Periodico INTEGRA MENTE della Comunità Fraternità S.C.S. ONLUS è iscritto al n. 21/2019 del 19/12/2019 e il direttore è Don Adriano Bianchi nato a BS il 13/12/67
















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La pandemia da Covid 19 ha cambiato la vita di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla nazionalità, costringendo ciascuno a cambiare le proprie priorità e a riorganizzare la propria vita.
Non va dimenticato che, fin dall'inizio della prima ondata pandemica, poiché il distanziamento sociale sembrava essere la sola misura efficace a disposizione per prevenire il contagio, l’amministrazione penitenziaria si è trovata costretta a chiudere le porte del carcere per evitare qualsiasi contatto con l’esterno, riportando il mondo penitenziario indietro di più di 40 anni. Tale distanziamento ovviamente non poteva assolutamente essere mantenuto all’interno degli istituti di pena, sempre più sovraffollati e inadeguati.
Gli istituti di pena non sono stati certo preservati da questo terremoto globale e, anzi, si sono trovati a vivere in una situazione di emergenza non ancora conclusa che ha comportato un generale peggioramento della vita quotidiana di detenuti e personale penitenziario.
Ciò non ha riguardato ovviamente solo Brescia o l’Italia, poiché nel tentativo di proteggere la vita dei detenuti, anche le amministrazioni penitenziarie di quasi tutte le nazioni europee hanno imposto una rigida chiusura di tutte le attività che coinvolgevano persone esterne. Tentare di spiegare cosa abbiano rappresentato questi stravolgimenti della vita inframuraria per i detenuti e le loro famiglie non è ovviamente cosa facile, poiché le intense sofferenze e paure vissute da altri non sempre trovano, nelle parole di chi le narra, un adeguato mezzo per esplicitarsi. Tuttavia, non è difficile immaginare come, fra le tante difficoltà che normalmente caratterizzano la vita in carcere, la sospensione improvvisa dei colloqui visivi, di tutte le attività inframurarie, dei trasferimenti da un istituto ad un altro (anche solo per potersi avvicinare alla famiglia), uniti alla consapevolezza di non poter adottare, per proteggersi, almeno la misura del distanziamento sociale a causa delle pessime condizioni di sovraffollamento, abbiano determinato un generale innalzamento delle tensioni interne, sfociate in alcuni casi nelle ben note situazioni di violenza del marzo 2020. A più di due anni da quei momenti drammatici e a pandemia non ancora risolta, il carcere sta lentamente tentando di tornare alla normalità di un quotidiano fatto di piccoli ma indispensabili elementi quali la scuola, le poche possibilità di lavoro inframurario, i colloqui in presenza, lo sport di gruppo e le attività trattamentali che coinvolgono persone provenienti dall’esterno, senza i quali l’obiettivo rieducativo enunciato nell’art. 27 della Costituzione rimane completamente inattuato, perdendo significato.
Che nella circondariale bresciana la vita non sia facile per detenuti e personale penitenziario è però consapevolezza ormai nota da tempo: l’inadeguatezza strutturale dell’edificio si aggiunge infatti a tutte le difficoltà della vita inframuraria, tipiche del panorama nazionale, rendendo veramente difficile pensare che un passaggio più o meno lungo in quella struttura possa avere una qualsiasi efficacia rieducativa. La questione potrebbe, almeno dal punto di vista strutturale, essere migliorata dalla costruzione di un carcere nuovo che però Brescia aspetta ormai da anni senza alcuna certezza e, forse, speranza. Anche per questa ragione, chi scrive ritiene che sia da tempo giunto il momento di ridurre fortemente l’utilizzo del carcere a favore di una attenta applicazione di misure alternative, ricche di contenuti rieducativi e in grado di offrire effettive possibilità di reinserimento sociale. In questo modo, anche per chi deve necessariamente restare in carcere si presenterebbero migliori opportunità di trattamento, basate su una maggior possibilità di interazione con il personale educativo (non più costretto a gestire numeri improponibili di persone) e su una più ampia disponibilità di attività trattamentali.
la casa circondariale cittadina (Nerio Fischione) che da anni ormai detiene il primato di istituto più sovraffollato d’Italia.
E se è certo che la pandemia abbia messo a dura prova l’impostazione del sistema penitenziario italiano e le sue capacità di perseguire gli obiettivi prefissati per legge, altrettanto certo è il fatto che se non si sfrutteranno adeguatamente gli insegnamenti che ne sono derivati, si tratterà dell’ennesima occasione volutamente persa dall’Italia per dare risposte concrete e definitive ai problemi che da troppo tempo affliggono il sistema penitenziario italiano.
Purtroppo però, a tornare verso una disastrosa normalità è anche il livello di sovraffollamento degli Istituti di pena italiani che dopo aver vissuto un calo significativo di presenze a partire dal maggio 2020 (dovuto alle necessarie misure deflattive introdotte in piena pandemia), è di nuovo avviato verso i consueti livelli di allarme. Ciò riguarda particolarmente
Dott.ssa Luisa Ravagnani
Quanto alla qualità della vita inframuraria, sebbene non vi sia dubbio che una riduzione dei numeri delle presenze porterebbe benefici enormi, sotto tutti i punti di vista, sarebbe semplicistico ritenere che l’eliminazione del sovraffollamento possa di per sé bastare per migliorarla. Infatti, senza una rivisitazione drastica dell’attuale assetto detentivo, volta per esempio ad implementare le possibilità di lavoro infra ed extra murario, a rafforzare i rapporti con l’esterno (magari anche attraverso un uso adeguato e controllato di internet, come già avviene in molto paesi europei, per finalità di studio, lavorative o mediche, garantendo per esempio ai detenuti la possibilità di contattare dal carcere eventuali specialisti di cui abbiano bisogno, di inviare curricula per la ricerca di lavoro o di sostenere un colloquio di lavoro online) e a rendere il tempo della pena un tempo ricco di contenuti positivi, non è più credibile che il passaggio in carcere sia una parentesi di vita tesa al raggiungimento dell’alto fine costituzionale.
L'opera di volontariato di Beppe in carcere è sempre stata LA PRESENZA, il fatto di esserci costantemente all’interno del carcere. Mantenere settimanalmente i colloqui era per lui fondamentale diceva sempre "siamo una presenza importante dentro il carcere, entriamo e ascoltiamo, siamo una piccola luce di speranza per tanti, non possiamo spegnere quella luce dobbiamo essere seri”. I detenuti facevano la “domandina” per poter parlare con lui, nel colloquio cercava di capire quali erano le condizioni del detenuto per attivare poi azioni di aiuto che spaziavano dalla ricerca di un lavoro, all’accompagnamento all’ingresso in comunità. Era molto attento e riusciva subito a stabilire una relazione con la persona che aveva davanti, stabiliva un rapporto basato sulla fiducia reciproca, “io mi muovo e ti aiuto, ma devi essere serio, non prendere in giro nessuno, specialmente te stesso… l’opportunità di cambiare e ricominciare arriva ora, cerca di coglierla; la strada del cambiamento è lunga e faticosa, ma poi vedrai che bello poter ritornare a camminare a testa alta…!” Beppe si muoveva come un trattore, cercava l'impossibile pur di aiutare le persone, nella maggior parte dei casi si occupava di sentire la famiglia del detenuto. Si recava nelle case dei familiari e la sua opera spesso era di fare da collante tra il detenuto e la famiglia, soprattutto quando erano presenti grosse difficoltà di relazione. Lui era quello che entrava in casa, portava il bene e cercava di riappacificare i rapporti. Il suo non era un lavoro solo interno al carcere, ma un’azione anche e soprattutto all'esterno. “Le persone hanno bisogno di noi dobbiamo essere qui a raccogliere il bisogno quando ce lo chiedono, una persona va aiutata 1/10/100/1000 volte, senza se e senza ma”, ripeteva spesso.
Estratto dall’intervista a Federico e Paola CI DESCRIVERESTE BREVEMENTE L’OPERA DI VOLONTARIATO DI BEPPE IN CARCERE?
Quando parlava con i detenuti il sabato mattina i patti erano chiari, lui ascoltava, ma non entrava in combutta con loro, era capace di affrontarli a “muso duro”, c’era rispetto da entrambe le parti. Ha aiutato molte persone indipendentemente dal reato commesso, dal ceto o dalla classe sociale. Il nostro lavoro quotidiano era nel verde, tagliavamo l’erba nei parchi e nei giardini, alcune volte eravamo costretti a sospendere il lavoro per le condizioni meteo, ma lui pur di non far tornare i detenuti in carcere e dargli il diritto di lavorare anche quando pioveva, si inventava qualsiasi attività. Avevamo costruito delle tettoie sotto le quali, durante le giornate di pioggia, spaccavamo la legna delle piante tagliate durante la stagione, per poi venderla. Grazie a questo lavoro riuscivamo sempre a garantire le giorna-
QUANDO HA INIZIATO? Ha iniziato la sua attività quando aveva vent'anni, andava a trovare le persone di Ospitaletto, ha ereditato questa predisposizione all’aiutare l’altro dalla mamma.
Federico racconta un episodio che gli è rimasto impresso inerente la riservatezza di Beppe nei confronti di quanto gli confidavano i detenuti “Una volta sono andato con lui a Reggio Emilia a prendere un detenuto e Beppe mi ha fatto dormire con lui in camera, il mattino seguente mi ha chiesto se avevo dormito bene e io gli risposi di sì, ma avevo intuito che non mi diceva qualcosa. Ho scoperto poi che la persona che aveva condiviso con me la camera era in carcere per aver ucciso nel sonno suo padre”.

te di lavoro ai detenuti. Aveva un buon rapporto anche con i direttori e i magistrati, lo rispettavano tantissimo perché conoscevano la motivazione con la quale ogni giorno svolgeva il suo “servizio”, sapevano che metteva sempre al centro le persone. Parlava con i magistrati, gli diceva direttamente ciò che pensava senza troppi filtri, come solo lui sapeva fare e loro lo ascoltavano e gli davano la precedenza rispetto agli avvocati, perché ritenevano il suo ruolo importante. Ad esempio era l’unico autorizzato ad entrare in carcere con la sua macchina per ritirare il pane avanzato e non è assolutamente una cosa normale per le rigide regole del carcere.
del centro diurno interno alla casa circondariale di Brescia “Nerio Fischione”; è un’educatrice professionale e lavora presso la Cooperativa Sociale di Bessimo capofila del progetto “AVATAR FATTI NON FOSTE “. È stata coinvolta in questa iniziativa fin dall’inizio, quindi da febbraio 2021 e fin da subito si è occupata della partenza e dell’organizzazione del centro diurno. Le chiediamo di condividere con noi la sua esperienza….
QUALI ATTIVITA’ SVOLGI ALL’INTERNO DEL CENTRO DIURNO? Sono la Coordinatrice del Servizio e, nel concreto, mi occupo della gestione delle relazioni con le diverse aree dell’istituto di pena, di svolgere i colloqui introduttivi e conoscitivi con le persone segnalate per l’avvio del loro percorso all’interno del centro diurno, di organizzare il loro inserimento e di affiancare i colleghi di Comunità Fraternità nella conduzione concreta delle varie attività.
QUANTI UTENTI PARTECIPANO ALLE ATTIVITA’?
PAOLA LA VITA A CASA CON LUI COM’ERA? Per farti capire, quando l’ho sposato avevo 18 anni e Don Corrado Fioravanti mi ha detto: “hai capito che tu sei vedova?” perché Beppe è sempre stato così, molto attento ai bisogni del suo paese e delle persone più fragili. Ma questo ha aiutato anche me. Ad esempio una volta non venne al matrimonio della nipote perché il magistrato aveva autorizzato solo lui ad accompagnare un detenuto al matrimonio della figlia lo stesso giorno e lui non se l’è sentita di rifiutare. Sarebbe molto orgoglioso di sua figlia che ora fa la Psichiatra in Alessiacarcere.èlaCoordinatrice
Dal 02 febbraio 2021, giorno di apertura del servizio, abbiamo ricevuto 69 segnalazioni, 62 sono state poi effettivamente inserite nei laboratori interni del centro Idiurno.datiaggiornati a Gennaio 2022 evidenziano che, attualmente, sono 32 i detenuti che frequentano attivamente il nostro centro diurno.
Questa esperienza mi ha permesso di conoscere dall’interno e da vicino il complesso mondo del carcere, la popolazione che lo anima e le dinamiche che lo caratterizzano. Il lavoro al centro diurno mi sta insegnando a relazionarmi con persone molto diverse tra loro, mantenendo un atteggiamento di tolleranza e sospensione del giudizio.
COME SEI STATA COINVOLTA IN QUESTO PROGETTO? Sono stata coinvolta direttamente dalla Cooperativa per cui lavoro che a febbraio del 2021 stava cercando personale per avviare il progetto in questione.
CHE SIGNIFICATO HA PER TE QUESTA ESPERIENZA?
QUALI ATTIVITA’ SVOLGI ALL’INTERNO DEL CENTRO DIURNO? Io gestisco l’attività che si svolge il lunedì. In Cooperativa mi occupo principalmente di accogliere le persone all’interno dei nostri servizi, quindi cerco di portare le mie competenze in questo senso anche nel gruppo che conduco in carcere Incontro principalmente persone che vorrebbero riuscire a scontare la pena all’esterno, appoggiandosi a Strutture come quelle gestite da Fraternità. Lo scopo della mia attività è quindi quello di dare informazioni sulle Comunità, sui percorsi interni ad esse e sul tipo di Strutture presenti in zona, inoltre se le persone detenute hanno già i nominativi di qualche specifica realtà, proviamo a leggere la carta dei servizi per approfondirne meglio funzionamento, caratteristiche e offerta. Il mio lavoro consiste anche nel raccontargli la vita in Comunità: alcuni di loro, pur avendo problemi di dipendenza, non hanno mai sperimentato un programma riabilitativo, per questo è importante dar loro informazioni in questo senso, in modo da renderli un po' più consapevoli delle loro scelte. Inoltre, trovandosi fuori dalla società da un po' di tempo, le persone detenute hanno bisogno di avere informazioni, anche pratiche, sul mondo esterno. Nei nostri incontri parliamo anche dei cambiamenti che possono essere intervenuti sul territorio come, ad esempio, quali sono le linee ed i percorsi dei mezzi pubblici. L’obiettivo è riuscire a fornirgli tutte quelle informazioni che posso essere utili uscendo dal carcere. Durante i nostri incontri nascono spesso veri e propri confronti, non solo in merito alle tematiche illustrate fino ad ora, ma anche sullo stato d’animo dei partecipanti, che spesso condividono le loro emozioni e le loro esperienze offrendoci testimonianze preziose e intime sulla loro dipendenza o sulla loro esperienza in generale.
Annalisa A. è un’educatrice professionale che, insieme ad altri colleghi interni ed esterni alla nostra Cooperativa, si occupa di portare avanti una delle attività che si svolgono all’interno del centro diurno.
Entrare in carcere, seppur per poche ore a settimana, ti aiuta a comprendere la difficoltà di vivere in una realtà chiusa, limitata e limitante e sicuramente frustrante.
Umanamente ti avvicina alle persone che vi sono recluse e te le fa percepire non solo come detenuti, ma prima di tutto e soprattutto, come esseri umani dalle mille sfumature, in grado di riscattarsi dagli errori commessi.
QUANTI UTENTI PARTECIPANO ALLA TUA ATTIVITA’?
Abbiamo iniziato a febbraio del 2021 e, a causa delle normative dettate dall’emergenza da COVID, il gruppo iniziale era composto solo da 4 utenti. Allentandosi le restrizioni, in un secondo momento, sono aumentati a 6 e ad oggi siamo arrivati ad un numero massimo di 8 Ilpartecipanti.gruppoperò è sempre in continua evoluzione e raramente le persone che frequentano sono le stesse, perché sono soggette a dimissioni improvvise o impedimenti di varia natura o a ripensamenti che le portano a decidere di interrompere la frequenza.
COME SEI STATA COINVOLTA IN QUESTO PROGETTO? È stato il direttore Renzo Taglietti a propormi di partecipare a questo progetto. Io lavoro da tanti anni nell’ambito delle dipendenze e lui sapeva dell’interesse che da sempre nutro per la realtà del carcere così, quando si è trovato ad individuare gli operatori da destinare al progetto del centro diurno, ha pensato a me e mi ha proposto di farne parte e, ovviamente, io ho accettato subito e con grande entusiasmo.
CHE SIGNIFICATO HA QUESTA ESPERIENZA PER TE?
PUOI FARCI UN ESEMPIO DI PROGETTO ANDATO A BUON FINE? In carcere non si può parlare di progetti in senso stretto perché è una realtà molto diversa dalla Comunità; posso però dirti che mio gruppo e che avevano come obiettivo la possibilità di scontare la pena all’esterno, sono riusciti ad avere l’affidamento sul territorio e a farsi trasferire in una struttura di cura dove potersi cimentare in un programma riabilitativo. Ovviamente starà a loro gestire questa possibilità in maniera utile ed efficace, ma già il fatto di averla ottenuta, secondo me, può rappresentare un piccolo passo in avanti verso il reinserimento all’interno della società.
Frequentare il carcere vuol dire cambiare approccio, si entra infatti all’interno di una realtà molto diversa, rigida e che impone un rispetto inflessibile delle regole. Questa caratteristica porta a modificare molto il proprio stile professionale, adeguandolo ad uno schema estremamente lontano da quello che, solitamente, si applica nella propria quotidianità lavorativa.
Sicuramente il significato che questa esperienza ha per me si compone di diverse sfaccettature; in primis rappresenta un’importante crescita professionale.

Nadia P. è un’educatrice e arte terapeuta.
COSA HA SIGNIFICATO PER TE L’INGRESSO IN CARCERE?
L’ingresso continuo di persone nuove è una ricchezza, perché ogni persona che arriva porta elementi di novità, creatività e, quindi, di arricchimento.
Per me il significato di questa esperienza è imparare, è provare a dare una risposta ai punti di domanda che ho menzionato all’inizio della mia condivisione. Per esemplificare un po' il senso che io attribuisco a questa avventura professionale ho portato questo libro che si intitola “Vento in scatola“ e che riassume molto bene ciò che, nel mio piccolo, cerco di portare in carcere attraverso l’attività di arte terapia. Il mio intento è quello di creare movimento nella scatola del carcere e produrre un cambiamento, diciamo che provo ogni volta a far soffiare un po' di vento in un ambiente così chiuso e restrittivo.
COME SEI STATA COINVOLTA IN QUESTO PROGETTO? Anch’ io sono stata coinvolta dal direttore Renzo Taglietti e sono stata ben felice di accettare questa proposta perché mi ha dato la possibilità di affrontare quei famosi punti di domanda che mi ronzavano in testa rispetto al carcere. Grazie a questa esperienza ho potuto far parte di una splendida equipe composta dai colleghi che portano avanti le altre attività del centro diurno. Mi piace paragonarci a tanti pastelli colorati, ognuno con la sua peculiarità e sfumatura, tenuti insieme dal nostro grande e confortante astuccio rappresentato da Alessia, la coordinatrice del servizio. QUALI ATTIVITA’ SVOLGI ALL’INTERNO DEL CENTRO DIURNO? All’interno del centro diurno io mi occupo dell’attività di arte terapia, in concreto utilizzo l’arte per aiutare le persone a ritrovare le loro capacità innate e per impostare percorsi di creatività, dando così vita a qualcosa che prima non c’era e che diventa proprio. Questo aspetto in particolare è molto significativo all’interno del carcere, perché quando sei lì dentro devi condividere tutto, dal cibo, all’aria stessa che respiri. In carcere si possono avere pochissimi oggetti personali, quindi creare qualcosa che sia solo loro acquista un valore inestimabile per i ragazzi che frequentano il mio gruppo.
QUANTI UTENTI VI PARTECIPANO?
Ha accettato di partecipare a questo progetto sfidante perché le consente di trovare una risposta alle domande e curiosità che ha sempre avuto rispetto alla realtà del carcere.
Approcciarsi di persona a questo mondo mi ha permesso si scardinare i pregiudizi che inevitabilmente si hanno rispetto a questo tema. Ho pensato che, chi entrava in carcere, ci finiva per un motivo e che, in qualche modo, se lo meritasse. Non mi aspettavo, però, che il carcere potesse imprigionare le persone in una “scatola” senza riconoscere alcuni diritti fondamentali per tutti gli uomini, anche per quelli che hanno commesso dei reati. Proprio per questo, il mio obiettivo è portare “colore” all’interno di quella scatola così limitante per le persone che vi sono rinchiuse e cerco di farlo attraverso l’arte terapia.
Alla mia attività partecipano al massimo 6 persone, perché gestirne di più sarebbe un po' problematico; si tratta di un gruppo libero e aperto, in qualsiasi momento possono entrare elementi nuovi, sempre non superando il numero indicato prima. Il Turn Over è alto perché le persone detenute sono soggette a cambiamenti spesso repentini o a impegni di varia natura.
CHE SIGNIFICATO HA PER TE QUESTA ESPERIENZA?
Simbolicamente anche questa creazione ha un potere fortissimo perché, come il diario, rappresenta la possibilità di uscire fuori, anche se solo con la fantasia e, in qualche modo, risponde all’ esigenza di “evadere” per poche ore dalla realtà coercitiva e punitiva nella quale i detenuti sono inseriti.
A livello umano il significato è forse ancora più prezioso, perché mi aiuta a mettermi in discussione ogni volta, a capire che non esistono risposte per così dire “assolute”, a comprendere che siamo umani, che ognuno di noi può sbagliare o fallire e questa consapevolezza mi avvicina molto a coloro che, per una serie di motivi, sono rinchiusi in carcere. Mi aiuta a percepirli non solo nella condizione di detenuti, ma anche nelle altre mille sfumature che, in quanto esseri umani, portano comunque con sé.
Tutto questo ha un valore inestimabile anche per me, perché sapere che i loro “voli pindarici” sono resi possibili anche dall’attività che conduco, mi gratifica e mi fa sentire utile non solo come professionista, ma anche come persona. Di seguito la citazione che uno dei nostri reporter, Roberto, ha estrapolato dal libro menzionato da Nadia e che ha provocato in lui numerose riflessioni ed emozioni. “Il senso più importante, in carcere, non è la vista, ma è l'udito. La vista perde presto la sua versatilità, fra muri troppo vicini e troppo uguali, mentre l'udito si rivela abbastanza presto utilissimo a distinguere le situazioni, tutte le variazioni di densità delle persone che ti segnalano calma, pericolo, attesa, tensione. L'udito è più veloce della vista, è meno mediato dalla nostra corteccia cerebrale, e molto più efficace nell'avvisarti che sei in pericolo.” (p. 131)
CI DESCRIVI UN LAVORO CHE TI HA PARTICOLARMENTE COLPITA? In questi mesi abbiamo prodotto numerosi lavori, tra tutti sono stati due a colpirmi in maniera particolare. Il primo è un diario in cui uno dei partecipanti ha raccolto le sue emozioni. È riuscito a lasciarsi andare ad una condivisione così intima, proprio perché sapeva che nessuno vi avrebbe avuto accesso e così ha raccolto pensieri e riflessioni molto personali anche sotto forma di fotografie familiari e disegni prodotti durante il periodo di isolamento.
L’aspetto più bello di questo diario è stato sicuramente il fatto che sia riuscito ad uscire dal carcere e ad arrivare ad una persona cara per il ragazzo che l’ha creato, questo lavoro ha rappresentato la possibilità per questo detenuto di far uscire fuori dalle sbarre una parte di sé. Un altro lavoro a me molto caro ed emozionante è sicuramente il trenino costruito in tre dimensioni con dei cartoncini. La peculiarità dei vagoni creati era l’assenza di rotaie, si trattava di un mezzo volante che idealmente poteva anche passare attraverso le inferriate delle finestre.

In qualche modo li fa respirare. Cerco di condurre le mie attività con grande libertà, ad ogni incontro ho un canovaccio da seguire, ma lascio sempre molto spazio all’ascolto dell’altro. Se qualcuno dei partecipanti ha bisogno di condividere un pensiero o uno stato d’animo, l’attenzione si sposta su questa necessità e da lì poi si parte a strutturare l’attività della giornata: è una specie di improvvisazione ragionata. Inizialmente ci sediamo in cerchio sul palco, quasi come se fossimo seduti attorno ad una tavola rotonda, e a turno condividiamo i vissuti di ognuno in una dimensione di sospensione del giudizio e di ascolto dell’altro.
Una volta concluso il giro iniziamo con le attività, che possono essere le più diverse: dal dialogo sonoro, che si svolge suonando il pianoforte a 4 mani e coinvolgendo tutti i partecipanti nella melodia improvvisata che si crea, all’invenzione di canzoni, utilizzando testi proposti dai ragazzi, fino al canto collettivo intorno al piano. Mentre io suono ci si accosta alla musica attraverso il tatto, poggiando le mani sulla struttura dello strumento e sentendone fisicamente le vibrazioni. Le attività non si avvalgono solo dell’utilizzo degli strumenti musicali (chitarra e percussioni), ma si esplicano anche tramite la scrittura, il disegno, i giochi di ruolo e le tecniche di
Andrea lavora in Fraternità da più di vent’ anni. Ha iniziato quando ancora non aveva il diploma di tecnico del servizio sociale, che ha ottenuto strada facendo. E’ anche ausiliario socio assistenziale ed ha conseguito il titolo di musico terapeuta presso una scuola di Bolzano. La musico terapia resta la sua attività privilegiata. Andrea ha trovato nella dimensione musicale, un potente strumento che gli ha consentito sia di aumentare la sua professionalità che di entrare in contatto con persone in difficoltà.
E’ stato il direttore di Comunità Fraternità Renzo Taglietti a propormi di partecipare a questo progetto sulla base della mia esperienza in ambito educativo e della mia successiva formazione come musico terapeuta.
Io ho accettato con grande entusiasmo: il mondo del carcere mi affascina da sempre e rappresenta un banco di prova importante, che mi consente di crescere sia professionalmente, che umanamente. Si tratta di una sfida estremamente difficile data la particolarità e la durezza dell’ambiente carcerario, ma io sono da sempre una persona curiosa e tutto questo mi Inoltrestimola.
ritengo di avere un senso del dovere e di responsabilità verso la società molto marcato e questo mi spinge a mettere i miei talenti a servizio degli altri, per cercare di migliorare e dare il mio contributo.
COME SEI STATO COINVOLTO IN QUESTO PROGETTO?
QUALI ATTIVITA’ SVOLGI ALL’INTERNO DEL CENTRO DIURNO? Io seguo due laboratori: uno prettamente musico terapico e l’altro teatrale. Conduco le attività in compresenza con la Coordinatrice del centro diurno con la quale condivido le finalità, gli obiettivi, le strategie, le difficoltà e i percorsi in generale. La dimensione d’equipe, ci consente di gestire il centro diurno in squadra con i colleghi e rappresenta, a parer mio, l’aspetto vincente di questo progetto. Nel concreto svolgo i miei laboratori all’interno di un vero e proprio teatro, interno alla casa circondariale. Questo ambiente così ampio e “arioso” consente ai ragazzi che partecipano ai laboratori, di effettuare un vero e proprio cambio di prospettiva rispetto alla clausura degli altri ambienti.

Io credo che il centro diurno sia uno strumento efficace per mitigare la durezza della detenzione, attraverso l’offerta di attività che promuovono la creatività e la centralità della persona stessa.
In ogni caso tutte le iniziative che propongo sono rivolte al gruppo nel suo insieme e mirano ad agevolare i ragazzi nell’espressione di sé e del proprio mondo interiore nel tentativo di stimolare un dibattito, un confronto. In questi esercizi predomina la dimensione della condivisione e dell’incontro nella musica e si crea un’atmosfera più conviviale e “leggera”, finalizzata a sgravare i componenti del gruppo dalla quotidianità del carcere. Trattandosi di un gruppo terapeutico, non si tratta di insegnare a suonare uno strumento in modo tecnico, ma di utilizzare la musica come mezzo per esprimere le proprie emozioni e diventarne consapevoli, oltre che per raggiungere uno stato di benessere, seppur temporaneo.
rilassamento attraverso la respirazione.
CHE SIGNIFICATO HA PER TE QUESTA ESPERIENZA? Io credo che l’esperienza in carcere sia un’opportunità preziosa sia come professionista, che come persona. Il contatto con un mondo difficile e a tratti oscuro quale è il carcere, ti mette inevitabilmente di fronte ai tuoi lati cupi e privi di luce. Lavorare per tanti anni con il disagio adulto, mi ha dato la possibilità di fare i conti con le mie ombre e sicuramente mi ha consentito di diventarne più consapevole. Il buio è l’altra faccia della luce, è ciò che la fa esistere e risaltare e non va negato o stigmatizzato, ma semplicemente accettato. Credo che lo stesso discorso valga per le mille sfaccettature (comprese quelle più nere) che la personalità di ognuno di noi reca con sé.
Le condizioni carcerarie in Italia sono molto complicate e difficilmente accettabili: per quanto una persona abbia sbagliato, va comunque trattata con dignità e le vanno riconosciuti i diritti fondamentali.
Anche il carcere, come l’area della psichiatria, mi sta dando questa possibilità; mi sta in qualche modo aiutando a riconoscere l’inevitabile presenza dentro di noi di mostri, fantasmi e lati non sani e questo per un terapeuta è fondamentale, perché senza questa consapevolezza non si può aiutare l’altro a “gestire” e a convivere con le proprie fragilità.
Cerco di dare il mio contributo per migliorare una situazione oggettivamente drammatica, mettendo a disposizione sia la mia formazione in campo educativo, che la mia passione e attitudine in campo musicale. È con questo spirito che entro ogni volta in carcere, con la voglia di mettere il mio talento al servizio degli altri.
QUANTI UTENTI PARTECIPANO ALLA TUA ATTIVITA’? Si tratta di gruppi limitati nel numero principalmente a causa delle restrizioni COVID ma anche a causa delle regole interne al carcere: solo accedere fisicamente al luogo dove si svolgono le attività è un vero e proprio percorso ad ostacoli o meglio a tappe. Per arrivare al teatro bisogna superare numerose porte, tutte chiuse ermeticamente e apribili solo attraverso un bottone e tutte presidiate da qualcuno che deve lasciarti passare dopo averti controllato. Molte di queste hanno inferriate o sbarre e per noi rappresentano una fermata obbligata in cui dimostrare la nostra legittimità a trovarci lì. È un sistema complesso e macchinoso, che si riversa inevitabilmente anche nella modalità di convocazione dei detenuti e che, in qualche modo, attua una sorta di selezione naturale che porta il gruppo a non superare quasi mai le 4 o 5 unità.
Oltre a questo, il significato che io attribuisco alla mia esperienza in carcere, va sicuramente collegato al fortissimo senso di responsabilità che nutro nei confronti della società in cui vivo.
Un giorno stavo parlando del più e del meno col nostro Presidente Alberto Festa e ho condiviso con lui l’esperienza che ho avuto 6 anni fa in un progetto all’interno di un carcere del Perù. In quell’occasione, mi sono occupato di proporre ai detenuti un corso sull’educazione ambientale; lo scopo era sviluppare in loro una coscienza “ecologica“ attraverso l’insegnamento di buone prassi tra cui il riciclo e la differenziazione dei rifiuti.
Beppe è il Coordinatore del nostro servizio di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo.
COME SEI STATO COINVOLTO IN QUESTO PROGETTO? Come capita spesso in queste situazioni, è successo tutto per caso.
Di solito propongo un questionario iniziale per capire quali sono le materie di interesse e, una volta raccolti i “desiderata”, imposto la programmazione.
Inizialmente a causa del COVID il numero massimo era 4; poi è stato aumentato a 8, ma non sono mai presenti tutti, sia per impegni interni, sia perché i detenuti sono soggetti ad un turn over abbastanza serrato. In linea di massima i partecipanti sono 5 o 6. Il gruppo è abbastanza eterogeneo: all’inizio erano più numerosi i giovani, ora invece la partecipazione si è estesa anche a persone più anziane. Ci sono persone di diversa nazionalità e provenienza Ciò che li accomuna è proprio l’appartenenza alla cultura della criminalità, che purtroppo è trasversale a qualsiasi tipo di società o gruppo etnico.
CHE SIGNIFICATO HA QUESTA ESPERIENZA PER TE?
QUALI ATTIVITA’ SVOLGI ALL’INTERNO DEL CENTRO DIURNO?
L’obiettivo specifico è sviluppare dibattito e coscienza critica su tematiche “esterne” alla vita del carcere, non solo per dar modo ai detenuti di essere aggiornati su ciò che accade “fuori”, ma anche per offrirgli possibilità di evadere (metaforicamente parlando) da un ambiente restrittivo e inevitabilmente punitivo.
Questa avventura per me ha un grande significato, sia professionale che umano; mi sento orgoglioso di farne parte perché il contributo che il centro diurno sta dando alla funzione ri educativa della pena è davvero prezioso. Nella maggior parte dei casi a prevalere è l’aspetto punitivo e coercitivo della pena, mentre, secondo me, con le nostre attività stiamo aiutando il sistema carcerario locale a raggiungere un obiettivo maggiormente riabilitativo. Io credo che il centro diurno possa fornire strumenti alternativi ai detenuti. Si dice che spesso il carcere si configuri come una sorta di “Università del crimine” dove le persone apprendono nuove tipologie e forme di delinquenza; in qualche modo il centro diurno vuole offrire un’altra scelta, una modalità innovativa per investire il tempo da trascorrere durante la reclusione e cercare così di contrastare l’aumento del tasso di criminalità.
I laboratori si svolgono dal lunedì al venerdì dalle 14:00 alle 17:00. Il mio capita di Giovedì e si chiama “Nerio news“.
Alberto è rimasto colpito dal mio racconto e ne ha parlato al nostro Direttore Renzo Taglietti, che giusto in quel periodo stava “costruendo” il progetto del quale, ormai, faccio parte anche io da circa un anno. Così è cominciato tutto.
L’obiettivo globale, infatti, è proprio quello di mitigare gli aspetti più pesanti e faticosi della detenzione.
QUANTI UTENTI PARTECIPANO ALLA TUA ATTIVITA’?
L’attività che gestisco è finalizzata a stimolare la discussione e il confronto su temi di attualità, di cronaca o storici o su qualsiasi altro argomento che possa incuriosire i partecipanti.
In questi mesi ho potuto notare un cambiamento nei detenuti che partecipano alle nostre attività, un’evoluzione nel loro modo di concepire e tollerare la diversità soprattutto quella “etnica”. All’inizio i commenti rispetto alla convivenza con persone di altre nazionalità non erano particolarmente accoglienti; era evidente una chiusura dovuta forse ad una cultura di appartenenza espulsiva e rigida. Ad oggi posso constatare una maggiore apertura e tolleranza e mi piace pensare che, nel nostro piccolo, anche noi abbiamo contribuito a generare un’inversione di tendenza del pensiero, attraverso l’offerta di strumenti alternativi e di attività che possano contribuire ad aprire la mente e gli orizzonti personali. Questo mutamento ha un valore e un significato estremamente prezioso per me, perché conferma che le persone, tutte le persone, possono cambiare e migliorarsi se sostenute e accompagnate in percorsi di recupero e mi dà la speranza che un giorno il desiderio di uno dei detenuti che seguo nella mia attività possa realizzarsi nel concreto e cioè che, prima o poi, la gente “fuori” possa cominciare a percepire i detenuti non solo come dei delinquenti ma anche e soprattutto come persone “normali”.

I CPS invece sono gli enti INVIANTI che devono assolutamente essere coinvolti per organizzare e progettare il percorso del paziente anche nell’ottica del suo rientro sul territorio. L’ente ESECUTORE è rappresentato dall’ufficio esecuzione penale esterna (UEPE) che si attiva automaticamente e che segue tutti gli utenti in carico al tribunale di sorveglianza di Brescia soggetti a percorsi esterni al carcere.
I nostri primi interlocutori nell’iter di inserimento e poi di effettiva presa in carico sono anzitutto i Centri Psico Sociali (CPS) territoriali competenti in base alla residenza dell’utente. Questo indipendentemente dal fatto che la segnalazione parta dall’equipe interna alla REMS o dal CARCERE. Quindi i SEGNALANTI sono gli operatori dei REMS e/o delle case circondariali che valutano le singole situazioni e l’opportunità di un percorso in comunità. Una volta appurata la compatibilità del caso a strutture come la nostra, segnalano il soggetto al CPS competente che si attiverà nella ricerca di una soluzione alternativa al CARCERE o alla REMS.
CHI SONO I VOSTRI INTERLOCUTORI?
QUANTI UTENTI AVETE AVUTO NEL 2021 CON PROVENIENZA REMS O CARCERE? PUOI DESCRIVERCI I VARI PERCORSI?
Lavoriamo soprattutto con pazienti provenienti dalla REMS di Castiglione delle Stiviere, ma abbiamo collaborato anche con altri istituti delle diverse Regioni italiane. Inoltre accogliamo pazienti segnalati e reclusi nelle carceri tradizionali. Di norma comunque ospitiamo persone che hanno compiuto reati in una condizione di parziale o totale infermità mentale o affette da patologie psichiatriche non trattabili all’interno di un istituto di pena.
Paolo C. è responsabile della comunità di media protezione Arcobaleno e nel tempo ha gestito le segnalazioni per l’accoglienza in comunità dagli ex ospedali psichiatrici giudiziari e attuali REMS (Residenza Esterna per Misure di Sicurezza).
DA DOVE VENGONO LE PERSONE CHE ACCOGLI?
Nel 2021 abbiamo gestito un caso proveniente dal carcere; sei provenienti dalla REMS e uno in sostituzione dalla REMS stessa. Una volta che una persona esce dal carcere e viene “affidata” ad un percorso alternativo e più “riabilitativo” è estremamente difficile che vi rientri. Io credo che il nostro modello di intervento basato sulla continua condivisione con i servizi territoriali competenti abbia giovato molto e che abbia ridotto sensibilmente l’eventuale ritorno ad una detenzione per così dire convenzionale. Dalla REMS normalmente si parte con 6 mesi di licenza esperimento, nella maggior parte dei casi rinnovabili; questo accade quando il paziente viene valutato particolarmente grave e quando i sei mesi iniziali non sono stati sufficienti a creare le condizioni per un percorso realmente utile all’interno della Comunità. In questa fase il paziente rimane sotto la giurisdizione della REMS, se ci sono criticità particolari che ostacolano la buona riuscita del progetto si procede con una segnalazione proprio alla REMS e poi eventualmente al Magistrato di Sorveglianza che potrebbe stabilire il rientro nella stessa. Se, invece, il comportamento e l’investimento durante la licenza esperimento risultano adeguati si passa allo step successivo che è la libertà vigilata normalmente concessa per un anno. In condizione di libertà vigilata, la titolarità del caso passa al tribunale di sorveglianza di Brescia.
Nei casi in cui il reato commesso non sia particolarmente grave può succedere che la nostra struttura sostituisca la REMS stessa, questo perché il magistrato privilegia l’aspetto riabilitativo e ritiene che la REMS sia una struttura troppo coercitiva e limitante e quindi decide di mantenere il vincolo giudiziario (per esempio la libertà vigilata) e di anteporre la cura del soggetto interessato all’aspetto meramente “contenitivo”.
Il fattore discriminante è sicuramente l’udienza che diventa il riferimento temporale attorno al quale gli provenienti da REMS o carcere costruiscono purtroppo e spesso il percorso in Comunità. Nella maggior parte dei casi l’obiettivo principale è arrivare alla data programmata avendo alle spalle un buon progetto che possa dare adeguate garanzie comportamentali al magistrato di Sorveglianza e che ha come unico scopo la cessazione o attenuazione della Misura di Sicurezza della pericolosità sociale. Questo determina una consapevolezza più bassa delle problematiche legate all’aspetto riabilitativo e una motivazione reale a volte non adeguata ad un positivo rientro sul territorio. Altra differenza sostanziale è costituita dalle prescrizioni che inevitabilmente i pazienti giudiziari portano con sé e che limitano non poco anche l’organizzazione interna determinando un maggior investimento di risorse da parte della Comunità (trasporti, colloqui vari …). L’ultima differenza è sicuramente di natura anagrafica: i pazienti provenienti da
CI FAI UN ESEMPIO DI PERCORSO ALTERNATIVO ANDATO A BUON FINE? Un esempio di percorso alternativo alla REMS andato a buon fine è stato quello di un ragazzo che, proprio durante il periodo del COVID, ha trovato le risorse e le idee per portare avanti i suoi progetti. Proprio la clausura forzata lo ha spronato ad iscriversi ad un corso online per panificatori, noi lo abbiamo affiancato concretamente alla nostra cuoca, che lo seguiva nei momenti di stage aiutandolo nello svolgimento delle prove pratiche. È riuscito ad ottenere il diploma di panificatore e, con i suoi servizi invianti, si è costruito un percorso di dimissione basato dapprima su un progetto di tirocinio presso un panificio limitrofo al suo paese di residenza, poi si è lavorato per agganciarlo ai servizi specialistici territoriali come lo SMI e contemporaneamente ci siamo adoperati per garantire un suo rientro sul territorio in un appartamento di sua proprietà. Abbiamo presentato il progetto al magistrato di sorveglianza che, avendo dati e informazioni precise, oltre che una prospettiva futura rosea sostenuta dalla presenza di garanzie lavorative e abitative concrete, ha potuto avere la serenità per avvallare il rientro della persona sul territorio mantenendo per precauzione il vincolo della libertà vigilata.
PAZIENTE PROVENIENTE DAL CIRCUITO GIUDIZIARIO E
A volte veniamo contattati attraverso canali informali direttamente dagli operatori dell’equipe interna a REMS e/o CARCERE, che ormai collaborano con noi e ci conoscono da tempo, ma poi il CPS viene tassativamente informato per le ragioni di cui sopra. I casi che arrivano da REMS e/o CARCERE necessitano di una presa in carico per molti versi più impegnativa, perché si deve rispettare la necessità di adattare un percorso sanitario riabilitativo ad una serie di impegni e vincoli dati dalle prescrizioni. Trattandosi di persone con pericolosità sociale, che hanno compiuto reati di un certo peso, il loro percorso necessita di un livello di attenzione e di “tensione” ulteriore e questo si traduce in un carico concreto per gli operatori che si sentono investiti di una particolare responsabilità.
QUELLO PER COSI’ DIRE “CLASSICO”? Direi di sì, in realtà non sono molte ma a mio avviso sono fondamentali.
CI SONO RISCONTRI E DIFFERENZE SOSTANZIALI TRA IL

TERNATIVE ALLA DETENZIONE IN CARCERE?
Oggi ci troviamo in una condizione tale per cui il legislatore consente ai detenuti che stanno scontando una pena definitiva e che presentano determinati requisiti che gli consentono di “scontare la loro pena” all’esterPUOI SPIEGARCI QUALI SONO LE VARIE FORME AL-
La possibilità di scontare la pena all’esterno della casa circondariale è tecnicamente chiamata “affidamento in prova ai servizi sociali”, vale a dire all’ufficio esecuzione penale esterna (UEPE), che si occupa appunto di monitorare l’esecuzione della pena in ambito esterno al carcere.
Ovidio F. è il Responsabile delle strutture residenziali per le dipendenze e per pazienti in Doppia Diagnosi.
CHE RAPPORTO C’E’ TRA CARCERE E COMUNITA’? Fin dai suoi inizi la storia di Fraternità si è intrecciata con la realtà difficile del carcere. Beppe Bergamini ha sempre avuto a cuore i detenuti e il loro reinserimento nella società; è stato uno dei primi volontari ad avere l’autorizzazione ad entrare nella casa circondariale di Brescia per incontrare i detenuti. Questa esperienza ha creato quindi un legame strettissimo tra noi di Fraternità e il sistema giudiziario e carcerario locale. Il tempo poi ha determinato una serie di evoluzioni che hanno interessato sia l’organizzazione interna della nostra Cooperativa sia l’impianto normativo generale.
QUALI SONO I MOTIVI DI RIENTRO IN REMS O IN CARCERE? Dato l’elevato tasso di sovraffollamento nelle carceri e nelle REMS le equipe interne tendono a decretare il rientro di un detenuto solo di fronte a condotte altamente pericolose e lesive del percorso alternativo in Comunità.
In questo caso è obbligatorio trovare una struttura adeguata all’interno della quale il detenuto possa
REMS o carcere sono tendenzialmente più giovani e meno cronicizzati rispetto a quelli inseriti in Comunità per problematiche esclusivamente di natura psichiatrica.
I principali requisiti di legge che consentono ai detenuti di fruire di tale possibilità sono la garanzia di avere un’abitazione e un’attività lavorativa stabili ma, in mancanza di essi, si può accedere ad un affidamento “particolare”, nel momento in cui viene certificato che il soggetto interessato necessita di cure che non possono essere somministrate in carcere.

In questi casi alle persone interessate non è stata comminata una vera e propria pena, quanto, piuttosto, una condizione di “sicurezza”, che è strettamente legata alle problematiche di natura psichiatrica delle quali sono portatori e che li hanno portati a commettere reati più o meno pesanti. In seguito a tali infrazioni è stata assegnata loro una condizione di “pericolosità sociale”, che deve essere periodicamente valutata dal magistrato. Le REMS si avvalgono della nostra collaborazione per attuare le licenze esperimento della durata di 6 mesi al termine delle quali le persone o rientrano in carcere proseguire il programma terapeutico stabilito già all’interno del carcere e autorizzato dal magistrato. La persona è comunque affidata all’UEPE che rimane il titolare del suo provvedimento giuridico, ma di fatto lo svolgimento del programma terapeutico viene delegato alla struttura individuata. Nel nostro caso possiamo affermare di aver maturato una certa esperienza nella gestione di queste situazioni, ma è sempre necessario verificare che ci sia una corrispondenza tra ciò che possiamo offrire come comunità e i bisogni reali delle persone che ci vengono Altraaffidate.attenzione
fondamentale è la verifica che il fine pena del detenuto possa coincidere con i tempi e le modalità del nostro programma terapeutico.
Altre possibilità alternative al carcere sono le “misure di sicurezza” e le “licenze esperimento”, tali soluzioni sono specifiche per le persone che afferiscono alle REMS, cioè gli ex ospedali psichiatrici giudiziari.
Altra misura che consente percorsi alternativi al carcere è la cosiddetta “detenzione domiciliare” vale a dire la possibilità cha la persona sconti la pena residua presso un qualsiasi domicilio: solitamente viene concessa a persone affidabili alle quali può essere data una maggiore autonomia. Noi come Comunità veniamo interpellati in questi casi quando i soggetti interessati, pur avendo avuto una condotta adeguata, manifestano comunque problemi di dipendenza.
Per tre giorni a settimana noi andiamo fisicamente in
carcere a prendere le persone che partecipano al progetto e le portiamo all’interno della nostra comunità, le osserviamo e le facciamo partecipare ai laboratori occupazionali di Tecnica 38. L’obiettivo è fargli svolgere attività pratiche all’interno di un contesto in cui possono sperimentarsi anche da un punto di vista relazionale. Questi percorsi durano dai 3 a i 6 mesi, durante i quali chi non si dimostra idoneo torna in carcere, mentre chi svolge un percorso positivo, ha la possibilità di trovare un lavoro e di prepararsi al rientro sul territorio, anche grazie alle connessioni con i servizi territoriali. Questa è sicuramente una caratteristica vincente del progetto perché gli operatori dei servizi specialistici esterni sono autorizzati a venire a conoscere gli utenti nella nostra struttura in modo da creare un primo aggancio. Allo stesso modo gli incontri durante l’orario di svolgimento del progetto “vale la pena” sono consentiti anche a parenti, familiari o possibili datori di lavoro. È capitato che alcuni detenuti inseriti nel progetto “vale la pena” siano poi stati inseriti in comunità attraverso l’affidamento sul territorio e abbiano aderito al programma terapeutico interno.
A differenza dell’affidamento particolare, nel quale l’adesione al programma diventa condizione necessaria per poter scontare la pena all’esterno, nella detenzione domiciliare ci sono altre prescrizioni da rispettare che non vincolano il soggetto al rispetto del progetto terapeutico, questo determina una presa in carico e un rapporto con gli operatori molto diverso. Altra misura possibile è il “Lavoro esterno”, in quest’ambito abbiamo aderito ad un progetto sperimentale chiamato “vale la pena“ indirizzato a persone che in carcere hanno problemi di convivenza, di natura relazionale, psichiatrica e/o di dipendenza.
QUALI SONO I MOTIVI DI RIENTRO IN REMS O IN CARCERE? Le principali cause che determinano il rientro in REMS sono legate agli scompensi psichiatrici che fanno sì che la persona non abbia ancora raggiunto il grado di autonomia necessario per poter ipotizzare il suo rientro sul territorio. Per quanto riguarda il carcere invece, il motivo predominante di ritorno alla condizione di detenuto è la recidiva del reato, legata non solo all’utilizzo di sostanze, ma anche all’appartenenza ad una cultura deviante ormai connaturata con la condotta.
CI FAI L’ESEMPIO DI UN PERCORSO ALTERNATIVO ANDATO A BUON FINE?
Un caso di percorso virtuoso che si è concluso con un reinserimento sul territorio positivo è stato quello di un utente con problemi di spaccio che si è allontanato dall’Italia per circa 20 anni. Anche all’estero ha continuato con l’abuso di sostanze e tale dipendenza gli ha causato un tracollo fisico e psichico che l’ha costretto a rientrare in Italia. Durante il viaggio di rientro è stato arrestato, in carcere la sua condizione di salute è degenerata in una forte depressione ed è per questo motivo che ci è stato segnalato per il progetto “vale la pena”. Il nostro intervento si è collocato in un momento favorevole di ripartenza personale grazie al supporto che in quel momento stava ricevendo dal suo compagno di cella. Stando fuori dal carcere, in un contesto accogliente, piano piano ha iniziato a riprendersi potendo incontrare anche la sorella e il fratello con cui non aveva rapporto da molto tempo. Successivamente è stata stabilita la prosecuzione del suo percorso in affidamento presso la nostra struttura, ciò gli ha consentito di riprendere in maniera costante i rapporti con i familiari e ricucire così le relazioni interpersonali sane che aveva abbandonato per anni. È riuscito a concludere in modo proficuo il nostro programma terapeutico e in accordo con il suo comune, ormai libero da prescrizioni, è stato trasferito qualche mese fa presso una comunità dove ha la possibilità di pernottare e lavorare nei loro laboratori, trascorrendo in autonomia il weekend sul territorio.
oppure il percorso si evolve in “libertà vigilata” all’interno della Comunità. La libertà vigilata ha di solito una durata di uno o due anni e si può descrivere come un percorso di osservazione. Se durante il percorso viene tolta la pericolosità sociale, si può ipotizzare un graduale accompagnamento verso il rientro sul territorio.
QUANTI UTENTI AVETE AVUTO NEL 2021 CON PROVENIENZA REMS O CARCERE? Nel 2021 all’interno della nostra comunità il Frassino abbiamo avuto una decina di utenti soggetti a varie misure di sicurezza; in Doppia Diagnosi almeno 12 o 13. Il turn over di questo tipo di utenza è abbastanza serrato e il bisogno assolutamente in crescita.
QUALI SONO I VOSTRI INTERLOCUTORI? Li elenco di seguito in base al compito specifico: Esecutore: UEPE Invianti: Equipe interne al carcere Segnalanti: Servizi specialistici territoriali Capita raramente che ci si possa interfacciare direttamente anche col magistrato: ad esempio in caso di trasferimenti di utenti fuori regione oppure in caso di compimento di reati durante l’affidamento in comunità.

CHE COSA TI ASPETTI DAL TUO ATTUALE PERCORSO?
COME MAI HAI SCELTO DI CHIEDERE L’AFFIDAMENTO
MI PUOI ELENCARE LE DIFFERENZE POSITIVE E LE CRITICITA’ DEL PERCORSO IN COMUNITA’ E DI QUELLO CARCERARIO? È quasi scontato dire che si sta decisamente meglio in comunità rispetto al carcere, anche se io in quello di Pavia mi sono sempre trovato bene. La differenza più evidente è la possibilità di assaporare un po' di libertà, per quanto io sia comunque soggetto a restrizioni.
L’aspettativa più grande è quella di migliorarmi come persona; vorrei crescere, evolvere nel mio percorso e “riabilitarmi”. Attraverso il percorso in comunità vorrei raggiungere un livello vero e proprio di “rieducazione”, che mi consenta di abbandonare le dinamiche devianti e pericolose, come ad esempio l’abuso di sostanze e le trasgressioni alla legge. Tutto questo non solo per diventare una persona più adeguata, ma anche per ricucire i rapporti con la mia famiglia e poter così riguadagnare la loro fiducia. Io mi auguro di voltare pagina e costruirmi una nuova vita, per poter riprendere i rapporti anche con mio figlio, che ora ha 17 anni e nei confronti del quale vorrei recuperare al più presto il mio ruolo di padre.
Vorrei premettere che in Carcere a Pavia mi sono sempre trovato bene. Sono entrato nel 2018 e fin da subito ho deciso di aderire ad un percorso riabilitativo, più che scontare semplicemente una pena. Il mio atteggiamento è stato immediatamente propositivo e collaborante, ho stabilito un buon rapporto sia con gli agenti che con l’equipe educativa interna e mi sono sempre mostrato intenzionato a rimettermi in gioco. La mia disponibilità è stata notata dallo staff del carcere e, per questo motivo, in diverse occasioni sono stato “premiato” e scelto per svolgere mansioni di responsabilità, come la pulizia degli uffici del personale. Ho anche deciso di frequentare diversi corsi di formazione proprio per crescere e migliorare sempre di più la mia situazione. Diciamo che il mio percorso non si è esaurito in una semplice detenzione, ma in un vero e proprio programma di recupero. Negli anni mi sono guadagnato la stima degli operatori carcerari e, per questo, sono stati loro a proporre allo psichiatra dello SMI, che mi segue, di avallare la richiesta di affidamento sul territorio. Tale iniziativa è stata portata avanti anche grazie al fatto che “fuori” avrei avuto il sostegno, dal punto di vista lavorativo, di mio fratello che mi garantiva un posto all’interno della sua attività commerciale. Io ho accettato e condiviso fin da subito questa opportunità proprio per evolvermi e progredire sempre più nel mio percorso di recupero mettendomi alla prova in un ambiente meno restrittivo e “chiuso”. In comunità “le maglie” sono un po' più larghe, e questo mi dà la possibilità di sperimentarmi nella gestione di piccole autonomie, che mi vengono concesse, e controllare le problematiche di abuso e trasgressione delle regole.
Inutile dire che l’altro desiderio è quello di tornare ad assaporare un giorno la libertà vera, piena e assoluta che ancora non posso sperimentare e che mi auguro possa arrivare presto anche per me.
In sostanza l’obiettivo è iniziare ad esprimere me stesso attraverso una modalità per me inedita: non più quella delinquenziale, che trasgredisce le regole, ma quella in grado di rispettarle e di raggiungere così un buon livello di integrazione sul territorio.
SUL TERRITORIO PER COMPLETARE LA TUA PENA?
Nel contesto comunitario sono previste uscite e attività esterne che, seppur normate e controllate dagli educatori, mi consentono comunque di affacciarmi sul territorio e di tornare a contatto con la realtà vera, possibilità che in carcere è assolutamente preclusa e non conAtemplata.partequesto non trovo molte altre differenze, perché la permanenza in carcere, come dicevo prima, per me è stata paragonabile ad un programma riabilitativo, più che ad una reclusione fine a sé stessa.
La frustrazione dei giorni nostri è che nel mezzo di un’adolescenza difficile, i ragazzi/e non abbiano punti di riferimento validi. Gli adulti, infatti, spesso non sanno più ricoprire il loro ruolo naturale di guida per i più giovani.
Un’adolescenza difficile si può superare se si ha qualcuno che non smette mai di indicare la strada percorribile aiutando ad uscire dal labirinto quando ci si perde.
Ci siamo quindi interrogati su quali dovessero essere i valori, i principi, le idee alla base del nostro intervento e che motivano la nostra scelta di campo: Gli adulti sono guide che accompagnano il giovane con difficoltà, in appuntamenti fissi e sicuri (attività, colloqui, spazi liberi).
In questo numero dedicato al carcere presentiamo anche Toc Tok nuovo servizio diurno socio assistenziale educativo volto all’accoglienza di adolescenti portatori di problemi e difficoltà di diversa origine e riconducibili a un travagliato percorso di crescita e accettazione/riconoscimento di sé, che spesso hanno commesso reati. Il servizio vuole sostenere adolescenti dai 16 ai 21 anni circa e le loro famiglie. Essi sono segnalati sia dai servizi del tribunale, che da quelli del territorio che ci chiedono una presa in carico nell’arco della giornata. Il disagio all’interno della famiglia, l’uso più o meno saltuario di sostanze, la frequentazione di luoghi e persone con comportamenti a rischio trasgressivo, piuttosto che il ritiro in sé, l’assenza di comunicazione, l’utilizzo eccessivo di strumenti informatici nelle ore notturne li rende ostili, scarsamente comunicativi, oppositivi a scuola, a rischio di abbandono scolastico, talvolta aggressivi, con sbalzi d’umore: di fatto poco ascoltati ed avvicinabili. I ragazzi/e della nostra epoca sono quasi sempre costretti ad un’adolescenza difficile. Questa fase della vita è un momento delicato, fragile, l’attimo in cui si sente il cambiamento che scorre in noi. Le insicurezze tipiche di questo periodo creano a volte dei disagi profondi, spesso invisibili agli occhi degli adulti. L’adolescenza difficile può trasformarsi in dramma perché in questo periodo della vita si formano le coscienze e le attitudini dell’individuo. È proprio da adolescenti che si inizia ad avere la consapevolezza di cosa significhi esistere. Alcuni adolescenti cercano di andare avanti come possono, tra gli alti ed i bassi della loro vita acerba. Altri, totalmente privi di una guida, sono alla disperata ricerca di attenzione, che se non catalizzata, li può portare a commettere fatti anche gravi.
Crediamo nell’importanza di avviare all’ascolto di sé e dell’altro per insegnare ai ragazzi/e a sospendere il giudizio. Ciò consente di abbattere l’auto stigma, i sentimenti svalutanti e la vergogna. È basilare nel servizio costruire un clima di rispetto e condivisione delle diversità intese come provenienze geografiche, identità di genere,
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Eppure gli adolescenti, apparentemente disinteressati a qualsiasi valenza spirituale della vita, sono molto più percettivi degli adulti. È proprio questa l’età più adatta per farsi delle domande esistenziali e per cercare delle risposte valide; accogliendo anche quelle “differenze identitarie” che stanno sempre più emergendo e che mettono in crisi i genitori ed il loro rapporto finora avuto con i figli.
A scuola, raramente si trasmette loro la meraviglia della conoscenza. Durante lo sport vengono incitati alla competizione, tralasciando quanto sia importante il lavoro di squadra ed il rispetto dell’avversario.
Un’adolescenza difficile complicata ancor più dall’abuso dei social media, dove tutto è amplificato e lascia tracce indelebili. Un mondo, quello di internet, spesso sconosciuto ai genitori e sottovalutato dagli insegnanti
Proponiamo ai ragazzi laboratori ergoterapici, sportivi, di arte terapia, teatro, videogame therapy, scrittura creativa, musicoterapia.
Fondamentale è la connessione col territorio in termini di rete sociale fruibile per i ragazzi/e, con una mappatura dei luoghi e dei bisogni.
Vengono promosse proposte di valore che si sviluppano su diverse fasce di età rispondendo ai bisogni rilevati e in grado di svilupparsi secondo risorse specifiche.
Il centro si realizza “in & out”, in luoghi in cui i ragazzi/ e possano sperimentare con attività, il vivere dentro e il vivere fuori, come le tappe evolutive della loro età impongono di fare, ricercare la sicurezza nell’essere bambini (rappresentata simbolicamente dal luogo interno accogliente casa ) e la sperimentazione di una vita più adulta (rappresentata dalla sperimentazione della socialità fuori da casa).
orientamenti politici, sessuali e religiosi.
Coproduzione di attività con i ragazzi/e. Uno spazio dove si possa sperimentare la noia e tramite tentativi ed errori progettare insieme attività/laboratori ex novo.
16 18 anni FORMAZIONE 18-21 anni AUTONOMIA
I temi chiave dell’intervento vertono sulla formazione dell’identità, sull’uscita dall’isolamento, sulla costruzione della socialità, sulla consapevolezza della propria sessualità e su un uso sano del proprio corpo con attività fisiche quali calcio, montagna, arrampicata.
Si affrontano temi chiave che vertono sull’identità, sull’isolamento, sulla socialità, sulla competenza digitale, sul valore del gioco, sulla corporeità e affettività in connessione con il territorio.
Le attività esperienziali del centro educativo vengono svolte negli spazi dei laboratori espressivi e psicoeducativi in stretta collaborazione con gli altri nostri servizi Tecnica 38 e Spazio Off.
Il centro diurno è aperto da lunedì a venerdì con orario flessibile dalle 9.00 alle 18.00, con possibilità di attività serali e nel fine settimana.
Abbiamo pensato alla possibilità di vivere la solitudine in un luogo protetto. Nel centro si prevede una stanza ad hoc in cui l’adolescente può rifugiarsi nei momenti di “troppo pieno emotivo relazionale” e scaricarsi senza influire sul gruppo.
Bisogna tollerare i tempi di transizione corporea e identitaria rappresentativi del preadolescente adolescente. Ne consegue una sperimentazione flessibile del tempo passato al centro, con attività modulabili sulla base delle richieste, dei bisogni identificati e della libera realizzazione di sé.

PUOI SPIEGARMI COME FUNZIONA IL SERVIZIO AZIMUT? All’interno di AZIMUT ci sono due servizi: il centro di pronto intervento (CPI) e l’area protetta per minori in stato di arresto o fermo. Tendenzialmente i ragazzi colti in flagranza di reato vengono accompagnati in strutture pubbliche denominate CPA (centro di prima accoglienza), noi siamo l’omologo di queste strutture, gestite però dal privato sociale. La caratteristica principale del nostro intervento è l’emergenza, accogliamo in tempi brevissimi i ragazzi subito dopo l’arresto. Lo scarto tra la segnalazione dell’arrivo di un nuovo minore e l’effettivo ingresso nel CPI è quasi inesistente, le due fasi sono praticamente Lacontemporanee.nostraequipe si compone di diverse figure professionali, oltre agli educatori troviamo anche altri operatori di supporto, che si occupano di controllare e contenere i ragazzi in questa fase così turbolenta, sono persone che si occupano di mantenere la sicurezza interna.
Con lui incontriamo Michele Zubani, Responsabile della comunità educativa della medesima cooperativa, ubicata all’interno della Cascina Cattafame di Ospitaletto. Entrambe le realtà si rivolgono allo stesso “target” di utenza, ma il Servizio presente in Cattafame offre un’accoglienza prolungata funzionale allo svolgimento di un percorso educativo che possa garantire agli ospiti tutela, crescita e raggiungimento dell’autonomia Lasciamopersonale.laparola a loro…
Ecco la testimonianza di Florestano Gaudio, Responsabile del pronto intervento AZIMUT gestito dalla cooperativa Fraternità Impronta. La struttura offre un’accoglienza temporanea (da 0 a 3 mesi) ed è rivolta a minori di età compresa tra i 14 e 18 anni d’età in situazione di abbandono, disagio e/o devianza o sottoposti a provvedimento penale.

Per completare la presa in carico ovviamente curiamo anche la loro istruzione inserendoli negli istituti scolastici limitrofi. Laddove non sia possibile una frequentazione esterna della scuola o ci sia l’esigenza di conseguire ancora il diploma o la licenza media, attiviamo percorsi di istruzione parentale, con un professore che segue i ragazzi all’interno della struttura preparandoli asostenere gli esami.
E' capitato spesso che stando nella nostra comunità i ragazzi scoprano le proprie propensioni, ad esempio per la cucina e siano stati per questo inseriti nel ristorante interno alla comunità nel quale hanno potuto sperimentarsi e crescere professionalmente in un ambito a loro congeniale. Oltre al ristorante offriamo molti laboratori interni, primo tra tutti quello relativo alla fattoria didattica dove i ragazzi si mettono in gioco nella gestione quotidiana degli animali nutrendoli, lavandoli e prendendosi cura di loro. Abbiamo anche una piccola falegnameria, la nostra cascina è infatti una struttura molto grande, che necessità di manutenzione costante. Svolgiamo quindi questa attività con i ragazzi, ci occupiamo di tinteggiare le stanze, di prenderci cura degli spazi esterni e delle aree verdi circostanti.
VOI POTETE RIFIUTARVI DI ACCOGLIERE QUALCUNO?
L’obiettivo del nostro intervento è sicuramente un reinserimento dei ragazzi nel tessuto sociale e, perché no, una collocazione stabile nel mondo del lavoro. Per ottenere tutto ciò cerchiamo di spronarli a mettersi in gioco, soprattutto dal punto di vista relazionale, incentivandoli a svolgere volontariato o attività sportive sul territorio, al fine di favorire una loro integrazione.
No, siamo obbligati ad accettare chiunque. Entro 96 ore il ragazzo segnalato affronterà l’udienza e si deciderà se inviarlo in carcere, in comunità o a casa. L’altro servizio attivo nella nostra struttura è il Pronto Intervento che si occupa di ragazzi sottoposti a misure cautelari. In questo caso la prestazione che ci viene richiesta è l’osservazione del minore, sulla base della quale poi stendiamo una relazione da fornire agli assistenti sociali dei vari enti territoriali coinvolti e/o alla magistratura. Si tratta per lo più di adolescenti sconosciuti agli enti e, proprio per raccogliere dati e informazioni dettagliate, ci viene chiesto di svolgere un periodo di osservazione. Le segnalazioni ci arrivano dall’USSM (Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni) o dai CGM (Centri di giustizia minorile), che si fanno anche carico del pagamento della retta.
MICHELE, CASCINA CATTAFAME POTREBBE ESSERE UNA DELLE COMUNITA’ SUCCESSIVE ALL’OSSERVAZIONE SVOLTA IN AZIMUT? In effetti si. La nostra realtà si compone di due Comunità da 10 posti l’una e di 3 appartamenti in semi autonomia. La caratteristica che ci connota è sicuramente la progettualità, dato che i percorsi al nostro interno sono più lunghi rispetto a quelli che si svolgono in Azimut. Accogliamo adolescenti tra i 14 e i 18 anni, con la possibilità che si fermino anche dopo il raggiungimento della maggiore età o perché soggetti ad un prosieguo amministrativo, per chi non ha pendenze penali o perché portatori di misure cautelari più lunghe. Il nostro staff è composto da un responsabile, una coordinatrice e 12 educatori. Le segnalazioni e il pagamento delle rette sono in capo ai centri di giustizia minorile o ai servizi di tutela o ai vari Comuni. Inizialmente anche noi procediamo con un periodo di osservazione propedeutico alla stesura del progetto individuale più adatto alle caratteristiche e alle esigenze del singolo. Per rafforzare l’utilità dei percorsi educativi ci avvaliamo di strumenti molto concreti, vale a dire le svariate attività pratiche che svolgiamo all’interno dei nostri spazi e che portiamo avanti insieme ai ragazzi perché riteniamo che il famoso “fare con…” sia estremamente efficace nel recupero e nell’accompagnamento delle giovani persone che accogliamo.
Mi chiamo Claudio Spranzi, ho 64 anni e sono originario di Borgosatollo. Sono presidente della Cooperativa Fraternità Verde, ma sono arrivato qui grazie all’aiuto di Beppe Bergamini nel 1997 come inserimento lavorativo proveniente dal carcere. Dopo il percorso di inserimento mi è stato chiesto di rimanere come dipendente, ho accettato perché ritenevo doveroso ricambiare il sostegno che mi è stato dato, attraverso un contributo continuativo come membro attivo di questa realtà. Nel tempo ho investito sempre maggiore impegno, tanto da entrare nel consiglio di amministrazione della cooperativa, in un primo momento come consigliere e da qualche anno come presidente. Noi ci occupiamo di verde pubblico, privato e arredo urbano. A QUALE FILOSOFIA VI ISPIRATE ?
COME VI VENGONO SEGNALATI I CASI PROVENIENTI DALL’AREA GIUDIZIARIA E COME SI SVOLGE LA SELEZIONE?
Prima del COVID le candidature arrivavano direttamente dalla casa circondariale, attraverso il lavoro dei volontari che entrando in carcere raccoglievano le richieste direttamente dai detenuti. Ora riceviamo candidature dalle associazioni che operano in carcere tra cui “carcere territorio “, dalle comunità residenziali che ospitano persone in affidamento alla prova, dai servizi specialistici tra cui lo SMI, dagli avvocati che seguono direttamente le persone in carcere, dalle famiglie o dagli stessi interessati, che si candidano personalmente presso la nostra cooperativa. La nostra selezione si basa principalmente sulla sospensione del giudizio: noi non consideriamo il reato commesso, la provenienza o il colore della pelle…noi guardiamo la persona e le sue necessità. La chiarezza è fondamentale fin dall’inizio, per cui in sede di colloquio conoscitivo comunichiamo subito che la nostra intenzione è quella di offrire un’opportunità di riscatto non un escamotage per aggirare la condanna. La nostra proposta non è un’occupazione temporanea, ma un percorso all’interno del quale dimostrare il proprio valore e la propria motivazione che può, se sfruttata al meglio, diventare il trampolino di lancio per un’assunzione a tempo indeterminato, con possibilità di crescita professionale A questo punto entra in gioco l’agire di ogni persona,
La nostra Mission è aiutare le persone in difficoltà senza alcun pregiudizio nei confronti della situazione personale e di fragilità di chi bussa alla nostra porta. Ci ispiriamo alla filosofia dei fondatori di Fraternità, in particolare di Giuseppe Bergamini. Non si tratta solo di dare una mano a chi si trova in un momento difficile, ma di riconoscere a chiunque, anche a coloro che hanno commesso reati, la possibilità di riscattarsi da un passato pesante. Spesso chi si è trovato ad infrangere la legge viene considerato dalla società esclusivamente come delinquente. Il nostro impegno è quello di rapportarci con tutti allo stesso modo, siamo convinti che da ognuno si possa ricavare qualcosa di buono, anche da chi è partito col piede sbagliato. La nostra filosofia, quindi, è improntata a puntare l’attenzione sulla persona e non sul reato commesso. Durante ogni colloquio cerchiamo di sospendere il giudizio e di concentrarci solo sulle potenzialità che la persona che abbiamo di fronte può mettere in campo per riscattarsi. Attiviamo percorsi di inserimento lavorativo con persone provenienti dal carcere, con problematiche di dipendenza da sostanze o da alcool, con disagio mentale, con invalidità o con situazioni di precarietà sociale e/o economica.

Il progetto di inserimento lavorativo andato a buon fine che mi ha maggiormente emozionato è sicuramente quello di un utente che ora è un mio caro amico. Questa persona era in semi libertà e aveva iniziato un primo percorso nella nostra cooperativa, durante il quale ha deciso di tornare a delinquere: un giorno si è presentato al lavoro e, con la scusa di non sentirsi bene, si è defilato e ha commesso una rapina. È stato così prelevato dai carabinieri e riportato in carcere. Giuseppe Bergamini, che credeva in lui, lo ha accolto ancora per dargli una seconda possibilità e questa volta la persona si è messa davvero in gioco portando avanti il progetto in maniera più che adeguata. Oggi ha una piccola attività di trasporti e puntualmente mi contatta per salutarci e ringraziarci dell’accoglienza riservatagli. E’ stata la nostra cooperativa a sostenere per lui le spese del conseguimento della patente C, perché riteniamo che, se la persona lo merita, sia importante garantirle una formazione completa, al fine di renderla il più possibile autonoma e pronta a spendersi professionalmente. Il nostro obiettivo è proprio quello di consentire ad ogni persona di riscattarsi anche attraverso il proprio lavoro. Nonostante gli errori del passato, siamo convinti che ognuno possa portare il proprio contributo concreto alla società, ricominciando una vita all’insegna della legalità e dell’onestà. Questa è una piccola parte del sogno di Giuseppe Bergamini e noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di portarlo avanti al meglio con professionalità e impegno.
che deve saper cogliere al meglio l’occasione di riscatto che le offriamo, all’interno di un ambiente lavorativo in cui il passato, seppur deviante, non rappresenta uno stigma o un marchio indelebile e, di conseguenza, non condiziona la valutazione del suo operato. Una volta attivato il percorso, le persone vengono inserite subito all’interno di una squadra di lavoro nella quale posso dimostrare le proprie capacità e far emergere la propria motivazione. Al fine di una buona riuscita dei percorsi di inserimento lavorativo abbiamo nel nostro organico una figura di tipo educativo, alla quale le persone in condizione di fragilità, possono rivolgersi ogni qual volta ne sentano la necessità. Noi ci rapportiamo direttamente con le persone interessate dalle varie misure giudiziarie, non abbiamo un rapporto diretto con l’istituzione carceraria in sé. Ci sono diverse modalità attraverso le quali i detenuti possono lavorare presso di noi. A causa del COVID l’ipotesi della semilibertà al momento non è praticabile: uscire dal carcere per recarsi al lavoro e rientrarvi una volta concluso il servizio è ancora troppo rischioso. Ad essa si preferisce l’affidamento sul territorio perché, una volta concluso il lavoro, si rientra nella propria abitazione o nella struttura residenziale dove si è alloggiati. Accogliamo anche persone, spesso molto giovani, che devono svolgere lavori di pubblica utilità (LPU) o lavori socialmente utili (LSU) .
QUALI SONO LE PRINCIPALI PROBLEMATICHE NEI RAPPORTI CON PERSONE PROVENIENTI DAL CARCERE?
CI FAI UN ESEMPIO DI INSERIMENTO LAVORATIVO ANDATO A BUON FINE?
La principale problematica che ci troviamo a dover gestire nel rapporto con le persone provenienti dal carcere è la cultura deviante di provenienza e consolidata poi negli anni di detenzione. Molto spesso l’atteggiamento di queste persone è connotato da omertà e tolleranza di atteggiamenti non corretti. Noi cerchiamo in maniera molto chiara di far loro capire che devono cambiare prospettiva. Lavorare in cooperativa significa far parte di un gruppo all’interno del quale collaborazione, rispetto e sostegno reciproco sono condizioni fondamentali. Essere scorretti o “coprire” atteggiamenti inadeguati di altri, significa mettere a rischio tutti coloro che fanno parte di questa realtà. Se si danneggia un’attrezzatura o si mantiene una condotta che può macchiare la nostra reputazione si provoca un danno collettivo e si rischia di compromettere la possibilità per tutti di procedere ed evolversi nel proprio percorso di riscatto sociale. Sono proprio queste situazioni che cerchiamo di prevenire attraverso l’esempio di correttezza, rispetto e sostegno reciproco che quotidianamente cerchiamo di trasmettere.
Alla conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa ai giornalisti abbiamo avuto l’onore di avere presenti: Simona Tironi, Vice Presidente III Commissione Sanità e Politiche Sociali di Regione Lombardia; Valter Muchetti, assessore del Comune di Brescia con delega alla Rigenerazione Urbana; Martino Troncatti, membro Commissione Centrale Beneficenza Fondazione Cariplo; Giacomo Ferrari, Segretario Generale della Fondazione della Comunità Bresciana; oltre ai rappresentanti Legali di Fraternità Giovani, la presidente Laura Rocco e l’Amministratore Delegato Massimo Belandi. E’ stato un momento di particolare emozione essere arrivati alla definizione della data del 02/05/2022 per iniziare i lavori di demolizione del vecchio edificio. Tutti gli intervenuti hanno sottolineato, ognuno dal proprio punto di vista, la bontà della progettualità e la grande opportunità rappresentata da questa iniziativa. In diciotto mesi, il Centro diventerà pienamente funzionante. Al suo interno verranno trasferiti i servizi che Fraternità Giovani ha già attivi in città, il Centro Semi residenziale Raggio di sole e il Centro diurno Piccole Pesti. Un’altra parte dello stabile, invece, verrà destinata ad ambulatori specialistici aperti alla cittadinanza. Nei progetti e nelle intenzioni della nostra cooperativa, il Centro Polifunzionale diventerà un punto di riferimento per la neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza, uno spazio di ricerca all’avanguardia per la sperimentazione tecnologica legata alla salute mentale, ma anche di relazione con il quartiere e le diverse realtà che si occupano di queste tematiche. Un ringraziamento a Giacomo Mantelli presidente della Fondazione Brescia Solidale che gestisce la nuova Casa di Riposo Arici Sega, che ci ha ospitato all’interno dei suoi locali per il lancio dell’iniziativa. Inoltre, volendo sottolineare come per noi sia fondamentale il legame con il territorio, ci ha fatto molto piacere ospitare la presidente del Consiglio di Quartiere San Polo Case Silvia Chiroli, che attraverso la sua presenza ci ha trasmesso la vicinanza del quartiere, con la speranza che il nostro arrivo possa contribuire, insieme alle altre realtà, alla riqualifica della zona.
Sono arrivate le ruspe in via Fiorentini a San Polo e ora il Centro Polifunzionale per l’età evolutiva di Brescia può finalmente prendere vita. I lavori per la creazione del Centro sono iniziati dalla demolizione di parte delle strutture dell’ex Rsa Arici Sega, immobile ormai fatiscente e abbandonato da vent’anni, grazie ai contributi di Fondazione Cariplo e Regione Lombardia, che hanno garantito la copertura di un terzo dei costi.

Se io fossi un carcerato non mi sentirei a mio agio. Sarei sicuramente in uno stato di insicurezza che potrebbe provocare una situazione poco piacevole.
sbarre della mia cella una rondine che sfidava i cieli. Come lei e Icaro ho bruciato le mie ali e sono piombato nello stesso inferno. Dicono che io abbia una pena da scontare che un giorno finirà ma io so che non smetterà mai di tormentarmi. Guarderò ancora le rondini librarsi nel cielo, io volerò più basso ma sarò sempre libero. (R.M.)
Ho visto dalle sbarre della mia cella una rondine che sfidava i cieli. Nel momento in cui sono passato attraverso queste inferriate fredde ho sentito la mia vita finire in uno spazio grande una manciata di metri. Ho preso a pugni lo specchio riflettendomi in esso... ora sul pavimento ci sono lacrime e pezzi di vetro. Gli sguardi degli altri detenuti mi minacciano, loro non sono i miei compagni e non lo saranno mai. I ricordi e i viaggi con la fantasia mi danno un sollievo Hopasseggero.vistodalle
Non mi sentirei rilassato a causa della reclusione forzaAvreita. vitto e alloggio garantito, ma mancherebbe tutto il Comeresto.potrei far trascorrere le giornate in uno stato di privazione delle mie abitudini? Non potrei più invitare gli amici a casa mia, andare al bar dopo il lavoro, concedermi una serata in discoteca o una vacanza in campeggio per le ferie d’estate. Avrei cibo per sfamarmi, un tetto sulla testa, ma sarei privo della cosa più preziosa la mia libertà. (L.E.)

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