Fotografia Transfigurativa Magazine - N.6 Aprile 2023

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Transfigurative Photography rivista periodica di cultura fotografica n. 6 | Aprile 2023 FT FOTOGRAFIA TRANSFIGURATIVA MAGAZINE 6

Tutte le fotografie, nel rispetto del diritto d’autore, vengono qui riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.

FTM6

Visione

Fotografia Transfigurativa Magazine

rivista periodica di cultura fotografica

n. 6 | aprile 2023

Direttore

Michele Palma

Redazione

Agostino Maiello | Stefano Montinaro | Andrea Virdis

Hanno collaborato a questo numero

Alessandro Mazzoli | Stefania Piccoli

4 editoriale di Michele Palma

6 copertina di Andrea Virdis

8 il libro Sarah Moon

Alchimie di Agostino Maiello

15 gallery Galleria Fotografica

AA.VV. (a cura di Stefania Piccoli)

36 appunti

La visione di Alessandro Mazzoli

38 l’autore

La visione di Mario Giacomelli, il maestro di Senigallia di Agostino Maiello

44 ritmi

Cinque Frammenti Utili

per coltivare una propria Visione (e vivere felici) di Stefano Montinaro

48 un minuto a mezzanotte

Di visioni da La Pizia

sommario

sono sempre rimasto affascinato da queste poche parole proprio all’inizio de “Il Piccolo Principe”. Immagino l’approccio timido di un bambino di sei anni al mondo dei grandi, approccio fatto di innocenti certezze prontamente sgonfiato dagli esperti della vita. In fondo era solo un boa che stava digerendo un elefante, manco a spiegarlo.

Ma il punto non è questo, qui si tenta di scrivere di fotografia, non di rapporti tra adulti e bambini, non di rapporti tra punti di vista autorevoli ed ingenui.

Trovo però questa scena davvero calzante se si tiene conto del vero scopo della fotografia ed in particolare dell’approccio transfigurativo.

Andiamo in giro per il mondo alla ricerca di particolari singolari, che ci incuriosiscono, che descrivono in quel preciso istante il nostro essere, un fatto, o semplicemente una scena che ci manifesta attrazione. Perché lo facciamo, ma soprattutto, come lo facciamo? Come riusciamo ad entrare in quella scena per strapparla via e portarla nel mondo?

Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: «Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?»

da “Il Piccolo Principe” - A. de Saint-Exupéry

Tempo fa in un commento su un social network lessi una frase che recitava più o meno così: «l’importante non è ciò che facciamo vedere, ma come lo facciamo vedere». In principio non ne ero rimasto particolarmente colpito; poi però mi la cosa mi è risuonata in testa così tanto da iniziare a prendere senso, anzi a sintetizzare un approccio senza tanti giri di parole, un po’ come direbbe un bambino. In effetti credo sia proprio una questione di approccio, quello reale, non quello fornito dalle ricette dei grandi esperti (in fotografia di maestri auto-celebrati ce ne sono davvero tanti) che cercano di conformare tutto ad un loro gusto, a loro tecniche, a loro attrezzature o peggio ancora a loro punti di vista.

Siamo di fronte alla semplice realtà incontrovertibile, la vediamo, ci fermiamo ad osservarla da varie angolazioni, la scrutiamo, la analizziamo, ad un certo punto la contempliamo e ci iniziamo un dialogo. Da quel momento non è più il nostro occhio che guarda ma il nostro cuore che inizia a sentire, complice della macchina fotografica.

Non facciamo una riproduzione della realtà, ma la sfruttiamo per creare un’immagine carica di messaggi che come “i boa, sia di dentro che di fuori” non va né spiegata né lasciata da parte; qualcosa che va oltre quel cappello; una visione.

Sarà proprio la visione il filo conduttore di questo numero.

Buona lettura.

4 editoriale
di Michele Palma
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Michele Palma, Oltre, Pesaro, 2022

Mario Giacomelli era fortemente legato alla sua terra, dedicò parte della sua vita alla ricerca di un linguaggio fotografico autentico che potesse stravolgere l’esteriorità della materia, esaltandone l’anima. La camera oscura era per lui un luogo sacro; lì dove sogno e realtà si incontrano, mediante le più svariate tecniche, Giacomelli riusciva a modellare il quotidiano, donando ulteriore bellezza al mondo attraverso le proprie visioni interiori. Un controllo assoluto dell’apparecchio fotografico, tanto che in molti casi il processo creativo iniziava direttamente in macchina al momento dello scatto.

Aveva la purezza di un bambino che gioca e crea il mondo.

La mia stessa città e la sua gente, guardati con la lente della poesia, mi sembrano modificate, stimolano nuove esperienze e nuove avventure, mi spingono in territori immaginari

In questo numero ho deciso di condividere con voi una splendida “visione” di Giacomelli, lo scatto fa parte della serie “La notte lava la mente, 1994/95”

Pur non manifestando una struttura nitida e ordinata, la foto riesce a tracciare una linea interpretativa ben definita sfruttando delle forme familiari e lasciandoci liberi di reinterpretare la scena grazie alle capacità immaginifiche della nostra mente.

Un viaggio tortuoso nell’intimità della psiche, una corsa frenetica nell’oscurità di un mondo oramai alterato e inospitale. Rapiti dal buio più profondo di un mare in tempesta che scuote l’anima, veniamo trascinati verso il chiarore di uno scoglio, la nostra casa, rifugio sicuro, ma capiamo subito che anche lei è disperata, alla deriva, in balia delle onde.

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copertina
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Mario Giacomelli, La notte lava la mente, 1994-95

di

Vediamo con gli occhi? In parte sì, è indubbiamente lì che avviene l’incontro tra l’esterno e l’interno, tra il mondo che ci circonda ed il nostro primo organo deputato a raccoglierne la presenza ed a tradurla in uno stimolo. Ma sappiamo anche che questa esperienza non si ferma al dato apparente: essa invece dà vita ad un percorso fatto di interpretazione, elaborazione, richiami, che avviene nel nostro cervello e lungo il quale si sviluppa un fenomeno complesso.

L’atto del fotografare è una pratica che parte dal mondo reale, cioè origina da qualcosa che stiamo osservando; qualcosa che catturiamo con uno strumento di ripresa, e che tramutiamo infine in una immagine finale, dove per finale si intende che è da noi considerata adatta ad essere proposta al pubblico - senza dimenticare che noi stessi siamo a nostra volta il nostro primo pubblico. Si tratta dunque di un processo circolare: il fenomeno osservato viene assorbito dal fotografo, e riversato in un risultato che ne è una riproduzione allo stesso tempo fedele ed infedele. Necessariamente fedele in quanto ancorata al dato di realtà - altrimenti non si starebbe parlando di fotografia; ma altrettanto necessariamente infedele, perché il filtro del fotografo, ancor prima di quello dell’osservatore, fa sì che avvenga - sempre, comunque, inevitabilmente - un processo di personalizzazione del dato reale, nel suo passaggio da frammento di mondo a fotogramma bidimensionale. Che la si chiami personalizzazione, alterazione, inter-

8 il libro
Alchimie
Sarah Moon, Pavone

pretazione, transfigurazione, l’essenza di fondo non muta, fermo restando che prendendo a punto di partenza uno qualunque di questi concetti si potrebbe poi sviluppare un discorso di affinamento e di precisazione della effettiva portata di ciascuno di essi. Non essendo questo il luogo di intraprendere tale riflessione, volgiamo piuttosto la nostra attenzione al termine filtro, sbrigativamente adoperato poco sopra per racchiudere in una sola parola quel complesso insieme di fattori (estetici, emotivi, tecnici, culturali, di esperienze e memoria…) che portano ciascun fotografo a vedere una scena in un certo modo, a fotografarla in un certo modo, ed ogni osservatore a leggerla in un altro modo ancora.

Ma cos’è un filtro? A pensarci bene è qualcosa che, attraversato da una materia, ne lascia passare una parte e ne blocca un’altra. Ne deriva che non può passare ciò che non era già presente in origine, e questo allora ci fa capire che il termine filtro non è il più adatto, perché un’altra delle cose che sappiamo è che la fotografia molto spesso costituisce un atto di scoperta, di disvelamento, dando sostanza ad una porzione di mondo che prima non esisteva e che inizia a sussistere proprio al compimento dell’azione fotografica tutta. C’è insomma una materia visiva su cui si proietta la formazione del fotografo per dare corpo ad una sostanza: l’immagine finale.

Allora non di filtro si tratta, ma esiste un termine adatto? Si potrebbe indagare il lessico, oppure no; teniamoci invece per buono filtro, ma con l’accortezza di tenere a mente quanto segue: che non si tratta di un mero separatore di materia, bensì di un’entità che agisce ad un livello più profondo, e che indirizza l’atto del fotografare affinché il suo risultato finale porti ad un appagamento del fotografo - il momento in cui l’autore licenzia l’opera, quantomeno in un dato istante.

Messa così, si potrebbe ben sostituire la parola filtro con la più ampia nozione di visione, che è per l’appunto il tema di questo numero. Diventa dunque quasi superfluo precisare, con riferimento al termine visione, che non si sta parlando solo di ciò che il fotografo vede quando scatta, ma di quell’insieme di elementi (palesi o latenti) che portano l’autore a scegliere di fotografare qualcosa e non qualcos’altro, di farlo in un dato modo e non in un altro, e di lavorare poi sull’immagine arrivando ad un certo risultato finale in favore di un altro. Una visione estesa, dunque, che va ben oltre lo stimolo oculare, e che abbraccia l’intero portato percettivo e creativo dell’autore.

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Sarah Moon, Il grido

Le Alchimie di Sarah Moon, fotografa francese classe 1941, prima modella, poi apprezzata fotografa di moda, infine (grossomodo dalla metà degli anni ‘80) impegnata in un percorso autoriale creativo ed affascinante, sono un esempio eccellente di come si possa formare e delineare uno specifico rapporto tra l’artista e la sua opera, di come la suddetta visione determini gli esiti artistici, consentendoci così di compiere una analisi a ritroso per indagare le relazioni e le dinamiche che hanno costituito il passaggio dal piano del contenuto a quello dell’espressione, per prendere a prestito con un po’ di ardimento termini che appartengono alla linguistica. Alchimie ci presenta una serie di immagini permeate di quella malinconia e di quella dimensione onirica che da anni costituiscono la cifra stilistica più evidente dell’operato della Moon. “Ma io vedo così”, rispose a chi, agli inizi, le contestava la scarsa nitidezza delle immagini. Così la Moon scoprì di essere “miope come una talpa”, ma questo non la portò a indossare gli occhiali per correggere il difetto ed iniziare a scattare foto nitide ed a fuoco; tutt’altro. La sua visione si è evoluta e consolidata negli anni, inseguendo una realtà fatta di ricordi, impressioni, desaturata dagli squillanti colori del presente e morbidamente affidata alle soffuse tinte marroni del passato (“i colori del ricordo”). E allora questa raccolta di immagini (in gran parte realizzate nel 2013 presso il Museo di Storia Naturale di Parigi) è una ricognizione ed un’esposizione con cui la Moon ci parla della vita e della morte, mostrandoci tra sgranature e sfocature ciò che non è più. Tassidermista e visionaria, evocatrice ed indagatrice, la Moon ci chiede di accompagnarla in una esplorazione dentro quegli spazi che navigano a metà tra ciò che si vede e ciò che si percepisce, un limbo fatto di visione (ancora) ed intuizione; un panorama di segni che ci accolgono pagina dopo pagina invitandoci a scavare al nostro interno per risolvere la loro funzione, tra gabbie e chiaroscuri, afflati di vita e oscure sfumature di solitudini.

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Sarah Moon, Linguaggio dei cigni Sarah Moon
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Sarah Moon, Balaeniceps rex
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Sarah Moon, La fine delle vacanze
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Sarah Moon, Il gabbiano
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Sarah Moon, Albero in gabbia

gallery

Selezione a cura di Stefania Piccoli

Fotografie tratte dalla pagina Facebook Fotografia Transfigurativa - The Gallery

Wojciech Karliński
Daniele Bonazza
Brian Zurich Rosetta Agliardi Emilio Fabrizio Bergantin Sergio Dalle Ave Kelly Stefania Piccoli Ottavia Gori Rodolfo Rubagotti Michele Caputo Giuseppe Leonardi Marzia Bernini Rosita Percacciuolo Francesco Barillaro Marco De Persis Angelo Casoni Pier Paolo Tralli Mimmo Summa Salvo Valenti
Fil Oc

La visione

Per fare un prato ci vuole del trifoglio / e un’ape, un trifoglio e un’ape / e sogni a occhi aperti. / E se saran poche le api / basteranno i sogni.

Mi appoggio a questi versi di rara chiarezza della poetessa americana Emily Dickinson, come ad un bastone, per un breve cammino alla ricerca di una definizione che mi capita spesso di utilizzare, quando guardo una fotografia, e soprattutto quando un’immagine mi trasmette un senso, una sensazione di sospensione, un inganno del tempo, un frammento di sogno “fermato” dallo sguardo dell’autore.

La visione, il legame poetico con le cose, spesso inafferrabile, se lo sguardo non è libero dalla volontà oggettivante, dal progetto, da una volontà di ricerca che risulta coatta, vincolante.

Quante uscite, carichi di intenzioni, che non hanno condotto alla realizzazione di una sola immagine, come un cieco a occhi spalancati, cieco nell’immaginazione di una immagine, cieco nella visione, come se l’occhio guardasse un film accelerato e non riuscisse a soffermarsi nemmeno su un fotogramma. Un film che inizia al risveglio, che apre gli occhi e termina nel sonno, quando i sogni arrivano liberi dalla coscienza. Lasciarsi andare al flusso dello sguardo, coscienti e incoscienti al contempo, posare l’attenzione sul mondo come l’ape si posa sui fiori.

36 appunti
di Alessandro Mazzoli Michele Palma, Fano, 2022

Come sottolineava uno dei nostri padri tutelari, l’immancabilmente citato maestro Luigi Ghirri, in una delle sue lezioni di fotografia, “Dimenticare se stessi non significa affatto porsi come semplici riproduttori, ma relazionarsi col mondo in una maniera più elastica, non schematica”.

Essere visionari, essere transfigurativi, soprattutto “essere”, senza l’ossessione della volontà, assecondando il difetto, l’apparizione, i bagliori e le vignette di una Holga, angoli di mondo dimenticati, trovare la foto nascosta in ogni cosa, non cercare per forza qualcosa di notevole, rendere notevole anche un’ombra, facendosi bastare il sogno. Le api sono quasi sempre poche, e noi camminiamo ad occhi aperti, ma a mente chiusa, il prato è sotto di noi anche nella stessa strada della nostra città. La visione, l’intuizione artistica, a seguire lo stile e quello che della tecnica serve a trasferire l’impressione dal momento dello scatto al momento dell’epifania, quando l’immagine si manifesta a noi e da noi torna nel mondo.

E qui mi fermo. Un appunto breve per un tema fondamentale, quello che mi ripeto ogni volta che cerco di capire se quello che faccio ha un senso. E, per fortuna, qualche volta lo vedo.

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Lou Bernstein, Untitled, 1947

l’autore

La visione di Mario Giacomelli, il maestro di Senigallia

Il tema della Visione che anima questo numero della rivista può essere declinato in molti modi, dei quali il più prossimo alle intenzioni che ci siamo poste lo significa come relazione che intercorre tra l’artista e la sua opera. Ci siamo interrogati, in altre parole, su quale fosse il rapporto che, ad opera compiuta, si instaura tra il fotografo e le sue immagini: non, dunque, la visione cui l’autore si affida per produrre l’immagine, bensì ciò che nasce dopo, e che articola e descrive come si pone il fotografo dinanzi alla sua immagine al termine del processo creativo.

Questo era lo spirito del nostro indagare, pur nella consapevolezza di quanto il termine visione, senza altre connotazioni, non fosse pienamente adeguato a trasmettere l’intero significato che ambivamo a dargli. Ma tant’è; ed avendo in mente questa premessa, ci è parso proficuo volgere la nostra attenzione ad uno degli autori più significativi del panorama nazionale, quel Mario Giacomelli (Senigallia, 1925 – Senigallia, 2000) fotografo e pittore, che con tanta intensità e coerenza si è dedicato alla ricerca ed alla rielaborazione della materia del mondo, partendo da quelli che lui chiamava prelievi del reale per poi, con uno straordinario lavoro in camera oscura, arrivare alla creazione di immagini-simbolo che, originandosi nel suo vissuto, assumono un valore universale.

“Il fotografo pro-duce l’immagine, nel senso etimologico che la porta fuori, se la tira fuori dalle viscere del suo vissuto per renderla a lui visibile, per questo lui stesso si definisce spettatore, e lo fa seguendo una struttura precisa, il suo metodo ritualizzato. È questo suo essere artefice-spettatore che rende Giacomelli contemporaneo: nell’abbandono dell’Oggetto, così come dell’intervento puramente

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Mario Giacomelli, ph Roberto Tagliabue, anni ‘90

soggettivo, l’artista si ritrova di fronte al suo operare creativo come di fronte a uno specchio” (Katiuscia Biondi, “Mario Giacomelli. Sotto la pelle del reale”, Ed. 24 Ore Cultura 2011): bastano queste poche righe per definire con nettezza il presupposto della nostra analisi; e l’investigazione sul suo essere artefice-spettatore (appunto la sua visione, nell’accezione che ne abbiamo data all’inizio) si è sviluppata grazie alla disponibilità di Simone Giacomelli, figlio di Mario e direttore dell’Archivio Giacomelli, https://www.archiviomariogiacomelli.it/ , istituito nel 2003 e gestito dagli eredi al fine di custodire e mantenere l’opera e il patrimonio di Mario Giacomelli.

Simone, sono passati oltre vent’anni dalla scomparsa di tuo padre, eppure il suo archivio ci continua ad offrire tesori e scoperte, tra fotografia e pittura. Quando hai iniziato a curare l’archivio ti aspettavi qualcosa del genere, cioè che i suoi lavori potessero diventare quasi un’opera permanente, un corpus in continuo divenire?

In effetti sì, una mezza idea me l’ero fatta quando mia sorella Rita ed io abbiamo dovuto stilare un primo inventario. Il materiale era ed è tantissimo, tra stampe, provini, negativi, negativi non lavorati. Nel tempo, con lo studio ed una ricerca più approfondita, questa consapevolezza è aumentata. Il suo essere stato non solo un fotografo ha reso lo studio ancora più particolare e profondo. Nostro padre ha un po’ sovvertito le regole ed accresciuto il senso ed i significati della simbologia collettivamente riconosciuta; nel suo lavoro di costruzione dell’immagine ha ulteriormente alimentato l’immaginario collettivo, e questo rende l’analisi del suo lavoro una sfida continua. Ho l’impressione che sarà un lavoro infinito, visto che la ricerca comporta dei tempi molto lunghi, anche data la mole così ampia di materiale: lasceremo sicuramente qualcosa da fare a chi verrà dopo!

Proprio a proposito di questo, in riferimento alla sua attività di pittore, c’era a tuo parere una differenza sistematica di approccio tra le due forme espressive? Nel senso: sceglieva razionalmente volta per volta quale pratica utilizzare, oppure si lasciava guidare dall’istinto e dall’emozione del momento?

Tra la sua fotografia e tutta la parte pittorica ci sono delle similitudini. Ad esempio, l’uso di alcuni segni caratteristici della fotografia lo ritroviamo anche nelle sue opere pittoriche, l’affidarsi agli stessi simboli, la tendenza a trasformare il soggetto in oggetto; e poi il suo voler indagare la materia – giocandoci, conoscendola… un tratto tipico del suo essere un pittore materico, e che in fotografia si articola nel suo tipico bianconero sgranato. Ma penso anche al concetto di tempo, reso con gli strumenti dello sfocato e del mosso in fotografia ma in maniera simile anche nella pittura. Mosso e sfocato erano uno dei suoi modi di interpretare il

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Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1966/68

tempo, con un’immagine ferma e qualcos’altro che si muove al suo interno, proprio per dare il senso dello scorrere del tempo. Era un po’ il suo trauma, lo ha sempre chiamato il flusso traumatico del tempo; lo ha sempre studiato e cercato di esprimere. Insieme alle similitudini che ho menzionato ci sono poi delle differenze. In generale ti direi che ad un certo punto ha scelto la fotografia come mezzo preferenziale, perché la pittura aveva uno spazio più personale e più intimo. Lui viveva i suoi dipinti come un qualcosa in cui c’era un flusso dal mondo verso l’artista, senza che si risolvesse un vero riscontro verso l’esterno. Questo lo consumava emotivamente e non solo, ricordo che iniziava a dipingere e non smetteva finché il quadro non fosse finito, anche privandosi del sonno… Ad un certo punto si è reso conto che nella pittura non vedeva una possibilità di comunicazione con l’esterno, a differenza di quanto riuscisse a fare con la fotografia. Perciò, dopo tanti anni di convivenza tra i due canali espressivi alla fine ha prevalso la fotografia, anche perché gli consentiva di partire dal reale, da qualcosa di riconosciuto o almeno riconoscibile. Per lui era fondamentale avere come punto di partenza un segno o una materia che incontrava tutti i giorni, non a caso fotografava moltissimo tutto ciò che era intorno a noi, qui a Senigallia. Credo che questo sia stato ciò che gli ha fatto scegliere la fotografia: quando ha rinunciato all’illusione di poter trasmettere un messaggio univoco attraverso le immagini, infatti, ha potuto liberare completamente il suo modo di fotografare, per conquistare uno spazio unico come fotografo e artista. Tanti altri artisti sono unici, ciascuno a suo modo, ma indubbiamente la fotografia di Mario Giacomelli è stata molto particolare. È una fotografia che crea domande, dubbi, riflessività; non è mai una fotografia bella che ti trovi davanti con la risposta già definita.

Rispetto ai tempi in cui lavorava, il mondo della fotografia è cambiato enormemente. Oggi tutti scattiamo fotografie, spesso con gli smartphone, e moltissime vengono condivise immediatamente. Ti sei mai chiesto se tuo padre fosse vivo oggi come scatterebbe? A me viene da pensare che, in quanto sperimentatore, non si sarebbe trattenuto dal provare le nuove tecnologie e scatterebbe tranquillamente anche con un telefonino, rimanendo sé stesso, divertendosi senza pregiudizio…

Cerco sempre di non pensarci, perché non so darmi una risposta. Papà diceva sempre che una volta che si fosse rotta la sua macchina fotografica avrebbe smesso di fotografare. Però credo anche io che non avrebbe rinunciato a provare alcune cose, per esempio la fotografia col drone. Lui era molto attratto dalla fotografia aerea ma per una serie di motivi ad un certo punto ha dovuto rinunciarvi – anche perché sull’aereo non ci andava di persona, ci mandava qualcuno con le sue indicazioni. Invece, chissà, con un drone avrebbe potuto scattare, magari guidandolo lui stesso!

Un altro aspetto è quello delle possibilità di elaborazione del digitale, che credo gli avrebbero consentito di costruire delle immagini che non avrebbe potuto realizzare in camera oscura.

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Mario Giacomelli, Paesaggio, 1990

Insomma, penso che si sarebbe divertito. Ma soprattutto penso che, se fosse vissuto nel presente, avrebbe viaggiato di più – magari portandoci con lui – andando alla scoperta del mondo e di quei segni che tanto lo interessavano ed incuriosivano.

Be’, vi ha fatto viaggiare in un altro modo. A voi figli ma anche a noi! Quello sì, anche perché a livello personale posso dirti che il rapporto tra me e lui è sempre passato attraverso l’arte, che fosse fotografia, pittura, poesia… Quindi io adesso mi ritrovo con una specie di diario che costituisce il nostro vissuto ma che lui non ha mai espressamente spiegato, perché ha sempre preferito parlare per immagini. È la fotografia che gli ha consentito di realizzarsi come artista ma anche come persona; ad un certo punto le immagini hanno agito sul suo modo di essere, era lui che componeva immagini ma allo stesso tempo le immagini componevano lui. Alla fine, è diventato un po’ il prodotto del suo lavoro.

Vi è mai capitato di confrontarvi su una sua fotografia e di darne due letture totalmente diverse?

Sì, sempre! Considera che ho iniziato nel 1984 ad aiutarlo nella composizione delle serie, ai tempi de “Il Teatro della Neve” e di “Ho la testa piena mamma”; la poesia di Permunian, insomma. Quella fu la prima volta che mi invitò a partecipare alla composizione di una serie, ed era un modo come un altro per stare insieme e conoscerci. Andando avanti in questo lavoro ci siamo sempre confrontati sulle immagini, anche perché per comporre le serie lui creava delle pile di fotografie già stampate, anche già usate in altri progetti, e quindi ogni volta che sceglievo un’immagine io gli dovevo dire perché sceglievo quella, e vedere se era d’accordo. Oppure la sceglieva lui e chiedeva a me se io fossi d’accordo.

Faceva così anche con i testi poetici che adoperava per accompagnare le serie, quando negli anni ’90 nascevano quasi insieme, mentre in passato i testi venivano dopo le fotografie. Me li faceva leggere dicendo che ero l’unico, ma sapevo che non era così: li dava a tante persone per avere spunti e pareri da amici, fotografi, poeti.

Come padre e figlio potrei dire che avevamo un inconscio condiviso e questo in un senso ci avvicinava, ma poi questa comunanza veniva meno quando le sue immagini si collegavano al suo vissuto, e questo le rendeva autonome. Me ne accorgo spesso osservando le persone che vengono a visitare le mostre, ne escono con una sensazione di un dialogo iniziato, fatto di domande che galleggiano durante la visita. Una reazione alle immagini di Giacomelli alla fine ce l’hai sempre, anche se sei contrario, anche se l’immagine ti scava dentro contro il tuo volere. Il nesso col suo vissuto ha fatto sì che a suo tempo io a volte non capissi alcune cose; molte le ho comprese solo in seguito, per esempio come quando ha tradotto in una serie di

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Mario Giacomelli, Storie di terra, 1984

immagini ciò che provava quando andai a vivere altrove lasciando la casa paterna: questo non mi fu immediatamente chiaro. In quanto fotografo, cercava di universalizzare il suo sentire, ed io forse riesco ad interpretarlo adesso che ne ho i mezzi, ma all’epoca non era così immediato. Del resto, neanche quando parlava era chiarissimo: era una persona che ti chiedeva continuamente di interpretarlo. Questo nelle sue immagini accade di frequente, vedi delle cose che non riesci a decifrare subito, anzi a volte dire troppe cose su un’immagine la impoverisce; quindi, deliberatamente lavorava per rendere il messaggio più spiazzante e fumoso.

Era dunque questo un po’ il senso della sua visione, del suo rapporto con le sue opere: non “faccio qualcosa e poi valuto cosa ne pensano gli altri”, bensì “produco qualcosa anche confrontandomi con l’esterno, per poter poi essere io a guardare cosa ho fatto ed articolare una relazione con la mia opera”. Sì. Non aveva l’obiettivo di comunicare, di instaurare un dialogo tra lui e l’osservatore: il dialogo che lui cercava era tra la foto e chi l’avrebbe guardata. Spesso, a stampa finita, si metteva a contemplarla, ed era un po’ come se la vedesse per la prima volta. Quello era il momento in cui iniziava un dialogo; un dialogo che rendeva e rende viva l’immagine, e che durava molti anni.

Comunque, nonostante questa particolarità, questo carico personale, le sue esposizioni hanno molto successo anche presso un pubblico molto giovane, tra chi si è da poco avvicinato alla fotografia. Probabilmente proprio per la loro capacità di andare oltre l’apparenza e di agire su un piano emozionale, più profondo. Sì, sicuramente c’è qualcosa che non possiamo nemmeno spiegare senza rischiare di impoverire o uccidere la fotografia. Come diceva lui, “se io spiego l’immagine, l’immagine muore”.

Il fascino delle foto risiede proprio nel persistere della domanda. Le sue sono immagini che non hanno limiti di tempo o di spazio. Ricordo un’esposizione in Corea dove le persone si sono commosse davanti alle fotografie del bambino di Scanno o di Lourdes, nonostante la distanza culturale… ricordo un montatore che addirittura cadde in ginocchio in lacrime, in qualche modo questa immagine gli aveva stimolato una connessione con un’esperienza del suo vissuto. E mi viene in mente come il pubblico degli USA si relazionava, specie dopo l’11 settembre, con immagini fastidiose, dolorose, penso alle fotografie dei mattatoi, degli ospizi... Argomenti dai quali di solito ci teniamo lontani.

In fondo tutti abbiamo una sensibilità di fondo condivisa, in quanto umani.

Sì. Seppur si tratti di fotografie degli anni ’50, possono risuonare anche nella sensibilità di

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Mario Giacomelli, Scanno, 1957/59

un ragazzo del 2003, anzi il più delle volte è il pubblico femminile ad entrare in sintonia con le immagini. Giacomelli è stato un autore che ha ribaltato e sovvertito molte regole e codici del linguaggio fotografico, ed i giovani per inclinazione hanno piacere a sperimentare cose nuove; dunque, possono riconoscere quei segni perché sono ormai condivisi e parte del patrimonio comune, sono simboli senza limiti di tempo e latitudine. Anche se René Burri, suo amico, gli diceva “Tanto tra 5000 anni ci saremo dimenticati di tutto e tutti!”

Un altro aspetto del loro fascino è il non essere (volutamente) perfettine ed educate, se mi passi l’espressione. Esatto, lui non era interessato alla fotografia come documentazione precisa di qualcosa, tutt’altro.

Si potrebbe dire che alla fine l’imperfezione rende ogni immagine unica, e quindi proprio per questo più simile alla realtà, che è sempre diversa nel suo non essere seriale. Spesso diceva “io faccio un prelievo, vado sotto la pelle del reale”, ma poi quella materia che estraeva era sottoposta al suo intervento, ed era quella la parte più importante della creazione. Grossomodo direi che l’80% della sua fotografia nasceva in camera oscura. Era un bravissimo stampatore – del resto aveva iniziato così, aveva stampato anche per Cavalli

ma ben presto si rese conto di non essere interessato alla “bella foto”, tecnicamente ben composta e bilanciata, e voleva andare oltre. Ricordo che scherzava a proposito dei puntini di polvere sulle fotografie: “Perché devo toglierli? È questo il bello della fotografia…”

Ti avrei voluto chiedere chi è secondo te oggi la tipologia di pubblico più vicina alle opere di Giacomelli, ma in un certo senso mi hai già risposto, accennando alla prevalenza del pubblico femminile…

Sì, tra i giovani è così. Ma più in generale direi che non ci sono vincoli di età, le sue fotografie sono per chiunque voglia sfuggire al bombardamento quotidiano delle immagini e sia in cerca di una relazione d’amore con una fotografia, senza paura. Anche perché le immagini alla fine non ci parlano più solo di Giacomelli, ma ci parlano di noi stessi. Ed allora ci vuole il coraggio di affrontarle.

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Mario Giacomelli, Il teatro della neve, 1984/86

Cinque Frammenti Utili per coltivare una propria Visione (e vivere felici)

Daidō Moriyama | Corporea

Per me, cogliere ciò che sento con il mio corpo è più importante dei tecnicismi della fotografia. Se l’immagine è mossa, va bene, se è fuori fuoco, va bene. La chiarezza non è l’obiettivo della fotografia.

Di frequente, nelle parole di Moriyama, il vagabondaggio appare il motivo su cui poggiare tutto. La ricerca dell’incontro nel senso più propriamente transfigurativo del termine.

Quando giro in città, non ho un piano. Cammino in una strada e quando mi viene voglia di girare l’angolo in un’altra, lo faccio. In realtà, sono come un cane: decido dove andare in base all’odore delle cose e, quando sono stanco, mi fermo.

La predisposizione del corpo.

Mettere in gioco il proprio stato nell’interezza delle sue espressioni.

Quando scatto fotografie, il mio corpo entra inevitabilmente in uno stato di trance. Percorrendo alacremente i viali, ogni cellula del mio corpo diventa sensibile come un radar, in grado di reagire alla vita delle strade... Se dovessi trovare delle parole, direi: “Non ho scelta... devo scattare... non posso lasciare questo posto agli occhi di un altro... devo scattare... non ho scelta”. Un infinito, cantilenante ritornello.

44 ritmi
di Stefano Montinaro Daidō Moriyama, Hunter, 1997

Dick Fosbury | Capovolta

Il ragazzo si romperà il collo. Dick Fosbury, scomparso di recente, è l’inventore della tecnica che ha rivoluzionato il salto in alto. Le sue gambe piuttosto fragili non gli permettevano di avere grossi risultati nella specialità. Pensò quindi a ciò a cui nessuno aveva mai pensato: saltare all’indietro anziché in avanti, come si era sempre fatto. Vinse le Olimpiadi del 1968 e da allora tutti saltano come lui.

Mi è stato detto più e più volte che non avrei mai avuto successo, che non sarei stato competitivo e che la tecnica non avrebbe funzionato. Tutto quello che potevo fare era scrollare le spalle e dire: “Vedremo”.

Non mi sono allenato per entrare nella squadra olimpica fino al 1968. Mi sono semplicemente allenato per il presente.

Garry Winogrand | Compulsiva

Se non hai scattato la foto, non c’eri. Forse questa la sintesi più giusta, anche se parziale, della visione di Winogrand. Una visione che lo porta a percorrere ossessivamente chilometri sulle strade, scattando senza soluzione di continuità, senza curarsi nemmeno delle immagini che effettivamente produce.

Una visione che non racchiude in sé alcun contenuto specifico, se non quello di esserci, scattare il qui ed ora senza distrazioni.

Non ho nulla da dire in nessuna foto. Il mio unico interesse per la fotografia è vedere come appare qualcosa in una fotografia. Non ho preconcetti.

Per me il vero compito della fotografia è catturare un po’ di realtà (qualunque essa sia) sulla pellicola... se poi quella realtà significa qualcosa per qualcun altro, tanto meglio.

Alla sua morte, decisamente prematura, lascia un patrimonio di diversi milioni di immagini, una cospicua quantità delle quali ancora contenute in rullini mai sviluppati.

Sai, non credo proprio che si impari dagli insegnanti. Si impara dal lavoro.

Penso che ciò che si impara, in realtà, è come essere... devi essere il tuo critico più severo, e lo impari solo dal lavoro, dal guardare il lavoro.

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Garry Winogrand, New York, 1961

Tōru Iwatani | Preterintenzionale

Nei discorsi di Tōru Iwatani, ideatore e progettista del più leggendario tra i videogiochi, PacMan, si rintraccia spesso l’idea di una visione che porta ad un risultato più ampio rispetto al suo punto di partenza. Nel 1980, anno del primo rilascio del gioco, le sale da gioco erano appannaggio pressoché esclusivo di uomini appartenenti a una fascia d’età piuttosto ristretta. L’obiettivo di Iwatani era quello di espandere le potenzialità commerciali dell’azienda per cui lavorava (Namco), portando per la prima volta un pubblico femminile a varcare la soglia di quei luoghi spesso non particolarmente curati, anche dal punto di vista igienico.

Ero lì che mi chiedevo che tipo di cose cercassero le donne in un videogioco. Mi sono seduto nei caffè e ho ascoltato ciò di cui parlavano. [...] Poi hanno iniziato a parlare di cibo, di torte, di dolci e di frutta, e mi è venuto in mente che il cibo e il mangiare sarebbero stati l’argomento su cui concentrarsi per attirare l’interesse delle ragazze.

Una visione obiettivamente alquanto discutibile e ristretta, piuttosto sessista, molto giapponese. Una visione che, forse suo malgrado, ha prodotto Pac-Man, il mangia fantasmini.

Jacob Aue Sobol | Istintiva

La cosa più difficile per me è fotografare da lontano.

Un approccio in cui è lo stomaco a farla da padrone. Il tessuto emozionale interno diventa un tutt’uno con la grana abrasiva delle sue immagini.

Ho deciso che per me la fotografia doveva essere qualcosa che potevo sentire. Potevo sentirla nel mio stomaco. Non potevo scattare foto che non fossero collegate alla mia vita interiore.

C’è un’immensa quantità di amore nell’istinto di Sobol, lo stesso amore che riempie di esasperazione il suo bianco e nero.

Quando fotografo, cerco di usare il più possibile il mio istinto. È quando le immagini sono sconsiderate e irrazionali che prendono vita; che si evolvono dal mostrare all’essere.

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Jacob Aue Sobol, By the River of Kings, 2016
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Jacob Aue Sobol, By the River of Kings, 2016

un minuto a mezzanotte

da La Pizia

Di visioni

Il fotografo coltiva una visione. Nel corso della sua carriera questa lo veste, lo protegge, lo riscalda, gli sta addosso come una pelliccia. Una pelliccia di visione...

La visione è una pellicola, un sottile strato impressionabile posto tra noi e gli altri; un involucro traslucido, come una pelle che ci contiene, ci protegge e funge da interfaccia col mondo esterno, spartiacque tra il dentro e il fuori, tra sogno e realtà, tra visibile e invisibile. Il filtro autoriale entro cui accogliere stimoli grezzi (pulsionali, sensoriali, percettivi), per convertirli in rappresentazioni simboliche compiute.

La visione ha a che fare con lo stile, ed è strettamente legata all’identità. Possiamo modularla, farne strumento di autenticità, di mediazione emozionale, oppure, al contrario, usarla come una stereotipia bloccata, ripetitiva e furbetta. Peggio ancora, possiamo annacquarla, stemperarla in rivoli di compiacenza, stravolgerne i connotati per asservirla di volta in volta agli umori del pubblico: come indossare un’identità multipla, mutevole, schiacciata su una sterile e disperante ricerca di consenso.

Una cosa è esplorare vie diverse, nuovi linguaggi e canali espressivi, altra è tradire la sintonia profonda che si stabilisce tra autore e fruitore. Perché la visione non è mai solo un fatto privato. Una volta rese pubbliche, le nostre fotografie entrano nell’immaginario di chi si affida al nostro sguardo. Entrano nella sua visione.

Per non tradire questa fiducia occorre accettare la rinuncia, coltivare il senso del limite, resistere alle seduzioni narcisistiche, definirsi dentro una pelle che tenga insieme in modo coerente le tessere della nostra poetica.

La visione è una dimensione di frontiera tra il somatico e lo psichico. La relazione carnale tra il fotografo e la sua camera si fa volano di derive creative che solo all’interno di quel profondo legame psicosensoriale trovano la loro piena realizzazione.

Anche la fotocamera possiede una propria visione, con cui bisogna fare i conti. Chi sostiene che l’immagine debba formarsi prima nella mente, e che la macchina sia solo un mezzo, mortifica la fotografia, la scortica, le stacca la pelle; infligge una innaturale cesura tra parti che per loro natura devono restare indivise, parimenti impegnate in un processo che trova il suo senso ultimo in un incontro tra diverse visioni.

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