13 minute read

l’autore

di Agostino Maiello

La visione di Mario Giacomelli, il maestro di Senigallia

Advertisement

Il tema della Visione che anima questo numero della rivista può essere declinato in molti modi, dei quali il più prossimo alle intenzioni che ci siamo poste lo significa come relazione che intercorre tra l’artista e la sua opera. Ci siamo interrogati, in altre parole, su quale fosse il rapporto che, ad opera compiuta, si instaura tra il fotografo e le sue immagini: non, dunque, la visione cui l’autore si affida per produrre l’immagine, bensì ciò che nasce dopo, e che articola e descrive come si pone il fotografo dinanzi alla sua immagine al termine del processo creativo.

Questo era lo spirito del nostro indagare, pur nella consapevolezza di quanto il termine visione, senza altre connotazioni, non fosse pienamente adeguato a trasmettere l’intero significato che ambivamo a dargli. Ma tant’è; ed avendo in mente questa premessa, ci è parso proficuo volgere la nostra attenzione ad uno degli autori più significativi del panorama nazionale, quel Mario Giacomelli (Senigallia, 1925 – Senigallia, 2000) fotografo e pittore, che con tanta intensità e coerenza si è dedicato alla ricerca ed alla rielaborazione della materia del mondo, partendo da quelli che lui chiamava prelievi del reale per poi, con uno straordinario lavoro in camera oscura, arrivare alla creazione di immagini-simbolo che, originandosi nel suo vissuto, assumono un valore universale.

“Il fotografo pro-duce l’immagine, nel senso etimologico che la porta fuori, se la tira fuori dalle viscere del suo vissuto per renderla a lui visibile, per questo lui stesso si definisce spettatore, e lo fa seguendo una struttura precisa, il suo metodo ritualizzato. È questo suo essere artefice-spettatore che rende Giacomelli contemporaneo: nell’abbandono dell’Oggetto, così come dell’intervento puramente soggettivo, l’artista si ritrova di fronte al suo operare creativo come di fronte a uno specchio” (Katiuscia Biondi, “Mario Giacomelli. Sotto la pelle del reale”, Ed. 24 Ore Cultura 2011): bastano queste poche righe per definire con nettezza il presupposto della nostra analisi; e l’investigazione sul suo essere artefice-spettatore (appunto la sua visione, nell’accezione che ne abbiamo data all’inizio) si è sviluppata grazie alla disponibilità di Simone Giacomelli, figlio di Mario e direttore dell’Archivio Giacomelli, https://www.archiviomariogiacomelli.it/ , istituito nel 2003 e gestito dagli eredi al fine di custodire e mantenere l’opera e il patrimonio di Mario Giacomelli.

Simone, sono passati oltre vent’anni dalla scomparsa di tuo padre, eppure il suo archivio ci continua ad offrire tesori e scoperte, tra fotografia e pittura. Quando hai iniziato a curare l’archivio ti aspettavi qualcosa del genere, cioè che i suoi lavori potessero diventare quasi un’opera permanente, un corpus in continuo divenire?

In effetti sì, una mezza idea me l’ero fatta quando mia sorella Rita ed io abbiamo dovuto stilare un primo inventario. Il materiale era ed è tantissimo, tra stampe, provini, negativi, negativi non lavorati. Nel tempo, con lo studio ed una ricerca più approfondita, questa consapevolezza è aumentata. Il suo essere stato non solo un fotografo ha reso lo studio ancora più particolare e profondo. Nostro padre ha un po’ sovvertito le regole ed accresciuto il senso ed i significati della simbologia collettivamente riconosciuta; nel suo lavoro di costruzione dell’immagine ha ulteriormente alimentato l’immaginario collettivo, e questo rende l’analisi del suo lavoro una sfida continua. Ho l’impressione che sarà un lavoro infinito, visto che la ricerca comporta dei tempi molto lunghi, anche data la mole così ampia di materiale: lasceremo sicuramente qualcosa da fare a chi verrà dopo!

Proprio a proposito di questo, in riferimento alla sua attività di pittore, c’era a tuo parere una differenza sistematica di approccio tra le due forme espressive? Nel senso: sceglieva razionalmente volta per volta quale pratica utilizzare, oppure si lasciava guidare dall’istinto e dall’emozione del momento?

Tra la sua fotografia e tutta la parte pittorica ci sono delle similitudini. Ad esempio, l’uso di alcuni segni caratteristici della fotografia lo ritroviamo anche nelle sue opere pittoriche, l’affidarsi agli stessi simboli, la tendenza a trasformare il soggetto in oggetto; e poi il suo voler indagare la materia – giocandoci, conoscendola… un tratto tipico del suo essere un pittore materico, e che in fotografia si articola nel suo tipico bianconero sgranato. Ma penso anche al concetto di tempo, reso con gli strumenti dello sfocato e del mosso in fotografia ma in maniera simile anche nella pittura. Mosso e sfocato erano uno dei suoi modi di interpretare il tempo, con un’immagine ferma e qualcos’altro che si muove al suo interno, proprio per dare il senso dello scorrere del tempo. Era un po’ il suo trauma, lo ha sempre chiamato il flusso traumatico del tempo; lo ha sempre studiato e cercato di esprimere. Insieme alle similitudini che ho menzionato ci sono poi delle differenze. In generale ti direi che ad un certo punto ha scelto la fotografia come mezzo preferenziale, perché la pittura aveva uno spazio più personale e più intimo. Lui viveva i suoi dipinti come un qualcosa in cui c’era un flusso dal mondo verso l’artista, senza che si risolvesse un vero riscontro verso l’esterno. Questo lo consumava emotivamente e non solo, ricordo che iniziava a dipingere e non smetteva finché il quadro non fosse finito, anche privandosi del sonno… Ad un certo punto si è reso conto che nella pittura non vedeva una possibilità di comunicazione con l’esterno, a differenza di quanto riuscisse a fare con la fotografia. Perciò, dopo tanti anni di convivenza tra i due canali espressivi alla fine ha prevalso la fotografia, anche perché gli consentiva di partire dal reale, da qualcosa di riconosciuto o almeno riconoscibile. Per lui era fondamentale avere come punto di partenza un segno o una materia che incontrava tutti i giorni, non a caso fotografava moltissimo tutto ciò che era intorno a noi, qui a Senigallia. Credo che questo sia stato ciò che gli ha fatto scegliere la fotografia: quando ha rinunciato all’illusione di poter trasmettere un messaggio univoco attraverso le immagini, infatti, ha potuto liberare completamente il suo modo di fotografare, per conquistare uno spazio unico come fotografo e artista. Tanti altri artisti sono unici, ciascuno a suo modo, ma indubbiamente la fotografia di Mario Giacomelli è stata molto particolare. È una fotografia che crea domande, dubbi, riflessività; non è mai una fotografia bella che ti trovi davanti con la risposta già definita.

Rispetto ai tempi in cui lavorava, il mondo della fotografia è cambiato enormemente. Oggi tutti scattiamo fotografie, spesso con gli smartphone, e moltissime vengono condivise immediatamente. Ti sei mai chiesto se tuo padre fosse vivo oggi come scatterebbe? A me viene da pensare che, in quanto sperimentatore, non si sarebbe trattenuto dal provare le nuove tecnologie e scatterebbe tranquillamente anche con un telefonino, rimanendo sé stesso, divertendosi senza pregiudizio…

Cerco sempre di non pensarci, perché non so darmi una risposta. Papà diceva sempre che una volta che si fosse rotta la sua macchina fotografica avrebbe smesso di fotografare. Però credo anche io che non avrebbe rinunciato a provare alcune cose, per esempio la fotografia col drone. Lui era molto attratto dalla fotografia aerea ma per una serie di motivi ad un certo punto ha dovuto rinunciarvi – anche perché sull’aereo non ci andava di persona, ci mandava qualcuno con le sue indicazioni. Invece, chissà, con un drone avrebbe potuto scattare, magari guidandolo lui stesso!

Un altro aspetto è quello delle possibilità di elaborazione del digitale, che credo gli avrebbero consentito di costruire delle immagini che non avrebbe potuto realizzare in camera oscura.

Insomma, penso che si sarebbe divertito. Ma soprattutto penso che, se fosse vissuto nel presente, avrebbe viaggiato di più – magari portandoci con lui – andando alla scoperta del mondo e di quei segni che tanto lo interessavano ed incuriosivano.

Be’, vi ha fatto viaggiare in un altro modo. A voi figli ma anche a noi! Quello sì, anche perché a livello personale posso dirti che il rapporto tra me e lui è sempre passato attraverso l’arte, che fosse fotografia, pittura, poesia… Quindi io adesso mi ritrovo con una specie di diario che costituisce il nostro vissuto ma che lui non ha mai espressamente spiegato, perché ha sempre preferito parlare per immagini. È la fotografia che gli ha consentito di realizzarsi come artista ma anche come persona; ad un certo punto le immagini hanno agito sul suo modo di essere, era lui che componeva immagini ma allo stesso tempo le immagini componevano lui. Alla fine, è diventato un po’ il prodotto del suo lavoro.

Vi è mai capitato di confrontarvi su una sua fotografia e di darne due letture totalmente diverse?

Sì, sempre! Considera che ho iniziato nel 1984 ad aiutarlo nella composizione delle serie, ai tempi de “Il Teatro della Neve” e di “Ho la testa piena mamma”; la poesia di Permunian, insomma. Quella fu la prima volta che mi invitò a partecipare alla composizione di una serie, ed era un modo come un altro per stare insieme e conoscerci. Andando avanti in questo lavoro ci siamo sempre confrontati sulle immagini, anche perché per comporre le serie lui creava delle pile di fotografie già stampate, anche già usate in altri progetti, e quindi ogni volta che sceglievo un’immagine io gli dovevo dire perché sceglievo quella, e vedere se era d’accordo. Oppure la sceglieva lui e chiedeva a me se io fossi d’accordo.

Faceva così anche con i testi poetici che adoperava per accompagnare le serie, quando negli anni ’90 nascevano quasi insieme, mentre in passato i testi venivano dopo le fotografie. Me li faceva leggere dicendo che ero l’unico, ma sapevo che non era così: li dava a tante persone per avere spunti e pareri da amici, fotografi, poeti.

Come padre e figlio potrei dire che avevamo un inconscio condiviso e questo in un senso ci avvicinava, ma poi questa comunanza veniva meno quando le sue immagini si collegavano al suo vissuto, e questo le rendeva autonome. Me ne accorgo spesso osservando le persone che vengono a visitare le mostre, ne escono con una sensazione di un dialogo iniziato, fatto di domande che galleggiano durante la visita. Una reazione alle immagini di Giacomelli alla fine ce l’hai sempre, anche se sei contrario, anche se l’immagine ti scava dentro contro il tuo volere. Il nesso col suo vissuto ha fatto sì che a suo tempo io a volte non capissi alcune cose; molte le ho comprese solo in seguito, per esempio come quando ha tradotto in una serie di immagini ciò che provava quando andai a vivere altrove lasciando la casa paterna: questo non mi fu immediatamente chiaro. In quanto fotografo, cercava di universalizzare il suo sentire, ed io forse riesco ad interpretarlo adesso che ne ho i mezzi, ma all’epoca non era così immediato. Del resto, neanche quando parlava era chiarissimo: era una persona che ti chiedeva continuamente di interpretarlo. Questo nelle sue immagini accade di frequente, vedi delle cose che non riesci a decifrare subito, anzi a volte dire troppe cose su un’immagine la impoverisce; quindi, deliberatamente lavorava per rendere il messaggio più spiazzante e fumoso.

Era dunque questo un po’ il senso della sua visione, del suo rapporto con le sue opere: non “faccio qualcosa e poi valuto cosa ne pensano gli altri”, bensì “produco qualcosa anche confrontandomi con l’esterno, per poter poi essere io a guardare cosa ho fatto ed articolare una relazione con la mia opera”. Sì. Non aveva l’obiettivo di comunicare, di instaurare un dialogo tra lui e l’osservatore: il dialogo che lui cercava era tra la foto e chi l’avrebbe guardata. Spesso, a stampa finita, si metteva a contemplarla, ed era un po’ come se la vedesse per la prima volta. Quello era il momento in cui iniziava un dialogo; un dialogo che rendeva e rende viva l’immagine, e che durava molti anni.

Comunque, nonostante questa particolarità, questo carico personale, le sue esposizioni hanno molto successo anche presso un pubblico molto giovane, tra chi si è da poco avvicinato alla fotografia. Probabilmente proprio per la loro capacità di andare oltre l’apparenza e di agire su un piano emozionale, più profondo. Sì, sicuramente c’è qualcosa che non possiamo nemmeno spiegare senza rischiare di impoverire o uccidere la fotografia. Come diceva lui, “se io spiego l’immagine, l’immagine muore”.

Il fascino delle foto risiede proprio nel persistere della domanda. Le sue sono immagini che non hanno limiti di tempo o di spazio. Ricordo un’esposizione in Corea dove le persone si sono commosse davanti alle fotografie del bambino di Scanno o di Lourdes, nonostante la distanza culturale… ricordo un montatore che addirittura cadde in ginocchio in lacrime, in qualche modo questa immagine gli aveva stimolato una connessione con un’esperienza del suo vissuto. E mi viene in mente come il pubblico degli USA si relazionava, specie dopo l’11 settembre, con immagini fastidiose, dolorose, penso alle fotografie dei mattatoi, degli ospizi... Argomenti dai quali di solito ci teniamo lontani.

In fondo tutti abbiamo una sensibilità di fondo condivisa, in quanto umani.

Sì. Seppur si tratti di fotografie degli anni ’50, possono risuonare anche nella sensibilità di un ragazzo del 2003, anzi il più delle volte è il pubblico femminile ad entrare in sintonia con le immagini. Giacomelli è stato un autore che ha ribaltato e sovvertito molte regole e codici del linguaggio fotografico, ed i giovani per inclinazione hanno piacere a sperimentare cose nuove; dunque, possono riconoscere quei segni perché sono ormai condivisi e parte del patrimonio comune, sono simboli senza limiti di tempo e latitudine. Anche se René Burri, suo amico, gli diceva “Tanto tra 5000 anni ci saremo dimenticati di tutto e tutti!”

Un altro aspetto del loro fascino è il non essere (volutamente) perfettine ed educate, se mi passi l’espressione. Esatto, lui non era interessato alla fotografia come documentazione precisa di qualcosa, tutt’altro.

Si potrebbe dire che alla fine l’imperfezione rende ogni immagine unica, e quindi proprio per questo più simile alla realtà, che è sempre diversa nel suo non essere seriale. Spesso diceva “io faccio un prelievo, vado sotto la pelle del reale”, ma poi quella materia che estraeva era sottoposta al suo intervento, ed era quella la parte più importante della creazione. Grossomodo direi che l’80% della sua fotografia nasceva in camera oscura. Era un bravissimo stampatore – del resto aveva iniziato così, aveva stampato anche per Cavalli ma ben presto si rese conto di non essere interessato alla “bella foto”, tecnicamente ben composta e bilanciata, e voleva andare oltre. Ricordo che scherzava a proposito dei puntini di polvere sulle fotografie: “Perché devo toglierli? È questo il bello della fotografia…”

Ti avrei voluto chiedere chi è secondo te oggi la tipologia di pubblico più vicina alle opere di Giacomelli, ma in un certo senso mi hai già risposto, accennando alla prevalenza del pubblico femminile…

Sì, tra i giovani è così. Ma più in generale direi che non ci sono vincoli di età, le sue fotografie sono per chiunque voglia sfuggire al bombardamento quotidiano delle immagini e sia in cerca di una relazione d’amore con una fotografia, senza paura. Anche perché le immagini alla fine non ci parlano più solo di Giacomelli, ma ci parlano di noi stessi. Ed allora ci vuole il coraggio di affrontarle.

Cinque Frammenti Utili per coltivare una propria Visione (e vivere felici)

Daidō Moriyama | Corporea

Per me, cogliere ciò che sento con il mio corpo è più importante dei tecnicismi della fotografia. Se l’immagine è mossa, va bene, se è fuori fuoco, va bene. La chiarezza non è l’obiettivo della fotografia.

Di frequente, nelle parole di Moriyama, il vagabondaggio appare il motivo su cui poggiare tutto. La ricerca dell’incontro nel senso più propriamente transfigurativo del termine.

Quando giro in città, non ho un piano. Cammino in una strada e quando mi viene voglia di girare l’angolo in un’altra, lo faccio. In realtà, sono come un cane: decido dove andare in base all’odore delle cose e, quando sono stanco, mi fermo.

La predisposizione del corpo.

Mettere in gioco il proprio stato nell’interezza delle sue espressioni.

Quando scatto fotografie, il mio corpo entra inevitabilmente in uno stato di trance. Percorrendo alacremente i viali, ogni cellula del mio corpo diventa sensibile come un radar, in grado di reagire alla vita delle strade... Se dovessi trovare delle parole, direi: “Non ho scelta... devo scattare... non posso lasciare questo posto agli occhi di un altro... devo scattare... non ho scelta”. Un infinito, cantilenante ritornello.

Dick Fosbury | Capovolta

Il ragazzo si romperà il collo. Dick Fosbury, scomparso di recente, è l’inventore della tecnica che ha rivoluzionato il salto in alto. Le sue gambe piuttosto fragili non gli permettevano di avere grossi risultati nella specialità. Pensò quindi a ciò a cui nessuno aveva mai pensato: saltare all’indietro anziché in avanti, come si era sempre fatto. Vinse le Olimpiadi del 1968 e da allora tutti saltano come lui.

Mi è stato detto più e più volte che non avrei mai avuto successo, che non sarei stato competitivo e che la tecnica non avrebbe funzionato. Tutto quello che potevo fare era scrollare le spalle e dire: “Vedremo”.

Non mi sono allenato per entrare nella squadra olimpica fino al 1968. Mi sono semplicemente allenato per il presente.

Garry Winogrand | Compulsiva

Se non hai scattato la foto, non c’eri. Forse questa la sintesi più giusta, anche se parziale, della visione di Winogrand. Una visione che lo porta a percorrere ossessivamente chilometri sulle strade, scattando senza soluzione di continuità, senza curarsi nemmeno delle immagini che effettivamente produce.

Una visione che non racchiude in sé alcun contenuto specifico, se non quello di esserci, scattare il qui ed ora senza distrazioni.

Non ho nulla da dire in nessuna foto. Il mio unico interesse per la fotografia è vedere come appare qualcosa in una fotografia. Non ho preconcetti.

Per me il vero compito della fotografia è catturare un po’ di realtà (qualunque essa sia) sulla pellicola... se poi quella realtà significa qualcosa per qualcun altro, tanto meglio.

Alla sua morte, decisamente prematura, lascia un patrimonio di diversi milioni di immagini, una cospicua quantità delle quali ancora contenute in rullini mai sviluppati.

Sai, non credo proprio che si impari dagli insegnanti. Si impara dal lavoro.

Penso che ciò che si impara, in realtà, è come essere... devi essere il tuo critico più severo, e lo impari solo dal lavoro, dal guardare il lavoro.

Tōru Iwatani | Preterintenzionale

Nei discorsi di Tōru Iwatani, ideatore e progettista del più leggendario tra i videogiochi, PacMan, si rintraccia spesso l’idea di una visione che porta ad un risultato più ampio rispetto al suo punto di partenza. Nel 1980, anno del primo rilascio del gioco, le sale da gioco erano appannaggio pressoché esclusivo di uomini appartenenti a una fascia d’età piuttosto ristretta. L’obiettivo di Iwatani era quello di espandere le potenzialità commerciali dell’azienda per cui lavorava (Namco), portando per la prima volta un pubblico femminile a varcare la soglia di quei luoghi spesso non particolarmente curati, anche dal punto di vista igienico.

Ero lì che mi chiedevo che tipo di cose cercassero le donne in un videogioco. Mi sono seduto nei caffè e ho ascoltato ciò di cui parlavano. [...] Poi hanno iniziato a parlare di cibo, di torte, di dolci e di frutta, e mi è venuto in mente che il cibo e il mangiare sarebbero stati l’argomento su cui concentrarsi per attirare l’interesse delle ragazze.

Una visione obiettivamente alquanto discutibile e ristretta, piuttosto sessista, molto giapponese. Una visione che, forse suo malgrado, ha prodotto Pac-Man, il mangia fantasmini.

Jacob Aue Sobol | Istintiva

La cosa più difficile per me è fotografare da lontano.

Un approccio in cui è lo stomaco a farla da padrone. Il tessuto emozionale interno diventa un tutt’uno con la grana abrasiva delle sue immagini.

Ho deciso che per me la fotografia doveva essere qualcosa che potevo sentire. Potevo sentirla nel mio stomaco. Non potevo scattare foto che non fossero collegate alla mia vita interiore.

C’è un’immensa quantità di amore nell’istinto di Sobol, lo stesso amore che riempie di esasperazione il suo bianco e nero.

Quando fotografo, cerco di usare il più possibile il mio istinto. È quando le immagini sono sconsiderate e irrazionali che prendono vita; che si evolvono dal mostrare all’essere.