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Gioco d’azzardo industriale e boom dell’online, tra ragioni del profitto e diritti della persona

di Maurizio Fiasco, sociologo, esperto della Consulta Nazionale Antiusura, docente su Sicurezza Pubblica e Gioco d’azzardo

Nell’arco di appena cinque anni la composizione organica dei giochi d’azzardo in Italia (come già da tempo nel resto dei paesi europei) è radicalmente cambiata. Ancora nel 2017 circa 26 miliardi di euro erano stati puntati attraverso la rete internet, a fronte di altri 75 versati dai punti di raccolta nelle strade e nelle piazze delle città. Dunque, per ogni euro scommesso “da remoto” ne risultavano tre da un luogo fisico. Nell’anno 2021 le proporzioni si sono capovolte: il 67 per cento si è movimentato nei canali digitali e il restante (quello che i Monopoli denominano “gioco fisico”) è finito nelle slot machine, per i tagliandi di gratta e vinci e per lotto e lotterie, con le cartelle del bingo, ai videogiochi che simulano corse di cavalli nei bar e nelle tabaccherie e, sempre restando a quanto praticato con un supporto materiale, alle ricevitorie con sale che si aprono sui marciapiedi o nei centri commerciali.

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La differenza è notevole, e dalle molte conseguenze: per il profitto privato, per le entrate fiscali, per la condizione della persona, per i tempi e la durezza ulteriore delle dipendenze patologiche che si diffondono. Vediamole con cura, sia immaginando gli sviluppi sia prendendo atto delle nuove prove che dovrebbero affrontare quanti operano nel campo dell’assistenza e della ricerca.

Cominciamo con il segnalare un tratto molto rilevante di quel che sta saturando l’universo del gioco d’azzardo: l’impiego degli algoritmi nelle piattaforme online, che attivano una sorta di pedinamento costante di chi consuma scommesse e invia denaro alle “sfide” che apre dal display dello smartphone. La persona, parliamo proprio dell’individuo singolo, è ben conosciuta nei suoi movimenti, nelle emozioni, negli impulsi nel corso della giornata (comprese le ore notturne). Si registra in un sito dei casinò online, entra con facilità nelle sale con i colori creati con i pixel del suo device mobile che, meglio di un braccialetto elettronico, invierà al “banco” (il server del concessionario) un flusso costante di informazioni.

Per quei pochi (o quei tanti, non è noto il dato) che vorranno uscire, il percorso è in salita. Pochi click per entrare, molti minuti per uscire. Tempo che soffia contro la motivazione di terminare il gioco cui è arrivata – e dolorosamente – la persona piombata nella dipendenza da azzardo. Il popolo di uomini e donne in addiction è composito: lavoratori precari e professionisti stressati in una giornata pesante, casalinghe e studenti, pensionati e militari, medici, professori, disoccupati. Il web è una rete a strascico, e porta via chi incontra.

I tecnici dei casinò e dei siti di scommesse online hanno compilato i profili dei quattro milioni e mezzo di persone con un “conto di gioco” (in media, ogni cliente ne ha 2,5, di account). Ne ricavano, minuto per minuto, i cluster (gruppi di consumatori omogenei) affinché sia amministrato – con la massima personalizzazione possibile – il comportamento di giocatori. Il Garante della privacy tace, l’AGCOM nel 2019 si risparmiò di porre le regole (e definì “offerta commerciale” l’advertising delle scommesse…), in perfetta coerenza con i servizi che fino a quattro anni fa un’università, per lo più statale, forniva alle major dell’azzardo online.

Fermiamoci su questo particolare, corredandolo con le informazioni essenziali. Dunque, nel gioco d’azzardo online non esiste anonimato. Se il gestore di un bar con le slotmachine o di una sala di quartiere “vede” i clienti, e li conosce “di persona”, le piattaforme online si spingono molto lontano. Hanno l’anagrafe dei clienti (nome, cognome, età, sesso, residenza, luogo di collegamento e tutto il resto ricavabile dal codice fiscale). Il server registra il tempo di gioco (volta per volta e poi con statistiche ottimizzate) il denaro versato (idem) gli orari e i luoghi di collegamento (ibidem) in treno, in casa, in ufficio e alla fermata dei bus. Tutto è tracciato. Tali big data sono più preziosi dell’oro e dei diamanti.

Quando poi la persona giocatrice si collega (esattamente come quando è in una sala slot) la gamma “armocromatica” dei display ottimizzata per generare trance ipnotica sulla percezione della dinamica di luminosità, come le frequenze sonore (mi bemolle e si bemolle, corrispondenti a quelle delle aritmie cardiache) concorrono a fidelizzare quel particolare cliente. Si comprende allora lo scenario che si va consolidando.

La persona, davanti a tale intrusione, è quasi del tutto privata di protezione giuridica dall’ordinamento. È avvenuta la rivoluzione del digitale, anche, forse soprattutto nel gioco d’azzardo. La normativa è quella, già insufficiente in generale, per le mere transazioni commerciali nel web o per la profilatura degli utenti dei milioni dei siti internet. Niente di dedicato alla

“commercializzazione” di quel prodotto sui generis che sostiene un business grazie alla fidelizzazione dei clienti con l’addiction. Il gioco d’azzardo, occorre ricordarlo a tanti economisti silenti, consente un margine di profitto fondamentale grazie alla vigenza, anche in questo campo, della “legge di Pareto”. Che così recita: fatto cento il valore di un’attività economica, l’utilità marginale deriva dal 20 per cento dei clienti perché a essi si deve l’80 per cento degli acquisti.

Declinato per la materia dell’azzardo, e avvalendosi di una lettura della ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità del 2018, significa che dei 18 milioni e mezzo di italiani adulti che almeno una volta giocano nel corso dell’anno, il focus va posto sui 5 milioni e 100 mila che lo fanno abitudinariamente. All’interno di questi ultimi ve ne sono oltre un milione e mezzo che l’ISS individua come “problematici” (nel senso del problematic gambling, ovvero in addiction). Ed ecco i ricavi1, ovvero le perdite pro-capite, rispettivamente dai tre profili di consumatori.

In media un giocatore occasionale (qualcuno lo definirebbe praticante del “gioco responsabile”) perde durante i dodici mesi 289 euro; l’abitudinario (parliamo ovviamente dell’abitudinario medio) ne lascia al banco “solo” 861; il “patologico” ne perde 8334, vale a dire 23 euro al di’. Tratti conti aggregati ecco i valori: 3,9 miliardi di euro sono incassati con le perdite dei “responsabili”; 3,1 sono consegnati dagli “abitudinari” a rischio e ancora non patologici, ma 12,5 derivano dagli addicted. Il calcolo che abbiamo compiuto, va precisato, è “al netto” dei 670 mila minorenni studenti, tra i quali quasi 70 mila (68.850) sono valutati come “problematici”.

La conclusione è di una evidenza schiacciante: il business è derivato dalla dipendenza patologica delle persone, ovvero da una condizione di sofferenza che viene costruita con un sofisticato progetto industriale, ancora sconosciuto quanto ai suoi interna corporis. Perché? Tra le cause segnaliamo una curiosa asimmetria, proprio in materia di dati, in verità necessari al fine di conoscere per deliberare nell’interesse pubblico. Ebbene, quel che è ben trattato dall’industria dei giochi d’azzardo – ovvero l’anagrafe dei giocatori online – è stato fino al dicembre scorso risolutamente non trasmesso al ministero della Salute. Lì, sarebbe avvenuto un rovesciamento della prospettiva, perché i cluster di popolazione giocatrice più remunerativa (per i concessionari) sarebbero divenuti la base per ricavare l’epidemiologia esatta delle patologie da azzardo.

L’indisponibilità dei dati analitici ha infatti privato, negli anni del boom del gioco d’azzardo industriale di massa, l’Autorità nazionale in materia sanitaria degli essenziali elementi per imporre di bilanciare gli interessi economici (privati) e quelli fiscali (pubblici) con la salvaguardia della Salute, ovvero del diritto che la Costituzione (articolo 32) tutela quale fondamentale e irrevocabile.

Solo nel gennaio di quest’anno le amministrazioni competenti (ADM e MEF) si sono impegnate a trasmettere i dati, ufficiali e di interesse pubblico2 ,all’Osservatorio ministeriale.

Parafrasando l’indimenticabile maestro Mario Lodi, viene da pensare “C’è speranza se questo accade al Vho3”, e dunque al risveglio di attenzione della nostra Sanità.

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