L'Abbraccio numero 113

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L’ABBRACCIO

Rivista trimestrale di informazione del CEIS Genova

L’economia civile

Sostenibilità, questo termine così attuale. Per le istituzioni è un mantra. Si sente dire che c’è un focus particolare su tre declinazioni del termine sostenibilità: la sostenibilità economica, e giù calcoli precisi e paletti, guai a sgarrare; la sostenibilità ambientale, con manifestazioni e dichiarazioni roboanti; e poi ci sarebbe la sostenibilità sociale, e questa declinazione sarebbe la più importante perché riguarda le persone ma è anche quella che purtroppo ottiene le minori attenzioni.

Questo squilibrio ci impone di riflettere su un concetto troppo spesso trascurato: l’economia civile.

L’economia civile pone al centro del proprio pensiero e delle proprie pratiche le persone e le loro esigenze reali. In questa visione, le imprese non dovrebbero perseguire unicamente il profitto, ma piuttosto considerare il benessere dei loro componenti e delle comunità in cui operano come una priorità fondamentale. Solo così possono contribuire a una società più equa e solidale.

Per approfondire questo importante tema, abbiamo affidato l’editoriale al Prof. Enrico Giovannini, e gli altri articoli alla sensibilità di prestigiosi autori, che ringraziamo di cuore.”

Buona lettura.

Economia civile: un modello sostenibile per affrontare le sfide contemporanee

Editoriale di Enrico Giovannini 3

La rivoluzione dell’economia civile che ci salverà di Leonardo Becchetti

Economia civile serve un racconto sociale

Dell’economia civile

Zamagni

Un’economia (civile) che fa bene (e ha bisogno di finanza etica)

Anna Fasano

Riscoprire il cammino verso un’economia civile di Stefania Brancaccio

Enrico Costa

L’Economia Civile Una Visione Personale

L’ABBRACCIO

Rivista trimestrale di informazione del CEIS Genova

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Economia civile: un modello sostenibile per affrontare le sfide contemporanee

di Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), già Ministro del Lavoro e delle politiche Sociali e Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili

Ponendo al centro l’essere umano e le relazioni sociali, l’economia civile offre un’importante opportunità per cambiare l’attuale paradigma economico. Tra i principi cardine di questo approccio sviluppato dagli economisti italiani del ‘700, troviamo la reciprocità e la cooperazione che valorizzano le relazioni tra individui e comunità.

Purtroppo, l’economia dominante, nata nello stesso periodo storico all’interno della cultura anglosassone e affermatasi nei secoli successivi, pone come criterio guida la competizione e, soprattutto nella versione neoliberista affermatasi dagli anni ’80 del secolo scorso negli Stati Uniti e nel Regno Unito, anche grazie ai movimenti politici guidati da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il primato del profitto “a tutti i costi”, posto al centro dell’impegno delle imprese.

Non a caso, oggigiorno se si chiede a un manager, a un’economista o a un cittadino qualsiasi (provare per credere) la domanda “chi e quando ha pronunciato la frase ‘l’obiettivo di un’impresa è esclusivamente quello di fare profitti’?”, la risposta fa riferimento ai padri della teoria economica (a partire da Smith) e al tempo nel quale essa è stata elaborata, mentre la risposta corretta è “Milton Friedman nel 1970”, in un articolo sulla responsabilità sociale d’impresa.

Ebbene, dopo quasi 50 anni di risultati straordinari e innegabili del sistema economico globale in termini di aumento della ricchezza, riduzione della povertà, aumento del benessere per miliardi di persone, miglioramento della qualità della vita, ecc., ci si rende conto che quel modello è totalmente inadatto per un mondo “finito” e percorso da crescenti disuguaglianze.

Cioè, che quel modello è incapace di assicurare la sostenibilità sociale e quella ambientale senza le quali anche l’economia non ha futuro. Le 300.000 premature che ogni anno si verificano in Europa per malattie legate all’inquinamento (di fatto, una guerra silenziosa) riduce la popolazione, il numero dei consumatoririsparmiatori-lavoratori, e quindi tende – a parità di altre condizioni – a determinare una parallela riduzione del prodotto interno lordo (PIL), cioè della misura con cui giudichiamo il successo di un sistema economico. I costi crescenti che gli Stati e i singoli stanno pagando per la crisi climatica, indotta da un modello di sviluppo che per decenni non ha guardato alle cosiddette “esternalità negative” di carattere ambientali rischia di mettere in ginocchio aree geografiche e Paesi nei quali l’attività economica non è, se non sarà più, praticabile. Le crescenti disuguaglianze tra ricchi e poveri, un problema che la teoria economia dominante non considera come tale, al punto di non trattarla se non in modo marginale, priva il mercato di quella domanda senza la quale non c’è produzione e accumulazione di investimenti, cioè del carburante necessario a far funzionare il motore dell’economia capitalistica a meno di un aumento insostenibile del debito privato e pubblico, il che a sua volta, periodicamente, provoca crisi che inceppano il funzionamento del sistema economico.

Potremmo continuare su questo piano, ma preferisco rinviare a quanto contenuto in “Quel mondo diverso”, scritto da me e Fabrizio Barca nel 2020 per Laterza, e invece concentrarmi sulla questione di fondo, cioè come passare ad una nuova fase del capitalismo, un capitalismo “sostenibile” dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Ed è qui dove gli insegnamenti dell’economia civile tornano a essere utili, in quanto essi richiamano lo spirito cooperativo dei diversi operatori economici e sociali, sottolineano l’importanza dei beni pubblici e dei beni comuni, segnalano l’importanza degli aspetti “non monetari” del benessere, quelli fondati sulle relazioni tra individui e gruppi sociali, erroneamente visti come soggetti chiamati solo a competere tra di loro invece che trovare soluzioni comuni a problemi comuni.

L’economia civile si configura dunque come una efficace risposta alle principali sfide del nostro tempo, perfettamente nella linea indicata dall’Agenda 2030 varata dalle Nazioni Unite nel 2015, articolata in 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs).

L’agenda mira a sradicare la povertà, a ridurre tutte le disuguaglianze, a stimolare una transizione ecologica dei sistemi economici che renda il loro sviluppo compatibile con i limiti planetari, a ripristinare gli ecosistemi degradati da due secoli di crescita economica basata sull’aumento “per definizione” del PIL, a rinnovare il funzionamento della società e dell’economia grazie a istituzioni più efficienti e cooperative. Eppure, gli strumenti finanziari, sociali, tecnologici ed economici per cambiare il sistema attuale già esistono, così come buone pratiche in tutto il mondo. Prendiamo l’esempio del microcredito: da una parte, esso attiva un supporto alle iniziative di individui e imprese sociali, creando opportunità di lavoro dignitoso per le fasce più vulnerabili della popolazione. Dall’altra, favorisce l’inclusione sociale e la partecipazione attiva, contrasta l’esclusione e la marginalizzazione di individui e intere comunità. Il tutto, rispettando i vincoli della sostenibilità economica. Analogamente, esistono banche e istituzioni finanziarie che investono in progetti sociali e ambientali, rispettando criteri sia economici, che etici. Stesso discorso per la fitta rete di cooperative nel settore dei servizi che garantiscono condizioni di lavoro dignitose coinvolgendo i lavoratori nella gestione aziendale.

L’Italia è ricca di queste esperienze, ritenute però marginali, quasi “tollerate”, rispetto al mainstream economico. Purtroppo, però, l’Italia non è su un sentiero di sviluppo sostenibile. Al nostro Paese manca una prospettiva integrata delle diverse politiche ambientali, sociali, economiche e istituzionali per la sostenibilità. Nel corso degli anni ci sono stati progressi e sono state prese decisioni positive, ma l’assenza di un impegno unanime e coordinato da parte delle istituzioni, delle imprese e delle forze politiche e sociali impedisce all’Italia di accelerare la transizione e contenere l’aumento delle disuguaglianze.

Per fare qualche esempio tratto dal Rapporto dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), tra il 2015 e il 2019 la quota di famiglie in condizione di povertà assoluta è salita dal 6,1% al 7,5%, inoltre, abbiamo ancora 1,7 milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Per quanto riguarda la dimensione economica, molti passi avanti sono stati compiuti per l’economia circolare ed è cresciuto il tasso di innovazione (+21% tra il 2010 e il 2018), ma molte imprese mostrano ancora forti resistenze a investire nella trasformazione digitale ed ecologica.

E dire che il nostro Paese avrebbe parecchio da guadagnare se accelerasse il processo di transizione a un modello di economia civile, e quindi sostenibile, come dimostra il recente Rapporto “Scenari per l’Italia al 2030 e al 2050. Le scelte da compiere ora per uno sviluppo sostenibile” dell’ASviS. In particolare, realizzando uno scenario di decarbonizzazione attraverso la trasformazione del sistema economico, il Pil italiano nel 2050 aumenterebbe del 2,2% rispetto a quello base, e il tasso di disoccupazione si ridurrebbe di 0,4 punti percentuali. Di pari passo, il debito pubblico calerebbe più velocemente rispetto a tutti gli altri scenari. Se invece l’Italia decidesse di non intervenire per contribuire alla decarbonizzazione, il Pil si ridurrebbe di almeno il 30% rispetto alle previsioni di base, con conseguenze drammatiche anche sull’occupazione. Per questo appare una posizione “incomprensibile” quella di chi propone di rallentare la transizione energetica ed ecologica per motivi di costo: gli studi sul tema dimostrano che i costi dell’inazione sono già

elevati e cresceranno nel tempo, colpendo soprattutto i più poveri e vulnerabili. Insomma, possiamo scegliere tra un’economia civile e una incivile, tra uno sviluppo sostenibile e uno insostenibile, tra una società giusta e una ingiusta. Non è vero che il sistema economico sia immutabile, è una delle falsità che chi si trova in una posizione di privilegio diffonde continuamente. Negli ultimi cinque anni l’Unione europea ha imposto un cambio di prospettiva verso uno sviluppo più sostenibile e inclusivo senza paragoni nel resto del mondo, imponendo alle imprese criteri di trasparenza e obblighi fortemente radicati nei principi dell’economia “sociale di mercato” chiaramente richiamati nel Trattato dell’Unione.

È solo un inizio, ma finalmente un buon inizio, da sostenere e potenziare, non da smantellare come alcuni dicono, per assicurare un benessere equo e sostenibile alla generazione attuale e a quelle future.

La rivoluzione dell’economia civile che ci salverà

di Leonardo Becchetti, docente, direttore del Festival Nazionale dell’Economia Civile e co-fondatore NeXt - Nuova Economia per Tutti

Gli economisti civili non sono osservatori distaccati della realtà ma si propongono di essere dei medici sociali che ne studiano anatomia e patologie con l’obiettivo di contribuire a risolverne i problemi. Si parte pertanto dalla consapevolezza che il sistema socioeconomico è malato, affetto da comorbidità come emergenza climatica, povertà, diseguaglianze, crisi demografica e povertà di senso del vivere. L’obiettivo dell’economia civile diventa quello di curare questi mali con un metodo strutturato in tre fasi.

La prima fase consiste nello studio approfondito di come funziona la società, identificando i mali e i guasti da riparare. È una fase di diagnosi, dove analizziamo le cause profonde dei problemi sociali ed economici. Come un medico inizia il suo percorso dallo studio dell’anatomia e delle patologie di un paziente per trovare le diagnosi corrette e suggerire i farmaci migliori per la cura, così il lavoro degli economisti civili parte dallo studio dei meccanismi di una società in profonda trasformazione

La seconda fase introduce la visione dell’economia

civile, fondata su una definizione di ben-vivere basata su dati empirici che identificano una sorta di legge naturale della generatività e della ricchezza di senso del vivere. Questa visione si distacca dall’idea tradizionale che la felicità derivi esclusivamente dal guadagno economico, riconoscendo invece l’importanza delle relazioni di qualità e dell’impatto delle nostre azioni sugli altri. Una mole sempre più vasta di studi nelle scienze sociali evidenzia come le persone siano cercatrici di senso e la soddisfazione e ricchezza di senso di vita dipenda dalla nostra capacità di costruire buone relazioni con altri esseri umani.

Nella terza fase, elaboriamo soluzioni concrete e ci impegniamo nella loro applicazione. In questa terza fase ci rendiamo conto di come non possiamo limitarci a teorizzare nelle nostre torri d’avorio; dobbiamo scendere sul campo e collaborare con le istituzioni e la società civile per implementare le nostre idee.

Questa è la “terza missione” degli economisti, sempre più riconosciuta a livello istituzionale e oggi diventata una delle componenti nel giudizio sulla qualità dei dipartimenti.

Per capire meglio l’economia civile possiamo usare una semplice metafora. Un cliente porta al meccanico una macchina che non funziona. Il meccanico la mette sul ponte e cerca di capire dove sia il guasto. La macchina che non funziona è il sistema socioeconomico che ha come motore il vecchio paradigma economico. Il meccanico scopre cinque guasti nel motore dove le parti del vecchio motore vanno sostituite con pezzi differenti. I cinque guasti dipendono da visioni distorte e non corrispondenti alla realtà dei fatti della persona, dell’impresa, del valore in economia (gli indicatori di benessere), degli attori della politica economica e del ruolo degli economisti.

Il primo “guasto” è quello del riduzionismo antropologico, ovvero di una visione distorta della persona che alcuni hanno chiamato “sguardo avvilente” (intendendo avvilente come participio presente, ovvero che avvilisce, perché quello sguardo quando fa cultura contribuisce a renderci peggiori. La visione antropologica errata dell’homo economicus vede l’uomo come un individuo il cui unico obiettivo è fare più soldi e consumare di più per essere felice. Questa prospettiva è profondamente falsa, come dimostrato dai dati empirici. La felicità non dipende solo dal guadagno economico, ma anche dalla qualità delle relazioni e dalla generatività.

Il secondo “guasto” consiste nell’idea che le imprese debbano perseguire solo il massimo profitto senza preoccuparsi degli effetti sociali e ambientali è miope. Anche in questo caso si tratta di una visione parziale che ignora una sempre più vasta schiera di imprese ed organizzazioni produttive più ambiziose che non guardano solo al profitto ma anche all’impatto sociale ed ambientale che si traduce in una grande diversità di forme organizzative (dalle cooperative alle b-corp). Il terzo “guasto” sta nel considerare la crescita del PIL come indicatore sufficiente dell’aumento di felicità di una nazione.

Famoso a questo proposito è il discorso di Kennedy del 1968, dove sottolinea che il PIL misura tutto eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. La felicità richiede un benessere multidimensionale, che consideri vari fattori come la salute, l’istruzione, la qualità delle relazioni e la generatività. In continuità con questo filone da diversi anni in occasione del festival dell’economia civile pubblichiamo la classifica della generatività delle province italiane identificando come fattore chiave del ben vivere a livello locale la capacità dei territori di aiutare i cittadini a realizzare i loro progetti di vita.

Il questo “guasto” consiste nel ritenere che la politica economica debba essere solo fatta dall’alto da istituzioni come le amministrazioni e le banche centrali. La realtà dei fatti è invece quella dell’amministrazione condivisa dove sui territori le organizzazioni del terzo settore e della società civile danno un contributo fondamentale alla realizzazione degli obiettivi di welfare.

Questa realtà allargata è stata riconosciuta in modo importante da una sentenza della Corte Costituzionale che sottolinea come la co-programmazione tra amministrazioni e società civile sia la via migliore per raggiungere gli obiettivi di bene comune.

L’identificazione dei blocchetti difettosi ci porta a riconoscere i quattro grandi mali della nostra società:

1. Malattia ambientale

2. Crisi demografica

3. Povertà e diseguaglianza

4. Povertà di senso del vivere

Un esempio tragico di povertà di senso è l’epidemia di overdose da oppioidi negli Stati Uniti, con 200.000 morti solo nel 2022. Questo fenomeno illustra come condizioni economiche e relazionali precarie portino

a una disperazione diffusa. Per superare questi mali, dobbiamo ripensare i fondamenti della nostra economia. La nostra identità si sviluppa attraverso le relazioni, e solo attraverso di esse possiamo realizzare il nostro futuro. La cultura individualista ha indebolito la nostra intelligenza relazionale, la capacità di collaborare e cooperare.

Dobbiamo imparare “la quinta operazione”: uno “con” uno fa sempre più di due. La cooperazione non è affatto facile perché si fonda sulla virtù della fiducia che significa mettersi nelle mani di qualcun altro senza una protezione legale. Gli studi empirici indicano come la fiducia scatta quando si riconosce nella controparte una meritevolezza di fiducia, e tale reputazione viene alimentata attraverso il dono, ovvero l’andare oltre ciò che gli altri si aspettano da noi.

Il dono produce riconoscenza e gratitudine stimolando il desiderio di reciprocità e favorendo la costruzione di relazioni di fiducia.

L’economia civile insiste sul fatto che la generatività, concetto sviluppato da Erik Erikson, è fondamentale

per la felicità. È come se avessimo dentro di noi un contatore che ci fa intuire se l’azione che stiamo facendo è utile, inutile o dannosa verso altri esseri umani e in che proporzione.

È la misura di questa risposta che decide la nostra generatività e felicità. La generatività si articola in quattro verbi: desiderare, far nascere, accompagnare e lasciare andare. La generatività implica un’apertura verso il futuro che va oltre noi stessi, permettendo agli altri di portare avanti la nostra opera.

L’economia civile identifica in sintesi i principali guasti dell’attuale visione economica e propone una visione allargata che coglie meglio e più pienamente la realtà empirica. Sostituire la visione riduzionista con quella allargata è la chiave per eliminare la povertà di senso creata dall’attuale sistema socio-economico e per reindirizzare lo stesso verso generatività, intelligenza relazionale, prosperità economica sostenibile, benvivere e bene comune.

Economia civile serve un racconto sociale

Tra il 1765 e il 1769 Antonio Genovesi pubblicò le sue opere più importanti: in primo luogo, “le Lezioni di economia civile”, unanimemente considerato il testo più illuminante dell’economista salernitano padre dell’economia civile. Per dirla con Luigino Bruni, economista della scuola dell’economia civile e grande studioso di Genovesi: “Per comprendere la visione che Genovesi ha della vita economica, occorre partire dalle sue tesi antropologiche ed etiche, porre a cuore del suo sistema non parole classiche come moneta, popolazione, lusso, ma fiducia, mutuo vantaggio, felicità”. Il particolare è la “fiducia” l’architrave della sua riflessione. Concetto che merita una precisazione. Ancora Bruni: “Nel pensiero di Genovesi c’è una sostanziale differenza tra fiducia privata (che è la reputazione, un bene privato che può essere speso sul mercato) e quella pubblica: quest’ultima non è la somma delle «reputazioni» private, ma comprende anche l’amore genuino per il bene comune. È un concetto simile a ciò che i moderni teorici sociali chiamano social capital, cioè il tessuto di fiducia e di virtù civili che fa sì che lo sviluppo umano ed economico possa partire

e mantenersi nel tempo”. Continuiamo a seguire Bruni: “è urgente sottolineare che la coltivazione della fede pubblica è la precondizione di qualsiasi discorso di sviluppo economico e civile: «niente è più necessario ad una grande e pronta circolazione, quanto la fede pubblica». Per l’economista napoletano la fede pubblica, dunque, non è un capitale che si costruisce fuori del mercato e che poi il mercato utilizza; il mercato, invece, è concepito come parte della società civile. Per questo il suo discorso sulla fede pubblica è direttamente economico.

La premessa è necessaria per comprendere la tesi di questo mio intervento: quando si parla di economia civile (o di economia sociale per usare il lessico europeo) non ci si riferisce esclusivamente a una teoria economica, ma si entra in un sistema di valori e di priorità che interessa la società nel suo complesso. L’economia civile e sociale va quindi raccontata in una prospettiva sistemica basata appunto sul “social capital”, il capitale sociale prodotto e non sul lucro generato. Diversamente, se la inquadriamo in finestre interpretative tradizionali, l’economia civile non può che rimanere una prospettiva marginale anche in quanto compatibile con un sistema economico e sociale fedelmente capitalistico.

Oggi siamo in una fase storica cruciale. L’ultima legislazione europea precedente alle elezioni dello scorso giugno è stata caratterizzata da un’attenzione mai vista prima nei confronti dell’economia civile. Prendo a prestito le parole di Giuseppe Guerini, il presidente di Cecop-Cecopa (Confederazione Europea delle Cooperative Industriali di Lavoro e servizi): “La Commissione presieduta da Ursula von der Leyen fino al 2024, non si è limitata alla rimozione del tabù del debito comune o all’allentamento dei limiti posti al deficit pubblico, ma ha contribuito a modificare la visione strategica delle politiche europee, sviluppate attorno a chiare priorità: la doppia transizione ecologica e

digitale e il Pilastro europeo dei diritti sociali. Su queste tre direttrici si sono avviate iniziative europee di politica economica, industriale e sociale che hanno finalmente, dopo anni di ricette neoliberiste, mutato direzione al pensiero che pretendeva di tenere la politica fuori dai mercati, limitandosi ad assicurare il funzionamento efficiente del mercato unico, facendo della politica sulla concorrenza la principale se non unica politica comune europea, considerando che la politica monetaria comune riguarda 20 Paesi su 27. Lungo quelle tre direttrici si incardina anche il Piano d’azione per l’economia sociale, che certamente trova una solida base politica nel Pilastro europeo dei diritti sociali, ma è entrato a pieno titolo nella rinnovata politica industriale europea, che ha riconosciuto l’economia sociale e di prossimità come uno degli ecosistemi che definiscono il panorama dell’industria dell’Unione, definendone il ruolo di infrastruttura produttiva e di innovazione”.

In Italia se ne è parlato pochissimo, ma il nostro Paese così come i nostri partner europei nel 2024 e 2025 è chiamato a predisporre un piano nazionale dell’economia sociale. Un’occasione storica, che andrebbe raccontata a livello istituzionale, politico e mediatico nelle sue reali potenzialità di cambiamento e innovazione. Così non è stato finora. Il conservatorismo sociale e la strenua difesa di rendite di posizioni economiche e di potere rendono obiettivamente il compito arduo. Ma non per questo si deve gettare la spugna. Anche perché, ce lo dice l’Europa, il dado è tratto.

L’economia sociale italiana si caratterizza per numeri significativi: 450mila organizzazioni, 1,9 milioni di

lavoratori, e oltre 90 miliardi di euro di fatturato. Questi dati fotografano il peso rilevante nel sistema economico, con l’8% delle imprese e il 9,5% degli occupati. Occorre ora definire un punto: l’obiettivo dei soggetti dell’economia civile non è la “riduzione del danno” provocato dalle storture e dalle disfunzioni di Stato e mercato. Se così fosse sarebbe funzionale a uno status quo, che invece si propone di superare.

Come sostiene Paolo Venturi, direttore di Aiccon, centro studi promosso dall’università di Bologna: “L’economia sociale è molto di più di un dispositivo per diluire gli effetti negativi del capitalismo estrattivo, è molto di più di uno strumento per erogare servizi, è molto di più di un “aggregato” di istituzioni in grado di potenziare la S di Esg”. Robert Castel, nel suo libro “L’insicurezza sociale”, ha evidenziato che l’aumento della paura e dell’incertezza non sia dovuto solo alla carenza di servizi, ma anche alla mancanza di un processo capace di governare i rischi attraverso una “impresa collettiva”; è esattamente questa la prospettiva di senso dell’economia civile: costruire sulla base dei principi focalizzati da Genovesi, in primis quello della reciproca fiducia, un paradigma sociale prima che economico di ricomposizione collettiva dell’interesse generale.

Una proposizione niente affatto teorica. Si tratta, per semplificare, di immaginare e costruire un ecosistema che favorisca esplicitamente le istituzioni e le imprese che producono profitto orientato alla cura, alla solidarietà, al lavoro, al benessere sociale delle persone e non quelle che puntano su consumo, lucro, rendita e accumulo. Una rivoluzione.

Dell’economia civile

Due le idee centrali che l’umanesimo civile italiano apporta all’economia. Da un lato, l’affermazione secondo cui la ricchezza va ricercata non come fine in sé, ma come strumento di incivilimento e di miglioramento del benessere della popolazione. Celebre la massima di Genovesi: “E’ legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri”. Dall’altro lato, l’idea della “fede pubblica” come principale risorsa per lo sviluppo economico. “Niente è più necessario – scrive ancora Genovesi – ad una grande nazione quanto la fede pubblica… Questa parola fides significa corda, che collega e unisce. La fede pubblica è dunque il vincolo delle famiglie unite in vita compagnevole”. Tre i più rilevanti elementi di differenziazione tra il paradigma

italiano dell’economia civile e quello anglosassone dell’economia politica, quale si forma nella seconda metà del Settecento con Adam Smith e che si svilupperà, fino ad acquisire una posizione egemonica, nella seconda metà dell’Ottocento dopo la Rivoluzione Marginalista.

Un primo elemento ha a che vedere con l’assunto antropologico. L’economia civile rifiuta la categoria di homo oeconomicus (di un soggetto cioè totalmente autointeressato e pienamente razionale) che, al contrario, costituisce la vera infrastruttura filosofica del paradigma alternativo. È durante l’Ottocento che si consolida nella cultura occidentale una linea di pensiero che concepisce il mercato come l’unica istituzione in grado di conciliare soddisfacimento dell’interesse

personale e perseguimento del benessere collettivo grazie all’operare della mano invisibile. Il genovesiano “Homo homini natura amicus” (ogni uomo è, per natura, amico dell’altro uomo”) è, invece, l’assunto antropologico del programma di ricerca dell’economia civile, secondo cui è homo reciprocans la categoria di riferimento di un discorso che voglia tradurre in pratica la nozione di individualità relazionale; una nozione in grado di far stare assieme esercizio della scelta (l’individualità) e relazione con l’altro (la socialità).

Di un secondo elemento di distinzione occorre dire, e cioè del deciso rifiuto da parte dell’economia civile della tesi del NOMA (Non-overlapping magisteria) nella ricerca economica. Si tratta di una tesi, per primo difesa in ambito economico, nel 1829 da Richard Whately, influente cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa anglicana, secondo cui la sfera dell’economia va tenuta separata da quella dell’etica, se si desidera che la prima possa ambire ad acquisire lo statuto di disciplina scientifica, positivisticamente intesa.

Dapprima osteggiata da pensatori del calibro di J.S. Mill, la tesi della “grande separazione” verrà poi accolta con favore dai protagonisti della scuola di pensiero neoclassica e da allora supinamente sottoscritta, salvo rare eppure notevoli eccezioni, come qualcosa di scontato. Donde la celebre divisione di ruoli: l’etica è il regno dei valori; la politica, il regno dei fini; l’economia il regno dei mezzi, che in quanto tale deve preoccuparsi solo di giudizi di efficienza.

E’ merito del pensiero economico civile aver mostrato quanta ipocrisia si celi in questo riduzionismo metodologico, solo in apparenza innocuo, e quanto male esso abbia finito col produrre – si pensi solo alla distruzione degli ecosistemi e all’aumento endemico delle diseguaglianze sociali.

Da ultimo i due paradigmi di cui ci stiamo occupando si differenziano rispetto al modello di ordine sociale da essi contemplato. Mentre per l’economista politico, Stato e Mercato sono le due istituzioni necessarie e sufficienti per assicurare il progresso, l’economista civile ritiene altrettanto indispensabile un terzo pilastro, quello della Comunità, costituita dal variegato insieme dei corpi intermedi della società.

Per l’economista civile, infatti, il fine da perseguire, è quello di chiedere al mercato non solo di essere in grado di produrre ricchezza, ma anche di porsi al servizio dello

sviluppo umano integrale, di uno sviluppo che tenga in armonia tre dimensioni: quella materiale della crescita, quella socio-relazionale, quella spirituale. La modernità si è retta su due pilastri: il principio di uguaglianza, garantito e legittimato dallo Stato e il principio di libertà reso praticabile dal mercato. La post-modernità ha fatto emergere la necessità di un terzo pilastro: il prendersi cura che chiama in causa il principio di fraternità. Non è capace di futuro la società in cui esiste solo “il dare per avere” e “il dare per dovere”.

Un ambito di urgente intervento in cui l’economia civile può dare il meglio di sé è quello che concerne l’armonizzazione tra competizione e cooperazione: i due principi di cui la natura ha dotato la persona umana. Come sappiamo, oggi è la logica competitiva a dominare e a sottomettere quella cooperativa.

E questo in nome del mito della efficienza, divenuto l’idolo di un mondo che solo ai risultati materiali attribuisce valore. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’aumento scandaloso delle diseguaglianze; la devastazione ambientale; l’aporofobia dilagante (il disprezzo cioè del povero, del diverso, del disabile); l’eugenetica occupazionale (le imprese tendono a licenziare in base ai risultati dei test di competitività); la democrazia succube dei poteri economici forti e altro ancora. Basterebbe leggere con attenzione le tre encicliche di papa Francesco per avere un quadro rigoroso e fedele della situazione in atto.

Sorge spontanea la domanda: che fare per ristabilire l’armonia tra competizione e cooperazione? Ecco alcuni suggerimenti. Primo, la scuola deve tornare ad essere, in primis, luogo di educazione e solo in secundis luogo di istruzione. In particolare, occorre farla finita con la “pedagogia delle competenze”, in cui i giovani sono visti come tabulae rasae su cui “incollare” le competenze utili per prepararli a competere, cioè a vincere nel mondo del lavoro. L’utilità è certamente un valore, ma non è la madre di tutti i valori. Secondo

Cosa è assente nello spazio del pensare, oggi? E’ assente lo spazio del dono come gratuità – uno spazio che deve entrare nell’arena economica e non solo nella famiglia, nella Chiesa, nelle associazioni. Papa Benedetto XVI ha scritto un’intera enciclica, la Caritas in Veritate, per spiegare perché il principio del dono deve innervare anche le transazioni economiche.

La ragione è che il dono inventa un altro tipo di valore, diverso dai ben noti valore di scambio e valore d’uso: il

valore di legame, che consente al principio di reciprocità di mettere ali.

È urgente prendere posizione nei confronti del devastante problema del singolarismo, di questa nuova configurazione antropologica ed etica del sé che da circa mezzo scolo va sostituendo il precedente individualismo dell’appartenenza. Quali le differenze tra le due configurazioni? Mentre quest’ultimo si fonda sulla similitudine tra gli esseri umani, il singolarismo si fonda sulle loro differenze. E’ soprattutto la c.d. generazione Z a risentirne maggiormente delle pericolose conseguenze, prima fra tutte la solitudine esistenziale e la perdita del desiderio.

Una delle conseguenze più nefaste del singolarismo è la diffusione, perfino negli ambienti dell’alta cultura, del mito meritocratico, un principio questo che illusoriamente viene preso da tanti come condizione necessaria per avanzare sulla via della crescita e del progresso. Mentre è vero esattamente il contrario.

Ci si sta ormai rendendo conto che una società non può funzionare bene se ci si limita ai due pilastri dello Stato e del mercato, pilastri bensì necessari ma non sufficienti. Occorre aggiungere un terzo pilastro, quello della “comunità”, cioè della società civile organizzata. Perché? La risposta è che le due categorie di beni, quelli privati da affidare al mercato e quelli pubblici da affidare allo Stato non bastano ai fini di assicurare uno sviluppo umano integrale: che dire dei beni comuni? E che dire dei beni relazionali? Questa incapacità dell’economia dominante di trattare i beni comuni in modo appropriato ha conseguenze rilevanti.

La crisi ambientale, per esempio, è anche una conseguenza di questa lacuna teorica. Si è pensato troppo a lungo che l’aria, l’acqua e le risorse naturali fossero beni a nostra disposizione, che la natura avrebbe fornito indefinitamente. Ma l’ambiente è un bene comune. Un discorso simile si può fare per la conoscenza, che non è né un bene privato, né un bene pubblico, ma è un bene comune. Un limite grave dell’economia politica è l’impossibilità di elaborare una teoria dei beni comuni. Se i fruitori dei beni comuni non sono in grado di regolare tra loro il loro utilizzo, dopo un po’ di tempo questi scompaiono.

L’altra aporia del pensiero economico dominante che ha fatto crescere l’interesse per l’economia civile è il cosiddetto paradosso della felicità. Si tratta di un paradosso che è stato “scoperto” (per via empirica)

da un economista americano nel 1974, R. Easterlin, secondo cui all’aumentare del reddito pro capite, dapprima l’indicatore di felicità aumenta, ma superata una certa soglia diminuisce. Il che significa che chi ha troppa ricchezza non necessariamente è felice, al pari di chi ne ha troppa poca. Non a caso, il premio Nobel Angus Deaton ha pubblicato il suo ultimo libro, tradotto anche in italiano, intitolato Morti per disperazione, che mostra come oggi, negli Stati Uniti, si muoia più per disperazione che per altre cause. Il fatto è che la felicità ben poco ha a che vedere con l’utilità, come chi possiede un po’ di cultura filosofica ben sa. I giovani, soprattutto, vivono oggi in una condizione di vita in cui hanno tutto quello che materialmente serve loro, però non riescono più a elaborare, a coltivare il desiderio. Il concetto di crescita fa riferimento alla dimensione materiale, cioè all’aumento anno per anno del PIL e di altri eventuali indicatori. L’idea di sviluppo è molto diversa. Si tratta di una parola latina, che significa letteralmente “togliere i viluppi”, vale a dire togliere lacci e lacciuoli. Togliere i lacci e le catene significa andare nella direzione di aumentare lo spazio di libertà della persona. Un processo di sviluppo umano è autentico non quando aumenta il PIL, ma quando vengono dilatati gli spazi di libertà (positiva) delle persone. Ovviamente il PIL è una parte fondamentale di questo processo, ma se per aumentare il PIL si riducono la dimensione socio-relazionale e la dimensione spirituale il risultato è quello che vediamo. L’idea di sviluppo tipica dell’economia civile non nega affatto la crescita, ma non vuole che sull’altare della crescita vengano sacrificate la dimensione relazionale e quella spirituale. Non si riesce a capire, per esempio, che il lavoro non può essere solo giusto, ma anche decente. Si continua a insistere con la giustizia del lavoro, il che è fondamentale, ma non c’è solo la dimensione acquisitiva. Il lavoro umano possiede anche una dimensione espressiva, alla quale corrisponde il concetto di lavoro decente. La persona deve trovare nel lavoro non solo una remunerazione giusta, ma anche l’occasione per realizzare la propria personalità. Con la cosiddetta “great resignation” assistiamo proprio a questo fenomeno: un numero importante di persone pur avendo contratti di lavoro giusti, abbandonano il posto di lavoro. Quando si è indagato sulle motivazioni di questo abbandono, le persone che hanno risposto di essere alla ricerca di una maggiore remunerazione erano una piccola minoranza. La maggioranza ha risposto di essere stanca di lavorare in un ambiente che non consentiva loro di respirare a pieni polmoni.

Un’economia (civile) che fa bene (e ha bisogno di finanza etica)

Funziona ma non è schiava del profitto, pensa alle persone, ai territori e al Pianeta, offre lavoro, diritti e futuro: l’economia civile può indicare una strada di sviluppo davvero sostenibile, nell’abbraccio naturale con la finanza etica, l’economia sociale e il Terzo settore

L’economia civile è innanzitutto un paradigma economico che pone l’accento sul bene comune, la cooperazione, la solidarietà e la reciprocità, promuovendo un modello in cui le imprese e le istituzioni sono orientate al benessere collettivo. Un paradigma che si è tradotto in pratiche imprenditoriali collaudate, occupazione diffusa, fatturati e utili (450mila organizzazioni e un milione e 900mila addetti) di un sistema dai fondamenti strutturali solidi, resiliente e capace di portare sviluppo e visione di futuro nella società. E che, a tutto ciò, aggiunge una caratteristica distintiva importante: l’economia civile non si affida alla pietra angolare del profitto per definire le proprie strategie, gli obiettivi e il tragitto per ottenerli, preferendo rivolgersi a una prospettiva pluridimensionale di crescita, con un’attenzione rivolta spiccatamente alle persone, agli indicatori dello sviluppo sociale e - sempre più - ambientale.

Spesso caratterizzata da un forte radicamento territoriale, l’attività di migliaia e migliaia di imprese, fondazioni, organizzazioni, operanti in Italia, in Europa e nel mondo, si rifà dunque a tale modello economico, che Banca Etica ben conosce. Anche da questa rete vivace e virtuosa di soggetti diversificati, e dalla partecipazione diretta di molti di essi, venticinque anni fa ha preso il via e tratto linfa il cammino della prima - e tuttora unica - esperienza italiana di istituto bancario dedito esclusivamente alla finanza etica, ovvero una finanza che con l’economia civile condivide istanze e orizzonti. Parlo dunque di un

legame originario che unisce Banca Etica, e la finanza etica in Italia, all’economia civile, disegnando così un percorso di crescita condotto spesso in parallelo sulla base di affinità valoriali profonde. L’economia civile, declinata nell’operatività quotidiana delle sue persone e organizzazioni, sostenuta da un supporto finanziario mirato, è riconosciuta ormai come un pilastro solido del sistema-Paese e continentale, e la denominazione di “economia civile”, sfuggente e accogliente insieme, abbraccia uno spettro ampio di forme e di realtà economiche, stabilendo continue relazioni e sovrapposizioni con le definizioni e i comparti del Terzo Settore e dell’economia sociale.

Facile comprenderlo se pensiamo alle caratteristiche associate in letteratura a proposito di questi mondi vicinissimi.

L’economia civile propone un modello economico in cui le imprese sono responsabili socialmente e ambientalmente, e i cittadini sono attivamente coinvolti nella gestione e nella fruizione dei beni comuni, promuovendo dinamiche cooperative e mutualistiche tra individui e organizzazioni, per una società coesa che non sia preda dell’individualismo e della competitività esasperata. Il Terzo Settore comprende tutte quelle organizzazioni private senza scopo di lucro che operano per fini di utilità sociale, culturale, educativa e di solidarietà, collocandosi tra il settore pubblico (Stato) e il settore privato a scopo di lucro (mercato). Associazioni, fondazioni, cooperative sociali, organizzazioni di volontariato, ONG, enti di promozione

sociale… impegnate principalmente nei campi dell’assistenza sociale e sanitaria, dell’educazione, della cultura, per l’ambiente e lo sviluppo locale, adottando principi di solidarietà e partecipazione democratica, stimolando e valorizzando il volontariato. L’economia sociale è infine un insieme di organizzazioni che operano nel mercato perseguendo finalità sia economiche che sociali, ambientali e di comunità attraverso forme organizzative cooperative, e poi mutue, associazioni e fondazioni. Economia civile, Terzo Settore, economia sociale sono insomma facce complementari di una medesima prospettiva sullo sviluppo, spazi di ri-generazione, “bioreattori” del progresso economico e sociale. E offrono soluzioni d’impresa concrete e polivalenti: lavorando alla costruzione di un orizzonte di benessere equo e sostenibile, basato sull’empowerment individuale e di comunità, contrastano la disuguaglianza, la povertà e la marginalizzazione, ad esempio. Chi ne interpreta i fondamenti, economici e d’impatto socio-ambientale, contamina così il sistema economico mainstream mostrando l’efficacia di uno schema alternativo a quello capitalistico dell’impresa votata in primis al profitto, uno schema valutato con interesse sempre maggiore dalle istituzioni politiche e finanziarie europee e che, per svilupparsi, dovrebbe avere garanzia di un accesso al credito più agevole, con regole misurate su soggetti economici con bisogni e connotati finanziari ben diversi da quelli di multinazionali e grandi imprese, valorizzando le esternalità positive e gli aspetti virtuosi di gestione della governance di realtà che guardano al collettivo prima che al privato.

Visti attraverso la lente privilegiata della finanza etica, sono tantissimi gli esempi concreti di operatori dell’economia civile in grado di dettare la linea, grazie alla creatività delle buone prassi, agli impatti sociali e ambientali positivi, ai risultati meramente economici. Penso per esempio alle decine di cooperative e imprese sociali che rappresentano la cosiddetta economia carceraria, dove il lavoro e la competenza sono le vie del riscatto sociale e dell’integrazione, ma anche per garantire un secondo futuro alle persone.

Dai biscotti alle borse, dalla falegnameria al restauro al giardinaggio, questa realtà animano di idee, prodotti e servizi la filiera alimentare, quella dell’abbigliamento e degli accessori, quella delle lavorazioni artigianali, rispondendo spesso alla domanda degli enti locali. Penso poi alle organizzazioni che offrono opportunità

di assistenza e inclusione per le persone fragili e migranti, al grande comparto dell’agricoltura sociale e biologica, a chi recupera rifiuti e ricicla, salvando risorse e ripensando i nostri modelli di consumo, a chi valorizza e protegge il patrimonio ambientale investendo sul turismo sostenibile, a chi rianima con idee imprenditoriali innovative e di cultura della legalità i beni sequestrati alle mafie e i territori dove la desertificazione economica pesa sulle comunità. Penso alle grandi organizzazioni cooperative, alle attività culturali ad alto tasso di occupazione giovanile e femminile, alle realtà della cooperazione e dei progetti internazionali che esportano diritti, competenze e tecnologie. Senza dimenticare una forma di intervento innovativo, esempio concreto di risposta comunitaria ad un bisogno collettivo: le Comunità Energetiche Rinnovabili (CER), che quando redistribuiscono ai soggetti più fragili l’energia elettrica prodotta diventano Comunità Energetiche Rinnovabili Solidali (CERS).

Di fronte al modello di produzione e consumo oggi dominante, che rischia di portarci alla catastrofe, il suo superamento è una necessità collettiva inderogabile, interpretata recentemente anche da centinaia di docenti che, a Perugia, hanno sottoscritto un Manifesto per l’economia civile. Lo scenario complesso e ricchissimo accennato sopra merita dunque di diventare la cartina al Tornasole di un’umanità in trasformazione virtuosa, verso un domani in cui l’economia civile illumina la strada e la finanza etica accompagna e sostiene il viaggio.

Riscoprire il cammino verso un’economia civile

Non intendo essere polemica con la categoria degli economisti, ma è evidente che un numero crescente di loro si concentra su analisi teoriche astratte. Questo richiama l’antico dibattito tra teoria e pratica, ma mi viene in mente Goethe, che affermava che il vero problema non è tra teoria e pratica, ma tra buona e cattiva teoria, e tra buona e cattiva pratica. Ritengo che questo sia l’approccio corretto: personalmente, a differenza di molti altri, sento un forte bisogno di teoria, di un ripensamento delle crisi e delle difficoltà che stiamo attraversando. Abbiamo un’urgente necessità di teorie che interpretino meglio la realtà e ci aiutino ad affrontarla seriamente. Noi imprenditori dobbiamo alzare lo sguardo dalle nostre attività e osservare l’ambiente circostante per capire quale pensiero ci aiuti a comprendere cosa sta succedendo e ci guidi nella ricostruzione di un percorso che tutti dobbiamo ritrovare.

Ci era stato detto, persino da premi Nobel e dalla stampa internazionale, che: il darwinismo sociale era la forza trainante dello sviluppo e che la solidarietà rappresentava un elemento negativo; che le disparità economiche tra ricchi e poveri dovevano crescere perché questa era la strada per incentivare la competitività e la crescita; che il mercato, e solo il mercato, era la rete che regolava tutte le relazioni sociali e che non erano necessari altri modelli relazionali; che al centro del sistema, come suo motore, doveva esserci il profitto di capitale. Ora sappiamo che tutto ciò non era vero. Non si trattava solo di pratica, ma di teoria. Una teoria che ha avuto i suoi sostenitori, le sue università, i suoi premi Nobel, ma che alla prova dei fatti ci ha condotti in una situazione disastrosa. Dobbiamo dunque abbandonare questa cattiva teoria e sostituirla con buone pratiche e valide teorie alternative.

E qui mi sono domandata: come possiamo noi imprenditori adottare pratiche efficaci per sostenere

l’evoluzione teorica proposta dai nostri economisti? Qual è il nostro ruolo quotidiano nella gestione concreta delle nostre imprese? La ricerca del guadagno? Ovviamente, il guadagno è essenziale per il futuro dell’azienda. La creazione di valore? Indubbiamente, il capitale investito deve generare un ritorno. L’impulso all’innovazione? Assolutamente, in tempi di cambiamenti così rapidi, l’innovazione costante di prodotti e processi è fondamentale. E quindi?

Noi imprenditori non abbiamo bisogno di studi approfonditi per comprendere che la nostra impresa non si limita agli aspetti materiali; è anche una comunità di persone dobbiamo convincerci che l’Economia Civile rappresenta un approccio innovativo e umanistico alla gestione aziendale, dove il mercato non è solo un luogo di scambio economico, ma anche uno spazio di interazione sociale e, valori morali e le virtù civiche come la cooperazione, la reciprocità e la solidarietà sono fondamentali. Dobbiamo convincerci che adottare questi principi non solo migliora la reputazione dell’azienda, ma può anche portare a una maggiore sostenibilità e successo a lungo termine.

Dobbiamo convincerci dell’importanza di introdurre nelle nostre aziende il concetto di creatività utilizzando termini come fantasia, immaginazione, scoperta, invenzione, innovazione, competenze, competitività, eccellenza. Queste parole aprono le porte a realtà aziendali avanzate e, soprattutto, a realtà sociali. Questi mondi attendono di essere abitati da un numero crescente di imprenditori che vogliano essere protagonisti. Che siamo imprenditori, professionisti, lavoratori o studenti, siamo tutti uniti nel desiderio di apportare un contributo innovativo, concreto, al nostro sistema socioeconomico. Tuttavia, al momento, ci troviamo a scalare una montagna con calzature inadeguate.

È necessario che ci equipaggiamo, se non con scarponi,

almeno con scarpe da corsa, per ripartire con energia e determinazione verso un mondo migliore, ancora tutto da costruire. Dobbiamo guardare avanti con la serenità e la forza della speranza cristiana propria degli uomini coraggiosi e senza paura. Il nuovo mondo che possiamo ricostruire può essere migliore di quello che stiamo lasciando alle spalle. Tuttavia, dobbiamo avere il coraggio creativo necessario. Le applicazioni pratiche delle teorie della economia civile richiedono un impegno concreto e una visione strategica

Gli imprenditori possono beneficiare notevolmente seguendo il percorso e l’adozione di linee guida, non solo in termini di miglioramento della immagine aziendale e della reputazione ma anche in termini di sostenibilità a lungo termine e di creazione di valore condiviso.

Incorporare e seguire le teorie enuncianti i principi dell’economia civile nelle operazioni quotidiane può aiutare a costruire un’economia più equa, inclusiva e sostenibile, beneficiando al contempo l’azienda stessa e la società nel suo complesso.

Per questo motivo, dobbiamo riscoprire le teorie che hanno dimostrato la loro validità. Molte delle nuove idee sono, in realtà, antiche idee che dobbiamo recuperare, attualizzare e rendere vive, per aiutarci con la pratica a affrontare i problemi senza paura e senza esitazioni. Economia Civile e Dottrina Sociale della Chiesa si intrecciano in modo molto forte, e questo convergere è nell’interesse dell’impresa seria, quella che desidera operare per un’economia sostenibile e duratura, distinguendosi dai semplici uomini d’affari, che spesso vengono chiamati imprenditori in modo errato.

L’Economia Civile: Una Visione Personale

di Marco Piccolo Reynaldi, CEO, Reynald Cosmetici Presidente alla Sostenibilità, Confindustria Piemonte, Ambasciatore dell’Economia Civile

Mi chiamo Marco Piccolo Reynaldi, e sono CEO di Reynald Cosmetici, un’azienda che da anni si impegna nella produzione di cosmetici in conto terzi. Oltre al mio ruolo professionale, ho avuto l’onore di servire come Presidente alla Sostenibilità per Confindustria Piemonte e Ambasciatore dell’Economia Civile. Oggi vorrei condividere con voi una riflessione personale sull’economia civile, un concetto che ha profondamente influenzato il mio percorso professionale e umano.

L’economia civile è per me una filosofia di vita oltre che un modello economico. Non si tratta solo di perseguire il profitto, ma di creare valore per la società nel suo complesso. La mia carriera è stata guidata dalla convinzione che le imprese hanno una responsabilità sociale e ambientale che va oltre i bilanci e i report annuali. Questo credo è radicato in esperienze personali

e professionali che mi hanno mostrato l’impatto positivo di un approccio sostenibile e inclusivo.

Un momento che mi ha particolarmente segnato è stato quando abbiamo deciso di riformulare la nostra linea di produzione per ridurre l’impatto ambientale. Non è stato facile, e inizialmente c’erano molte resistenze interne. Tuttavia, insistendo sulla visione a lungo termine, abbiamo dimostrato che la sostenibilità può andare di pari passo con la crescita economica. Abbiamo ridotto gli sprechi, migliorato l’efficienza energetica e introdotto ingredienti naturali e biologici. Questo non solo ha migliorato la nostra impronta ecologica, ma ha anche rafforzato il legame con i nostri clienti, che apprezzano il nostro impegno verso il pianeta.

Un altro aspetto fondamentale dell’economia civile è l’attenzione alla comunità. Nel corso degli anni, abbiamo

avviato numerose collaborazioni con organizzazioni locali per supportare l’occupazione giovanile e l’inclusione sociale.

Ricordo con particolare affetto un progetto di formazione professionale che ha permesso a diversi giovani di acquisire competenze nel settore cosmetico, offrendo loro nuove opportunità di lavoro e una prospettiva di vita migliore.

Credo fermamente che l’economia civile possa fornire soluzioni concrete alle sfide sociali odierne, come la disuguaglianza e la marginalizzazione. La chiave sta nel vedere le imprese non solo come motori economici, ma anche come agenti di cambiamento sociale. È un approccio che richiede coraggio, visione e un impegno costante per fare la cosa giusta, anche quando è la

più difficile. Concludo con una riflessione personale: adottare i principi dell’economia civile non è solo una scelta etica, ma anche una strategia vincente per il futuro. Le imprese che sapranno integrare sostenibilità, equità e reciprocità nelle loro operazioni saranno quelle che prospereranno in un mondo sempre più consapevole e interconnesso.

Ringrazio L’Abbraccio per l’opportunità di condividere queste riflessioni. Spero che possano ispirare altri a percorrere la strada dell’economia civile, contribuendo così alla costruzione di un’economia del benessere equa e sostenibile.

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L'Abbraccio numero 113 by gammaufficiosrl - Issuu