Fotografia Transfigurativa Magazine - N.7 Luglio 2023

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FT

rivista periodica di cultura fotografica

n. 7 | Luglio 2023

FOTOGRAFIA
MAGAZINE 7
Photography
TRANSFIGURATIVA
Transfigurative

FTM7 Maestro

Fotografia Transfigurativa Magazine

rivista periodica di cultura fotografica

n. 7 | luglio 2023

Direttore

Michele Palma

Redazione

Agostino Maiello | Stefano Montinaro | Andrea Virdis

Hanno collaborato a questo numero

Ottavia Gori | Alessandro Mazzoli

4 editoriale

L’urgente bisogno di Michele Palma

6 copertina di Andrea Virdis

8 il libro Karl Blossfeldt

The Complete Published Work di Agostino Maiello

15 gallery

Galleria Fotografica

AA.VV. (a cura di Ottavia Gori)

36 appunti di Alessandro Mazzoli

38 l’autore

Maestro? Per carità!

Una Conversazione con Angelo Raffaele Turetta di Agostino Maiello

44 ritmi Miyagi dice di Stefano Montinaro

46 un minuto a mezzanotte

Il maestro è nell’anima da La Pizia

sommario

L’urgente bisogno

La fotografia è una cosa grandiosa, ne rimango continuamente stupito, un mondo davvero sconfinato. Solo da pochi anni ho iniziato ad approcciarlo seriamente e mi accorgo che ogni giorno c’è qualcosa di nuovo da scoprire. Com’è possibile visto che si tratta di un processo davvero semplice, quasi banale. Luce che colpisce un sensore o una pellicola che la immortalano per l’eterno. Basta un soggetto illuminato e il gioco è fatto.

L’essere umano, nella sua creatività, arricchisce tutto questo con un’infinità di contenuti resi possibili da strumenti, tecniche e strategie; in questo oceano tanti professori si pongono l’obiettivo di insegnare cos’è o come fare fotografia. Sembra che si voglia complicare una cosa semplice, renderla talmente artificiosa da togliere al fotoamatore la possibilità di gestirla con naturalezza, salvo poi, per contro, offrirgli tecnologie in grado di fare foto bellissime solo pigiando un tasto.

C’è chi ti insegna a scattare con tempi ultrarapidi così da riuscire a congelare la goccia d’acqua sospesa o fermare il mitico palloncino mentre scoppia, oppure con tempi lenti così da riuscire a bloccare la corsa di una velocissima automobile facendo muovere tutto lo sfondo. Altri ti insegnano ad usare perfettamente le luci, i flash, per ottenere l’effetto Rembrandt o cercare di simulare le meravigliose illuminazioni caravaggesche. Poi gli utilissimi insegnamenti su come eseguire un bellissimo ritratto, come far mettere in posa un soggetto, come farlo sentire a suo agio.

Per non parlare della valanga di insegnanti che ti spiegano le tecniche di Photoshop, complesse ma davvero efficaci per “rendere le tue foto più belle” e per dare “alle tue fotografie una marcia in più” [cit.dal web]. Tutto questo attraverso i canali internet, o attraverso corsi, scuole, workshop.

Insomma, per tutto c’è un libretto di istruzioni e per ogni materia un professore.

Appartenendo alla categoria dell’essere creativo, ho messo in pratica molti insegnamenti, sperimentato tanti consigli, eseguito tante istruzioni e seguito alcuni professori. Lo ammetto, mi sono davvero divertito ed ho fatto foto bellissime, ma come ogni sfida, raggiunto lo scopo finisce la gara. Poi? Sono sempre rimasto con un vuoto.

Anche io ho i miei punti di riferimento, alcuni autori mi ispirano più di altri, acquisto libri di fotografi dai quali mi nutro, non solo di fotografie, ma anche di testimonianze di interviste e di scritti. Sono autori che non propongono particolari virtuosismi o immagini ammiccanti, ed allora mi chiedo: “cosa mi possono insegnare?”.

4 editoriale
di Michele Palma

Qualche tempo fa sono andato a trovare Simone Giacomelli, per ringraziarlo personalmente dell’intervista che ha arricchito lo scorso numero della rivista. Ho conosciuto una persona davvero speciale. Abbiamo fatto una bella chiacchierata e, siccome di fotografia praticata non ne sa quasi niente, il protagonista è stato il grande Mario, sul quale Simone mi ha raccontato decine di aneddoti, di storie, di particolarità riguardanti il fotografo e l’uomo. Niente di preparato, solo risposte estemporanee alle mie incalzanti domande e infinite curiosità. L’incontro con Simone è stato illuminante.

Attraverso la sua testimonianza mi ha reso chiaramente presente il padre Mario. Raccontandomi la sua vita me lo ha fatto sentire vicino, desideroso di ambire al suo sguardo ed ancor più voglioso di seguire la mia passione.

L’incontro con la vita e le opere di Mario Giacomelli mi fa capire di più la fotografia nella sua essenza. Nonostante non sia più tra noi, la sua azione testimoniata lo rende maestro oltre il suo tempo.

Un amico mi disse “quando l’allievo è pronto, il maestro appare” [cit.], verissimo, ma da oggi aggiungerei che “il maestro appare solo quando l’allievo lo riconosce”.

Non sento il bisogno né di insegnanti né di professori, ma solo di maestri

Sarà “maestro” il filo conduttore di questo numero.

Buona lettura

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Michele Palma, Archivio Mario Giacomelli, Senigallia, 2023

Potrei pensare alla figura del maestro come al più grande allievo della vita, una persona umile e carismatica sempre aperta all’apprendimento e al cambiamento, mossa da un costante desiderio di miglioramento; un vero e proprio mentore che attraverso le proprie opere è in grado di stravolgere e ispirare l’opinione pubblica suscitando continuo interesse e ammirazione. Il connubio “maestro - fotografia” riporta alla mente i volti di innumerevoli fotografi: Adams, Bresson, Watkins, Ghirri, Shore e tanti altri. Appare chiaro quindi che la scelta per la copertina di questo numero sia stata piuttosto ardua. Da qui la decisione di mettere da parte razionalità e influenze esterne per lasciarmi guidare dall’istinto più puro e genuino.

Il cuore ha subito esclamato “Walker Evans”. Nato a St. Louis (Missouri) nel 1903, Evans è stato forse il principale avanguardista della fotografia documentaria. Tramite un approccio oggettivo ha saputo raccontare in modo realistico e critico le condizioni sociali di una delle epoche più buie per l’America (la Grande Depressione 1929 - 1939), catturando la verità e l’autenticità dei luoghi e delle persone, senza alterare artificiosamente la scena. Ha dato risalto alle criticità e alle ingiustizie sociali di quegli anni, prestando particolare attenzione ai dettagli degli ambienti e curando sapientemente la composizione dell’immagine, in modo da restituire allo spettatore la sensazione di rivivere quei luoghi, di respirarne l’aria e di percepire il disagio sociale di quel difficile momento storico, come in una travolgente overdose di empatia.

Il grande “maestro” Evans ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama fotografico mondiale. È stato ed è tuttora fonte di ispirazione per altrettanti maestri della fotografia.

Lo stesso Ghirri esternò più volte la propria ammirazione per Evans, spendendo per lui parole di profonda stima e gratitudine.

Questa foto, scattata nel 1945, è per me la rappresentazione visiva di una voce narrante che manifesta ricordi di intimità, cura e amorevolezza. Le fotografie appese al capezzale del letto sono l’emblema della potenza mnemonica del lavoro di Evans, incarnano l’essenza del suo linguaggio e annullano i confini del singolo scatto evocando ulteriori scenari.

Siamo di fronte al quadro di una vita mite e semplice, un’esistenza che si nutre di rimembranze e fede.

Un luogo di pace aperto a chi è in grado di identificarsi anche solo per un istante in una pelle non sua, a chi per un attimo riesce a stendersi su quel letto, instaurando una connessione emotiva con ogni singolo elemento. Persino la cornice storta, nella sua imperfezione, aggiunge un tocco di verità e bellezza.

Tutto è umile, tutto è al suo posto, tutto è perfetto così com’è, sospeso, eterno.

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copertina
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Walker Evans, Untitled, 1945

The Complete Published Work (ed. Taschen)

Cinquecento e passa pagine di fotografie di piante: più che bastevoli a sconfiggere la più tenace delle insonnie, si direbbe. Eppure, l’opera di questo distinto gentiluomo tedesco, maestro di professione, mai dichiaratosi fotografo e men che meno artista, a quasi un secolo di distanza dalla pubblicazione del suo “Forme originarie dell’arte” (1928), primo di tre libri di cui uno postumo, è ancora imprescindibile per comprendere appieno le dinamiche evolutive di gran parte della fotografia del ‘900.

Siamo nei primi decenni del secolo scorso, il pittorialismo è ormai alle corde, oltreoceano sono all’opera Stieglitz, Adams, Weston, il gruppo F/64; nel Vecchio Continente le avanguardie e la Nuova Visione di Moholy-Nagy stanno dispiegando appieno i loro effetti sul panorama espressivo europeo.

La fotografia non è più ancella della pittura, ha una sua dignità di pratica espressiva autonoma, e questo libro di Blossfeldt (pubblicato quasi per caso, parrebbe su iniziativa di un gallerista di Berlino), insieme ai lavori del contemporaneo Renger-Patzsch, segna uno snodo essenziale nello sviluppo della storia della fotografia – e perciò anche, indissolubilmente, nella storia dell’arte.

I due autori finiranno presto col diventare entrambi simboli della Nuova Oggettività, la corrente artistica che per circa un quindicennio ha largamente influenzato l’arte tedesca e non solo su più fronti (pittura, cinema, architettura). Un esito che dubitiamo lo stesso

Blossfeldt abbia mai prefigurato; del resto la notorietà lo raggiunse tardi, quando già aveva oltrepassato la sessantina. Sarebbe mancato di lì a poco, nel 1932, comunque in tempo per venire scoperto: “la sua modernità e la sua precisione nel dettaglio affascinano i fotografi delle avanguardie, che guardano al suo lavoro come a un esempio imprescindibile. Moholy-Nagy

8 il libro
di Agostino Maiello

lo invita alla mostra Film und Photo del 1929 a Stoccarda e gli artisti della Nuova Oggettività lo osservano con un certo interesse” (Madesani, 2008). Niente male davvero per un professore di disegno nonché non fotografo.

Era stata la Camera di Commercio prussiana ad incaricare nel 1890 il professor Moritz Meurer, che insegnava disegno ed ornamento, di realizzare un catalogo delle forme che la Natura offriva, forme che artisti e decoratori avrebbero potuto utilizzare come base per i loro lavori. Il giovane Blossfeldt si ritrova così a Roma con Meurer, ed inizia a scattare quelle fotografie che, di lì ad alcuni anni, gli avrebbero dato l’immortalità, proseguendo poi il lavoro in Grecia e nell’Africa settentrionale. Il libro multilingue (inglese, tedesco e francese) della Taschen di cui qui si parla raccoglie le tre pubblicazioni di Blossfeldt, comprensive delle introduzioni originali e di un saggio introduttivo di Hans Christian Adam, curatore del volume.

Siamo dunque in presenza di una fotografia che ha un intento ben preciso: essa trova la sua ragion d’essere nella funzione che svolge, che è didattica e pratica. Blossfeldt, autodidatta armato di una fotocamera 9x12 ed obiettivi che oggi diremmo supermacro con i loro ingrandimenti 30x, sceglie un punto di vista frontale, luce diffusa e sfondi neutri, spoglia le fotografie di qualsivoglia suggestione estetica, avendo come solo intento il voler approntare “un bagaglio di immagini, di suggestioni formali che… [gli studenti] avrebbero potuto utilizzare nella realizzazione dei motivi decorativi nelle loro diverse attività artigianali” (Guadagnini, 2010). Ciò prende sostanza nella composizione di un archivio imponente ed uniforme, meticolosamente organizzato e classificato; un catalogo sistematico, oggettivo, non lontano da quelli delle piante medicinali di epoca medievale, che unisce alla precisione scientifica dell’approccio investigativo un esito formale di assoluta eccellenza. Tanto essenziali e semplici sono le riprese, quanto piene di fascino ed intriganti le forme che le immagini finiscono col presentarci. È una fotografia democratica, perché conferisce

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dignità estetica ad elementi del quotidiano spesso inosservati; elementi che sono, con tutta evidenza, di una tipologia ben lontana da quelli tipici di un Walker Evans – che erano invece segni antropici di una contemporaneità pervasiva. Ed è una fotografia, quella di Blossfeldt, che non si pone il problema di se e quanto essere artistica, delegando interamente all’atto del presentarsi dell’oggetto ripreso il dispiegamento del proprio valore e l’affermazione della propria identità di pratica espressiva. Il richiamo allo stile documentario di Evans non appaia peregrino: quella di Blossfeldt – così come quella di Renger-Patzsch – è una “impostazione che crede nella realtà così come si presenta alla macchina e che sostiene un tipo di fotografia severa, lucida, che possiamo anche per certi aspetti considerare documentaria, responsabile di grandi sviluppi nella contemporaneità” (Valtorta, 2008).

La fotocamera non è più solo un accessorio dell’occhio umano che ne riproduce la visione: assume un ruolo autonomo che la accresce, apportandovi un incremento sul piano quantitativo e perciò anche qualitativo. Le forme della natura, i motivi che ci circondano ed abbelliscono il paesaggio, sono alla base delle arti creative e dell’architettura sin dai tempi antichi, ma è solo la fotografia che “dischiude (…) mondi di immagini che abitano il microscopico, abbastanza evidenti eppure nascosti (…). Così Blossfeldt, con le sue straordinarie fotografie di piante, ha reso visibili nell’equiseto le forme di antiche colonne, nella felce un pastorale vescovile, totem nel germoglio del castagno o dell’acero ingrandito dieci volte, trafori gotici nel cardo dei lanaioli” (Benjamin, 2011).

Si accetti dunque la sfida dell’insonnia menzionata in apertura, e senza timori ci si immerga nel profluvio di immagini che Blossfeldt, con discrezione e disciplinata applicazione, ci consegna a distanza di quasi un secolo; chiarissime ed insistenti, metodiche ed ammalianti, le forme che questo Maestro ha prelevato dalla Natura si presentano alla nostra visione allo stesso tempo distanti e familiari; e questo è forse l’elemento che più di ogni altro ne spiega il perdurante successo.

Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, Skira, 2011

Walter Guadagnini, Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo, Zanichelli, 2010

Angela Madesani, Storia della fotografia, Bruno Mondadori, 2008

Roberta Valtorta, Il pensiero dei fotografi, Bruno Mondadori, 2008

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gallery

Selezione a cura di Ottavia Gori

Fotografie tratte dalla pagina Facebook Fotografia Transfigurativa - The Gallery

Marco Bianchi Bruna Marchetti
Jan Noszczyk
Manuela Sacco Luigi Zucca Gianluca Monacelli Suryene Ramaget Stefania Piccoli Rosanna Foti Rosita Percacciuolo Vito Riggi Markus Schwarzweiss Lena Nova
Elle Letizia
Zhenay Karpenko Maria Evgenidu Lino Rusciano Daniele Bonazza Cristina Valla Andrea Virdis

Una delle più ricorrenti lamentele che ricordo nelle aule dell’accademia di belle arti era che nessuno insegnava realmente qualcosa, che si lasciava fare con estrema libertà, che non c’erano sistematiche lezioni di tecnica e di metodo. Mi affido alla mia memoria, al mio percorso di formazione e mi chiedo, cosa è un maestro, quando è un maestro, chi è? Difficile definire una figura così ampia che ha rivestito tanti diversi significati nel corso della nostra vita, dal maestro di scuola al maestro di un’arte o di una qualsiasi disciplina. I grandi interpreti di un’arte sono definiti maestri, e noi siamo al contempo spettatori e discepoli, quando siamo immersi nella contemplazione e nella comprensione di un’opera. Ognuno ha avuto la propria personale bottega, il luogo dove l’idea del proprio fare ha preso forma, una sola immagine può aprire alla pratica di una vita, un artista, nel nostro caso un fotografo oppure un periodo nella storia della fotografia, o ancora qualcosa di più sfuggente ma non per questo meno pregnante. Io ricordo alcuni incontri con i miei maestri, una monografia di Herbert List acquistata a mille lire usata, una mostra di Cartier-Bresson a Roma 30 anni fa, il motto del mio professore all’accademia “fotografare bene, fotografare tutto“.

“Tra maestro e allievo è un gioco di specchi“ un rapporto di osmosi, quando la tecnica, una volta acquisita, lascia il posto al metodo, al pensiero, all’elaborazione, solo allora si stabilisce una relazione creativa, una dialettica. Ma il maestro non necessariamente è una persona fisica o solo una persona, può essere un libro, una figura, un’opera, una serie di incontri nell’arco di una vita o del proprio percorso di formazione. Tranne rari casi, è sempre una pluralità, un viaggio nel tempo. Chi ci ha insegnato a fotografare, a vedere, a capire quello che lo sguardo incontra; tra seduzioni e innamoramenti si passa spesso per l’imitazione, col rischio di rimanere ancorati ad una maniera e non assorbire invece l’essenza e farla propria, applicarla ad una visione personale.

I nostri maestri, silenziose biografie tra le pagine di libri di fotografia, oppure di filosofia o di letteratura, un saggio critico o una raccolta di poesia. La sedimentazione nel corso del tempo crea quel supporto che ci sostiene, che valuta le nostre opere, che ci dice nel silenzio delle riflessioni se quello che facciamo ha senso, se la strada che percorriamo non è troppo trafficata, battuta da una folla di uguali senza pensiero critico, soldati disciplinati che marciano allo stesso passo.

Il maestro è un riconoscimento.

Herbert List, Luigi Ghirri, Irving Penn, la scuola di Dusseldorf, Todd Hido, Joel Peter Witkin, Josef Koudelka, un mosaico di incontri, tessere composte sulla superficie della memoria, di conoscenza in conoscenza. Vedo la frammentazione come l’unica vera scuola, per la vita, per tenere unito lo sguardo con il pensiero.

36 appunti
di Alessandro Mazzoli
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l’autore

di

Maestro? Per carità!

Una conversazione con Angelo Raffaele Turetta

Marchigiano di nascita, romano di adozione, Angelo Turetta (classe ’55) ha iniziato a fotografare nel mondo dell’avanguardia teatrale negli anni ’70, dopo il diploma all’Accademia delle Belle Arti di Roma, per poi esordire come fotografo di scena per il cinema agli inizi degli anni ’90: Emanuele Crialese e Sergio Rubini sono solo alcuni dei registi con cui ha lavorato, ma il rapporto più consolidato è sicuramente quello con Marco Tullio Giordana, per il quale è stato fotografo di scena in tutti i suoi film da “I cento passi” in poi, incluso “La vita accanto”, in lavorazione al momento in cui scriviamo. Notevole anche l’attività di fotoreporter, avviata a partire dal 1982 con la collaborazione con Contrasto: ne sono nati diversi reportage sull’attualità e su temi di grande rilevanza sociale quali la prostituzione, l’emigrazione, l’emarginazione. Con varie mostre all’attivo, diversi riconoscimenti di prestigio (tra cui un primo premio nella sezione Arte del World Press Photo del 2001), ed una robusta attività didattica fatta di corsi di fotogiornalismo all’Istituto Europeo di Design e vari workshop e seminari presso scuole e festival di fotografia, Angelo è l’interlocutore ideale con cui parlare del ruolo che oggi un maestro dovrebbe avere.

Oggi, nel mondo della fotografia, il titolo di maestro è abusatissimo e inflazionato.

Sai, proprio l’altro giorno ne parlavo con Marco Tullio Giordana… vorrei abolire questa parola: maestro. Ormai sono tutti maestri. A mio parere i maestri si contano sulla punta delle dita, e sono quelli che hanno dato un imprinting ad un modo di vedere; senza dubbio io ne ho avuti, e sono stati soprattutto una certa scuola americana e francese. Ma adesso la fotografia sta prendendo una deriva che non apprezzo molto. Mi spiego, ormai la creatività è vista un po’ come l’acqua: democraticamente, non si nega a nessuno. E su questo sono d’accordo. Però vedo tante cose che mi paiono gratuite spacciate per creatività, libri zeppi di foto cui viene imposta una storia ma che sono prive di un

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senso, di una interpretazione. Ecco, per me la fotografia dev’essere una grande menzogna, qualcosa che crea un dubbio, uno spaesamento in chi le osserva. Gli occhi sono i più grandi mentitori per noi fotografi, sta a noi tradurre quel che vediamo usando un altro linguaggio, quello della fotografia. Ed è questo il momento in cui entra in gioco il maestro.

È la sfida più complicata, probabilmente, per chi fotografa, studia, ed è in cerca di una propria strada.

Sì, ma secondo me fare il fotografo significa prendersi una responsabilità: implica assumersi la responsabilità di fare cultura – come se la prendono uno scrittore, un poeta, un pittore. Ora, non dico che possiamo tutti scrivere Delitto e Castigo o dipingere la Conversione di San Paolo, ma dobbiamo in qualche modo definirci stilisticamente nel nostro linguaggio. È qui che entra in gioco l’Autore e, forse, da qui si inizia a parlare di Maestro.

Bisogna cioè trovare in noi stessi un qualcosa di unico. Non a caso la parola “educare” ha, nella sua origine latina, il significato di “tirare fuori”. Diciamo allora che un maestro deve avere la capacità di entrare in sintonia con lo studente e capire quale potrebbe essere la sua strada espressiva?

Precisamente. È quello che faccio quando insegno: non impongo mai un modo di vedere. Non trasferisco alcun Verbo, cerco invece di trasmettere il mio personale punto di vista, ed è questo ciò che deve fare un insegnante; e, quando capisce che l’allievo sta prendendo una sua strada, gli deve lasciare la libertà di svilupparla. Allo stesso tempo bisogna avere l’onestà di valutare con schiettezza quando dei lavori non funzionano, ed evitare la presunzione di rifugiarsi dietro difese del tipo “ma io scatto così”: bisogna invece avere il coraggio di confrontarsi con l’esterno, e mettersi continuamente alla prova. Allo IED, ad esempio, siamo vari docenti di formazione e visione diversa – pensa solo a quanto siamo diversi io e Massimo Siragusa.

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Immagino che questo aiuti gli studenti ad allargare la propria visione. Esatto, per loro è una ricchezza ed un’opportunità. Ad esempio, una cosa su cui io spingo molto è lavorare sull’errore. Sforzarsi di fare fotografie che non sentiamo appartenere al nostro sguardo è un modo per scoprire qualcosa di più sul nostro vedere; scattare fotografie che non ti convincono è un po’ una cosa da analisi, me ne rendo conto, ma è anche un modo per mettersi alla prova. Quando ormai hai una tua estetica, un tuo modo di vedere, sai benissimo che tra luce, atmosfera, composizione, dinamica dell’azione, otterrai determinate foto, che magari vanno benissimo per appagarti sul piano personale o soddisfano appieno la richiesta di un committente. Però, a volte, fare fotografie che non ti convincono e che neanche ricorderai di aver fatto aiuta: riguardandole, infatti, a volte trovi un’immagine che ti apre di colpo un nuovo modo di vedere. Un nuovo modo che non rimpiazza il tuo vedere, ma si somma ad esso: ecco, per me questa è la creatività.

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Avere, insomma, il coraggio di mettersi alla prova, ed avventurarsi lungo sentieri inesplorati.

Esatto. Picasso nella sua vita ha dipinto in cinquecento modi diversi! Certo, ti ho fatto l’esempio di un maestro, un gigante…

Be’, per praticità di conversazione abbiamo usato i termini maestro e studente, ma sappiamo entrambi che non si finisce mai di imparare, ed anche un maestro è sempre un po’ studente.

Ma certo, è assolutamente così. Io mi definisco un allievo, un allievo disubbidiente e ripetente!

Passiamo all’ambito della fotografia di scena: lì non sei più un docente, ma un professionista che assiste all’operato di un regista.

Sì, in quei contesti tu vedi un regista al lavoro ed il regista è come il capitano della nave, è lui che coordina una produzione importante, ed alla fine firma un prodotto che è suo. E se un regista ha le idee chiare lo vedi subito da vari aspetti: quanto conosce la luce, quanto sa dirigere gli attori, quanto rapidamente sceglie il punto migliore dove mettere la macchina da presa… Nel cinema, il fotografo di scena è una scheggia impazzita che vaga sul set, e che non appartiene a nessuna struttura specifica – sai bene che la produzione di un film ha dietro una macchina molto organizzata, suddivisa in blocchi e ruoli ben precisi. Il fotografo di scena è lì che si muove in autonomia; un tempo un incarico del genere ti portava a scattare migliaia di foto, mentre oggi ne bastano una decina, destinate all’ufficio stampa, visto che la promozione dei film avviene quasi solo tramite video, con i vari trailer e teaser. Anche la realizzazione delle locandine segue un percorso diverso ed autonomo.

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La storia della fotografia ha avuto i suoi maestri anche in questo ruolo, basti pensare ad Eve Arnold, Ernst Haas… Sicuramente l’esempio più noto è quello de “Gli spostati”, quando la Magnum capì che col cinema, detto schiettamente, si poteva guadagnare, ed allora mandò diversi fotografi sul set del film di Huston: i due che hai citato tu, più Cornell Capa, Erwitt, Bresson, ed altri. A proposito di Bresson, mi viene in mente una cosa interessante che disse, lui che tra l’altro era nato col cinema - era stato assistente di un regista di cui ora non ricordo il nome…

Renoir, mi pare… il figlio del pittore, no?

Sì, esatto, era lui. Bresson – a proposito di maestri! - scrisse una cosa bellissima: “Il cinema è qualcosa che ti viene servito di seconda mano. Ti danno uno spazio, delle persone consapevoli di essere fotografate, una luce già decisa. È un po’ una realtà di seconda mano”. Ecco, noi fotografi di scena lavoriamo adattandoci ad una realtà di seconda mano.

Quando lavori su un set, quanto ti senti autonomo nello scattare e quanto invece cerchi di adattarti alle aspettative del regista?

Come prima cosa io leggo la sceneggiatura, per capire quali sono i momenti e le situazioni più importanti e significative che dovrò fotografare. Poi, per fortuna, c’è il fatto che oggi la fotografia di scena è meno cruciale nella produzione di un film, non è più richiesta per la produzione dei photobook che servivano a vendere il film. Questo ci consente di lavorare con più libertà, potrei dirti che c’è spazio per una vera e propria deriva autoriale. A questo naturalmente si aggiunge che ciascuno lavora a suo modo. Io ad esempio, venendo dal reportage, cerco di essere il più possibile invisibile sul set. C’è una cosa che scrisse su di me Marco Tullio (Giordana, ndr) quando facemmo “I cento passi”, il film che ci ha fatti incontrare: “Vedevo Angelo che si muoveva sul set, ed era quasi trasparente… non capivo cosa stesse facendo.

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Poi quando mi mostrò le sue foto capii una cosa: che Angelo stava facendo il suo film ed io stavo facendo il mio.”

Ti lascio con un’ultima domanda. Se oggi un giovane studente ti chiedesse quali sono i maestri imprescindibili, cosa gli risponderesti? Di sicuro anche tu hai un tuo Pantheon…

Sarebbero tanti, troppi…

Il fatto è che quando si comincia ad elencarli, ne vengono di continuo in mente altri. Già. Diciamo che, volendo restare nell’ambito di una fotografia almeno un po’ moderna, direi il trittico Bresson, Frank e Klein. Sono stati in qualche modo i miei maestri. Ma poi aggiungerei Kertesz, il genio per me assoluto…

Non a caso, lo stesso Bresson disse “Tutto quello che abbiamo fatto…”

“…Kertesz l’ha fatto prima”, già. La scuola dell’est europeo è stata immensa, fondamentale: pensa al Bauhaus, a Moholy-Nagy, lo stesso Robert Capa… Ma i nomi, come dicevo, sarebbero tantissimi. Si può non citare un gigante come Walker Evans, padre putativo di Frank…? E Avedon? E la Arbus? E poi un certo Koudelka… Come vedi, non la finiamo più!

E tra quelli di oggi?

I fotografi che mi interessano sono davvero tanti. Ti direi Pellegrin e Zizola, che sono anche amici, o Antoine d’Agata... Sai, per me l’importante è sperimentare ed amare l’arte, senza limitarsi a seguire la fotografia. Come dicevo all’inizio, assumersi la responsabilità di fare cultura significa porsi in condizione di cogliere gli insegnamenti che si traggono non solo dai grandi maestri della fotografia, ma anche dalla pittura, dalla letteratura, e così via. È su questo punto di partenza che si costruisce tutto il resto.

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Miyagi dice

Non esiste un cattivo allievo, solo un cattivo maestro. Indubbiamente, a scapito di chi potrebbe considerarla come un puro e semplice scarico di responsabilità, si tratta di un’affermazione piuttosto convincente, e non soltanto perché ne è autore il Maestro Miyagi, autorità carismatica e indiscutibile.

Un buon maestro è scelto a sua insaputa. Se hai la fortuna di incrociarne uno sulla tua strada gli fai spazio dentro di te e lo custodisci gelosamente, per preservare quella risonanza che hai percepito subito, fin dal primo confronto. Lui può non venirne mai a conoscenza. Un buon maestro non si imita. È una scintilla, un’ispirazione e un riferimento per la tua trasformazione. Non sono necessarie sue indicazioni di percorso.

Un buon maestro è parallelo. Come quando viaggi su una strada che ha di fianco il mare, basta girare la testa ed è sempre lì, intento a creare dialogo e dinamiche che si rinnovano.

Un buon maestro è un virus. Puoi mangiare e digerire tutto ciò che lui significa per te, rimarrà comunque in circolo nel tuo organismo.

Un buon maestro è un’idea, un’attitudine, un approccio, un oggetto. A volte anche una persona, fisicamente vicina a te o che, dall’altra parte del mondo, non sa nemmeno che esisti. Nei casi davvero fortunati, un buon maestro non sa di esserlo, apprendi da lui senza aver ufficializzato alcun patto gerarchico. È difficile dare un nome a questo rapporto: influsso, considerazione, assonanza, credito, niente lo definisce pienamente. È qualcosa che ti rimane dentro e che resta presente nell’essenza di ciò che fai, anche se nessuno lo capisce, tranne te. Eredità, forse.

No such thing as bad student, only bad teacher

Maestro Kesuke Miyagi, The Karate Kid, 1984

Paul Strand e André Kertész sono praticamente coetanei (1890 e 1894). Parabole di vita lontanissime, le loro. Parabole fotografiche altrettanto distanti. Si incontrano a Parigi nei primi anni venti, si confrontano, si ammirano reciprocamente nell’approccio originale al mezzo fotografico, si influenzano. Due maestri assoluti e indiscussi, nell’accezione comune del termine. Qualsiasi collana editoriale che abbia nel titolo la parola maestro ha per certo dedicato una monografia a ciascuno di loro, per essere chiari.

Ma nella storia della fotografia, probabilmente per mancanza di dichiarazioni ufficiali da parte degli interessati, nessuno dei due viene mai definito maestro dell’altro. Esiste un minuscolo frammento però, un esempio infinitesimale paragonato alla loro sterminata ed eterogenea produzione, che sembra confermare quanto un buon maestro viva per sempre dentro chi lo ha eletto tale, anche senza ufficializzazioni o gerarchie. Lo evidenzia

Geoff Dyer nel suo L’infinito istante: due foto scattate a New York in due parchi innevati a circa quarant’anni di distanza l’una dall’altra. Sorprendentemente “sorelle”, basta guardarle.

44 ritmi

A scattare la più recente è Kertész, quello fra i due che le definizioni ufficiali (lo dice anche Cartier-Bresson) designano come maestro più maestro di tutti.

È lecito pensare che Kertész conosca la foto di Strand? Sicuramente.

È lecito pensare che gli sia rimasta dentro, che abbia navigato nel suo inconscio per tutto quel tempo e sia riemersa alla prima occasione? Sicuramente.

È lecito pensare che nello scatto di Kertész sia contenuta tutta la sua considerazione, conscia o inconscia, per Strand come suo maestro? Sicuramente.

È lecito pensare, va detto, che si tratti di semplici coincidenze e supposizioni, quelle di cui pullula la storia della fotografia.

Ma è bello (ancor più che lecito) pensare che il saggio Maestro Miyagi, pur se prigioniero dell’obbligatorietà della sintesi zen, si riferisca anche a vicende come quella di Strand e Kertész, e che esista una versione apocrifa del suo aforisma contenente un secondo postulato: un maestro non può essere cattivo, finché vive nello sguardo di chi lo ha scelto

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Paul Strand Winter Central Park New York,1913-14 André Kertész Washington Square Park New York, 1952

un minuto a mezzanotte

Il maestro è nell’anima

...e dentro all’anima per sempre resterà.

Il grande Paolo Conte individua una precisa collocazione spazio/temporale all’oggetto di questa nostra riflessione: i maestri stanno dentro l’anima, e lì restano per sempre.

Persino nell’anima di un autodidatta come me albergano maestri, una moltitudine. Sono i fotografi che ho amato, e pure quelli che non ho amato, sono tutti i libri e gli articoli, di tecnica e di critica, scritti in versi o in prosa, sono le mostre, i convegni, i documentari. Mi sono maestre le fotocamere che ho avuto, con cui mi sono intrattenuto in lunghi e appassionati scambi umorali, lo sono le pellicole, le carte, le tank, l’aria viziata della camera oscura, gli effluvi mefitici dei rivelatori e dei fissaggi, le foto buone e le foto brutte, i complimenti e le stroncature, le soddisfazioni e le delusioni, le esaltazioni e gli abbattimenti. Mi sono maestri tutti gli amici con cui mi confronto ogni giorno.

Il maestro abita l’anima solo se c’è posto, chi è troppo pieno di sé non ospita altro che sé stesso.

È una presenza sobria, discreta, di basso profilo. Non intrude, non sovrasta, non emette sentenze. Osserva, silente e compartecipe. Bacchetta a volte, con affetto, storce il muso, corruga la fronte, lancia occhiatacce. Si guarda bene dal lusingare, se è vero maestro, anche se si trattiene con fatica. Si compiace dei successi del suo allievo e lo fa in silenzio, si rammarica dei suoi passi falsi e gli riserva sempre un sorriso di conforto. Lo interroga continuamente, col suo sguardo muto, benigno e severo.

Il maestro orienta con l’esempio e il decoro, mostra la direzione attraverso la mimica, la postura, socchiudendo gli occhi, scrollando le spalle, sollevando un sopracciglio. Pone domande senza indulgere in risposte, lancia sassolini piccoli e resta a guardare che i cerchi si allarghino.

Il maestro aspetta e insegna ad aspettare; aiuta a espandere le dimensioni del possibile tenendo fermo il senso del limite. Non crea boria, saccenza e sicumera, non inocula certezze, sani dubbi piuttosto, e qualche frustrazione.

Il maestro è senza tempo, non segue le mode, non si adegua, non si corrompe. Condivide le sorti del suo allievo, e non lo abbandona. Mai.

Il maestro è nell’anima, e dentro l’anima per sempre resterà.

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Tutte le fotografie, nel rispetto del diritto d’autore, vengono qui riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.

...circoscrivono i significati in modo asintotico, senza mai arrivare a “toccarli” direttamente, ma rendendoli di fatto accessibili mediante altre unità culturali.

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