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Fiume nel passato
from LA TORE 29
by Foxstudio
Gironzolando per Fiume nel passato • di Giacomo Scotti
… E per incendio doloso c’era la morte sul rogo
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(Dallo Statuto di Fiume del 1530)
Al ladro che ruba otto sciami di api viene tagliata la mano, per il furto di nove-dieci sciami viene tagliata la mano e cavato un occhio, per il furto di oltre dieci sciami la pena è l’impiccagione.
Queste erano le pene previste nello Statuto di Fiume risalente al 1530, epoca in cui la città di San Vito non contava più di duemila abitanti, quasi tutti "ristretti" entro le mura di cinta, all’interno delle quali vasti spazi erano ancora coltivati ad orticelli ed a minuscoli vigneti. Oggi quelle pene possono sembrarci fin troppo severe, ma quella volta la vita era diversa e ben diversi erano i criteri per giudicare le malefatte. Come dimostrano, del resto, alcune altre norme che spulciamo dallo stesso Statuto.
Così per chi veniva sorpreso ad appiccare il fuoco e, in genere per reato accertato di incendio doloso allo scopo di mandare in cenere una casa, la pena era la morte: veniva bruciato sul rogo. Alla medesima orribile fine – morire bruciata – era destinata la donna maritata che commetteva il reato di bigamia contraendo matrimonio con un altro maschio.
Finiva in prigione o veniva messo alla berlina, in pubblico nella Piazza delle erbe, chi tagliava gli alberi di olivo e le viti altrui col proposito di arrecare danni o compiere vendette. Evitava la prigione e la colonna infame, tuttavia, pagando i danni e qualcosa di più.
Chi testimoniava il falso davanti al tribunale, soprattutto se lo faceva per denaro, veniva punito con l’imposizione della "corona del disonore" sulla testa, e così conciato, legato alla colonna delle vergogna e bollato a fuoco. Avrebbe portato per tutta la vita il segno del mentitore.
L’uomo che avesse baciato una donna contro la sua volontà, era punito con un’ammenda pecuniaria e frustato con lo scudiscio oppure messo al bando da Fiume per un periodo di quattro anni. Se, invece, la violenza si trasformava in stupro, il colpevole veniva condannato a morte. La pena capitale si applicava anche nel caso di rapimento.
Il codice fiumano del primo Cinquecento non era tenero però nemmeno con le donne di mal costume. Nessuna donna, nubile, vedova o maritata, giovane o anziana, poteva accedere a una pubblica festa danzante se non portava la gonna almeno fino ai ginocchi. A quei balli non potevano assolutamente partecipare le meretrici e, in genere, le donne conosciute per la loro vita scostumata. Anzi, a puttane e mezzane era vietato abitare entro le mura cittadine.
Era pure severamente punita la bestemmia. Chi imprecava Dio o qualche santo veniva castigato con una forte ammenda pecuniaria o col cosiddetto "battesimo del mare"
e cioè con due o tre lunghe immersioni nell’acqua, seguite dall’esposizione al pubblico legato alla colonna infame.
I ribelli, invece, venivano legati alla coda di un cavallo, trascinati per le vie cittadine e infine impiccati pubblicamente. Era considerato ribelle chiunque fosse insorto o avesse congiurato contro lo stato o contro la città. Lapersona che avesse preparato una bevanda velenosa con l’intenzione di uccidere o di rendere invalido qualcuno immancabilmente finiva con l’essere condannato a morte. Veniva bruciata sul rogo nel caso in cui chi aveva bevuto l’intruglio fosse morto o impazzito.
Pesanti pene pecuniarie venivano inflitte a chi avesse offeso qualcuno con le parole, dicendogli, per esempio: brigante, traditore, caprone (ovverosia: becco, cornuto), scansafatiche, figlio di puttana, figlio di un prete ed altri epiteti. Faceva la fine di San Giovanni decollato, e cioè gli veniva staccata la testa dal collo con la mannaia, colui il quale fosse stato dichiarato colpevole di omicidio intenzionale. Per i briganti e i loro aiutanti la pena capitale consisteva nell’impiccagione.
Guai a chi fosse stato sorpreso a lavorare nei capi nei giorni festivi! Potevano lavorare unicamente, a Fiume, i farmacisti, i maniscalchi e i caricatori di navi. Ma soltanto dopo la messa! Nessun padrone di cane poteva lascia libero il proprio amico a quattro zampe in tempo d’estate, e precisamente dall’inizio della maturazione dell’uva in luglio fino all’epoca della vendemmia in settembre.
E qui ci fermiamo. UNA NoTA DI CASANovA SU fIUME "Casanova, romantica spia". Questo libro di Luca Goldoni apparso all’inizio dell’anno del bicentenario della morte del letterato, occultista, massone, libertino e avventuriero veneziano (2 aprile 1725 – 4 giugno 1798), è forse appena il primo di una serie di biografie che usciranno in futuro nutrendosi inevitabilmente di quanto Giacomo Giovanni scrisse in francese nelle "Mémoires" ovvero "La storia della mia vita", in tre volumi.
Casanova è stato uno 007? Le prove, ammette lo stesso Luca Goldoni, non ci sono; si sa unicamente che nelle 3.900 pagine dell'autobiografia, Casanova ha lasciato troppi buchi, zone d'ombra che in molti studiosi, molto prima di Goldoni, hanno suscitato il sospetto che le avventure vissute dal Casanova in quasi tutti i paesi dell'Europa e i suoi stessi viaggi coprissero un'attività segreta, che egli fosse una spia al servizio della Serenissima repubblica veneta, sua patria.
Gli indizi sono parecchi: il grande viaggiatore e rubacuori va avanti e indietro per il continente in sontuose carozze sulle quali mangia, dorme e fa l'amore; nelle città sceglie i migliori alberghi; si circonda di camerieri, fa regali principeschi alle sue donne, spende e spande denaro. Qualcuno deve pur pagarlo, e non senza validi motivi. E l'evasione dai Piombi nel luglio del 1755? Sarebbe stata impossibile qulasiasi fuga se qualcuno in alto loco non l'avesse permessa e favorita per accreditare un Casanova marire presso le corti europee.
Ci sia permesso, qui, di aggiungere un tassello al mosaico degli indizi che vogliono Casanova un informatore segreto, portando il racconto in Istria e nelle acque dell'Adriatico orientale. Qui il nascente astro marittimo dell'Austria – Ungheria sta sempre più salendo all'orrizzonte della seconda metà del Settecento, mentre quello di Venezia, già impallidito, accelera il proprio declino.
Minata nella sua struttura e dalla dilagante corruzione, Venezia somiglia in quest'epoca a una vecchia nobildonna decaduta, inchiodata dagli acciacchi su una poltrona dorata ma tarlata. Così, mentre la Dominante sonnecchia nella sua laguna, le città marinare della costa orientale dell'Adriatico, ancora nominalmente sotto il suo potere, da Capodistria a Cattaro prosperano solamente violandone le leggi. Oppure invecchiano anche loro come quelle istriane, Spalato, Zara ed altre, nelle quali l'aristocrazia imita in tutto e per tutto la Veneta Regina. Mercanti ed armatori protestano contro i frenti posti alla libertà di commercio; si hanno perfino dei gravi tumulti come quello dei popolani di Rovigno, nel 1764, soffocato nel sàngue.
Il governo di Vienna, a sua volta, getta benzina sul fuoco per scardinare il secolare dominio adriatico di San Marco: l'imperatrice Maria Teresa, che nel 1766 ha esteso i benefici dei porti franchi di Trieste e Fiume a tutti i quartieri cittadini entro e fuori le mura, fonda nel 1770 uno Stabilmento sulla costa orientale dell'Africa, nel Delagoa, e sprona i sudditi del "suo" Litorale a commerciare nei paesi lontani, beneficiando dei trattati stipulati con laRussia, il Marocco e la Turchia.
A Trieste ed a Fiume, vengono aperte le sedi della "Compagnia privilegiata austriaca" che nel novembre dello stesso anno manda nelle Indie orientali le prime navi, "Theresia" e "Giuseppe II", partite da Livorno. È l'anno in cui la città e il territorio di Fiume, insieme con i porti di Buccarizza e Buccari, vengono assegnati al regno di Croazia-Ungheria. Qualche anno dopo, nell'ambito di questo "Litorale ungarico", Fiume diventa territorio autonomo e corpus separatum della corona di Santo Stefano. La città posta nel fondo del Quarnero prende slancio per diventare un fiorente emporio marittimo, l'unico sbocco al mare dell'Ungheria.
A questo punto gettiamo un fascio di luce su una pagina finora sconosciuta: il galante avventuriero
Giacomo Casanova s'interessa particolarmente di Fiume. Il 21 ottobre 1776, il mese della proclamazione del "corpus separatum", il console Pasquale Ricci arriva da Trieste nella città di "San Vito al Fiume" per ribadire con la sua presenza il beneplacito del governo di Vienna all'insediamento nella sua carica di primo Governatore ungherese a Fiume del patrizio Giuseppe Majlah, sancendo così il passaggio della città dalla corona austriaca a quella magiara. Il governo di Venezia preocupato della sorte dei suoi mercati, incarica Giacomo Giovanni Casanova di raccogliere le più ampie informazioni sulla "questione di Fiume", specie per quanto concerne il suo commercio con l'entroterra. Il 28 novembre Casanova conferma epistolarmente agli "Eccellentissimi Signori Inquisitori" la sua piena disponibilità per la delicata missione, promettendo di adempiere il suo dovere "con prudenza, segretezza, celerità, vigilanza e zelo", assicurando inoltre che il suo viaggio durerà più di due settimane.
In un'altra lettera agli Inquisitori si può leggere: "Il barcarolo che mando a consegnarle la concertata carta non mi conosce ed io l'aspetto in barca". Aggiungendo che, per meglio adempiere alla sua missione, dovrà forse recarsi a Fiume in persona. Ma il 13 dicembre, in una terza lettera indirizzata allo stesso inquisitore, si giustifica: "Non sono andato a Fiume perché andandovi avrei dato occasione di patente sospetto, e non avrei già saputo di più di quel che seppi dal console Pasquale Ricci mio amico, il quale appunto al mio arrivo a Trieste, veniva da Fiume dove era stato per dare l'investitura del comando al nuovo governatore. Considerai che mia principal cura dovesse essere quella di nascondere l'oggetto del mio interesse".
Per non tirarla a lungo, ecco la sintesi di questa "missione". Casanova spedisce a Venezia una dettagliata esposizione con dati conoscitivi sulla situazione economica, politica e militare della città del Quarnero e del suo Litorale, nonché dei principali provvedimenti adottati per sancire il passaggio di Fiume alla corona ungherese.
Le informazioni che Casanova ebbe di Fiume, del Litorale austriaco e del neocostituito Litorale ungarico si aggiungevano all profonda conoscenza che egli aveva della regione, frutto degli anni precedentemente trascorsi a Trieste, dove era vissuto stabilmente dal 1772 al 1774 compiendo frequenti viaggi anche in Istria. A Trieste Casanova si era conquistato numerose amicizie, che conservò per sempre, "in tutte le famiglie più nobili", cominciando dal barone Pietro Antonio Pittoni, "amico e protettore di tutti i libertini", ma soprattutto direttore di polizia. Casanova andava spesso a pranzo dal Pittoni, ma anche in casa del console di Francia Saint Sauver, del console di Venezia, del banchiere Mosé Levi, del governatore di Trieste conte di Wagensberg e in tutte le case in cui poteva frequentare le belle signore, baronesse o contesse in prima fila. Strappava loro baci, pettegolezzi, e qualche utile informazione da inviare ai suoi amici sulla Laguna. fIUMANI A vENEzIA
Nonostante i non sempre amichevoli rapporti tra la Serenissima repubblica di San Marco e la bicipite monarchia austro-ungarica, ci fu per secoli un movimento migratorio fra la capitale della prima, Venezia, e la fedele suddita della seconda, Fiume. Anche se i veneziani trasferitisi e sistematisi a Fiume furono meno numerosi dei fiumani a Venezia. La presenza degli emigrati fiumani a Venezia fu particolarmente notevole tra il Quindicesimo e il Diciassettesimo secolo, periodo del massimo splendore della Regina dell'Adriatico e al tempo stesso epoca in cui la minaccia turca e le incursioni ottomane dall'interno della penisola balcanica verso la costa si fecero più intense e pericolose.
Lo documenta un testo di Lovorka Čoralić, collaboratrice dell'Istituto croato di storia di Zagabria in un saggio del dicembre 2000. Attingendo a diversi archivi veneziani, l'autrice descrive la vita quotidiana a Venezia degli oriundi fiumani attraverso testamenti, atti notarili e le loro relazioni familiari ed amicali, sottolineando che l'emigrazione fiumana nella città sulla laguna costituì una parte non notevole ma nemmeno trascurabile di tutte le migrazioni dai territori insulari e litoranei dell'odierna Croazia verso i paesi d'oltremare.
In quel lungo arco di tempo, infatti, insieme ai Fiumani, misero radici a Venezia diverse migliaia di altri emigranti arrivati dalla sponda orientale dell'Adriatico, prevalentemente dai territori dominati

dalla Serenissima, ma anche dalla Repubblica di Ragusa e dai territori sottomessi agli Asburgo. Le città dalle quali giunsero a Venezia i più folti gruppi di migranti furono Zara, Spalato, Sebenico, Lesina, Traù, Ragusa, Cattaro ed altri centri delle Bocche. Il numero dei Fiumani non superava, per fare qualche esempio, quelli dei Polesi, degli Almissani (Almissa, Omiš), dei Clissani (da Clissa, Klis), o di quelli provenienti da Nona (Nin), Scardona (Skradin) o dall'isola di Lissa. I segnani superavano in numero i fiumani.Tuttavia questi ultimi ebbero un notevole peso nella vita sociale ed economica di Venezia.
Non a caso due notai veneziani dai cui documenti la studiosa zagabrese ha attinto per la sua ricerca, erano oriundi "de Fiume" come si rileva dal loro cognome: Baldassarre Fiume attivo a Venezia dal 1553 al 1598 ed autore di trentadue testamenti dettati da veneziani oriundi fiumani, e Zuanne de Fiume che ebbe ufficio nella città lagunare nel periodo dal 1588 al 1598.
I documenti relativi alla presenza e attività dei Fiumani a Venezia ce li presentano con nome, patronimico (nome del padre) e città di origine: da Fiume, da Fiumine, Fiuman, Fiumanese. Raramente si incontrano cognomi.
La presenza relativamente più alta dei fiumani a Venezia si registra fra il 1450 e il 1600, periodo culminante della minaccia ottomana. Venezia era un rifugio sicuro e prometteva lavoro per un futuro migliore. I fiumani immigrati, per lo più mercanti, artigiani, imprenditori, capitani marittimi e marinai, erano domiciliati quasi tutti nel sestiere o contrada Castello, e più precisamente nelle parrocchie di S. Pietro di Castello, San Giovanni Novo (in Oleo) e S. Severo. Pochi altri erano sparsi nei sestieri di San Marco, Dorsoduro e Cannareggio. Fra le professioni esercitate, la più ricorrente era quella di artigiano; fra gli artigiani i più numerosi erano i favri e cioè i fabbri qualiMatheo de Fiume menzionato nel 1512, Zuane del Fiume condam Bernardo (nel 1549-1550), Bastian de Ambrosio di Fiume, nel 1600 eccetera. Troviamo pure de proprietari di navi: magister Iohannes de Flumine (1518) eMattio condam Todoris da Fiume padrone de marciliana (1621). A Dorsoduro, "al insegna S. Agnese", teneva bothega nel 1594 Pasqualin de Agnolo da Fiume. Qualcuno, come Jacobo Jacominich, era proprietario di vari beni immobili, terreni e case, nelle località di Arsci, Cittadella, Campo Sanpiero, Fontaniva, Marzonis e altrove intorno a Padova, e di poderi nei dintorni di Fiume. Nel testamento dettato nel 1521 egli lasciò dieci ducati al monastero S. Maria de Tarsato ex opositio civitatis Fluminis perché i frati di quel convento celebrassero messe per la salvezza dell'anima sua. Un'ottima posizione a Venezia se la fece pure il fabbro Zuane del Fiume condam Bernardo già sopra citato che lasciò agli eredi "beni che mi atrovo in Lombardia" e in altri luoghi (et in cadaun luogo esistenti).
Ricchi o poveri che fossero, quasi tutti i fiumani di Venezia lasciavano immancabilmente qualche ducato a questa o quella parrocchia, quasi sempre sul territorio del Castello, per la sepoltura (pro sepultura) e le messe. In maggioranza venivano seppelliti nella chiesa conventuale di S. Francesco della Vigna. Per tutti citiamo tre testamenti: Catarina condam Martini de Fiume: "Lasso ducati tre per messe s. Marie e s. Gregorio; Matheus de Flumine condam Jacobi Jacominich "Item volo celebrari messe 16 pro anima mea in ecllesia s. Maria ab Orto"; Ursia uxor Blasii de Fiume: "Dimitto ducato uno pro messe s. Gregorii. Dimitto ducati doi pro messe s. Marie".
È uno studio notevole quello della Čoralić, se non fosse inquinato dall'ingiustificata tesi secondo la quale gli immigrati a Venezia venuti da Fiume (come tutti quelli arrivati dalla sponda orientale dell'Adriatico) erano indiscutibilmente croati. Troviamo l'aggettivo croato, indicante nazionalità, ad ogni pie' sospinto, in ogni capoverso, in ogni frase, fino alla noia: "la struttura dei emigranti croati" a Venezia, "la storia della comunità croata a Venezia", "i gruppi croati dell'oltre-A-

driatico", "i croati emigrati". Senza mai fornire uno straccio di prova a supporto di queste affermazioni. Come se in quei secoli (ma anche prima e dopo) lungo tutta la costa orientale dell'Adriatico altri non vivessero che i croati. Dove le mettiamo le affollatissime comunità italiane ovvero romaniche di Zara, Ragusa, Sebenico, Spalato, Traù eccetera, senza dire degli Istriani? Erano tutti croati? Da quale analisi – per limitarci a Fiume – la studiosa ha potuto concludere che fossero croati Lucia de Flumine, Andrea Mercario de Flumine, Steffano Fiume, Andrea Fiuman, Bortolo Fiuman, Zuane Fiumanese, Cecilia relicta (cioè vedova di) Mathei de Fiume fabri, missier Mattio condam Todoris de Fiume, Caterina relicta condam Mathei de Fiume e tanti altri fiumani di Venezia? Glielo ha suggerito lo Spirito Santo? In tutto il suo studio troviamo soltanto tre cognomi in odore di croaticità, cognomi peraltro tuttora ricorrenti in queste terre e portati da persone che, a distanza di secoli si dichiarano italiani: Iohannes Donatovig, ser Spicialich de Flumine e Jacob Jacominich. LaČoralić si attacca a quest'ultimo come a un'ancora di salvezza per esaltare la croaticità dell'intera comunità fiumana d'oltremare (e di riflesso dell'intera popolazione di Fiume) che "formava un'importante componente della comunità croata a Venezia".
Gli studiosi croati sarebbero molto più rispettati nel loro paese e all'estero se la smettessero di falsificare la storia e facessero con imparzialità il loro mestire.
ERA fIUMANo UN DISCEpoLo DEL gENIo LoRENzo LoTTo
Capita, talvolta. Scavi fra le carte di un archivio per cercare il nome di uno scrittore e salta fuori un apprendista pittore. A me è capitata un "Lista di spese diverse" nella quale Lorenzo Lotto, uno dei più importanti pittori del Cinquecento veneziano, registrava i più svariati dati sul proprio lavoro. Così annotò pure di aver assunto a garzone tale Marco de Giorgi Catalenich di Fiume, il quale viveva ad Ancona. Su questo legame fu stipulato anche un contratto notarile, il cui originale è custodito nell'archivio di Stato anconitano Nel documento, datato 9 settembre 1550, si dice che il maestro assunse come discepolo, per la durata di sei anni tale Marcus de Giorgii Catalenichi de Flumine, appunto. Si precisava che in quei sei anni Lotto lo avrebbe istruito nell'arte della pittura e del disegno: addiscendum artem depingendi et designandi pro tempore sex annorum proximi fituri. Chiarissimo, no? Con laprecisazione che, al posto del verbo "docere", insegnare, qui è usato "addiscere" e cioè "imparare bene un'arte". Lotto si impegnava a far apprendere qualcosa di più al suo discepolo, a fargli apprendere quell’arte molto bene.
Il maestro si assumeva pure l'obbligo di dare al discepolo vitto, alloggio e vestiario, mentre il discepolo era obbligato a sua volta verso il maestro (in latino "dicto magistro Laurentio"): a servirlo in qualsiasi modo fedelmente per tre anni, ai quali sarebbero seguiti altri tre anni nei quali il maestro avrebbe dedicato il tempo necessario per istruire il discepolo. Quindi, dapprima il ragazzo fiumano doveva prestare "opera sua, se bene dideliter et studiose operabit iuxta posse suum dia et quacumque quod dictus magister Laurentius imponet et mandavit per tre annos" e poi "et deinde alios tre annos promisit dictus magister Laurentius docere in se dictam artem dipingendi et disegnandi dicto Marco ur superius". Dopo i sei anni Marco avrebbe riscosso dal maestro la somma di dieci scudi d'oro.
A conclusione del contratto Marco prometteva di non abbandonare il posto di lavoro e di non fare nulla di nascosto, furtivamente: non discedere et furtim non facere.
Nato verso il 1480, morto nel 1556, Lorenzo Lotto si era sentito incompreso nella sua Venezia, dalla quale fu perciò costretto ad andarsene, sicché trascorse gran parte della sua vita in provincia e soprattutto nelle Marche stabilendosi ad Ancona. Qui ebbe contatti con numerose personalità dalmate Tra gli altri si rivolse a lui l'arcivescovo di Scardona e Salona, Tommaso Negro-Nigris, umanista spalatino, del quale il Lotto esegui un ritratto nel 1527.
Per quanto riguarda il suo discepolo fiumano, Marco de Giorgi Chatalenich, dalle ricerche d'archivio risulta che gli impegni contrattuali non vennero rispettati e il rapporto fra Lotto e il giovane discepolo non durò a lungo. Dal libro delle spese del grande pittore risulta


che meno di quattro mesi dopo la firma del contratto, esattamente il 27 dicembre 1550, Lotto licenziò il discepolo giustificando la decisione col dire che il fiumano era risultato indomabile, disubbidiente: "per non aver natura da poterlo domare". Nonostante il contratto non lo prevedesse, il fiumano chiese al maestro di essere pagato anche per quei pochi mesi, in caso contrario minacciava di trascinare il Lotto in Tribunale.
E tuttavia bastano quei quattro mesi scarsi di non facile sodalizio con uno dei più celebri pittori del Cinquecento per fare entrare il nome dell'"indomabile" nelle pieghe della storia culturale di Fiume.
ERA fIUMANo L’AUToRE DELLA pRIMA gRAMMATICA SLovENA IN ITALIANo
Il libro, lo si legge alla fine del "Saggio Grammaticale Italiano – Cragnolino" di Vincenzo Franul, era "vendibile presso lo stesso Autore a franchi sei la copia in Trieste nell’Androna di San Lorenzo, Nro 125". Le duemila copie erano uscite dalla stamperia di Antonio Maldini il 7 agosto 1811 ed erano costate all’autore la somma di 600 fiorini. Un "samizdat" dunque. Nel giro di un anno il Franul riuscì a venderne appena 250, per cui il ricavato non bastò a coprire che un terzo delle spese.
Deluso e risentito, decise di non occuparsi più di slavistica e di versioni dallo sloveno, passando le ordinazioni che gli venivano dai clienti al poeta sloveno Valentin Vodnik che lo aveva notevolmente aiutato nella compilazione del "Saggio" presentato come "prima prova di questo genere", "lavoro primizio".
Era infatti la prima grammatica della lingua slovena diretta agli italiani, basata peraltro sulla "Grammatik der Slavischen Sprache in Krain, Kaernten und Steiermark" del grande filologo Jernej Kopitar. Prima della grammatica del Franul, in italiano era apparso soltanto un dizionario e precisamente il "Vocabolario italiano e schiavo" del Servita fra Gregorio Alasia, del convento di Duino, stampato a Udine nel 1607.
Chi era Vincenzo Franul? Era fiumano, dottore in legge e notaio che al nome e cognome aggiungeva il titolo patrizio "de Weissenthurn. Era nato a Fiume il 2 febbraio del 1771 e morì a Trieste il 2 agosto 1817. I suoi antenati, venuti probabilmente dalla Valacchia (i Rumeni della Ciciaria istriana), avevano ottenuto nel novembre del 1713 la nobiltà austriaca, ed ebbero possedimenti in Aidussina, dove anche il piccolo Vincenzo trascorse qualche anno nella prima infanzia. Dopo aver assolto a Fiume le scuole elementari, ginnasiale e liceale, questa ultima presso i Gesuiti, si stabilì a Trieste. Successivamente si laureò in giurisprudenza, non si sa in che anno e presso quale Università. A cominciare dal 1798 lavorò per alcuni anni nello studio di Alessandro de Cronnest, goriziano, di cui sposò la figlia Teresa il 4 luglio del 1801. Con decreto del 10 febbraio 1803, fu autorizzato ad aprire il proprio studio di pubblico notaio che tenne fino alla morte. Dal 1808 fu patrizio e consigliere del Comune.
Franul esercitò la sua professione in piena epoca napoleonica e fu uno degli entusiasti dell’Illiria voluta da Napoleone che comprendeva la Carniola, il Goriziano, Trieste, il circondario di Villaco, parte del Tirolo, l’Istria,la Croazia fino alla Drava, Fiume, la Dalmazia, l’ex repubblica di Ragusa e le Bocche di Cattaro. Quella Illiria contava una popolazione di circa due milioni di abitanti parlanti italiano, sloveno, croato e tedesco. Essa, nella speranza di molti poeti, scrittori e storici – come ricorderanno i giornali triestini nel 1952 in occasione del Centenario della morte del generale Marmont – avrebbe dovuto essere l’anello della nuova Europa, il ponte tra l’Europa e l’Asia, tra l’Occidente e l’Oriente.
Una delle lingue più diffuse nella "Illiria" era lo sloveno ovvero "dialetto cragnolino", ed il Franul era convinto che i Triestini e gli altri italiani delle "Provincie Illiriche" dovessero conoscere anche la lingua dei loro conterranei. Egli scriveva: "Noi, che . . . viviamo in una Città, il cui contado ha per dominante la sola lingua cragnolina, e che per mancanza della di lui lingua veggiamo compromessi persino gli affari nostri domestici, non dovremmo noi esser egualmente animati dalla medesima voglia?". "Non conviene a noi forse d’applicarsi allo studio d’una lingua, la cui cognizione si rende altrettanto utile, che necessaria?".
Parole da sottolineare, oggi più che mai attuali.