
6 minute read
Cihlar, un amico
from LA TORE 29
by Foxstudio
In viaggio con Vatroslav Cihlar • di Giacomo Scotti
Ricordo di un amico degli italiani
Advertisement
Fu Vatroslav Cihlar ad aprire la serata letteraria a Subotica, il 4 dicembre 1963 alle otto di sera. Più non ricordo in che sala ci riunimmo. Ospiti di "Rukovet", rivista croata della Vojvodina plurinazionale, eravamo arrivati nel pomeriggio da Novi Sad invitati dalla Matica Srpska, massima organizzazione culturale serba.
A Novi Sad, capoluogo della Vojvodina, dopo una notte in treno partito il giorno prima da Fiume, eravamo arrivati alle cinque del mattino. Ci accolsero la nebbia e la neve. La nebbia era così fitta che non si vedeva a due passi. Se non ci fossero stati i ferrovieri a gridare il nome della città, all’arrivo, avrei anche potuto credere di essere arrivato alla fine del mondo: la città non si vedeva. Si camminava come in una nuvola. E non vedemmo nulla fino a mezzogiorno.
Per me, in quella mattinata, Novi Sad era sintetizzata da due uomini di penna: Draško Redjep e Saffer Pal, un critico letterario serbo e un romanziere ungherese che ci fecero gli onori di casa.
Il nostro gurppo partito quale rappresentanza degli scrittori e poeti del capoluogo del Quarnero, era composto da Vatroslav Cihlar, Vinko Antić, Kazimir Urem, Nedjeljko Fabrio ed io. Facemmo colazione all’albergo "Putnik", poi sostammo al club di Radio Novi Sad in cui programmi si alternavano in cinque lingue. Il quotidiano cittadino "Dnevnik" uscì quel giorno con un grosso titolo su tutta la prima pagina: "Vojvodina pod snegom", la Vojvodina sotto la neve.
Per salire sul treno diretto a Subotica demmo prova di coraggio e di equilibrismo. Facemmo anche parecchio lavoro di gomiti. I più allegri eravamo Fabrio ed io, i più giovani del gruppo fiumano. Insieme a Cihlar, eravamo gli unici a parlare tra di noi in italiano.
Di quel viaggio sul treno Novi Sad-Subotica mi è rimasta una sola immagine, quella dell’immenso mare bianco della pianura pannonica sepolta sotto la neve. E ricordo la babilonia delle lingue e delle imprecazioni dei passeggeri in serbo-croato, ungherese, slovacco, romeno, ucraino (russino e ruteno lo chiamano laggiù). Per aumentare la confusione e tenerci allegri, Fabrio ed io di tanto in tanto ci scambiavamo degli urli in vernacolo veneto-fiumano. Io vi aggiungevo qualche espressione napoletana. Sentimmo una donna dire a un’altra: "Questi sono greci".
Ci faceva da cicerone, nel viaggio, la biondissima e giovanissima poetessa Jasna Melvinger di Petrovaradin. Per fare dello spirito, Urem ripeteva ogni tanto "la solita frase" fattasi però illeggibile sul mio taccuino ingiallito da cinquantaquattro anni addietro! Poi anche Urem si annoiò. Anzi, si addormentò in piedi.
A Subotica ci attese Radovan Ždrale, scrittore di novelle e redattore del "Rukovet". Ci guidò in un club dove, bevendo grappa, mangiando panini e chiacchierando, facemmo conoscenza con nuovi amici. Eravamo venuti dal confine settentrionale sul mare al confine orientale della Jugoslavia, otto chilometri dall’Ungheria dove le uniche grandi acque sono quelle del Danubio e gli specchi di qualche lago. Vinko Anti ricordò subito che lì, a Subotica, il poeta istriano Mate Balota, esule dalla penisola del Monte Maggiore, era stato per la prima volta professore universitario. Io non potevo neppure immaginare che solo quattro anni dopo avrei incontrato in quella terra la mia moglie ungherese.
Alla serata letteraria vennero duecento persone, alunni e studenti quasi tutti, ragazze in maggioranza. Belle ragazze, a dire la verità. Curvo sul foglio di carta, asciugandosi ogni tanto la bocca umida col fazzoletto, Vatroslav Cijlar lesse un suo brano di prosa, qualcosa tra bozzetto e racconto nel quale si diceva di
"komini" quei caratteristici focolari delle case del litorale quarnerino, intorno ai quali si svolge tutta la vita intima della famiglia: un brano di vita marinara. Parlò poi di suo fratello, il grande scrittore Milutin Cihlar-Nehajev.
Nel treno, al ritorno, fu Cihlar a dominare i discorsi. Devo dire che a stuzzicarlo, a insistere perché parlasse, fummo Antić ed io. "Cihlar la sa lunga" mi aveva detto Anti. "La sua vita è tutta un romanzo". E quella notte, nel treno Subotica-Novi Sad, Vatroslav Cihlar non fu davvero avaro di parole. Ci sarebbe voluto un magnetofono. O uno stenografo. Invece, le parole volavano, si perdevano, cancellate subito dall’aria fredda. Sul mio taccuino sono rimasti soltanto alcuni appunti presi in fretta e, quel che è peggio, scritti appena l’indomani.
Ci parlò ancora una volta di suo fratello, di Fran Mažuranić, di qualche suo incontro con Ivo Andrić, del tempo in cui aveva collaborato con Miroslav Krleža e August Cesarec ("umano e modesto" lo definì), di quando fu corrispondente del giornale socialista italiano "Avanti!", e della sua amicizia con Antonio Gramsci, il fondatore del Partito Comunista d’Italia. Cihlar conobbe Gramsci nell’estate del 1920 a Torino, nella redazione del giornale "Ordine nuovo" dove si trovava anche la redazione dell’"Avanti!".
Vatroslav Cihlar era lui stesso un libro di storia, di memorie e di aneddoti. Un libro che forse non ha mai scritto o che ha solo tentato di scrivere, le cui pagine sono ancora da raccogliere, da ricucire insieme. Una storia, quella ci Cihlar, che va dalla prima guerra mondiale fino alla morte dell’uomo che l’ha vissuta. La morte lo colse il 2 gennaio 1968 in un ospizio per vecchi a Costabella, mentre nelle case della vecchia e nuova Fiume si ballava e cantava ancora in onore dell’anno nuovo. Lasciò sul comodino, accanto al letto, un posacenere stracolmo di cicche di sigarette e una montagna di carte.
Quando parlava, Cihlar fumava una sigaretta dopo l’altra, nervoso. Fuori dal treno Subotica-Novi Sad la neve continuava a cadere incollandosi sui finestrini. Quando arrivammo per la seconda volta nel capoluogo delle Vojvodina, il 16 dicembre, le strade erano ricoperte di ghiaccio, il freddo ci mozzava il fiato. Avremmo trovato gli stessi paesaggi lunari anche a Melenci, una
cittadina di oltre ottomila abitanti, nel Banato, sulla sponda del fiume Tisa, il Tibisco. Sul ghiaccio di Novi Sad si scivolava. Cihlar riusciva a stare in piedi a stento, una o due volte barcollò, fu lì lì per cadere con la schiena all’indietro… Non ricordo quali mani salvatrici si tesero per sostenere l’uomo da poco messo in pensione. Solo la sigaretta non si staccava mai dalle sue labbra di colore azzurro. Appena rientrati all’albergo, Vatroslav non seguì gli altri nella sala dove scaldava gli ospiti un caminetto acceso. Chiese al portiere un giornale e se lo lesse, o meglio: lesse i titoli, stando in piedi. Venne da me gridando: "È morto il tuo direttore, Giacomo Raunich". Era il caporedattore de "La Voce del Popolo" di Fiume della quale lui, Cihlar, era stato uno dei più assidui collaboratori. Mai come quella sera Cihlar mi apparve così vecchio, e vecchio non era. Si sedette a un tavolo, con me accanto, Vatroslav Cihlar visto da Antun Žunić scrivendo subito un telegramma in italiano, a lettere maiuscole, a stampatello. Volle esprimere agli amici del suo amico scomparso il suo dolore profondo e sincero. Vatroslav Cihlar aveva sessantacinque anni allora, ma ne dimostrava molti di più. Il suo fisico era stato indebolito da una vita da bohemien, irregolare, di uomo solo che spesso saltava i pasti per non lasciare il foglio di carta o la prima teatrale. Soltanto le sigarette non gli mancavano mai, se ne saziava. E soltanto ai concerti di musica non era assente mai.
