008, pp. 65-66. 19 Secondo il pensiero espresso nei “Delitti...” l’utilità è a fondamento della giustizia penale e quindi la pena deve essere utile e necessaria; tale non può considerarsi la distruzione di un essere, essendo assurdo che ”le leggi che detestano e puniscono l’omicidio ne commettono uno esse e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinano un pubblico assassinio”. 20 J. J. ROUSSEAU, Contratto sociale, Libro II, Cap. V. 21 GAETANO FILANGIERI, Scienza della legislazione, Libro III, Cap. V.

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NOTE DI STORIA FORENSE

ciale fondato sull’unanime consenso dei popoli; però trattandosi di un mezzo di giustizia estrema pericoloso, della pena di morte doveva farsene un uso estremamente riservato e in caso di estrema necessità22. Il diritto di punire fino all’applicazione della massima pena è giustificato dall’utilità generale della pena e dalla sua necessità23 non interessando ai legislatori la sua conformità alle regole di giustizia intrinseca; gli stessi effetti si ottengono con una giustizia apparente: l’unico fine della legge penale è quello d’imprimere alle popolazioni il timore della pena. Pur di fronte al dilemma prospettato della fallibilità dei giudizi, e pur sull’assioma secondo il quale la giustizia può sempre rinvenire il colpevole fuggitivo, ma mai ritrovare l’innocente trucidato, in conclusione la legislazione napoletana ammise, come tutti gli altri Stati Europei, la pena di morte siccome non illegittima, essendo nel diritto delle società, il cui esercizio era sottoposto a due condizioni: la sua efficacia e la sua attuale necessità. “Il dubbio si è insinuato in molti spiriti, ma il legislatore, pria d’accordare la soppressione definitiva, deve attendere che essa possa collegarsi colla sicurezza di tutti; che sia adottata dai costumi, ei non può precedere la società ma deve seguirla”24. Nella generale conferma della pena di morte, in conseguenza del dibattito suscitato dalla pubblicazione dell’opera di Beccaria la pena estrema fu abolita per la prima volta al mondo, con la legge emanata il 30.11.1786 dal Granduca Leopoldo I° di Toscana. MONTESQUIEU, Spirito delle leggi, lib. XII, cap. IV. Quella della “utilità sociale” della pena è la teoria di Jeremy Bentham (Londra 17481832) secondo il quale il diritto penale era fondato sull’utile. L’idea utilitaristica era stata in passato condivisa da san Tommaso D’Acquino (contrari alla pena di morte erano Tommaso Moro, Andrea Alciato, Blaise Pascal). I filosofi greci, come tramanda Platone escludevano gli antichi principi della vendetta e della rappresaglia come fine della pena; anche i Romani discutevano sulla finalità della pena come deterrente o come vendetta, come è desumibile dalle opere di Tito Livio e di Aulo Gellio. 24 ADOLFO CHAUVEAU, Teorica del Codice Penale, nella versione italiana dell’Avvocato Leopoldo Tarentini, Napoli, 1853, vol. I, p. 43. 22 23

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SAGGISTICA E NARRATIVA FORENSE

SAGGISTICA E NARRATIVA FORENSE Federico Gennaccari, Non solo Moro. L’Italia del Terrorismo 1969-2007, Fergen, 2007 di GIANMICHELE PAVONE* È questo il secondo titolo della collana “La Memoria d’Italia” delle edizioni Fergen, di Federico Gennaccari, giornalista parlamentare e ricercatore. Questo volume è una cronologia illustrata per custodire la memoria, attraverso la cronaca del tempo, di tutte le vittime del terrorismo senza alcuna distinzione di ceto sociale, mestiere o colore politico. Le notizie, infatti, allo scopo di ridare un volto agli oltre duecento nomi (individuabili, peraltro, grazie ad un indice analitico), sono corredate da un’abbondante documentazione fotografica e dagli articoli originali tratti direttamente dalla stampa (il Corriere della Sera, Il Messaggero, La Repubblica, L’Unità, Il Secolo XIX, La Gazzetta del Mezzogiorno, L’Unione Sarda, solo per citarne alcuni), il che rende la lettura tutt’altro che impegnativa. I trentotto anni che trascorrono nelle oltre trecento pagine del libro sono “gli anni dell’odio e del piombo”: si va dal giugno del 1969, poco prima della strage di Piazza Fontana, al maggio del 2007, con

* Praticante abilitato.

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SAGGISTICA E NARRATIVA FORENSE

l’istituzione del Giorno della Memoria delle Vittime del Terrorismo in occasione dell’anniversario della morte di Aldo Moro. Il Presidente di Democrazia Cristiana, sequestrato ed ucciso nel 1978, è solo la più nota di decine di vittime illustri: ricordiamo ad esempio Coco (1976), Casalegno (1977), Alessandrini (1979), Rossa (1979), Bachelet (1980), Tarantelli (1985), Ruffilli (1988), D’Antona (1999), Biagi (2002). Le notizie riportate riguardano, inoltre, i fatti più salienti della politica e della cronaca internazionale, giacché gli stessi hanno spesso determinato ripercussioni nel nostro Paese. La narrazione è per lo più limitata ai fatti, senza dietrologie, ma non prescinde dalle doverose precisazioni storiche ed ideologiche sulle Brigate Rosse (con le prime teorie dei “fondatori” Curcio, Cagol, Franceschini e Moretti e le successive scissioni), sui gruppi che si ricollegano al brigatismo rosso (Nuclei Armati Proletari, Prima Linea, etc.) e sugli “anarchici di destra” (Nuclei Armati Rivoluzionari). L’autore, non si esime, infine, dallo stigmatizzare l’atteggiamento di taluni gruppi musicali (come i 99 Posse) che, supportati dai centri sociali in cui “i truci e tristi slogan degli anni Settanta tornano di moda”, inneggiano alla violenza alimentando il mito dei brigatisti irriducibili ancora detenuti. A tali considerazioni non possiamo che associarci anche e soprattutto a fronte del moltiplicarsi senza fine di gruppi che si ricollegano alle BR nella costellazione del crimine e del terrore (da ultimi i Nuclei di Azione Territoriale, individuati dalle forze dell’ordine nei mesi scorsi ed operanti nel Nord Italia tra le città di Milano, Bergamo, Como, Lecco e Torino). Solo una limpida consapevolezza di ciò che è accaduto in passato e di tutto il sangue versato previene il perpetrarsi della folle e criminale esaltazione ideologica.

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