Broken Moonlight

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Mariachiara Lobefaro

«Sei ad Hong Kong: gli spiriti si nascondono ovunque… A patto di avere la mente abbastanza aperta per accorgersene».

Si toccò il braccio destro come se scottasse e Vicky comprese, una volta di più, di non aver prestato attenzione ai dettagli. «Non è un tatuaggio» bisbigliò.

Il dio aveva impresso su di lui un intrico di segni, fitto e oscuro, che si avvolgeva come una ragnatela alla pelle bianca. Dall’estremità (la mano era di un nero compatto) si diramavano centinaia di linee sottili. Mo aveva perso l’ispirazione solo parecchio più avanti, deponendo il pennello a metà del bicipite.

Vicky osservò il disegno che percorreva l’avambraccio di Sean, e pensò che fosse bellissimo. Bellissimo e spaventoso. Il suo cuore saltò un battito. D’un tratto, si sentiva pervasa da un miscuglio di fascinazione e paura. Un brivido freddo le scese lungo la schiena… accompagnato da qualcos’altro. Da un senso di eccitazione.

Young Adult

Mariachiara Lobefaro

Broken Moonlight

della stessa autrice:

Diamond Palace

ISBN 979-12-221-0993-0

Prima edizione luglio 2025 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2029 2028 2027 2026 2025

© 2025 Carlo Gallucci editore srl - Roma

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Mariachiara Lobefaro

Broken Moonlight

Prologo La risata del dio

La luna crescente sfavillava sui grattacieli di Hong Kong. Sopra di lui si srotolava una trapunta di stelle, mentre percorreva Hollywood Road a passo spedito.

Nonostante l’afa opprimente, l’atmosfera era magica: i sussurri primordiali del vento, le presenze millenarie che si addensavano da ogni parte… Non sopravvivevi 17 anni in una città del genere senza esserne consapevole. Eppure, esistevano delle forze, in agguato sotto le pieghe del visibile, che aveva sottovalutato.

Più avanti, avrebbe pensato e ripensato a quella sera, odiandosi per la propria incoscienza.

Sostò per un attimo davanti al cancello candido del tempio, sormontato da tegole azzurre.

Inspirò e varcò l’ingresso delimitato da due tozzi pilastri.

L’ambiente era immerso in un silenzio tombale e disseminato di oggetti di inestimabile valore. Ma lui li conosceva a memoria, così come gli era familiare la suggestiva alternanza di rosso e oro. Guardò con indifferenza tanto le placche di legno intagliato quanto i

magnifici altari. Non alzò la testa per ammirare le spirali a forma di cono che pendevano dal soffitto, spandendo incenso. Ignorò anche la campana della dinastia Quing, i cui riflessi erano vividi persino in quella penombra.

Raggiunse uno dei due antichi incensieri collocati davanti all’altare principale su piedistalli di bronzo. Ne esaminò i manici leonini, sfiorò la superficie dorata.

Non si aspettava certo che il metallo si mettesse a vibrare.

«Eh…?» mormorò, e ritrasse la mano. Il tremolio si fece più intenso, dall’incensiere le scosse si estesero fino al pavimento, poi alle pareti.

«Ma che cos…?» sussurrò ancora.

Gli sembrò che il pavimento cedesse, o roteasse, o tutte e due le cose insieme. Accadde tutto molto in fretta: volute di fumo rossastro si alzarono dal suolo verso le campane votive e vorticarono e vorticarono.

Una risata – sublime, ancestrale, sinistra – rimbombò ovunque.

Fu come se quel ghigno fragoroso lo spezzasse in due, neanche fosse un bastoncino di incenso. Cadde sulle ginocchia, i peli sulle braccia gli si rizzarono a uno a uno.

«Sean Lau!»

E lui seppe che era stato Mo, il dio della guerra, a pronunciare il suo nome.

Tutte le campane stridevano all’unisono, ma soltanto nella sua testa. La voce di Mo dentro le sue orecchie si fece assordante.

«Che tu sia maledetto, proprio come i tuoi antenati prima di te!»

La mano destra, quella con cui aveva toccato l’incensiere, cominciò a pulsargli. Una scossa elettrica gli attraversò il corpo, talmente lacerante da mozzargli il fiato. Delle forme contorte, plumbee, guizzavano sotto la pelle del suo braccio destro… Non riusciva più a muoverlo. Provò a distendere le dita, ma anche quelle erano paralizzate.

Poi il vapore lo avvolse, sottraendogli la vista.

Crollò sul pavimento, con l’eco della risata di Mo che si assottigliava fino a tornare nell’altra dimensione. Attorno a lui c’era solo fumo, dell’esatta sfumatura del sangue.

Il mondo non esisteva più.

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Un nuovo inizio

«Vicky! Hai finito con quegli scatoloni?»

Victoria Middleton-Mellors se ne stava distesa a terra, circondata da ogni parte dalle scatole del trasloco. Aveva rigato il parquet della sua camera con gli anfibi neri, che si ostinava a indossare anche d’estate.

La voce di sua madre le arrivava forte e chiara dalla cucina, alternata ai miagolii di Truffle. Ma lei non vi badava, in preda a emozioni che non riusciva bene a identificare: nonostante fosse sera, dalle imposte un po’ malmesse si insinuava ancora l’afa, e il tepore le faceva venire voglia di scivolare in uno dei suoi sogni.

«VICKY!» gridò ancora Rose, stridula.

Lei si passò le dita tra i lunghi capelli. Dal soffitto penzolava una lampadina nuda, però anche così le ciocche brillavano di splendidi riflessi biondo fragola. Erano il suo unico vanto, il solo frammento del corpo che, per lei, non fosse da nascondere.

Nel frattempo, Rose aveva fatto il suo ingresso a passo di carica. L’appartamento era modesto, con le pareti sottilissime, e la stanza di Vicky era appena più

grande di uno sgabuzzino. La vista sulla baia di Causeway, però, era impagabile.

«Ma come?! Non hai sistemato nulla?» Rose lanciò uno sguardo sconsolato agli scatoloni, molti ancora sigillati. Faceva mostra della più ansiosa delle espressioni, e si tormentava come al solito il ciondolo che portava al collo.

Da dietro gli occhiali rotondi, Vicky le riservò un’occhiata apatica: sotto gli strati di apprensione sua madre era una bella donna, però adesso aveva la fronte madida, i riccioli ribelli tenuti su con un mozzicone di matita.

Anche Truffle entrò e salì su uno scatolone: si girò verso Vicky drizzando la coda, in segno di disapprovazione.

Vicky si alzò, di malavoglia. «Qualcosa ho fatto…» provò a difendersi. Indicò con la mano la sola parte della stanza a cui avesse riservato attenzione.

Quando il giorno prima era arrivato il camion dei traslochi, lei si era fiondata ad aprire il pacco azzurro: aveva estratto il poster dei Q Carbon, il suo gruppo k-pop preferito, e lo aveva appiccicato quasi con solennità due palmi sopra la testiera del letto. Era lo stesso identico punto da cui i Q Carbon la occhieggiavano nella sua stanza di Exeter, e lei si era sentita un po’ più a casa.

Solo un po’.

Le venne in mente Exeter, con le sue palazzine tutte uguali, fatte in serie; si ricordò di quanto avesse detestato il colore della cattedrale, le stradine di mattoni rossi.

E poi c’era il liceo, che faceva rima con orrore e desolazione. Soltanto la loro piccola villetta a schiera aveva rappresentato un rifugio sicuro… Almeno fino a un certo punto.

“No, adesso non penserai a questo” si impose. Cominciò a tirare fuori, speditamente, svariati oggetti. Avrebbe riempito un mobile intero, pur di non far prendere alla sua mente quella particolare direzione.

Un attimo dopo, aveva già disseppellito la tazza gialla con Blixie, una delle idol delle Cherry AM, poi una locandina di Wamida Tazu!, il suo anime del cuore, e infine un cuscino con stampato un fotogramma di Palette of Emotions.

La serie tv raccontava di un ritrattista di Busan che risollevava l’umore della gente grazie alle sue pennellate… Almeno finché un’affascinante gallerista, convinta che lui fosse un falsario, si metteva in testa di mandarlo in rovina. Ovviamente, i due si scoprivano innamorati e si scambiavano un unico, tenero bacio, ma solo dopo una lunga serie di scaramucce. A Rose non era piaciuta un granché.

«Ma la gallerista non può dirgli semplicemente che le piace, anziché insultarlo?» aveva domandato, stiracchiandosi sul divano del salotto di Exeter. Davanti a

loro, sulla smart tv, la protagonista aveva appena scagliato una tela tra le onde del mare.

«Non funziona così, nei k-drama» si era limitata a rispondere Vicky.

In realtà, neppure lei aveva seguito con entusiasmo la trama. Era troppo impegnata a ignorare che, sulla destra, c’era la poltrona verde scuro.

Nessuno si sarebbe mai più seduto lì…

«Be’, questi due sono infantili» aveva commentato Rose, allungando le gambe.

«Non sei obbligata a vederlo con me» aveva puntualizzato Vicky, improvvisamente nervosa.

Erano mesi che la villetta le tendeva le trappole più sgradevoli, cogliendola di sorpresa. Magari andava in cucina, prendeva una padella e un ricordo la fulminava: suo padre che, due Natali prima, bruciava i pancake nello stesso tegame. Certe volte attraversare il salotto e scoprire che lui non era su quella maledetta poltrona le sembrava insensato: era naturale che dovesse essere lì, a leggere il “Times” tenendolo a una distanza imbarazzante dagli occhi, perché stava diventando presbite. Oppure poteva essere in giardino, a controllare lo stato del suo microscopico orto, perché qualche anno prima si era messo in testa di coltivare gli asparagi da solo. Quando Vicky aveva trovato un calzino (un calzino grigio, da uomo) dietro la lavatrice, le era sembrato proprio uno scherzo di pessimo gusto.

«No, mi fa piacere passare un po’ di tempo insieme» aveva detto Rose.

Quella sera stavano entrambe recitando, forse anche meglio degli attori di Palette of Emotions: gli sguardi malinconici del pittore erano nulla rispetto al vero dramma, quello che si consumava nel loro salotto.

Anche sua madre si sforzava di non fissare la poltrona, Vicky lo sapeva. A dirla tutta, Rose aveva accettato di guardare un k-drama proprio perché la poltrona era vuota. E perciò, due settimane dopo quella serata, era tornata dal gattile con un batuffolo bianco: Truffle.

Vicky scacciò via i ricordi, poggiò il cuscino di Palette sul letto e aprì un’altra scatola. L’espressione sul viso di Rose diventava sempre più benevola: quando Vicky ebbe finito di svuotare il terzo scatolone, sua madre l’abbracciò di slancio.

«Sono fiera di te» esclamò. «Per come stai gestendo questa situazione».

Lei si irrigidì, anche se quegli impeti di affetto, così melodrammatici, erano tipici di Rose. In effetti, era davvero strano che non le piacessero i languori dei k-drama.

«N-non ho fatto niente» replicò. Si sforzò di ricambiare la stretta, ma non le riuscì granché bene.

«Certo che sì. Hai accettato di trasferirti dall’Inghilterra, con quella noiosa di tua madre… Sei una ragazza in gamba».

Finalmente Vicky riuscì a divincolarsi, appena un po’. «Non sei noiosa! Mi faceva piacere cambiare aria» spiegò. «E poi era il tuo sogno. Tuo e…»

Ecco, aveva commesso un passo falso. Gli occhi di Rose si erano già inumiditi.

Le sue iridi azzurre si riempivano facilmente tanto di tristezza quanto di speranza. Quelle di Vicky erano marroni: perché si notassero le screziature oliva doveva mettersi proprio davanti a una fonte di luce.

Aveva spesso invidiato gli occhi di Rose. E invece, li aveva ereditati da… suo padre.

Ecco, era inevitabile: in un modo o nell’altro, finiva sempre per pensare a lui.

Per peggiorare la situazione, Rose soggiunse: «Già. Peter desiderava talmente tanto che vivessimo qui, tutti insieme! Sarebbe fiero di noi, se ci vedesse!»

“Ma non ci può vedere. Non ci vedrà mai più” avrebbe voluto rispondere Vicky, ma non lo fece. «Ho fame» mentì, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Che cosa c’è per cena?»

Rose si attivò immediatamente. «Vedo di mettere insieme qualcosa, ok? In frigo ci sono gli avanzi di pollo…»

E si allontanò in cucina, permettendo a Vicky di placare il ronzio dentro la propria testa.

Durante la cena, Rose parlò ininterrottamente. Era una gran chiacchierona, e riempì Vicky di dettagli sul

suo nuovo incarico all’università. Doveva preparare un intervento per l’open day, che a sentirla sembrava l’evento più importante dell’universo, e poi i corsi di Antropologia sarebbero partiti solo a settembre, eppure lei stava già partorendo mille idee su come impostare le lezioni: aveva due mesi per pensarci e nessuna intenzione di perdere tempo!

Vicky la ascoltò solo per metà, smaniosa di rifugiarsi di nuovo in camera. Non aveva neppure voglia di coccolare Truffle, che stava divorando famelicamente le sue crocchette.

Una volta in stanza, riprese a spacchettare. Dopo che ebbe accumulato sul letto tre pile di t-shirt, si fermò un momento ad ammirare le magliette con le stampe degli anime Anni Novanta, le felpe extralarge e i calzettoni giallo limone, carta da zucchero, lilla e rosa pesca. Anche se a Exeter i toni pastello erano fuori moda, a lei quei colori mettevano il buonumore, e Dio sapeva di quanta allegria aveva bisogno. Stava piegando un maglione decorato con piccoli ananas, quando la voce di Rose le arrivò alle orecchie: sua madre parlava al telefono a volume troppo alto, da sempre.

«Sono in pensiero per lei, Martha» si stava confidando.

Vicky strinse la lana del maglione tra le dita.

«Si è chiusa così tanto in se stessa!»

Per qualche momento tacque, probabilmente per-

ché dall’altro capo del telefono arrivavano dei commenti.

«Lo so, lo so che a 16 anni è normale…»

A quanto pareva, le amiche di sua madre erano più ragionevoli di lei. L’indole di Rose, però, era troppo impetuosa perché demordesse.

«Mi sembra così assente, così… svuotata. Da quando Peter è morto, non ha neppure mai pianto! Non è una reazione normale…»

A Exeter, sul mobiletto del bagno, Rose aveva esibito per anni il teschio di uno sciamano africano. A volte lo mostrava durante le lezioni – per fortuna, era andato perso durante il trasloco. “Chi è lei per parlare di normalità?” pensò Vicky, con fastidio crescente.

Si calcò le cuffie sulle orecchie e fece partire una delle canzoni dei Q Carbon, SunShine. Le note coprirono le lamentele di sua madre, così cominciò a ballare a un ritmo tutto suo. Lo faceva solo quando era sicurissima di non essere vista.

Con una minuscola piroetta si ritrovò di fronte al poster, proprio mentre gli acuti di Lee Minjun si riversavano nel suo padiglione auricolare. Passò indice e medio sulla carta: Lee Minjun era a un palmo da lei. Indossava una camicia di jeans e un sorriso perfetto, e i capelli gli erano stati acconciati con una precisione millimetrica.

Accanto a lui, Kang Chiu, il membro cinese del

gruppo, sollevava un microfono con aria trionfante; e poi c’erano Hyunwoo, YD e Pan Pan.

Pan Pan era nato nel Nord della Thailandia e aveva incantato i produttori con le sue abilità da rapper. Era il favorito di molti fan per via degli iconici capelli platino: di recente se li era tinti di nero, facendo scandalo.

Vicky, però, non aveva occhi che per Lee Minjun. Lui era il più talentuoso, e senz’altro il più sensibile, anche se fingeva il contrario… Glielo confermavano i lineamenti morbidi del suo viso e la timidezza con cui sosteneva le interviste.

“Se solo fossi davvero qui, Minjun… La mia vita sarebbe migliore”.

Era una convinzione stupida (lo sapeva), ma poteva concedersela. Aveva pensato troppo a suo padre quel giorno, le ci voleva un antidoto.

Afferrò il portatile, avvolto dalla custodia celeste pallido, e saltò sul letto, scansando i mucchi di vestiti. Sentiva l’urgenza di scrivere: le dita cominciarono a correre rapide sulla tastiera, l’immaginazione che lavorava a gran velocità.

Intanto, il nodo nel suo stomaco si allentava. Kang

Chiu intonò il ritornello di Be – “I will be, I will be, next to you, next to me” – e a lei venne in mente come concludere la sua fanfiction: Lee Minjun si dichiarava in mondovisione a una timida tecnica del suono, di cui era innamorato in segreto fin dal suo debutto. Davanti

alla prospettiva di fidanzarsi con un idol lei tentennava, ma Minjun riusciva a rassicurarla: sarebbe andato tutto bene. I meccanismi della fama non li avrebbero divisi, perché non contavano nulla rispetto all’amore.

Scrisse la parola “Fine”, ripose il portatile e balzò giù dal letto. Spalancò la finestra, ma il caldo non accennava a dileguarsi.

Mise la testa fuori, sentì l’aria che le accarezzava i lunghi capelli. C’erano mille luci, laggiù, a Causeway Bay, mille luci brulicanti, e il cuore prese a batterle forte.

Era davvero un nuovo inizio.

“Da tanto tempo non mi sentivo così” pensò, qualunque cosa quel così significasse.

Forse, il Lee Minjun della sua fantasia aveva ragione.

Forse, sarebbe andato davvero tutto bene.

MARIACHIARA LOBEFARO

è nata in Puglia, ha studiato a Bologna e vive a Firenze, dove insegna Lettere alle superiori. È stata finalista al Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2024, nella sezione dedicata al miglior esordio. Con Gallucci ha pubblicato anche Diamond Palace ed è tra gli autori della raccolta Le farfalle nello stomaco.

Della stessa autrice:

Art Director: Stefano Rossetti

Graphic Designer: Paola Convertino / PEPE nymi

Mariachiara Lobefaro

Due cuori tormentati, il fascino e il mistero di Hong Kong: un romantasy che lascia il segno.

La sedicenne Vicky Middleton si è appena trasferita nella frenetica metropoli di Hong Kong. L’incontro con Sean Lau – occhi a mandorla e capelli neri come la pece – è un colpo di fulmine. Affascinante e misterioso, Sean le rivela il suo segreto: il Dio della Guerra ha scagliato su di lui una maledizione, che lo trasformerà per sempre in una creatura della notte. L’unica possibilità di salvezza, secondo il negromante Fang-Shi, è ritrovare un antichissimo manufatto, andato perduto due secoli prima. L’amore spinge Vicky a offrire il proprio aiuto incondizionato, ammesso che Sean le dica tutta la verità…

Per un attimo, Vicky si sentì davvero piccola, in quella città sconosciuta, in un universo che le si era appena rivelato altrettanto ignoto. Sean le tese una mano inchiostrata e lei l’afferrò. «Va bene. Portami dove vuoi».

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