Fotografia Transfigurativa Magazine - N.9 Gennaio 2024

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FT Transfigurative Photography

FOTOGRAFIA TRANSFIGURATIVA MAGAZINE 9

rivista periodica di cultura fotografica n. 9 | Gennaio 2024



Tempo

FTM9


Fotografia Transfigurativa Magazine rivista periodica di cultura fotografica n. 9 | Gennaio 2024 Direttore Michele Palma Redazione Agostino Maiello | Alessandro Mazzoli | Stefano Montinaro | Andrea Virdis Hanno collaborato a questo numero Giovanni Cappiello | Veronica Manganaro


sommario

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editoriale

La piccola ladra di Michele Palma

copertina

di Andrea Virdis

il libro

Stanley Greene Open Wound: Chechnya 1994 to 2003 di Agostino Maiello

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gallery

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l’enunciazione enunciata e l’opacità della fotografia

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appunti

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ritmi

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un minuto a mezzanotte

Galleria Fotografica AA.VV. (a cura di Veronica Manganaro)

di Giovanni Cappiello

di Alessandro Mazzoli

No sense of harmony, no sense of time di Stefano Montinaro

Sarò stato, avrò stato, fui stato da La Pizia


di Michele Palma

editoriale

La piccola ladra

Vorrei aprire questo numero raccontando una storia, un piccolo aneddoto accaduto qualche mese fa.

Ho in mano una fotografia, la sto guardando con grande curiosità, foto non mia ma di un caro amico; un fotografo davvero bravo, di quelli che passeranno alla storia. Vedo ritratte diverse persone su una piazza, adulti, bambini, uomini e donne, c’è anche un cane. Sicuramente sono assieme per un evento, o altro, lo ignoro. In realtà la sto guardando seduto accanto a lui che l’ha scattata, sviluppata e stampata; ci teneva tanto, ne era davvero affascinato. Non ne capisco totalmente il motivo visto che non vedo una foto “mozzafiato” come suo solito. Un buon bianco e nero, ben esposto, la gamma dinamica ampia, buon contrasto, buona composizione, insomma tutti gli ingredienti per una fotografia tecnicamente ottima ma sicuramente non sbalorditiva. Lui mi guarda, mi interroga prima con lo sguardo poi con la parola: “Ti vedo perplesso di fronte a questa foto, qualcosa ti turba?”. “Non so” gli rispondo, “conosco la tua opera e questa mi sembra un po’ riduttiva rispetto alle altre, non so come dire, un po’ semplice, quasi fuori contesto. Sono imbarazzato ma ho paura che dovrai proprio spiegarmela!” Sorride! La chiacchierata prosegue, ad un certo punto concludendo una frase mi dice: “Se ci pensi, una fotografia non racconta niente, non serve a niente, un oggetto futile al quale manca sempre qualcosa di fondamentale, quel quid che la completa”. Detta da un bravo fotografo la frase mi ha decisamente spiazzato; magari è una provocazione, ho pensato, ma riflettendoci un po’ potrebbe esserci una verità. La fotografia è una frazione di secondo di un qualcosa che è stato e che sarà. È quell’attimo in cui il fotografo, a suo arbitrario giudizio, decide di scattare, consapevole di congelare qualcosa che lui stesso conosce entro certi limiti. Riprende un frammento di innegabile realtà estrapolandolo dal contesto spazio temporale e traghettandolo verso nuove dimensioni, quelle che partono da lui e continuano nelle direzioni esclusive e personali di ogni fruitore. Se la consideriamo nell’istante o come mezzo fine a se stesso diventa un semplice pezzo di carta con un’immagine impressa. Non c’è un prima, non c’è un dopo, non c’è una storia. Non racconta proprio niente. Magari buona per essere appesa al muro di una sala! Spesso sento dire che la fotografia è una bugiarda, non credo sia possibile tale è il suo legame con la realtà; direi invece che la fotografia è una piccola ladra perché ruba alla realtà la componente fondamentale del suo esistere: “il tempo”. 4


Sarà nostro compito aver cura di restituirlo. Ora quelle persone nella piazza iniziano ad acquisire un senso. Compreso il cane! Sarà “il tempo” la dimensione che ci avvolgerà in questo numero. Buona lettura!

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di Andrea Virdis

copertina

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osa sono i millenni? Una manciata di tempo. Polvere in confronto a un unico sguardo dell’eternità. (Hermann Hesse) Abbiamo imparato a dare un senso al tempo attraverso eventi ciclici come l’alternanza del giorno e della notte, le stagioni o le fasi lunari, ma la natura delle nostre tradizioni attribuisce alla vita una direzione lineare, tutto ha un inizio e una fine. Chronos smembra le carni della nostra esistenza divorando il senso dell’essere e lasciandoci in eredità l’angoscia di un oblio imminente che ci perseguita fino alla fine dei nostri giorni. La fotografia è in grado di scombinare le regole che ci siamo imposti, alterando la successione temporale e rimescolando la sequenza degli eventi, permettendoci di muoverci nel tempo o addirittura di saltare da un punto a un altro dell’esistenza. Una famosa citazione di Shakespeare dice che “il tempo è fuori dai cardini”, ecco, in questi termini posso affermare che anche la fotografia non ha un’implicazione unidirezionale ed è capace di destabilizzare la linearità della nostra concezione del tempo. Tramite l’obbiettivo e l’otturatore si instaura quel rapporto magico che ci permette di congelare un attimo, riducendo la nostra vita all’istante in cui una fotografia si realizza. Da quel momento l’immagine risulterà sospesa in una dimensione che si colloca al di fuori di ogni cornice temporale. Nato a Varese nel 1948, ma di origini siciliane, Giovanni Chiaramonte se n’è andato nell’ottobre dello scorso anno, lasciando dietro di sé un lavoro di ricerca fotografica di incalcolabile bellezza. Fotografo di fama internazionale, si avvicina alla fotografia già a partire dagli anni Sessanta. Nel 1977 insieme al suo amico Luigi Ghirri fonda “Punto e Virgola”, la prima casa editrice italiana di fotografia, una delle tante imprese che vedrà la collaborazione di questi due importanti fotografi italiani. Lo sguardo sul mondo di Chiaramonte è sincero e attento, ma nella sua apparente semplicità sono custodite le fondamenta imprescindibili per la costruzione di paesaggi che vanno oltre il visibile, complice anche la sapiente maestria nell’utilizzo della luce, sempre calda, eterea e morbida, quasi a voler accarezzare d’incanto il sogno ritrovato nell’inquadratura. La foto che ho selezionato, scattata nel 1989 a Gibellina, a parer mio, incarna l’esempio perfetto di come da un’immagine reale si possano spalancare finestre su paesaggi lontani dal mondo conosciuto. Un luogo fuori dal tempo che dipinge un’atmosfera desolante, lasciando ai nostri sensi il compito di percepire il riecheggiare della vita che scorreva regolarmente tra quelle abitazioni prima che tutto venisse spazzato via dalla natura. Il nostro occhio viene inevitabilmente rapito da quel che rimane di un vascello fantasma, arrivato troppo tardi, destinato anch’esso all’oblio, abbandonato da un mondo troppo giovane. Con lui il suo equipaggio, noi. 6


Giovanni Chiaramonte, Caravella, Gibellina,1989

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di Agostino Maiello

il libro

Stanley Greene Open Wound: Chechnya 1994 to 2003 (ed. Trolley)

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i sono ferite che il tempo rimargina, ma sono davvero poche. Quelle serie, quelle profonde, rimangono lì dove sono. Il tempo scorre, il mondo va avanti, nuove anime rimpiazzano chi non c’è più, ma le ferite restano al loro posto: lesioni della memoria collettiva, macchie di sangue sul lenzuolo (già non tanto immacolato) della vita di tutti noi, graffi sulle nostre esistenze segnate da errori individuali e collettivi, da distrazioni di massa, da indifferenze più o meno sofferte, da prudenti e pavide fughe in un benessere ovattato che sottrae allo sguardo l’orrore che circonda, lontano o vicino, il nostro quotidiano. Indifferente al tempo, alle distanze, alle latitudini, l’orrore è uno spettro, un’ombra nera che si annida non negli angoli o ai margini, ma ovunque ci sia qualcuno ad alimentarlo; che ciò avvenga con la cattiveria o con l’indifferenza poco cambia. Si può e si deve combatterlo, ma non tutti vi riescono, o non sempre. Stanley Greene, sontuoso ed immenso fotografo capace come pochi di raccontare dolori, orrori e violenze dai conflitti di tutto il mondo, vi riusciva. Se, nella prima metà del ‘900, la figura iconica del fotogiornalismo è stata quella di Robert Capa, volendo trovare un equivalente nell’epoca contemporanea quello di Greene è uno dei primissimi e pochissimi nomi che vengono alla mente. Citando MaryAnne Golon, Director della sezione Fotografia del Washington Post: “Alto, poeta, seguace della luce. Pittore, pacifista, amico, fotografo. Orgoglioso, bello, birichino, Americano. Documentarista, provocatore, comico, narratore. Parigino, vestito di pelle nera dalla testa ai piedi, ballerino. Generoso, ricettivo, dall’accento marcato e leggermente insolito. Occhiali rotondi e colorati, voce ipnotica, sopracciglia ricce sopra scintillanti occhi scuri, ed una lunga sciarpa accuratamente avvolta intorno al collo. Impossibile per chiunque non innamorarsi almeno un pochino di Stanley Greene!”

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Segni di un passato che non si può rimuovere ma solo fingere di obliare, promemoria spaventevoli di un futuro che potrebbe ripercorrerne le orme insanguinate, e forse lo sta già facendo, le fotografie del dolore non possono sottrarsi al rapporto che le lega alla dimensione temporale di tutto ciò che accade. “L’importante è che la foto possieda una forza documentativa, e che la documentatività della Fotografia verta non già sull’oggetto, ma sul tempo. Da un punto di vista fenomenologico, nella Fotografia il potere di autentificazione supera il potere di raffigurazione”: è fin troppo facile citare Barthes in questo contesto, ma sono la potenza e la purezza delle immagini di Greene che s’impongono prima di ogni altra considerazione. Il terribile conflitto ceceno, colmo di orrori e di nefandezze che non possono non ricordare, alla memoria di noi inermi spettatori, scene analoghe viste in tempi recenti in Ucraina o in tempi più lontani nella ex-Jugoslavia, viene raccontato con crudezza e rispetto, conducendo noi lettori in una dimensione che travalica la cronaca e va oltre il dato storico. Perché a dipanarsi sotto i nostri occhi, travestiti

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da cadaveri, armi e macerie, sono l’odio, la violenza, l’irragionevolezza. Sono orrori che non indossano orologi, che mutano aspetto ma non sostanza col passare del tempo. E che richiedono, per essere contrastati, l’azione e la resistenza di ciascuno di noi. Greene ha dato il suo contributo fino in fondo, spendendosi senza riserve fino alla fine della sua esistenza, durata troppo poco. Come ricorda Peter Bouckaert, direttore delle emergenze per Human Rights Watch dal 1997 al 2017: “Ogni volta che ci incontravamo in una zona di guerra, Stanley era sempre il primo fotografo che correva da me, offrendomi gratis le sue immagini e chiedendomi di far cessare il massacro. Credeva, forse in un modo infantile ma di grande ispirazione, che insieme noi avessimo la capacità di fare la differenza; a dispetto della sua esperienza e contro ogni probabilità, pensava che in qualche modo le sue foto avrebbero spinto il mondo ad agire per fermare la sofferenza. Questa era la sua parte più bella: nonostante tutto il male cui aveva assistito, non cessò mai di credere nella bontà degli esseri umani”. “Open Wound” è un caposaldo del fotogiornalismo, un lavoro potente e segnante, reso ancora più memorabile dalla scomparsa di Greene (deceduto per malattia nel 2017). In una società pulviscolare che sempre più sembra aver dimenticato il valore della fratellanza e che sempre meno riconosce l’importanza della memoria e del senso della storia, un esempio di dedizione come quello di Greene - non a caso notato agli inizi da un certo W. Eugene Smith, che ne è stato mentore - è una preziosa gemma che merita di essere sottratta all’oblio.

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gallery Selezione a cura di Veronica Manganaro Fotografie tratte dalla pagina Facebook Fotografia Transfigurativa - The Gallery


Stefania Piccoli


Ottavia Gori


Maria Graziana


Alessandro Mazzoli


Letizia Lencioni


Emmanuele Chiri


Nicola Spadafranca


Francesco Barillaro


Pietro Lo Buglio


Angelo Casoni


Giuseppe Lentini


Andrea Virdis


Marzia Bernini


Barbara Businaro


Astolfo Lupia


Lara Campostrini


Rosita Percacciuolo


Agostino Maiello


Stefano Montinaro


Marco Biancardi


l’enunciazione enunciata e l’opacità della fotografia

di Giovanni Cappiello

Secondo il luogo comune, ognuna di esse vale più o meno quanto un discorso di mille parole.

E in effetti anche la prosa più ecfrastica avrebbe il suo bel da fare per descrivere in maniera sintetica il rilievo dell’incarnato, gli infiniti riflessi dell’iride, la sottigliezza delle espressioni che un ritratto offre con plastica immediatezza al nostro sguardo. Ma, come è noto, si tratta di una supremazia fragile: spesso basta cambiare una parola sulla copertina di un libro per trasformare decine di foto da versi di una ballata visiva sull’inesorabile indifferenza con cui il tempo scorre sulla gloria degli uomini, in una esaltazione dei segni di una intramontabile eredità culturale che ancora oggi accomuna i popoli di un intero continente1. Senza contare che non è così semplice trovare un’immagine artificiale in grado di tradurre - ad esempio - le prime mille parole della Critica della Facoltà di Giudizio kantiana. Insomma, il rapporto tra immagini e linguaggio naturale resta contorto e in perenne regime di negoziazione; e se quando si tratta di rappresentare concetti e definire teorie il secondo sembra averla facilmente vinta sulle prime, queste a loro volta si prendono la rivincita nella rappresentazione di oggetti ed eventi singolari. In ogni caso non è raro che ciascun medium si avventuri fuori dalla propria zona di conforto. Ad esempio, possiamo dire di essere ormai abituati a concedere all’arte delle immagini una capacità di illustrare e perfino definire concetti; l’Arte Concettuale ha già nel nome questa vocazione, non di rado realizzata, a volte con risultati speculativamente molto acuti. Più problematico è individuare quella che Omar Calabrese chiamava “la dimensione astratta del figurativo” e ancor più complesso è riconoscere nel figurativo la presenza di una capacità di “elaborazione teorica”2. Ma se le immagini figurative non possono illustrare una qualsiasi teoria, ciò non significa che siano del tutto incapaci di definirne affatto. È vero che il termine “teoria” ha già nella sua etimologia (ϑεωρός) il concetto dell’osservazione, che a sua volta implica una distanza; ma la distanza di una teoria dal suo oggetto può, per così dire, variare da caso a caso. Esistono teorie che sono esterne ai loro oggetti (ad esempio le leggi matematiche rispetto ai fenomeni che esse servono a modellare) e teorie che sono immanenti agli oggetti stessi3. Nell’ambito di queste ultime, capita che il materiale su cui e con cui si opera venga utilizzato in maniera “metaoperativa”, assunto cioè a strumento con cui riflettere sulla natura e le Mi riferisco al volume “Ruins” (rovine) di Josef Koudelka (Aperture, 2020) pubblicato in Italia da Contrasto con il titolo “Radici”.

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Ovviamente qui non stiamo parlando di concetti che nascono da evocazioni suggestive più o meno guidate dal soggetto rappresentato. Per intenderci, il ritratto in penombra di una persona anziana può indurci a riflettere sullo scorrere del tempo, ma non ne sarebbe una definizione che si può mettere sullo stesso piano epistemologico della straordinaria espressione di Platone che lo definiva come “immagine mobile dell’eterno”, o quella meno suggestiva di Galileo che lo considerava come lo spazio rapportato alla velocità con cui lo si percorre.

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Ho ricavato questa stimolante distinzione dall’introduzione di O. Calabrese, La Macchina della Pittura, Lucca, La Casa Usher, 2012 3

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modalità dell’operare. Quindi se il linguaggio può essere usato in funzione “metalinguistica” per comprendere e definire le caratteristiche del linguaggio stesso, può avere senso chiedersi se è possibile per immagini figurative operare in modalità “metafigurativa” e descrivere delle teorie autonome sui meccanismi che esse usano per produrre senso e comunicarlo. La questione, già complessa nel caso delle immagini di sintesi (disegno e pittura), diventa ancora più ostica nel caso della fotografia, una tecnica di rappresentazione per la quale si fa fatica a misurare la distanza dal suo oggetto, necessaria ad una qualsiasi teoria per potersi dispiegare. Spesso si ritiene che il “linguaggio” di un “testo fotografico” sia lo stesso della realtà che esso raffigura. L’idea di una trasparenza assoluta che caratterizza l’immagine fotografica resiste, e non solo nel senso comune, a dispetto degli avvertimenti che mettono in guardia dall’idea ingenua della fotografia come una sorta di incarnazione tecnologica dell’occhio innocente, che permetterebbe alla proiezione interpretante del lettore di attraversare senza ostacoli la superficie di un fotogramma fino ad applicarsi alla porzione di realtà riprodotta. Anche nel caso di una fotografia diretta, priva cioè di eccessivi interventi di post-produzione, le obiezioni più ricorrenti a questa idea di trasparenza totale chiamano in causa fattori quali l’inquadratura, la composizione e tutte le azioni che rendono la fotografia al più una sorta di “carotaggio” della realtà. Non c’è dubbio che le scelte compiute dal fotografo all’atto della produzione entrano in una sorta di interpretazione del mondo, ma il loro effetto è certo più impalpabile di altri elementi che rendono una fotografia un oggetto inevitabilmente diverso rispetto alla realtà ripresa: mi riferisco alle “marche dell’enunciazione”. In semiotica questa espressione si riferisce alle tracce (“marche”) che le azioni relative alla produzione di un testo (attività che si definisce “enunciazione”) lasciano nel testo stesso. Esempi di questi segni sono le pennellate su una tela e i solchi lasciati dalla penna sulle pagine di un manoscritto. In molti casi si tratta di effetti collaterali involontari o non previsti della generazione di un testo. Nel caso della fotografia, esempi classici sono i flare dovuti all’interazione delle sorgenti luminose con le lenti dell’obiettivo, la sagoma del fotografo proiettata dal sole sull’asfalto o il suo riflesso in una vetrina4. Questi elementi, anche se involontari, arricchiscono l’attività di interpretazione da parte del lettore, aggiungendo elementi rispetto al soggetto originario della foto. In alcuni casi, però, le marche dell’enunciazione sono inserite appositamente dall’autore per rendere esplicito il suo intervento nella produzione del testo. In questi casi la semiotica parla di “enunciazione enunciata”5. Dal punto di vista dell’opacità della fotografia, ovvero della immissione nell’immagine di elementi originati dalla rappresentazione, l’enunciazione enunciata costituisce un elemento di estremo interesse: da un lato inserisce nel testo uno scarto rispetto alla realtà rappresentata, e quindi instaura quella distanza di cui si è parlato come precondizione all’eventuale esercizio meta-figurativo della fotografia; d’altro canto proprio per la sua funzione di testimonianza dell’azione autoriale, l’enunciazione enunciata è uno dei mezzi più potenti che la fotografia ha a disposizione per parlare di sé in un linguaggio i cui concetti spesso faticano ad essere tradotti in un linguaggio diverso da quello visuale.

Si potrebbe ritenere che la stessa inquadratura sia una marca dell’enunciazione, ma a rigore gli elementi che qui interessano sono localizzati all’interno dell’immagine.

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In pittura un esempio classico è il riflesso del cavalletto nel quadro “La lezione di Musica” di Jan Vermeer (https://g.co/arts/daqALaEztxjpWMXY7).

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Due esempi possono aiutare a chiarire la profondità semiotica di questo dispositivo. Il primo è una fotografia del poeta e fotografo Denis Roche (1937-2015), un autore che si è spesso occupato dello statuto dell’atto fotografico. L’immagine è stata prodotta la Vigilia di Natale del 1984 sulla terrazza della stanza 301 dell’Hotel Atlantic a Les Sables d’Olonne, una località balneare sulla costa atlantica della Francia occidentale6.

Denis Roche, 24 décembre 1984, Atlantic Hôtel chambre 301

Che la foto non solo presenti marche di una enunciazione enunciata, ma che questa ne sia il pilastro portante lo si nota a prima vista dalla postura dell’uomo, che denuncia chiaramente il suo ruolo, anche se il volto - e quindi la macchina fotografica che gli è davanti - è oscurato dalla luminosa sovrapposizione del viso della modella. Il fotografo c’è ma sparisce, come in ogni fotografia, che, come si è detto, sembra sempre una questione diretta tra il mondo e il supporto fotosensibile. Ma è chiaro che la questione neppure si sarebbe data se qualcuno non avesse alzato agli occhi la fotocamera e avesse puntato l’obiettivo; e qui il fotografo riappare anche concettualmente nel suo prodotto, dato che, se egli sparisse, il fulcro dell’inquadratura, vale a dire il corpo e il viso della donna, sparirebbe come fenomeno ottico insieme all’intera fotografia. L’immagine, insomma, esiste grazie al fotografo che convoca la realtà e la riproduce. Per parafrasare Dario Mangano, “è la macchina che immortala, ma è il fotografo che mostra ciò che c’è da vedere”7. Potremmo dire che questa immagine illustra, esemplifica e produce una elaborazione visuale dell’essenza procedurale della fotografia. Una metafotografia di profonda chiarezza, che le parole, come si è detto, hanno il loro da fare a riprodurre. Analisi di maggior dettaglio e ampiezza di questa fotografia per più di un verso eccezionale si possono leggere in P. Basso Fossali, M. G. Dondero, Semiotica della fotografia, 2012, Rimini, Guaraldi e in M. G. Dondero, I Linguaggi dell’immagine, 2020, Milano, Meltemi.

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D. Mangano, Che cos’è la semiotica della fotografia, 2018, Roma, Carocci


Il secondo esempio è del fotografo americano John Menapace (1927–2010).

John Menapace, Senza Titolo, senza data8

A prima vista la fotografia non contiene nessun particolare elemento ascrivibile alla enunciazione enunciata e quindi non sembra un esempio adatto per parlare di tali questioni. Le cose iniziano a farsi più chiare non appena si fa caso al fatto che l’immagine è stampata al contrario. Che la circostanza sia frutto di un errore - in questa forma appare su un libro e in una mostra antologica del 2006 - o di una scelta calcolata poco importa, in ciò che di essenziale essa ha da ricordarci: la fotografia è un artefatto frutto di un processo che si estende ben oltre i pochi centesimi di secondo necessari per impressionare il supporto fotosensibile. Ed in ogni fase di questa procedura l’autore può depositare qualcosa che lega il prodotto finale al momento della sua esecuzione. Ma non è finita qui: un’altra “marca”, nascosta in piena vista è nel soggetto in primo piano, l’anziano signore dai lunghi capelli bianchi che altri non è che lo stesso Menapace, di schiena davanti al suo obiettivo ad ipostatizzare il ruolo del fotografo, un osservatore non osservato che conserva un suo battito di ciglia tra i cristalli di alogenuro di una pellicola o nei fotodiodi di un sensore. Tra ogni fotografia e ciò che essa ritrae si distende uno spazio che ogni giorno viene attraversato milioni di volte e che pure resta in gran parte inesplorato. Le due precedenti analisi, sia pur nella loro parzialità, hanno cercato di mostrare come l’enunciazione enunciata sia in grado di inscrivere in questo territorio riflessioni teoriche sviluppate in termini puramente visuali. Naturalmente non si tratta di una colonizzazione esclusiva: la semiotica, l’estetica, le stesse tecnica e storia della fotografia da un lato e, dall’altro, le discipline che si occupano di ciò che la fotografia sceglie come soggetto (architettura, urbanistica, scienze del paesaggio, psicologia, antropologia per fare alcuni esempi), sono altrettanti strumenti determinanti per tracciare la cartografia di questo luogo denso e sottile, da cui la fotografia trae i suoi significati più complessi e ricchi di fascino. Mettere a punto pratiche per conoscerlo e attraversarlo con maggiore consapevolezza potrà rendere l’esperienza fotografica più ricca e profonda per chiunque la pratichi e a qualsiasi livello. L’opera non ha titolo e non sono riuscito a trovare la data di scatto. Si trova nell’antologia J. Menapace, H. Pascal, With hidden noise, 2007, Duke University Press Books.

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di Alessandro Mazzoli

appunti

Potrei continuare ad accumulare tentativi per definire cosa realmente sia il tempo fino ad

esaurirne la porzione che mi è stata assegnata, un biglietto, per il viaggio di sola andata. La scrittura sul tempo appartiene fin dalle origini del pensiero agli artisti, ai filosofi, ai poeti e da un paio di secoli ai fotografi, i più vicini all’utopia di poterlo mostrare in Devo liberarmi del tempo immagine. e vivere il presente giacché non esiste altro tempo Cosa perde un fotografo quando perde che questo meraviglioso istante. Alda Merini un negativo, quando si cancellano in un istante, con la stessa velocità di uno scatto, anni di fotografie messe in ordine Non mi sono mai chiesto perché scattassi delle a comporre una narrazione, una serie di foto. In realtà la mia è una battaglia disperata progetti, memorie personali, immaginacontro l’idea che siamo tutti destinati a scomparire. rio? Il tempo, la cosa più inafferrabile, Sono deciso ad impedire al Tempo di scorrere. ma anche la più visibile che abbiamo; vi E’ pura follia. siamo immersi, ma riusciamo a malapeRobert Doisneau na a misurarlo e solamente in relazione

Alessandro Mazzoli

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al nostro microcosmo. Ognuno ne ha ...un amore al primo sguardo una percezione diversa ed anche la seguito da numerosi altri primi sguardi. fisica ci dice che è un valore relatiE questo amore ha la sua durata non in qualche atto, vo. Si mostra nel rivoltarsi della luce ma piuttosto in un prima e in un dopo, e delle ombre in una fotografia, nelle dove per il diverso senso del tempo di quando si ama, forme che disegna e che trasmettono il prima era anche un dopo conoscenza o memoria, una frazione e il dopo anche un prima. del divenire che in un gesto, lo scatto, Peter Handke, da Canto alla Durata viene fissata e diventa visibile. In questo, forse, risiede l’illusione della durata: nelle figure che per un istante, nel flusso apparentemente infinito dello scorrere del tempo, sono ferme a mostrarci quello che potrebbe essere il presente; un presente volatile come l’immaginazione che reinterpreta ogni volta il dato di realtà in molteplici variazioni, cogliendo sempre nuovi dettagli. Il tempo nella nostra visione della fotografia scorre inquieto tra gli spazi vuoti, un respiro trattenuto nella sorpresa di un dettaglio che non abbiamo inquadrato, a volte crudele alleato della memoria, altre commovente racconto di un sogno. Anni fa è accaduto: in un furto d’auto ho perso dieci anni di fotografia, più di tremila negativi scelti. In quel momento non è stata la memoria di quel periodo che mi è stata sottratta, ricordo ancora molti luoghi e momenti legati a quegli anni, ma tutto quello che ancora non avevo visto veramente è andato perduto, il vero contenuto di quei negativi, un futuro non ancora narrato ma già presente. Tra illusioni e possibilità, ipotesi scientifiche e mistero, la risposta fugace alle mille domande che l’idea del tempo ci pone risiede nella poesia delle parole e nella poesia delle immagini, nel non sapere mai veramente cosa succede quando guardiamo il mondo attraverso l’obiettivo, innamorati.

Patrizia Eichenberger

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di Stefano Montinaro

ritmi

No sense of harmony, no sense of time*

Un enorme e intangibile paradosso temporale, di quelli da far invidia al più delirante b-movie

a tema fantascientifico. Apparentemente non siamo consapevoli di esserne parte, eppure lo viviamo quotidianamente, almeno ogni volta che abbiamo una fotocamera tra le mani. Scattare una foto con approccio transfigurativo significa quasi sempre fare surf su una timeline alternativa, al limite del decifrabile, di cui non si scorgono inizio o fine, indefinita nel suo indicare un tempo eterno, circolare più che lineare, talmente prodigo da ospitare disinvoltamente passato, presente e futuro. In fotografia esiste una retorica assai diffusa, quasi onnipresente, quella che riguarda l’istante. Lo sventurato istante, quello che Cartier-Bresson, in un impeto di generosità, nobilita definendolo decisivo, nella maggior parte dei casi è invece piuttosto maltrattato: lo si ferma, paralizza, blocca, congela, immobilizza e chi più ne ha, più infierisca. Sempre con buone intenzioni, sia chiaro, ma sempre per definire e avvalorare un subdolo e pericoloso parallelo, secondo cui una fotografia coincide con l’istante, si risolve ed esaurisce nell’istante stesso. Questa retorica, questo accanirsi, ha un effetto collaterale devastante per il potenziale di ogni scatto: lo disinnesca. Anestetizza le sue possibilità di trasformazione, evoluzione, movimento. Sterilizza il processo dinamico e vitale a cui ogni buona foto dovrebbe dare avvio, a prescindere dalla direzione verso cui rivolge i suoi vettori: memoria, senso, immaginazione, sogno. Progressioni temporali e progressioni armoniche diventano libere di sovrapporsi, quando ci si muove. Conferiscono senso e disorientamento: a ben vedere gli ingredienti migliori, come nella musica. Non si perde tempo ad interrogarsi sul prima e dopo, sul davanti e dietro, semplicemente si può rivolgere la propria attenzione verso il movimento stesso e accompagnarlo. Una foto non serve mai a bloccare, una foto dovrebbe servire sempre a mettere in moto estesi dislocamenti emozionali, rocamboleschi e rivoluzionari. Quelli del fotografo, ogni volta che scatta senza intenzioni compiacenti. Quelli del fruitore, ogni volta che si accosta ad un’immagine pronto a renderla un innesco per le proprie derive.

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Talking Heads, Blind, 1988


Yusuf Sevinçli, Good dog, 2008

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da La Pizia

un minuto a mezzanotte

Sarò stato, avrò stato, fui stato

Lo avevo detto a quel presuntuoso, arrogante, principe dei miei stivali. Ero stanca, stavo

per chiudere, non avevo nessuna voglia di assecondare le sue pretese assurde. Mica predire il futuro è una cosa così, che si fa svagatamente, a cuor leggero. Indispettita e annoiata, gli ho detto la prima cosa che mi è venuta in mente; potevo mai pensare che quell’imbecille ci credesse davvero, che andasse ad ammazzare il padre e giacere con la madre…

Qualcuno pensa che il futuro non si trovi davanti a noi, ma dietro, non lo vediamo e per questo non possiamo conoscerlo. Materia interessante per chi, come i fotografi transfigurativi, è particolarmente attratto dall’invisibile. Noi crediamo che la fotografia si occupi di congelare il presente e archiviare memorie del passato, invece si occupa soprattutto di futuro. È quello il suo tempo. Ancor più nella variante del futuro anteriore, il più complicato di tutti, il più intrigante, il più transfigurativo. Un tempo per il quale qualcosa che accadrà è già successo, e ciò che è stato ancora potrà essere. Il tempo della memoria dinamica, che agisce, trasforma, ritrascrive. Il tempo delle possibilità quando tutto sembra concluso, quando il tempo è scaduto e invece ce n’è ancora. Il tempo del dopo che diventa prima e del prima che diventa forse. Il tempo supplementare quando tutto è ormai finito. Il tempo dell’immagine che non muore quando si chiude l’otturatore, ma ha iniziato a vivere proprio in quel momento. Le nostre fotografie sono declinazioni di questo tempo dispari e obliquo. Sono futuro interiore ogni volta che intercettano frammenti della nostra anima e le imprimono un movimento circolare, come quello della funivia, che ci trascina in alto e in basso rivelandoci mutevoli e straordinari panorami emozionali. Ricordare il futuro, prevedere il passato, sono tutte varianti verosimili se decidiamo di vivere appieno il presente. Se raccogliamo lì, nel medesimo qui ed ora dei nostri soggetti, porzioni di storia in divenire. Quelle che le nostre fotocamere ci permettono di rappresentare e talvolta, come Pizie dispettose, persino determinare. Sapendo che il futuro è un capriccio, basta niente per innescarlo, una parola, un clic, una domanda mal posta. Ed è un attimo che ti ritrovi ad ammazzare tuo padre e giacere con tua madre.

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Tutte le fotografie, nel rispetto del diritto d’autore, vengono qui riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.


Qui ci andrebbe il Post Scriptum, se servisse a qualcosa

post scriptum


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