Fotografia Transfigurativa Magazine - N.10 Aprile 2024

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FT FOTOGRAFIA TRANSFIGURATIVA MAGAZINE 10 Transfigurative Photography rivista periodica di cultura fotografica n. 10 | Aprile 2024
FTM10 Superfluo

Fotografia Transfigurativa Magazine rivista periodica di cultura fotografica n. 10 | Aprile 2024

Direttore Michele Palma

Redazione

Agostino Maiello | Alessandro Mazzoli | Stefano Montinaro | Andrea Virdis

Ha collaborato a questo numero

Rosita Percacciuolo

4 editoriale Le due dimensioni di Michele Palma

6 copertina di Andrea Virdis

8 il libro

L’utilità del superfluo David Goldblatt, Some Afrikaners Photographed di Agostino Maiello

13 gallery Galleria Fotografica

AA.VV. (a cura di Rosita Percacciuolo)

36 appunti di Alessandro Mazzoli

38 ritmi

Strati di necessità di Stefano Montinaro

40 un minuto a mezzanotte da La Pizia

sommario

Le due dimensioni

Siamo al numero dieci, un traguardo importante, mai ci avrei pensato!

Viviamo un momento storico fortemente significativo per la fotografia, colmo di fotografi e conseguenti immagini, che sfruttano la miriade di mezzi di divulgazione - i social, il web in primis.

Si sono aperte nuove frontiere, imboccate nuove direzioni fino ad arrivare al totalmente artificiale ma pur sempre intelligente (si fa per dire). In quest’ultimo caso faccio davvero difficoltà ad identificarla come fotografia, visto che di scrittura con la luce non c’è nemmeno l’ombra, ma alla massa esperta sembra piacere così.

Un contesto decisamente variegato, fantastico, nel quale spesso mi domando perfino che senso possa avere una rivista, uno strumento obsoleto, poco immediato, che per essere apprezzato al meglio dovrebbe uscire da un monitor e materializzarsi, diventare fisicamente tangibile.

In fin dei conti ha ancora senso parlare di fotografia?

Ho sempre pensato la fotografia come appartenente a due mondi, il primo ad alta valenza estetica dove spesso (non sempre) la ricerca avviene preconfezionando lo scatto. Ho visto still life bellissimi creati da veri maestri del settore, foto di food curatissime con impiattamenti fatti da chef e luci curate maniacalmente, scatti di moda meravigliosi eseguiti da grandissimi fotografi che guidano gli sguardi, le espressioni, le pose spesso coadiuvati da estetisti, hair stylist, truccatori e chi più ne ha più ne metta, tutto sempre curato nei minimi particolari. Per non parlare dei fotografi di cerimonie, che devono sempre accontentare i committenti documentando e sorprendendo. Splendidi soggetti aggiunti a grandissima cura della qualità portano ad un risultato da lasciare a bocca aperta.

Il secondo mondo lo penso più funzionale (termine inappropriato ma non mi viene in mente altro) dove la parte estetica, per quanto significativa, passa in secondo piano per lasciare spazio all’efficacia emozionale. Potrei dire una fotografia scattata a ciò che si incontra, come lo si incontra, senza intrusioni, che diventa comunicativa dialogando con il fruitore. Una dimensione dove non si rimane a bocca aperta ma a mente spalancata.

Come la realtà interroga il fotografo la fotografia interrogherà chi la guarda. Se nel primo mondo il compito dell’opera sarà rispondere nella maniera più totalizzante possibile alle domande, nel secondo sarà l’opera stessa a generarne sempre di nuove; e se così non fosse verrebbe meno l’efficacia, rendendo la foto inutile.

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editoriale

Spesso le due dimensioni si toccano; meno spesso, nei casi più rari, coincidono perfettamente generando meraviglia.

Ho sempre paragonato la dimensione estetica alla pittura, dove l’artista ha facoltà di aggiungere o modificare quei particolari che attirano lo sguardo, mentre ho sempre assimilato la dimensione funzionale alla scultura classica nella quale, per compiere l’opera, è indispensabile togliere il superfluo.

“Il superfluo” sarà il filo conduttore di questo numero.

Buona lettura.

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Possiamo davvero arrogarci la presunzione di stabilire se e cosa sia realmente superfluo in un determinato contesto fotografico?

Nell’era del sensazionalismo imperante e della bellezza sfrontata, in un mondo di immagini sorretto da fragili e fatiscenti fondamenta di vacuità, viviamo una realtà fotografica epidermica che ci spinge ad allontanarci sempre più dalla semplicità, da quei piccoli e all’apparenza insignificanti dettagli che solo gli animi più sensibili riescono a cogliere, trasformandoli in potenti simboli carichi di significato.

Spesso, quando fotografo, mi reco nella parte posteriore della casa; inizio dal retro anziché dalla facciata. Il più delle volte la storia non si svela sui gradini di casa; spesso è più apparente nel retro cortile, dove la scena non è così ripulita.

E’ lì che si impara a conoscere qualcuno o qualcosa. A me interessano i retroscena, dove la vita si mostra per quello che realmente è.

Abbiamo trascurato a lungo l’opacità del sogno per abbracciare la nitidezza scintillante di un’estetica scontata. Dovremmo invece imparare a soffermarci sulla quiete dei dettagli più silenziosi, rivalutare la timida bellezza del superfluo e riscoprire la visione profonda delle cose che abbiamo accantonato nell’angolo più remoto del nostro inconscio.

Todd Hido nasce in Ohio (Stati Uniti) nel 1968. Attualmente è riconosciuto come uno degli autori che più ha contribuito negli ultimi decenni a preservare l’autenticità di un’estetica sussurrata. A bordo della sua auto, in giro per le periferie dei piccoli quartieri statunitensi, Hido ha indagato in profondità il paesaggio, riuscendo a distillare il superfluo in modo da restituire allo spettatore un concentrato di pura poesia. I suoi inconfondibili scatti sembrano provenire direttamente dal mondo dei sogni e sono fonte di ispirazione per numerosi fotografi contemporanei. Paesaggi freddi assorti nella nebbia si alternano a notti buie, come quella che vi porto oggi.

La casa, silenziosa e solitaria, è avvolta da un’atmosfera quasi spettrale, ma la luce che irrompe dall’interno, fondendosi con la nebbia genera un chiarore caldo e intimo. Un contrasto spiazzante tra luce e tenebra che stimola la curiosità dello spettatore, spingendolo a immaginare gli attimi di vita che si susseguono all’interno dell’abitazione. Nulla possono quelle sbarre contro la potenza del sogno.

Questa fotografia è un chiaro esempio di come il concetto di superfluo sia del tutto soggettivo e non segua binari prestabiliti, ma viaggi invece sulle vie indefinite e imprevedibili del nostro pensiero.

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copertina
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Todd Hido, Houses at Night, 2001

il libro

di Agostino Maiello

L’utilità del superfluo

David Goldblatt, Some Afrikaners Photographed (ed. Steidl)

Si potrebbe approcciare il progetto più famoso di David Goldblatt dopo essersi documentati sulle tematiche che affronta. Oggi, del resto, con il web è tutto più facile, almeno in apparenza. Sotto, dunque, con le ricerche – da Wikipedia ai blog specializzati, dal sito ufficiale (o quel che ne resta) a quelli di riviste ed organizzazioni dedicate allo studio dell’apartheid, al racconto ed all’analisi delle vicende che hanno contraddistinto la storia del Sud Africa. E così via, attrezzandosi per una lettura informata.

Oppure si potrebbe lasciar perdere tutto questo, magari rimandandolo alla fase del poi. Prima guardare poi leggere, insomma; e decidere che l’imprinting sull’argomento, al netto di tutto ciò che già conosciamo da letture, film e fonti di informazione varie, ci venga proprio da questi some Afrikaners fotografati. Si potrebbe seguire questa strada, dunque. E così facendo, non trascorrerebbe molto tempo prima di rendersi conto che, in effetti, documentarsi prima è tutto sommato superflo. Non ridondante, non inutile, ma di certo non necessario. Perché c’è qualcosa che colpisce in questa serie di immagini, al di là del loro indubbio valore, che già di per sé è un valore di natura multiforme: declinabile in chiave estetica quanto umanistica, sociologica oppure politica, a seconda delle inclinazioni, aspettative e chiavi interpretative dell’osservatore-lettore.

E diciamo osservatore-lettore perché queste fotografie, come a volte – beninteso non sempre – avviene, non vanno solo osservate. Vanno, appunto, lette, ed è questa la fase che sostanzia ciò cui si accennava poco sopra, quel qualcosa che non fa parte del loro valore in senso stretto, eppure ne è un corollario indispensabile e qualificante. Se si pre-

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ferisce: non superfluo. Se proviamo a dare un nome a questo qualcosa, ci viene di adoperare proprio questa espressione: l’assenza del superfluo. Questa ipotesi di definizione si deve a più considerazioni. La prima, più evidente, è che in queste immagini non c’è ferocia; non si ravvisa alcuna cattiveria. L’occhio di Goldblatt non è in cerca di speculazione, né appare attraversato da quella bramosia estetizzante che a volte contamina la purezza della foto documentaria. Un secondo aspetto è legato, più che al come si racconta, al da dove. Ci viene proposta una distanza che sentiamo giusta, una visione rispettosa, intima e discreta allo stesso tempo; scevra d’ogni orpello, ogni elemento superfluo. Pagina dopo pagina, quel qualcosa di cui si sta parlando assume un’identità sempre più netta, finché non diventa possibile rivestirlo di parole più precise, che connotano qualcosa che non c’è anziché qualcosa che manca. Ed allora la nuova definizione potrebbe essere militanza sottile. Sottile per tutte le qualità che si sono elencate poco sopra. Ma, senza dubbio,

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una militanza, perché anche il non dire è un dire, il non rimarcare è un segno; e la scelta tra isolare o contestualizzare ha un carico semantico ben preciso. “L’essenziale è invisibile agli occhi”: una frase citata spesso, estratta da un libro molto popolare, che appare qui perfetta per aggiungere una sfumatura al discorso sinora sviluppato.

Gli Afrikaners ritratti da Goldblatt, con le loro verande, i loro sguardi, le posture assunte da soli o quando sono con i loro familiari, le stanze in cui si mostrano all’obiettivo, ci raccontano

tutto ciò che è necessario. Quei volti, quelle mani, quei campi ci parlano di durezza, fatica, separazione, amore, lavoro, lotta, disprezzo, denaro, affetto, fede, memoria. In breve, di vita. Questi bianconero di diversi decenni fa ci raccontano un mondo fatto di razzismo, contraddizioni, legami – tra persone, o tra terre e persone. Già, la terra. Reclamata, colonizzata, contesa; la terra qualifica un’appartenenza ed un’identità. E sappiamo che la nostra identità costituisce allo stesso tempo il risultato ed il nocciolo di ciò che è essenziale per noi stessi, lo strumento cui ci aggrappiamo per esorcizzare la nostra ancestrale paura di essere soli, ovvero di non essere nessuno.

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Non è mai semplice stabilire in che modo andrebbero guardate immagini di questo tipo, ammesso che si tratti di qualcosa che sia effettivamente possibile stabilire in maniera univoca. Non è semplice né può esserlo, perché la lettura di un’opera non può prescindere dal contesto in cui è stata realizzata, dai codici e dalle nozioni dell’osservatore-lettore, dall’ineludibile contenuto politico che un lavoro siffatto si porta dietro e dentro. Ricade dunque nella sfera della sensibilità di ciascuno decidere quanta distanza frapporre tra noi e le fotografie, quanto lasciare sciolte le briglie della partecipazione emotiva, quanto dosare la propria attenzione tra il piano puramente estetico delle immagini e quello afferente agli aspetti umani, sociali e politici delle scene rappresentate. In questo vasto spazio discrezionale, nel quale ognuno può e deve individuare il proprio punto di osservazione, fluttua – pervasiva e mai opprimente – la placidità della visione di Goldblatt. Una visione che, qualunque sia la scelta operata dall’osservatore-lettore, ne permea con delicatezza lo sguardo, sostenendolo nella messa a fuoco dell’essenziale: essenziale che, proprio in quanto tale, risulta sovente tanto più forte ed efficace quanto si tiene a distanza dall’eccesso e dal troppo mostrarsi.

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gallery

Selezione a cura di Rosita Percacciuolo

Fotografie tratte dalla pagina Facebook

Fotografia Transfigurativa - The Gallery

Stefania Piccoli Monia Monea Ottavia Gori Marzia Bernini Angelo Casoni Giorgio Marras Astolfo Lupia Debora Gambalonga

Enzo Fornione

Rodolfo Rubagotti Pietro Lo Buglio Alessandro Mazzoli Luigi Fortini Stefano Montinaro Laura Cavallari Buzzanca Marina Ceccarini Paolo Volpi Giuseppe Lentini Carlo Riggi Rosita Percacciuolo

Immaginare un paesaggio in chiave transfigurativa significa affidarsi ai filtri diffrattivi ed espansivi propri del sogno e dello sguardo metafisico.

“Se le guardi a lungo con intenzione, dopo un po’ le cose ci parlano”.

Di cosa ci parlano i nostri paesaggi? Di noi, certo, dei territori che abbiamo esplorato con le nostre fotocamere, ma ci parlano anche del genere fotografico in sé: il nostro è un paesaggio sul Paesaggio.

Nel nostro percorso non abbiamo inteso compiere un’analitica ricognizione geografica, ma proporre una rivisitazione del genere Paesaggio attraverso l’approccio transfigurativo.

Il paesaggio a cui abbiamo dato luce è il nostro pensiero sul mondo, un ritratto della natura, cioè tutto quanto le nostre emozioni possono cogliere di ciò che ci è intimo, che ci sta intorno e dentro, e a cui sentiamo di appartenere. Un pensiero condotto con gli occhi socchiusi del sognatore, sfrangiato, mosso, vignettato; oppure fermo, silenzioso, riflessivo.

Le nostre città sono sospese perché quello è lo stato del sogno, quando tutto si ferma e si entra a far parte di una cosmogonia sovraordinata, che unisce gli esseri, le cose, i sentimenti e tutta la grazia del creato dentro un clic.

Il nostro paesaggio ha un rapporto conflittuale con la bellezza. Molto diversa dal paesaggio tradizionale, che di un certo conformismo estetico troppo spesso si nutre.

La bellezza che noi cerchiamo si muove fuori dalle orbite del sensazionalismo e della spettacolarizzazione. Le nostre immagini ci cullano dentro armonie fatte anche di brutture, di buio o di angoscia, perché è quella la nostra realtà prima. Che spesso rifuggiamo, proteggendoci dietro il paravento di un bello già collaudato, ma che invece vogliamo provare a riparare, attraverso il recupero di assetti formali più coinvolgenti e meno stereotipati.

Abbiamo suddiviso il nostro mondo in quattro quadranti, come altrettante dimensioni metaforiche. Nord, Sud, Est, Ovest sono categorie esistenziali, inclinazioni dell’anima, stati dello spirito. Li abbiamo assunti per verificarli, e eventualmente sconfessarli, per uscire dallo stigma sociologico, ribaltando ataviche convinzioni.

Da questo punto di vista, la nostra è una vera indagine sul mondo, dall’esito per nulla scontato, che ognuno potrà esplorare in una sorta di messa alla prova dei propri pregiudizi.

Abbiamo fotografato il paesaggio non per spiegarlo, ma soprattutto per capirlo.

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di Alessandro Mazzoli

C’è un libro che ho letto anni fa che rimane tra quelli fissi sul comodino, il luogo dei libri importanti, quelli che non si mettono mai a posto in libreria. Sulla copertina uno stralunato Klaus Kinski, nei panni di Fitzcarraldo, aziona un grammofono in mezzo alla foresta. Il titolo del libro, “La conquista dell’inutile”, ci parla del desiderio folle e indescrivibile che alimenta l’immaginazione, la volontà di fermare una visione in un’opera. Tra essenziale e superfluo, termini difficili da definire in una dialettica che non sia passibile di inciampo, in un andamento a zig zag tra idee e pensieri, tra urgenza ed elaborazione, noi fotografi inseguiamo forse l’utopia di cogliere l’anima delle cose, perdere tempo ad inseguire il tempo con la macchina fotografica. Essere inefficienti in un mondo affannato dalla velocità e dalla produttività, schiavo di forme precostituite dalla moda dove il superfluo è uno strisciante bisogno compulsivo di avere cose. In questo mondo rumoroso gli artisti sono scomodi quando non sono burattini manovrati, quando si fanno ancora sorprendere dall’apparizione dell’immagine che arriva inaspettata e segreta. Trasciniamo sulla montagna la nostra nave a vapore come il folle Fitzcarraldo, per il solo piacere di sentir cantare Caruso nel cuore della foresta amazzonica, portiamo avanti la nostra personale follia di sognare il presente, a rischio di perdere il senso della misura e riversare nel mondo una miriade di immagini inutili e necessarie al contempo. Servono davvero tutte queste fotografie?

La conquista del superfluo dà un’eccitazione spirituale più grande che la conquista del necessario. L’uomo è una creazione del desiderio, non del bisogno.

Gaston Bachelard, La psicanalisi del fuoco, 1938

La perfezione non si ottiene quando non c’è più nulla da aggiungere, bensì quando non c’è più nulla da togliere.

Antoine De Saint-Exupéry

36 appunti
Andreas Gursky, Kuwait Stock Exchange, 2007

Ma cosa significa togliere?

Scatti una foto, la guardi, la pubblichi. Quanto dura quell’immagine? Pochi minuti, un giorno, al massimo una settimana. Oppure no: non la guardi se non per essere sicuro che sia venuta bene, magari la elimini, ne elimini tante e quelle che rimangono le lasci lì per giorni, anche un mese. Si può paragonare un flusso di immagini alla musica, che invade gli spazi pubblici, locali, strade, case, perfino ascensori. E si può pensare che un’immagine scelta, accolta, curata e comunicata sia come l’epifania di un concerto, desiderata, vissuta nel profondo, essenziale. Eppure - e qui si manifesta il paradosso dell’arte - è superflua, funzionale a null’altro che all’urgenza di essere creata da qualcuno di noi, in una giornata solitaria, in una notte insonne, in un momento di gioia o in un vortice di malinconia. La guardiamo e si manifestano altri pensieri, tra le luci e le ombre, tra rivelare e nascondere, per come hai inquadrato nel magico confine del fotogramma, questa o quella cosa ed hai tenuto fuori l’altra, un cenno appena o un caos di elementi. Diamo forma e senso al nostro passaggio nel mondo misurandoci, nella composizione, continuamente con l’essenziale ed il superfluo, rischiando ad ogni scatto il cortocircuito che si potrebbe alla fine rivelare la vera qualità di quello che renderemo visibile.

Un ultimo salto tra i pensieri mi riporta alla mente una delle meravigliose torri dell’acqua dei coniugi Bernd e Hilla Becher, una visione austera e monumentale senza alcuna concessione al superfluo e in parallelo una delle mirabolanti, ridondanti e debordanti immagini di un loro allievo: Andreas Gursky. Ecco che qui definire cosa sia essenziale o superfluo diventa davvero difficile, se non impossibile: entrambe le opere si muovono nel terreno indefinibile dell’artisticità, che sovverte e rimescola i valori generando continuamente nuovi percorsi di senso.

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Bernd & Hilla Becher, Wasserturm, Craisheim, Germania, 1980

Strati di necessità

Crop, il nemico del non necessario, il giustiziere del ridondante, un alleato fedele.

Definire il superfluo rappresenta un’operazione estremamente difficile in qualsiasi campo di applicazione, definirlo in fotografia forse è impossibile. Complicato pensare a un concetto più relativo, influenzato e condizionato dalla soggettività del contesto, della percezione, dell’umore.

Forse eliminerei quell’ombra, ostacola il racconto. Troppi dettagli in basso, il peso è sbilanciato Era così indispensabile includere tutto?

Normalmente si tende ad associare l’idea di superfluo a quella di troppo, e spesso procedere per sottrazione rappresenta effettivamente un’enorme risorsa. Per quanto mi riguarda, per natura e percorsi, sottrarre è inequivocabilmente più appagante rispetto ad aggiungere, non tanto in termini di risultato, quanto, molto più, di processo istintivo, quasi incorporato. E fin qui tutto facile.

Quando invece l’idea di superfluo si sposta, collocandosi su linee di confine molto più sfumate, andando quasi a sovrapporsi ad altri elementi fondativi nell’organizzazione delle forme di un’immagine… è lì che il gioco si fa duro. In un rimbalzo di definizioni che può rischiare di diventare sterile, il marginale può essere superfluo, ma difficilmente è troppo: l’attenzione al marginale, al periferico diventa molto spesso, al contrario, centrale nel veicolare tutte le istanze di senso non univoche, non lineari e non narrative che un’immagine dovrebbe portare con se’.

Volendo ulteriormente aumentare la confusione, il superfluo è forse l’elemento che rende un’immagine satura, inchiodandola all’univocità espressiva, e per questo andrebbe spietatamente estromesso, ma spesso sono elementi superflui a contribuire a rendere densa un’immagine, e la densità, dal punto di vista visivo e di linguaggio, è un vettore formidabilmente plurale.

Nel superfluo, la fotografia trova la sua poesia più intima, un linguaggio silenzioso che parla direttamente al cuore dell’osservatore.

Distinzioni sottilissime, indubbiamente, ma utili a capire che è proprio il superfluo, frequentemente, ad invitare ad esplorare oltre il visibile, a scoprire nuove prospettive e ad aprire nuove visioni. È proprio il superfluo a far viaggiare le nostre fotografie su linee di condivisione immediate, emotive e portatrici di segni eterogenei.

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ritmi

È come se il superfluo riuscisse a ribaltare il tavolo, accreditandosi a tutti gli effetti non più come non necessario, ma come somma di stratificazioni del necessario

Strati indipendenti e modulabili, la cui sovrapposizione diventa paradossalmente essenziale nel conferire profondità e senso al percorso di un’immagine.

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Yasuhiro Ogawa, Into the silence, 2024

da La Pizia

un minuto a mezzanotte

Una genesi accidentale è spesso alla base dell’opera d’arte.

Fotografie nate convinte di essere fondamentali, e costruite per esserlo, finiscono col risultare sterili, banali, destinate all’irrilevanza. La loro forza si consuma per intero nella messa in opera dell’idea.

Viceversa, immagini che arrivano in maniera occasionale, frutto di un’intuizione periferica, sono capaci di sconvolgerci la vita, proprio in virtù del fatto che non erano previste.

Superflue in origine, rischiano di diventare indispensabili.

Le opere più straordinarie derivano da bisogni secondari, capricci, o pura megalomania. Sono beni voluttuari, orpelli inutili, accessori prescindibili.

Che bisogno c’era di costruire le piramidi? Quale necessità fondamentale ha determinato la realizzazione della reggia di Versailles o quella di Caserta, della Tour Eiffel o del Taj Mahal?

L’essenziale non ha mai richiesto il minimo talento

E.M. Cioran

In scala, anche piccole imprese come leggere un buon libro o concedersi un viaggio possono essere considerate superflue. Salvo diventare nutrimento dell’anima, valori irrinunciabili per il benessere personale.

Il superfluo, proprio per la sua capacità di emanciparsi dal bisogno, attiene al desiderio e quindi al piacere.

Il desiderio è una proiezione di ciò che custodiamo nell’immaginario. Possiamo desiderare solo ciò che già abbiamo dentro. Non a disposizione, da prendere e usare, ma sotto forma di istanza, di preconcezione.

Desiderare una fotografia significa avvertire l’urgenza di un incontro tra questa traccia impalpabile e la sua configurazione percettiva. Se questo incontro non avviene non succede nulla, non muore nessuno. Ma se avviene si realizza un piccolo miracolo, una gioia dei sensi, un sussulto di vita.

Questo è il vantaggio del fotoamatore sul professionista, nessun obbligo, nessun committente. Il fotoamatore si muove sempre in perdita. Di denari, di tempo, di energie. Spende in materiali che non gli frutteranno alcun ritorno economico. È la perdita che dà valore al suo gesto.

Il digitale, da questo punto di vista, rischia di non essere abbastanza dispendioso. Nessun consumo di pellicola, nessuna fatica per sviluppare i negativi. Puoi scattare a raffica senza rimetterci nulla.

Occorrerebbe compensare questa gratuità con una disciplina rigorosa. Perdere tempo, limitarsi negli scatti, attendere un po’ prima di osservare la foto sul display, concedersi il lusso dell’errore: il più chic dei beni superflui.

Il superfluo, al contrario dell’essenziale, è un talento che bisogna coltivare.

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Tutte le fotografie, nel rispetto del diritto d’autore, vengono qui riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.

post scriptum ...non è un fatto, ma un’opinione. Un’occasione, più che una verità.

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