Rivista trimestrale di informazione del CEIS Genova
La Spiritualità
La spiritualità tanto nella persona quanto nella comunità è la forza propulsiva che per noi del CEIS permette di sostenere la volontà di riscatto dalle dipendenze e di chi affronta la ricerca della sicurezza lasciando la terra natia.
La spiritualità è una esperienza quotidiana che si esprime nei gesti di solidarietà, nell’accoglienza e nella costruzione di relazioni autentiche; è quella forza interiore che ci permette di guardare al futuro con speranza, anche nelle avversità più difficili.
Sant’Agostino ci insegna che la pace non è semplicemente un’assenza di conflitto, ma il risultato naturale della fratellanza e della carità, alimentato da una spiritualità vissuta e condivisa. È una spiritualità incarnata nelle piccole cose: nel prendersi cura del prossimo, nel rispetto delle diversità, nell’aprire il cuore all’altro.
Vi invitiamo a esplorare insieme a noi queste riflessioni e a lasciarvi ispirare dagli spunti che riempiono questo numero de L’Abbraccio.
Buona lettura!
Enrico
Costa
Il ritorno alle radici: spiritualità e relazioni umane
Luciano
Abissi e disarmonie delle relazione genitoriale.
Un vuoto di educazione al pensiero morale e alla spiritualità di Maria Luisa Iavarone 8
La spiritualità: realtà non più trascurabile nelle cure
di Don Massimo Angelelli
Spiritualità degli Operatori Sociosanitari.
L’ABBRACCIO
Rivista trimestrale di informazione del CEIS Genova
Direttore responsabile
Silvano Balestreri
Caporedattore
Alessandro Censi Buffarini
In redazione
Elisabetta Aicardi, Agnese Schiaffino
Hanno collaborato
Don Fully Doragrossa, Luciano Squillaci, Maria Luisa Iavarone, Don Massimo Angelelli, Antonella Filastro
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Siamo qui perché non c’è alcun rifugio dove nasconderci da noi stessi. Fino a quando una persona non confronta se stessa negli occhi e nei cuori degli altri, scappa. Fino a che non permette loro di condividere i suoi segreti, non ha scampo da questi. Timoroso di essere conosciuto né può conoscere se stesso né gli altri, sarà solo. Dove altro se non nei nostri punti comuni possiamo trovare un tale specchio? Qui insieme una persona può alla fine manifestarsi chiaramente a se stessa non come il gigante dei suoi sogni né il nano delle sue paure, ma come un uomo parte di un tutto con il suo contributo da offrire. Su questo terreno noi possiamo tutti mettere radici e crescere non più soli come nella morte, ma vivi a noi stessi e agli altri.
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Spiritualità e opera sociale
Editoriale di Don Fully Doragrossa, Rettore del Seminario Arcivescovile di Genova, coordinatore della Pastorale Giovanile Genova
Per i lettori più giovani ricordo che sono stato assistente del Ceis dal 1998 al 2012. Volentieri scrivo per voi due righe sulla spiritualità nel percorso del progetto uomo o perlomeno il modo di intenderla secondo il Ceis. Per fare questo vorrei condividere con voi nella prima parte un piccolo lessico sulla spiritualità per evitare incomprensioni coi termini. A volte capita di dire la stessa parola ma di intendere cose opposte un po’ come quando potrei dire “mi hai dato una spinta” e c’è chi intende un aiuto e chi invece un danno per buttarmi giù dalle scale chi invece un atto illegale.
PRIMA PARTE: LE PAROLE GIUSTE
Sono almeno quattro le parole da prendere in esame: SPIRITUALITA’, TRASCENDENZA, RELIGIONE, FEDE.
Spiritualità: per spiritualità intendo qua ciò che tocca lo spirito dell’uomo; la parte interiore quella che non si vede anche se poi si manifesta generalmente attraverso il corpo con azioni, gesti, atteggiamenti. In questo senso la spiritualità concerne ogni uomo, fa parte dell’umanità. Ogni uomo deve cercare il senso di ciò che fa, orientarsi, trovare una direzione. Quando si alza al mattino è perché qualcosa, qualcuno lo spinge. Ognuno è chiamato a questo. Ognuno è chiamato a occuparsi di se stesso; dei propri sentimenti delle proprie idee dei propri valori. Ognuno ha un suo mondo effettivo di valori al di là delle idee magari ufficialmente professate. E’ una sete, un desiderio presente in ogni uomo. Sono le risposte alle domande basiche della vita che per quanto banali possano sembrare stanno alla base del nostro vivere: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Quale è il mio destino? Perché la morte? Perché la sofferenza? Che criteri usare per scegliere nella vita? A queste domande ognuno risponde a suo modo. Nessuno può dire “non ho spiritualità” perché anche il materialismo è risposta a questa domanda, anche l’egoismo risponde “sono io e il mio tornaconto il criterio della mia vita” Anche l’ateo e l’agnostico hanno la loro spiritualità, hanno la dignità delle loro convinzioni. Si possono non condividere ma dal fatto che sono vivi non possono sottrarsi alla domanda di “cosa farò quest’oggi”. E rispondono. Vorrei
anzi andare ancora più a fondo. La Spiritualità è qualcosa di profondo è ciò che mi fa agire, non le convenzioni che esprimo, la morale che magari professo ma che scavalco quando poi si tratta di decidere in effettivo. La spiritualità ha a che fare col senso profondo delle cose e la sua ricerca non con l’etereo e l’immateriale, l’evanescente. Tutto ciò si chiama spiritualismo. Nulla a che fare con una spiritualità profonda.
Trascendenza: la trascendenza è invece una apertura dell’uomo al mistero della vita che gli sta davanti e riconosce che c’è qualcosa che lui non può contenere, non può controllare. Si apre a ciò che lo trascende. L’uomo primitivo guardava alla natura e capiva che non poteva dominarla del tutto, di fronte a un lampo, all’eruzione di un vulcano, un terremoto, un uragano. Non dipendeva da lui. Nemmeno il sole la luna…. Anche la scienza moderna può aprire a questa trascendenza. Nonostante si possa credere al caso, alla casualità tuttavia l’armonia che ci circonda, sorprende! Può spingere al terrore e all’ansia o alla lode e ringraziamento ma di certo ci sovrasta. Anche il mondo interiore all’uomo ci sorprende spesso e ci trascende. Quante volte faccio io stesso cose che non comprendo, penso una cosa e ne faccio un'altra. Anche l’altro essere umano in un certo senso ci apre a qualcosa che non posso dominare. Posso dominare l’altro nel corpo, metterlo al tappeto, ma le sue idee pensieri e sentimenti non posso dominarli, si vivono le relazioni nella libertà, una libertà che a volte sorprende, spaventa, inquieta invece di sorprenderci e renderci grati.
Religione: la religione lo dice la parola stessa. Desidera legare, mettere insieme dare un senso al tutto. Di fronte alla vita cerca una interpretazione e la cerca insieme ad altri, non vuole stare solo, sciolto, ma legato a un gruppo. L’uragano c’è perché una forza oscura ce l’ha con me, anche se non la vedo intuisco che c’è. Cerco dunque di legarla se la avverto ostile, o di legarmi a lei se la percepisco positiva. Per far questo faccio alleanza con altri; agisco non da solo ma guardando gli altri agisco insieme; compaiono, cioè, i riti, le preghiere, i
culti che tentano di imbonire il Dio o la Dea. Riti che mi tranquillizzano, riti che mi spronano, modi di fare piccoli o grandi ai quali mi aggrappo e affido la mia vita. Negli ultimi secoli la filosofia della ragione ha ridicolizzato tutto questo, ha declassato a superstizione ogni genere di rito e col sol dell’avvenire, fosse esso di tinta rossa o di tinta liberale, tutto sarebbe finito. Al contrario al termine del secolo scorso le Religioni hanno ripreso la scena in maniera fortissima. Basti pensare al musulmano che non mangia maiale, alle mille devozioni e processioni che tutt’oggi caratterizzano il cristianesimo, i baci alle icone russe, e mille altre situazioni nel mondo. Non sono di qualche invasato coinvolgono a milioni le persone. Del resto, l’ateismo e l’agnosticismo hanno prodotto in quantità nuovi riti sociali; dallo stadio alla discoteca, alle vacanze estive, al mondo dei social. Sembra che l’uomo non riesca a fare a meno di volersi sentir parte di un gruppo attraverso un rito, un’appartenenza. Il calcio ne è un esempio classico. Identità, bandiera, cori, raduni. L’umanità non si è liberata delle religioni e laddove lo ha fatto o sono prepotentemente ritornate e peggio di prima o si sono trasformate in situazioni ancor più disumanizzanti. La droga stessa, del resto, ha tutti i suoi riti.
Fede: La fede è ancora qualcosa di diverso. Vi possono
essere e vi sono di fatto molte persone religiose ma assolutamente atee. Come ci sono 30.000 persone allo stadio che tifano, giudicano, acclamano di calcio e non ci hanno mai giocato né ne capiscono nulla. E’ questa la situazione di tanti oggi nella nostra società: “a che religione appartiene?” “Cristiano!” poi di fatto né ci crede in Dio, né tantomeno sa cosa vuol dire; idem spesso per altre religioni. Posto di fronte alla domanda a tu per tu l’uomo si sente solo. Nella Fede questo non accade. La Fede è riporre la propria fiducia in un Dio, in un Dio personale, cosciente, libero. Si passa dalla religione al “TU” E a te mi affido, so che tu sei il bene della mia vita, seguirò ciò che tu mi dici. La Fede in questo senso è un incontro, un dono. Non può essere ottenuta. È come l’innamoramento; accade. A un certo punto cadono le barriere e ci si fida. Non è una idea che nasce in me anche se l’incontro avviene dentro me. È qualcosa che trovo, di nuovo di improvviso.
Chiudo questo excursus dicendo che la Fede cristiana è l’incontro Con Gesù attraverso i Vangeli e le comunità che li narrano; è credere in Lui a Lui affidarsi e affidandosi a Lui ci si affida ai fratelli che Lui ci indica come sua vera presenza. La Religione cristiana e in fattispecie cattolica si esprime poi con riti, atti, devozioni ma questi fan parte della Religione. Credere in Gesù vuol dire che quel
mistero della vita che mi trascende e che dà le risposte di senso alla mia vita io lo trovo narrato, rivelato, donato nella Persona di Gesù di Nazareth; è Lui il volto di Dio. Dio è Gesù!
PARTE SECONDA: IL
CEIS
Tutti sanno che il Ceis nasce per affrontare un grave problema che si stava imponendo nella nostra società dopo la Seconda guerra mondiale; i reduci americani dal fronte europeo tornavano a casa e non riuscivano a smettere di assumere le droghe che erano servite per far affrontare loro il dolore delle ferite di guerra o addirittura della mostruosità della guerra. Si elaborò allora negli Stati Uniti un programma di riabilitazione chiamato PROGETTO UOMO che si radicava soprattutto nelle parole del Vangelo e proveniva da esperienze religiose. Prendeva cioè in considerazione tutto l’uomo e riconosceva che non era solo questione fisica e biologica l’uscita dalla dipendenza ma coinvolgeva gli aspetti più profondi dell’uomo. Anche quando il corpo era guarito le persone tornavano alla droga perché li trovavano risposta alle loro domande più profonde. Perché sì, la droga è la risposta all’eterna domanda di cui sopra si parlava nella spiritualità: sarò mai felice? Che senso ha tutto questo? Questo la droga andava a coprire. L’inquietudine dettata dal dolore, da una malattia, dall’ansia, dalla solitudine, da traumi vissuti, e dunque occorreva agire non solo sul campo medico del corpo disintossicando ma anche proprio su quello umano del senso della vita. Si era capito che il problema non era la droga ma il perché ricercavo la droga e perché continuavo a farmi del male, privandomi della mia libertà e della mia salute. Occorreva dunque ricostruire l’uomo, con i suoi ideali, i suoi sogni, la forza della sua volontà interamente oramai occupata dalle sostanze. Se il metodo prevedeva la ricostruzione dell’uomo anche attraverso una serie di azioni esterne volte a cambiarne gli atti, a un certo punto occorreva farlo riflettere appunto sul senso della vita. Occorreva che affrontasse fra le altre cose il tema della spiritualità; cosa voleva dalla vita? Come avrebbe sistemato la morte? E il dolore? E i sentimenti? E gli altri esseri umani che valore avevano in tutto questo? Casualità? Determinismo perché comunque ne ho bisogno e li uso? Allora anche io mi faccio usare? Come mi sento in tutto questo? È qui che gli operatori inserivano il cammino spirituale. A ogni ragazzo che si recupera dalle sostanze così come a ogni ragazzo che viene accolto il Ceis propone di andare a fondo nella sua propria spiritualità,
di vedere con chiarezza e realtà la propria vita, di darsi dei valori di riferimento che siano radicati bene nella sua persona; non si può ricostruire o costruire un uomo, una persona solo affrontando i propri bisogni materiali, ma soprattutto i propri bisogni spirituali, affettivi, la ricerca del senso; aiutare a individuare un filo che leghi tutta la nostra vita evitando una frammentazione che non favorisce l’equilibrio. Per fare un esempio si può rimettere in piedi una persona fisicamente e nella sua salute, trovargli una casa, trovargli un lavoro; ma se non scopre le cause che lo avevano ridotto alla dipendenza, se non si danno motivi per vivere ben presto tutto tornerà daccapo. Viene poi anche la fase dove viene chiesto di riappropriarsi di un linguaggio comune, di riscoprire se si vuole appartenere a una religione, quella della famiglia e della propria storia o un'altra, o appartenere a chi non crede alla religione classica ma alla religione della ragione, della scienza o tecnica; non ci saranno riti comunemente intesi ma ci sarà il sapere, il leggere, il discutere, il ricercare. Il ragazzo riscopre le proprie origini a volte, i propri vissuti da bambino, o al contrario li rifiuta scegliendo altro che ha incontrato nella vita e che gli pare più consono per non sentirsi solo. La fase della fede viene lasciata alla persona; sarà un incontro che può avvenire o non avvenire, una domanda che troverà risposta o che rimarrà aperta. Ma la domanda di certo ci sarà. E una apertura anche, perché la rigidità non fa parte del percorso Ceis. Tra rigidità e forza c’è una bella differenza. Chi esce dal percorso del progetto uomo si prepara a essere persona forte non rigida. Sia fisicamente sia mentalmente sia negli affetti. Anche il credente rimane aperto alle novità che Dio gli propone via via e non ha altre certezze, per altro spesso messe alla prova, che Dio esista o , nel caso del cristianesimo che Dio è Amore.
Questo cari amici è ciò che il percorso Ceis intende dunque per spiritualità. Certamente una visione molto laica ma nel senso profondo del termine e non laicista. Una visione che prende sul serio l’umanità e la sua apertura alla ricerca del senso della vita. Una domanda di senso spesso disattesa da questo nostro mondo ma presente in ogni essere umano. Una domanda di senso che rischia di bruciare le vite e di portare alla disperazione, alla solitudine, causa proprio del rifugiarsi nelle sostanze, siano esse chimiche o di vario genere. Questa solitudine il Ceis vuole sconfiggere nell’aprirsi dell’umanità alla relazione con l’altro e con l’Altro che ci trascende.
Il ritorno alle radici: spiritualità e relazioni umane
di Luciano Squillaci, presidente F.I.C.T. – Federazione Italiana Comunità Terapeutiche
Viviamo un periodo storico fortemente contraddittorio, che conduce ognuno di noi a trovarsi sospeso tra la naturale tensione verso la scoperta, il nuovo, la relazione, e la pulsione indotta dal contesto a “quantificare” in termini di potere d’acquisto tutto ciò che ci circonda, giungendo alla paradossale conseguenza che lo stesso mondo viene declassato a materiale di consumo.
Ciò evidentemente porta con sé una inevitabile insoddisfazione, non essendo evidentemente possibile saziare una voracità che si auto riproduce costantemente, all’interno di una dinamica che impone sempre maggiore velocità ed efficienza.
Non deve quindi stupire che la nostra epoca possa essere considerata come il momento storico maggiormente ricco di mezzi e di beni, ma di contro il più povero in assoluto di senso.
Ed a questo contesto certamente non è avulso il mondo del Terzo Settore e dell’associazionismo, che rischia di
risentire della generalizzata tensione alla “produttività”, perdendo i significati più profondi della propria azione, che pure ne rappresentano il centro dell’identità e dei legami di appartenenza.
IL TERZO SETTORE TRA NECESSITÀ E SENSO
Negli ultimi decenni, gli enti del terzo settore hanno infatti visto una profonda trasformazione. Nati come espressione di una stretta relazione con le comunità locali gli ETS (Enti del Terzo Settore), anche a seguito dei naturali processi di istituzionalizzazione conseguenti alle normative di settore, si sono lentamente allontanati dall’originaria condizione di parte integrante del tessuto sociale. Un percorso che ha portato molte organizzazioni a divenire meri fornitori di servizi, distanti dalle esigenze reali dei territori, vincolate da regolamenti burocratici e tariffe. Ormai in essere nella maggior parte delle regioni italiane, l’azione sociale si è incanalata all’interno di paletti rigidi determinando una sorta di “gabbia” all’interno della quale le organizzazioni
di Terzo settore si sono lentamente, ma inesorabilmente appiattite sul livello del Fare, strette nella morsa del binomio, sempre più stringente, prestazione – tariffe. Un processo che ha determinato, nel tempo, una costante erosione della capacità innovativa e anticipatoria, che invece è sempre stata caratteristica qualificante del terzo settore.
LA DIMENSIONE PROFESSIONALE
E L’UMANIZZAZIONE DEL SERVIZIO
Con l’introduzione dei sistemi di accreditamento sia in ambito sanitario con il DL 502/1992, sia in ambito sociale con la legge 328/2000, il terzo settore che opera nell’ambito dei servizi alle persone ha assunto una forte connotazione professionale, indubbiamente positiva per la qualità dei servizi erogati. Tuttavia, l’introduzione di paletti professionali rigidi propedeutici all’accreditamento, hanno prodotto effetti collaterali significativi, tra cui l’appannamento del senso di appartenenza degli operatori e una motivazione sempre più individuale. Gli operatori, seppur competenti, sembrano distaccarsi dal senso condiviso di missione che in passato caratterizzava le fasi fondative delle organizzazioni del terzo settore.
In questo scenario, la comunità territoriale ha perso centralità, diventando spesso destinataria passiva di interventi preconfezionati, piuttosto che partecipe attiva nella definizione di risposte adeguate ai propri bisogni.
Gli enti del terzo settore si trovano quindi oggi ad affrontare una sfida cruciale: come recuperare il rapporto con le comunità e ristabilire un senso di appartenenza collettiva?
IL RITORNO ALLE RADICI: SPIRITUALITÀ E RELAZIONI
UMANE
In un contesto dominato da regolamenti e procedure, che riduce i percorsi di servizio ad un sistema binario che categorizza i problemi e tipizza in schemi rigidi le prestazioni, emerge la necessità di riscoprire il valore delle relazioni umane. Franco Basaglia, già negli anni ’70 aveva intravisto il pericolo di perdita di senso, producendo una vera rivoluzione culturale, ribadendo la necessità porre al centro le persone e non i luoghi di cura, puntando sulla dignità e sull’autonomia dei pazienti. Questo principio nel corso degli ultimi 40 anni è stato purtroppo tradito, sacrificato sull’altare di un eccesso di efficientismo cui peraltro non sempre consegue una pari efficacia.
Occorre pertanto un passo indietro. Gli enti del terzo settore devono tornare a mettere al centro le persone e le loro relazioni, piuttosto che focalizzarsi esclusivamente sui servizi offerti. Un cambio di paradigma che deve essere frutto di una riflessione profonda sul significato, sul senso appunto, dell’agire comune, riprendendo consapevolezza che prima risorsa, oltre alle professionalità costruite negli anni, risiede proprio nel “senso di quello che facciamo”.
In questo contesto, la spiritualità assume un ruolo determinante. Non si tratta di un richiamo religioso, ma di una visione che vede l’individuo come parte di una rete di relazioni profonde, che lo legano agli altri in un senso di comune appartenenza.
Papa Francesco nel suo messaggio a Vancouver nel 2017: “la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro” ci rimanda a un concetto di prossimità che non si nutre di un semplice rapporto contrattuale tra, ad esempio, educatore e utente, dove il primo può limitarsi a vivere l’altro come soggetto da assistere, ma impone di mettere in gioco se stessi, in quanto persone, non per il ruolo assegnato, nella costruzione di una relazione dove si è protagonisti alla Pari. È in sintesi il riconoscimento di una Mission più alta per il terzo settore tradotto nel perseguimento del bene comune. La spiritualità, in questo senso, diventa quindi un incontro di prossimità tra persone in un contesto relazionale.
Per gli operatori sociosanitari, spesso impegnati in contesti complessi e difficili, questa visione spirituale può rappresentare un faro. Riconoscere l’altro come persona, con la sua dignità e unicità, significa andare oltre il mero ruolo professionale per riscoprire il valore della relazione umana. Questo approccio non solo migliora la qualità degli interventi, ma restituisce senso all’agire quotidiano, che non si limita più a una prestazione tecnica, ma diventa un vero e proprio servizio alla comunità. Questo è probabilmente l’orizzonte cui tendere, perché rappresenta promessa di futuro e speranza di domani.
Gli enti del terzo settore, soprattutto quelli operanti nel campo sociosanitario, sono chiamati a recuperare una dimensione “di senso”, spirituale e relazionale, nel loro operato. Solo così sarà possibile superare le attuali sfide e restituire agli enti del terzo settore il loro ruolo originale di promotori di cambiamento e di giustizia sociale all’interno delle comunità.
Abissi e disarmonie della relazione genitoriale Un vuoto di educazione al pensiero morale e alla spiritualità.
di
Maria Luisa Iavarone, docente dipartimento Scienze Mediche, Motorie e del Benessere Università degli studi di Napoli Parthenope
Ha senso oggi chiedersi come accompagniamo i giovani allo sviluppo della loro spiritualità? Sentiamo spesso parlare, anche a scuola, della necessità di educarli alle emozioni, ai sentimenti, all’affettività, all’empatia. Ma stiamo dimenticando che tutti questi aspetti convergono in un comune denominatore: la spiritualità. Un terreno spesso lasciato incolto, a cominciare dall’educazione familiare, che i genitori non arano più e che hanno smesso da tempo di seminare ed innaffiare. Il tempo che abitiamo, infatti, è caratterizzato da una profonda complessità educativa e sociale, che sta rivelando aspetti di crisi notevolissimi non solo riferiti ai modelli intra-familiari, ma anche ai gruppi e alle comunità. Tali circostanze sono sicuramente espressione di una perdita di valori, considerati non più terreno condiviso di relazione tra adulti che dovrebbero
esserne, al contrario, i principali mediatori.
La vita familiare del nostro tempo si svolge secondo ritmi e modalità radicalmente diverse dal passato.
La società tecnologica in cui siamo immersi sta profondamente impattando anche sui sistemi familiari, cambiandone grammatiche e sintassi relazionali.
Fino a qualche decennio fa la vita familiare era scandita da una serie di rituali sociali come i pasti, l’intrattenimento, la socialità, le vacanze e il tempo libero che rispondevano ad assetti condivisi. I figli (raramente unici) si allevavano assieme, secondo un modello che oggi definiremmo di “economia circolare”; era, infatti, quasi un obbligo scambiare e far rivivere indumenti, giocattoli, libri e quando gli oggetti si rompevano normalmente “si aggiustavano” per essere nuovamente riutilizzati. Questa cultura potremmo
dire di “consumo sobrio” era condivisa dalla gran parte della società e forse consentiva di far crescere i bambini, sin da piccoli, nel rispetto della responsabilità del consumo, evitando sprechi peraltro non frequenti nei comportamenti comuni. Tutti questi aspetti costituivano la base di un atteggiamento educativo culturale teso alla trasmissione del valore delle risorse come esperienza sociale da condividere. I bambini crescevano sin da piccoli assorbendo in maniera informale e implicita il senso del limite delle risorse disponibili, della restrizione del bisogno, del confine tra il mio desiderio e quello dell’altro. Insomma, questo tipo di esperienza di fatto tracciava i confini dell’educazione al pensiero morale che, in maniera implicita, consentiva di fertilizzare il terreno della spiritualità, intesa come disponibilità e propensione ad assumere una postura etica di apertura empatica verso l’altro da sé.
La famiglia contemporanea è caratterizzata al contrario da “confini fluidi”; i genitori spesso sono obbligati a tempi di lavoro serrati, assorbiti da una vita frenetica, hanno poco tempo e disponibilità a condividere con i figli interessi e svaghi, non foss’altro perché ciascuno ha la propria stanza, il proprio televisore, il personale computer e device dove seguire il programma o la serie preferita. La famiglia, generalmente, si riduce a due genitori (quando ci sono) con un figlio unico, molto spesso è monogenitoriale a seguito di separazioni e divorzi, talvolta è ricostituita con la presenza di uno/a nuovo/a partner. Il figlio unico diventa così il baricentro del sistema familiare, viene cresciuto con premura, anche perché spesso è stato atteso a lungo a causa di maternità procrastinate per ragioni di carattere socioeconomico. Il figlio unico cresce, dunque, in nessuna esperienza di condivisione, viene “allevato in esclusiva” in abbondanza di risorse e di mezzi, sa di essere “prezioso” e dunque chiede scarpe e indumenti griffati, oggetti di valore tecnologico. A questi ragazzi concediamo molto, forse troppo; non sperimentare nell’infanzia condizioni di restrizione del desiderio non insegna a limitare le richieste e dunque riduce la capacità di autolimitarsi e autoregolarsi (Iavarone, 2024).
Vivere l’esperienza del divieto nell’infanzia rappresenta infatti una importante occasione di sviluppo; imparare a dire qualcuno dei famosi “No che aiutano a crescere” (Phillips, 2017) insegna al bambino a stare al mondo in maniera più autoregolata. Oggi, i genitori sembrano più preoccupati di accontentare che di educare i figli,
ritenendo che il loro ruolo sia principalmente quello di soddisfare i “bisogni di felicità” della prole e quando questa, a dispetto dei loro sforzi, non arriva entrano in un corto circuito malsano in cui più ne osservano disagi e insoddisfazioni più concedono altro e questo abitua i figli a ritenere i genitori responsabili della loro infelicità. I genitori, dal canto loro, si sentono colpevoli; i figli avendo assimilato questa dinamica formulano ai genitori richieste sempre più elevate alzando l’asticella sempre più in alto. Si genera, così, un meccanismo di co-dipendenza reciproco, una specie di circolo vizioso inesorabile che alimenta nei genitori frustrazione e sensi di colpa.
La dinamica descritta mi è parsa chiara avendo personalmente osservato nella mia esperienza professionale e di ricerca molti genitori, anche culturalmente accorsati, cadere nella trappola del senso di colpa di vedere il figlio, nonostante l’abbondanza di risorse e di opportunità lui destinate, essere in disagio e dunque porsi la fatidica domanda “gli ho dato tutto, cosa gli manca per essere felice?”.
I genitori sembrano travolti dal bisogno di accondiscendere alle richieste dei figli, incondizionatamente, quasi a compensazione di quella incapacità di essere nella loro vita in maniera adeguata, forse anche per sottrarsi al giudizio di sé stessi.
Ecco, questa emblematica proposizione chiarisce la distorsione di come alcuni genitori rappresentano la funzione genitoriale ritenendola un atto di “donazione incondizionata” come se la felicità di un figlio possa dipendere dalla quantità di beni ed opportunità concessi.
Un figlio iper-accudito non è un figlio “più amato”, al contrario è un individuo cui stiamo donando un “Sé fragile”, che stenterà ad entrare nell’agone della vita e dunque avrà una autostima precaria, scarsa autoefficacia e soprattutto sarà privato di un potenziale spirituale capace di fargli attraversare la vita in maniera prosociale.
Questa dinamica si sta esasperando nel nostro tempo rischiando di inquinare, come accennato in precedenza, quel terreno di coltura del valore della vita, della condivisione, del senso dello stare al mondo in maniera responsabile che attiene, appunto, al significato di una “spiritualità civile” nell’accezione cui si è inteso fare riferimento in questo breve scritto.
La spiritualità: realtà non più trascurabile nelle cure
di Don Massimo Angelelli, Direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della C.E.I. -Conferenza Episcopale Italiana
Chiunque abbia a che fare con la malattia, credente o meno che sia, si trova davanti al mistero della trascendenza e ancor più nella terminalità dove la crisi di senso sgretola l’idea di sé, degli altri e dell’Oltre. In questa condizione scaturiscono le domande esistenziali che risiedono nell’interiorità di ciascuno di noi. L’importanza dell’assistenza spirituale scaturisce proprio da queste domande.
La stessa letteratura medica non ha dubbi sul fatto che i bisogni spirituali delle persone malate esistono e che sono molte le persone chiamate a farsene carico.
Tale assunto è alla base del modello biopsicosocialespirituale proposto da D. Sulmasy: «…non parti separate della realtà umana da suddividere tra specialisti, ma dimensioni distinte sempre presenti e intercorrelate nell’interezza della persona».
Nel 2021 la Federazione dei professionisti sanitari TSRM e PSTRP, nell’approvare la loro Costituzione etica, formulano una nuova definizione di salute: «La salute è una condizione dinamica di benessere fisico, mentale, spirituale, sociale e ambientale, non mera assenza di malattia», integrando definitivamente la dimensione spirituale nel concetto di salute.
Analogamente, il Garante per la protezione dei dati personali, nel provvedimento n. 515 del 12.11.2014 «prescrive alle strutture del SSN di adeguare la raccolta delle informazioni relative alla religione di appartenenza dell’interessato», ai fini «dell’erogazione dell’assistenza religiosa e spirituale in ospedale».
In questo dibattito diventa centrale la differenza tra spiritualità e religione.
Cos’è “spiritualità” e cosa “religione”?
Nel 2011 l’Associazione Europea di Cure Palliative (EAPC) ha definito spiritualità «quella dimensione dinamica della vita umana che concerne il modo in cui le
persone […] fanno esperienza, esprimono e/o ricercano significato, scopo e trascendenza; ed il modo in cui entrano in connessione col momento che vivono, col sé, con gli altri, con la natura e con ciò che è portatore di senso e/o sacro». Tale dimensione si manifesta in sfide esistenziali (domande circa il senso, la sofferenza, la morte, etc.), aspetti valoriali nucleari della persona (riguardanti sé stesso, le relazioni significative, la vita stessa, etc.), o vissuti di tipo religioso.
La religione, invece, per essere tale deve avere quattro componenti vitali: 1) fede in una trascendenza riconosciuta come sacro che svolge un ruolo ben definito nel sistema di significato di quella persona; 2) legame emotivo con questa trascendenza ottenuto / ricercato attraverso rituali religiosi; 3) definizione di bene e di male secondo la prospettiva religiosa cui si aderisce; 4) percezione di sé stessi come appartenenti a una comunità che ha radici in un passato, vive un presente sostanziato nelle altre tre dimensioni appena esposte e ha un futuro custodito e garantito dal Dio rivelato.
Se alla base della religione c’è sempre una spiritualità, non è detto il contrario.
La differenza tra religione e spiritualità ne sottolinea un’altra che va ben chiarita: l’assistenza spirituale è una capacità richiesta ad ogni operatore sanitario (es. medico, infermiere, professionista sanitario…) e destinata a tutti indistintamente, che tuttavia non si identifica soltanto con l’assistente spirituale, specificamente richiesto dall’équipe quando il paziente manifesta la propria appartenenza ad un culto religioso ed il suo desiderio in quella direzione.
A questo punto, se è vero che gli operatori si occupano non di malattie ma di persone malate nella loro interezza, non è in alcun modo possibile alcuna improvvisazione, anzi è fortemente raccomandata una formazione specifica e mirata in quanto i diversi
operatori, consapevolmente o no, saranno coinvolti dal piano esistenziale / spirituale della persona malata.
Per comprendere l’Altro è necessario che vi sia nella interiorità stessa degli operatori uno spazio capace di accogliere il bisogno spirituale del paziente.
Per creare tale spazio è indispensabile un processo formativo che consista in un’esplorazione cognitiva ed emozionale dell’esperienza dell’altro per giungerne ad una nuova comprensione.
Valorizzando l’attivazione della dimensione personale in quella professionale, si promuovono processi di apprendimento continuo (ad esempio, quando c’è la presenza di un sintomo rilevante, come il dolore, il significato ed il valore stesso attribuito al dolore e al suo sollievo risiederanno nel sentire spirituale, cioè esistenziale, di sensi e significati della persona malata).
Potremmo, pertanto, definire il processo spirituale come un processo dinamico durante il quale fasi diverse si succedono e si mescolano, con domande che gradualmente trovano risposta o domande da abitare senza risposta.
Qui entra in gioco la crisi, quella fase in cui la comprensione si arresta, le domande si fanno ossessive,
nulla solleva dalla sofferenza, iniziano i sintomi fisici e psichici.
La perdita di significato: “La mia vita non ha più senso”, angoscia e desiderio di morire.
La perdita di controllo: “Come si fa a vivere sentendosi un peso?”, impotenza, rabbia, vergogna.
La prospettiva del tempo: “Cosa c’è dopo la morte?”, “e davvero adesso che accade?”, rassegnazione, apatia. Isolamento: “Nessuno mi può capire, nessuno mi può aiutare”, solitudine, agitazione.
Disperazione: “Non c’è nulla per cui valga la pena vivere”, depressione.
Dinnanzi a questa complessità servono competenze specifiche per medici, infermieri, professionisti sanitari, psicologi delle équipe tra cui (secondo il Modello del Marie Curie Cancer Centre e le Linee Guida dell’EAPC):
- Conoscenze: comprendere la natura di una valutazione spirituale, l’impatto della comunicazione verbale e non verbale; conoscere l’importanza della confidenzialità e sapere quando trasmettere un’informazione confidenziale; essere in grado di inviare ad altri membri del team sapendo motivare in modo articolato le ragioni dell’invio.
- Abilità: far emergere i bisogni del paziente nei suoi tempi; ascoltare in modo attivo pazienti e caregivers; riconoscere e rispondere alle emozioni delle persone; riconoscere i propri limiti e saper inviare al membro dell’équipe appropriato (ad es. psicologo o assistente spirituale); capacità di vedere il quadro complesso di relazioni intra-familiari e fra famiglia ed équipe curante e muoversi tenendone conto e promuovendo le reti esistenti.
- Azioni: disponibilità all’ascolto dei pazienti e caregivers; documentare i bisogni percepiti; inviare ad altri membri dell’équipe quando necessario; documentare le informazioni riservate rispettando la confidenzialità delle persone curate e dell’équipe; identificare i propri bisogni formativi e di crescita personale e attivarsi per soddisfarli; documentare i risultati raggiunti con le singole persone; documentare le questioni religiose o spirituali o etiche complesse in cartella clinica.
- Consapevolezza del fatto che i bisogni spirituali richiedono di essere riconosciuti; essere consapevoli della propria spiritualità; essere consapevoli della necessità di rispettare i confini posti da pazienti e caregivers; essere consapevoli delle proprie emozioni nella relazione.
Nello specifico della presenza cristiana, oltre a queste competenze, si richiede una triplice esigenza di vicinanza: la prima è il voler vedere ciò che accade, secondo il modello del Buon Samaritano (cfr. Lc 10, 3037) che passando non va oltre, ma si ferma e ascolta la reale necessità del ferito, facendosene personalmente carico con la propria competenza; è il principio del chinarsi, della scienza clinica: è «l’attività del singolo curante sulla singola persona malata» . La seconda esigenza di vicinanza è l’affiancarsi testimoniante, che non necessariamente è un parlare, ma è rendere effettivamente la presenza salvifica di Cristo. La terza esigenza è la risposta più profonda alla domanda su cosa si debba «fare per ereditare la vita eterna» (cfr. Lc 10, 25). Avvicinare per curare, fisicamente o spiritualmente, la persona ferita, ci fa essere migliori, ci fa realizzare non solo il bene dell’altro, ma ci rende “più buoni”, ci fa maggiormente corrispondere alla nostra natura più profonda.
In conclusione, un approccio che si dichiari scientifico non può, quindi, non prendere in considerazione la totalità della dimensione umana, compresa quella spirituale.
1 TESIO L., Il declino della clinica: peggio che un crimine, un errore, nel vol. “Medicina riabilitativa. Scienza dell’assistenza” a cura di ANGELELLI M. - COLOMBO M., Editoriale Romani, Savona 2018, p. 20.
Spiritualità degli Operatori Sociosanitari.
di Antonella Fìlastro, Direttore IPUE “Luigi De Marchi”
Nel panorama della relazione d’aiuto, la spiritualità degli operatori rappresenta una risorsa fondamentale per migliorare la qualità e l’efficacia dell’intervento. Secondo una prospettiva umanistica-esistenziale, la spiritualità diventa un mezzo per connettersi con il senso più profondo dell’esistenza, sia del paziente che dell’operatore stesso. È quindi una risorsa psicologica che arricchisce la relazione d’aiuto, trasformandola in un viaggio verso la scoperta di sé e la condivisione autentica dell’esperienza umana. Inoltre, la spiritualità può agire come un potente strumento per prevenire il burnout, offrendo agli operatori un contesto significativo che li aiuta a fronteggiare le difficoltà emotive e lavorative.
In un contesto umanistico-esistenziale, la spiritualità viene definita come la capacità di connettersi con il proprio essere profondo, con il significato intrinseco della vita. Si distingue dalla religiosità, che è legata a dottrine e pratiche religiose. La spiritualità, invece, riflette una dimensione universale che può essere
vissuta indipendentemente dalla fede religiosa e risuona con il bisogno umano di trovare un senso personale e autentico all’esistenza. L’approccio Umanistico Esistenziale è centrato sulla persona come essere dotato di valori, aspirazioni e desideri di senso, e la spiritualità diventa un mezzo per coltivare questa profondità.
Autori di riferimento come Viktor Frankl hanno sottolineato l’importanza della ricerca di significato come elemento centrale per il benessere esistenziale, mentre Carl Rogers ha evidenziato la necessità di una presenza autentica nella relazione terapeutica, una dimensione che si collega alla spiritualità come capacità di stare pienamente nell’esperienza propria e dell’altro. La capacità di vivere in connessione con la propria dimensione spirituale diventa anche un fattore determinante per contrastare lo stress lavorativo permettendo agli operatori di rimanere centrati e motivati.
L’Influenza Positiva della Spiritualità sugli Operatori
Sociosanitari
La spiritualità, secondo l’approccio UmanisticoEsistenziale, contribuisce a sviluppare una capacità empatica più autentica e profonda. Gli operatori sociosanitari che coltivano una propria dimensione spirituale riescono a creare una connessione emotiva con i pazienti che va oltre l’intervento tecnico o la semplice cura dei sintomi. La spiritualità diventa uno spazio condiviso, un ponte che permette di affrontare la sofferenza con compassione, di riconoscere l’altro come un’entità unica, portatrice di senso e di valori.
Gli operatori spiritualmente consapevoli sono in grado di affrontare il dolore e la sofferenza del paziente, sostenendo la persona senza cedere alla tentazione di “risolvere” o di “aggiustare” tutto. Questa capacità di tollerare la sofferenza si traduce in un’accettazione profonda delle fragilità umane, sia proprie che del paziente, creando così uno spazio terapeutico autentico in cui le esperienze possono essere esplorate e vissute nella loro totalità. In questo senso, l’ascolto nella relazione d’aiuto “è apertura della propria e altrui dimensione esistenziale” (A. Filastro, 2015), un elemento cruciale per costruire un rapporto che favorisca il benessere e riduca il rischio di esaurimento emotivo.
Esperienze per Promuovere la Spiritualità nella Formazione degli Operatori
La formazione degli operatori sociosanitari dovrebbe includere esperienze pratiche e momenti di riflessione che possano favorire l’apertura alla spiritualità. Alcuni approcci esperienziali che possono essere integrati nella formazione includono:
- Gruppi di Dialogo Esistenziale: Basati sull’approccio Umanistico-Esistenziale, questi gruppi consentono agli operatori di esplorare e condividere questioni esistenziali come la morte, la libertà, l’isolamento e il significato della vita. La condivisione è un potente mezzo per connettersi alle dimensioni spirituali e sviluppare una maggiore consapevolezza del proprio percorso di vita (A. Filastro, “Conversazioni Esistenziali per una Psicologia Esistenziale Umanistica”, Alpes Roma, 2015). Attraverso questo tipo di condivisione, si sviluppa anche la capacità di gestire lo stress e di ridurre il rischio di burnout, poiché si crea uno spazio di supporto reciproco e autentico.
- Meditazione e Mindfulness: Introducendo tecniche di meditazione e mindfulness, gli operatori possono imparare a stare nel momento presente, un elemento fondamentale per connettersi alla propria spiritualità. Queste pratiche aiutano a sviluppare la capacità di presenza e di ascolto, promuovendo un’apertura verso
l’altro e una profonda connessione con se stessi. Thich Nhat Hanh, monaco buddhista vietnamita tra i più influenti al mondo, ha esplorato la mindfulness come mezzo per coltivare la compassione e l’empatia, risorse cruciali per chi lavora nella relazione d’aiuto. Inoltre, la pratica della mindfulness aiuta a prevenire il burnout, insegnando agli operatori a gestire lo stress e a trovare momenti di pace e consapevolezza.
- Laboratori Esperienziali di Bioenergetica: Le tecniche di bioenergetica, sviluppate da Alexander Lowen, sono utili per favorire una connessione profonda con il proprio corpo e con le proprie emozioni. L’esplorazione del corpo e delle sue tensioni permette agli operatori di riconoscere e rilasciare blocchi energetici, favorendo l’apertura e la disponibilità all’incontro con l’altro. Questo tipo di esperienza non solo aiuta a ridurre il burnout, ma favorisce anche una maggiore consapevolezza della propria dimensione fisica e spirituale, promuovendo una connessione più profonda con se stessi e con il paziente.
- Supervisione con Focus Esistenziale: La supervisione è uno strumento fondamentale per sviluppare una consapevolezza spirituale e riflettere sulle esperienze vissute durante la pratica clinica. Durante le supervisioni, gli operatori possono essere invitati a esplorare il significato delle proprie esperienze lavorative, approfondendo come le dimensioni spirituali abbiano influenzato la loro capacità di stare nella relazione. Questo tipo di lavoro, centrato sulla riflessione esistenziale, aiuta a prevenire il burnout offrendo uno spazio di elaborazione che va oltre l’aspetto puramente tecnico del lavoro terapeutico.
- Scrittura Riflessiva: La scrittura può essere un potente mezzo per esplorare la propria spiritualità. Proponendo agli operatori di tenere un diario riflessivo, è possibile aiutarli a entrare in contatto con il proprio mondo interiore, esplorando domande come “Cosa dà significato al mio lavoro?”, “Come posso trasformare le difficoltà in un’opportunità di crescita?” o “In che modo il mio lavoro mi connette a qualcosa di più grande?”. Viktor Frankl ha spesso sottolineato l’importanza della riflessione sul significato come mezzo per attraversare e superare le difficoltà esistenziali. Questo esercizio favorisce una migliore gestione dello stress e del carico emotivo, prevenendo l’esaurimento.
Spiritualità e Relazione d’Aiuto
All’interno dell’approccio umanistico-esistenziale, la relazione d’aiuto è concepita come un “incontro tra due esistenze” (L. De Marchi, 1987). La spiritualità permette agli operatori di entrare in relazione con
l’altro con un’autenticità che trascende il livello tecnico, portando la dimensione esistenziale al centro del processo terapeutico. Questo si traduce nella capacità di accogliere il paziente nella sua interezza, favorendo un’esperienza di connessione significativa, che diventa essa stessa parte del processo di guarigione.
La spiritualità dell’operatore facilita la creazione di un setting che diventa uno spazio sicuro in cui il paziente può esplorare le sue paure, i suoi bisogni e i suoi desideri, offre loro la possibilità di riconnettersi costantemente con il senso del proprio lavoro, trovando in esso una fonte di gratificazione e crescita personale.
Formazione e Consapevolezza Spirituale negli Operatori Sociosanitari
La formazione degli operatori sociosanitari, secondo un approccio umanistico-esistenziale, dovrebbe includere spazi dedicati alla crescita spirituale e alla riflessione sui temi esistenziali. La supervisione e il lavoro esperienziale di gruppo diventano momenti cruciali per sviluppare una consapevolezza spirituale che consente di entrare nella relazione terapeutica con una maggiore autenticità e presenza. Una formazione di questo tipo permette agli operatori di vedere il loro lavoro non solo come una serie di compiti da svolgere, ma come un viaggio esistenziale che li coinvolge profondamente. Questa prospettiva aiuta a ridurre il burnout, trasformando il lavoro in una fonte di crescita e significato, e permettendo agli operatori di trovare nella propria spiritualità una risorsa che arricchisce non solo il loro benessere personale, ma anche l’efficacia degli interventi. La consapevolezza spirituale diventa quindi un elemento fondamentale per sviluppare resilienza e resistere alle pressioni e alle sfide emotive che la relazione d’aiuto comporta.
Conclusione
La spiritualità, nell’approccio umanistico-esistenziale, rappresenta un elemento cardine per una relazione d’aiuto efficace. Favorire la crescita spirituale degli operatori sociosanitari significa promuovere un contesto di cura che va oltre la semplice gestione del sintomo, valorizzando invece il percorso di crescita, scoperta e significato sia per l’operatore che per il paziente. Promuovere la consapevolezza spirituale negli operatori significa renderli capaci di stare pienamente nell’esperienza dell’altro, creando uno spazio di cura che è, prima di tutto, uno spazio umano e condiviso, che contribuisce a prevenire il burnout e a rafforzare la qualità dell’intervento.
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