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FTM6

Visione

Fotografia Transfigurativa Magazine rivista periodica di cultura fotografica n. 6 | aprile 2023

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Direttore

Michele Palma

Redazione

Agostino Maiello | Stefano Montinaro | Andrea Virdis

Hanno collaborato a questo numero

Alessandro Mazzoli | Stefania Piccoli

4 editoriale di Michele Palma

6 copertina di Andrea Virdis

8 il libro Sarah Moon

Alchimie di Agostino Maiello

15 gallery Galleria Fotografica

AA.VV. (a cura di Stefania Piccoli)

36 appunti

La visione di Alessandro Mazzoli

38 l’autore

La visione di Mario Giacomelli, il maestro di Senigallia di Agostino Maiello

44 ritmi

Cinque Frammenti Utili per coltivare una propria Visione (e vivere felici) di Stefano Montinaro

48 un minuto a mezzanotte

Di visioni da La Pizia sono sempre rimasto affascinato da queste poche parole proprio all’inizio de “Il Piccolo Principe”. Immagino l’approccio timido di un bambino di sei anni al mondo dei grandi, approccio fatto di innocenti certezze prontamente sgonfiato dagli esperti della vita. In fondo era solo un boa che stava digerendo un elefante, manco a spiegarlo.

Ma il punto non è questo, qui si tenta di scrivere di fotografia, non di rapporti tra adulti e bambini, non di rapporti tra punti di vista autorevoli ed ingenui.

Trovo però questa scena davvero calzante se si tiene conto del vero scopo della fotografia ed in particolare dell’approccio transfigurativo.

Andiamo in giro per il mondo alla ricerca di particolari singolari, che ci incuriosiscono, che descrivono in quel preciso istante il nostro essere, un fatto, o semplicemente una scena che ci manifesta attrazione. Perché lo facciamo, ma soprattutto, come lo facciamo? Come riusciamo ad entrare in quella scena per strapparla via e portarla nel mondo?

Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: «Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?» da “Il Piccolo Principe” - A. de Saint-Exupéry

Tempo fa in un commento su un social network lessi una frase che recitava più o meno così: «l’importante non è ciò che facciamo vedere, ma come lo facciamo vedere». In principio non ne ero rimasto particolarmente colpito; poi però mi la cosa mi è risuonata in testa così tanto da iniziare a prendere senso, anzi a sintetizzare un approccio senza tanti giri di parole, un po’ come direbbe un bambino. In effetti credo sia proprio una questione di approccio, quello reale, non quello fornito dalle ricette dei grandi esperti (in fotografia di maestri auto-celebrati ce ne sono davvero tanti) che cercano di conformare tutto ad un loro gusto, a loro tecniche, a loro attrezzature o peggio ancora a loro punti di vista.

Siamo di fronte alla semplice realtà incontrovertibile, la vediamo, ci fermiamo ad osservarla da varie angolazioni, la scrutiamo, la analizziamo, ad un certo punto la contempliamo e ci iniziamo un dialogo. Da quel momento non è più il nostro occhio che guarda ma il nostro cuore che inizia a sentire, complice della macchina fotografica.

Non facciamo una riproduzione della realtà, ma la sfruttiamo per creare un’immagine carica di messaggi che come “i boa, sia di dentro che di fuori” non va né spiegata né lasciata da parte; qualcosa che va oltre quel cappello; una visione.

Sarà proprio la visione il filo conduttore di questo numero.

Buona lettura.

di Andrea Virdis

Mario Giacomelli era fortemente legato alla sua terra, dedicò parte della sua vita alla ricerca di un linguaggio fotografico autentico che potesse stravolgere l’esteriorità della materia, esaltandone l’anima. La camera oscura era per lui un luogo sacro; lì dove sogno e realtà si incontrano, mediante le più svariate tecniche, Giacomelli riusciva a modellare il quotidiano, donando ulteriore bellezza al mondo attraverso le proprie visioni interiori. Un controllo assoluto dell’apparecchio fotografico, tanto che in molti casi il processo creativo iniziava direttamente in macchina al momento dello scatto.

Aveva la purezza di un bambino che gioca e crea il mondo.

La mia stessa città e la sua gente, guardati con la lente della poesia, mi sembrano modificate, stimolano nuove esperienze e nuove avventure, mi spingono in territori immaginari

In questo numero ho deciso di condividere con voi una splendida “visione” di Giacomelli, lo scatto fa parte della serie “La notte lava la mente, 1994/95” di

Pur non manifestando una struttura nitida e ordinata, la foto riesce a tracciare una linea interpretativa ben definita sfruttando delle forme familiari e lasciandoci liberi di reinterpretare la scena grazie alle capacità immaginifiche della nostra mente.

Un viaggio tortuoso nell’intimità della psiche, una corsa frenetica nell’oscurità di un mondo oramai alterato e inospitale. Rapiti dal buio più profondo di un mare in tempesta che scuote l’anima, veniamo trascinati verso il chiarore di uno scoglio, la nostra casa, rifugio sicuro, ma capiamo subito che anche lei è disperata, alla deriva, in balia delle onde.

Agostino Maiello

Sarah Moon

Vediamo con gli occhi? In parte sì, è indubbiamente lì che avviene l’incontro tra l’esterno e l’interno, tra il mondo che ci circonda ed il nostro primo organo deputato a raccoglierne la presenza ed a tradurla in uno stimolo. Ma sappiamo anche che questa esperienza non si ferma al dato apparente: essa invece dà vita ad un percorso fatto di interpretazione, elaborazione, richiami, che avviene nel nostro cervello e lungo il quale si sviluppa un fenomeno complesso.

L’atto del fotografare è una pratica che parte dal mondo reale, cioè origina da qualcosa che stiamo osservando; qualcosa che catturiamo con uno strumento di ripresa, e che tramutiamo infine in una immagine finale, dove per finale si intende che è da noi considerata adatta ad essere proposta al pubblico - senza dimenticare che noi stessi siamo a nostra volta il nostro primo pubblico. Si tratta dunque di un processo circolare: il fenomeno osservato viene assorbito dal fotografo, e riversato in un risultato che ne è una riproduzione allo stesso tempo fedele ed infedele. Necessariamente fedele in quanto ancorata al dato di realtà - altrimenti non si starebbe parlando di fotografia; ma altrettanto necessariamente infedele, perché il filtro del fotografo, ancor prima di quello dell’osservatore, fa sì che avvenga - sempre, comunque, inevitabilmente - un processo di personalizzazione del dato reale, nel suo passaggio da frammento di mondo a fotogramma bidimensionale. Che la si chiami personalizzazione, alterazione, inter- pretazione, transfigurazione, l’essenza di fondo non muta, fermo restando che prendendo a punto di partenza uno qualunque di questi concetti si potrebbe poi sviluppare un discorso di affinamento e di precisazione della effettiva portata di ciascuno di essi. Non essendo questo il luogo di intraprendere tale riflessione, volgiamo piuttosto la nostra attenzione al termine filtro, sbrigativamente adoperato poco sopra per racchiudere in una sola parola quel complesso insieme di fattori (estetici, emotivi, tecnici, culturali, di esperienze e memoria…) che portano ciascun fotografo a vedere una scena in un certo modo, a fotografarla in un certo modo, ed ogni osservatore a leggerla in un altro modo ancora.

Ma cos’è un filtro? A pensarci bene è qualcosa che, attraversato da una materia, ne lascia passare una parte e ne blocca un’altra. Ne deriva che non può passare ciò che non era già presente in origine, e questo allora ci fa capire che il termine filtro non è il più adatto, perché un’altra delle cose che sappiamo è che la fotografia molto spesso costituisce un atto di scoperta, di disvelamento, dando sostanza ad una porzione di mondo che prima non esisteva e che inizia a sussistere proprio al compimento dell’azione fotografica tutta. C’è insomma una materia visiva su cui si proietta la formazione del fotografo per dare corpo ad una sostanza: l’immagine finale.

Allora non di filtro si tratta, ma esiste un termine adatto? Si potrebbe indagare il lessico, oppure no; teniamoci invece per buono filtro, ma con l’accortezza di tenere a mente quanto segue: che non si tratta di un mero separatore di materia, bensì di un’entità che agisce ad un livello più profondo, e che indirizza l’atto del fotografare affinché il suo risultato finale porti ad un appagamento del fotografo - il momento in cui l’autore licenzia l’opera, quantomeno in un dato istante.

Messa così, si potrebbe ben sostituire la parola filtro con la più ampia nozione di visione, che è per l’appunto il tema di questo numero. Diventa dunque quasi superfluo precisare, con riferimento al termine visione, che non si sta parlando solo di ciò che il fotografo vede quando scatta, ma di quell’insieme di elementi (palesi o latenti) che portano l’autore a scegliere di fotografare qualcosa e non qualcos’altro, di farlo in un dato modo e non in un altro, e di lavorare poi sull’immagine arrivando ad un certo risultato finale in favore di un altro. Una visione estesa, dunque, che va ben oltre lo stimolo oculare, e che abbraccia l’intero portato percettivo e creativo dell’autore.

Le Alchimie di Sarah Moon, fotografa francese classe 1941, prima modella, poi apprezzata fotografa di moda, infine (grossomodo dalla metà degli anni ‘80) impegnata in un percorso autoriale creativo ed affascinante, sono un esempio eccellente di come si possa formare e delineare uno specifico rapporto tra l’artista e la sua opera, di come la suddetta visione determini gli esiti artistici, consentendoci così di compiere una analisi a ritroso per indagare le relazioni e le dinamiche che hanno costituito il passaggio dal piano del contenuto a quello dell’espressione, per prendere a prestito con un po’ di ardimento termini che appartengono alla linguistica. Alchimie ci presenta una serie di immagini permeate di quella malinconia e di quella dimensione onirica che da anni costituiscono la cifra stilistica più evidente dell’operato della Moon. “Ma io vedo così”, rispose a chi, agli inizi, le contestava la scarsa nitidezza delle immagini. Così la Moon scoprì di essere “miope come una talpa”, ma questo non la portò a indossare gli occhiali per correggere il difetto ed iniziare a scattare foto nitide ed a fuoco; tutt’altro. La sua visione si è evoluta e consolidata negli anni, inseguendo una realtà fatta di ricordi, impressioni, desaturata dagli squillanti colori del presente e morbidamente affidata alle soffuse tinte marroni del passato (“i colori del ricordo”). E allora questa raccolta di immagini (in gran parte realizzate nel 2013 presso il Museo di Storia Naturale di Parigi) è una ricognizione ed un’esposizione con cui la Moon ci parla della vita e della morte, mostrandoci tra sgranature e sfocature ciò che non è più. Tassidermista e visionaria, evocatrice ed indagatrice, la Moon ci chiede di accompagnarla in una esplorazione dentro quegli spazi che navigano a metà tra ciò che si vede e ciò che si percepisce, un limbo fatto di visione (ancora) ed intuizione; un panorama di segni che ci accolgono pagina dopo pagina invitandoci a scavare al nostro interno per risolvere la loro funzione, tra gabbie e chiaroscuri, afflati di vita e oscure sfumature di solitudini.