Fotografia Transfigurativa Magazine - N.8 Ottobre 2023

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FT Transfigurative Photography

FOTOGRAFIA TRANSFIGURATIVA MAGAZINE 8

rivista periodica di cultura fotografica n. 8 | Ottobre 2023



Segno

FTM8


Fotografia Transfigurativa Magazine rivista periodica di cultura fotografica n. 8 | Ottobre 2023 Direttore Michele Palma Redazione Agostino Maiello | Alessandro Mazzoli | Stefano Montinaro | Andrea Virdis Hanno collaborato a questo numero Giuseppe Lentini | Carlo Riggi


sommario

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editoriale

Il nostro tentativo di Michele Palma

copertina

di Andrea Virdis

il libro

Herbert List Hellas di Agostino Maiello

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gallery

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Città sospese

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appunti

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l’autore

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ritmi

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un minuto a mezzanotte

Galleria Fotografica AA.VV. (a cura di Giuseppe Lentini)

Indagine sul Paesaggio di Carlo Riggi

di Alessandro Mazzoli

Gli spazi di Detroit Una Conversazione con Dave Jordano di Agostino Maiello

Segni in Tempo Reale di Stefano Montinaro

Il segno e la forma da La Pizia


di Michele Palma

editoriale

Il nostro tentativo

Spesso, sempre più spesso, mi trovo a girovagare negli spazi reconditi del mio essere, della

mia mente, della mia memoria, accompagnato da oceani di domande con infinità di dubbi senza risposte. Spazi che coincidono totalmente con i luoghi, le persone e le cose nelle quali ci si imbatte oppure ci si scontra. “Perché” è la sintesi totalizzante dell’esistenza, una grande domanda e una continua ricerca di risposte. Così viviamo il quotidiano, come “mendicanti nel deserto”. È proprio questo atteggiamento, non sempre chiaro, non sempre consapevole ed a volte inconscio, che rende tutto più intrigante, che ci fa diventare talmente insoddisfatti da farci vivere il quotidiano con atteggiamento quasi bipolare, da un lato, immersi in una routine apparentemente piatta, noiosa, faticosa e dall’altro in un’esistenza in continuo divenire che brama opportunità e continui spunti di ricerca. Due esseri, due entità che coesistono nello stesso corpo, nella stessa esperienza. In un’unica esistenza. Ricerca, sì, ma dove, cosa e soprattutto perché! Proprio ora sono a Pesaro all’interno della mostra “Dialogo” installata assieme agli amici Alessandro e Paola. Un’esperienza davvero particolare non solo per aver l’occasione di esporre al pubblico delle fotografie, tanto bramate, faticate, sudate, tanto significative, ma per tutta una serie di eventi che si sono generati, concatenati in altri e sono certo daranno frutti in futuro. Sono queste esperienze che danno un senso alla nostra passione, che la totalizzano portandola a compimento. Noi fotografi ci troviamo a desiderare di fare mostre, libri fotografici ed altro che ci dia visibilità. Desiderio condiviso da poeti, pittori, scultori. Ciò che ci spinge a farlo, ciò che tiene accesa la fiamma del desiderio è portare la propria esperienza a servizio di altri. Una frase che mi ha particolarmente colpito il giorno dell’inaugurazione è: ”non ho visto un’esposizione di fotografie ma ho fatto un’esperienza” [cit.] Questo è davvero interessante perché l’esperienza è ciò che veramente ti può toccare e nel piccolo ti può cambiare. Questo deve succedere attraverso un’opera, questo succede mettendola a disposizione di tutti. Qualcosa deve cambiare, se non accade nel fruitore accadrà sicuramente nell’autore. In fondo un’opera non è altro che un segno immerso dentro la quotidianità, quando lo scorgo qualcosa deve necessariamente mutare.

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Sono i segni che possono dare un senso alla nostra esistenza al punto di desiderare noi stessi di esserlo. Scriveva Marco Pesaresi “L’importante nella vita è lasciare un segno del proprio passaggio”, questo è il nostro tentativo, in questo lui è riuscito. Sarà “il segno” il filo conduttore di questo numero. Buona lettura…

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di Andrea Virdis

copertina

La fotografia ha la straordinaria capacità di congelare istanti di vita consentendoci di

riviverli in qualsiasi momento o reinterpretarli all’infinito. Come uno scrigno, le immagini che catturiamo custodiscono memorie e combinazioni di “segni” che determinano connessioni tra realtà e immaginazione, tra presente e passato. Dare una connotazione ben precisa al concetto di “segno” in fotografia non è affatto semplice. Il segno è da sempre alla base di ogni forma di linguaggio visivo, ma è nell’arte fotografica che a parer mio riesce a manifestare la sua vera essenza, valicando il confine comunicativo e diventando testimone del tempo. Il fotografo americano Joe Deal (Joseph Maurice Deal, 1947 - 2010), protagonista della copertina di questo numero, ha esplorato a lungo il paesaggio, focalizzando la propria ricerca sui segni provocati dall’interazione tra uomo e ambiente. Deal è stato uno dei principali esponenti del movimento New Topographics, orientamento fotografico che ha visto la propria consacrazione con l’importante mostra “New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape” nel 1975 a New York. Oltre a Deal, l’evento coinvolse alcuni dei mostri sacri della fotografia mondiale, come Robert Adams, Stephen Shore, Lewis Baltz, Bernd e Hilla Becher. La mostra segnò una svolta epocale sul modo di intendere la fotografia di paesaggio, sradicando ogni convenzione esistente e portando nuova luce sull’idea di urbanizzazione e di paesaggio modellato dall’uomo. Una rivoluzione dello sguardo che influenzò intere generazioni di fotografi. Nella foto che ho scelto è ben evidente il tratto distintivo della New Topographics che tende a mantenere una linea oggettiva evitando sentimentalismi. Ciò nonostante, se osserviamo l’immagine in profondità con occhio transfigurativo, non possiamo fare a meno di sognare. Le tracce evidenti lasciate dagli pneumatici sull’asfalto di un’anonima statale suggeriscono un ambiente polveroso, un crocevia di vite che chiama il fruitore a chiedersi “chi ha lasciato quelle tracce?”, “dove andava?” e “perché?”. In questo caso specifico vediamo come il segno non si limita a documentare l’impatto dell’attività umana sulla natura o le relative alterazioni del paesaggio, ma diventa un vero e proprio dipinto dove rimangono impresse testimonianze di vita, di storia e di cultura di un’intera comunità.

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Joe Deal, San Fernando, California,1978

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di Agostino Maiello

il libro

Una luce fissa che divenne forma

Herbert List Hellas (ed. Schirmer/Mosel 2003)

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ortarsi sul Sounion è davvero, e d’un colpo solo, impegnarsi su cos’è la Grecia. Avanzato e quasi a picco sul mare, col mare da tutti i lati, perché è stretto l’istmo che l’unisce alla terra, e come consunto, perfino ridotto a spiaggia da un lato, scopre un numero infinito di isole, alte, decise nei contorni, tagliate in blocchi di azzurro intenso come l’azzurro delle vetrate.

Sarebbe sin troppo facile, sfogliando le pagine di questo libro, limitarsi a decantare la bellezza degli scenari ripresi: un mare cupo e lucente allo stesso tempo, i segni di un’architettura elegante ed imponente che più di ogni altra ha contribuito a plasmare il senso estetico di gran parte delle culture europee, la luce intensa ed avvolgente di quelle terre. Il tutto valorizzato da inquadrature rigorose e potenti, tipiche di List – un fotografo elegantissimo, ardito, sensuale come pochi – e da un bianconero che, pur nei limiti della stampa tipografica, si presenta ineccepibile e sontuoso. Il vento l’investe costante come il fischio d’una sirena: ha talmente piegato e rasato i cespugli bassi che non possono piegarsi ancora né sporgere una sola foglia: si oppongono passivi e fitti, crivellati di spini, con un tesoro di foglioline verdi e gialle fra gli spini: e quelle gialle sono fiori. Mandano un profumo tenue che sa appena di mimosa e di giglio, e che il vento non riesce mai a disperdere del tutto, e si ritrova in certe tasche che fa l’aria: né ci si aspetterebbe.

Ma, appunto, sarebbe sin troppo facile. Perché se si va oltre questo non secondario aspetto che potremmo sinteticamente racchiudere sotto l’amplissimo concetto di forma, si raggiunge un piano diverso, evocato appunto grazie a tutti gli elementi appena elencati; un piano al quale ci si potrebbe riferire in molti modi. Qui però rinunciamo senza rimorsi all’accattivante richiamo del concetto di contenuto - sarebbe una contrapposizione tanto comoda quanto discutibile 8


– e ci affidiamo ad una esposizione più elaborata, che tenti di suggerire al meglio l’approccio che più ci pare adatto alle immagini di questo volume. In cima, le colonne. Fra quante se ne vedono in Grecia, codeste sono d’un marmo o pietra che sia, incandescente come la neve. E il vento e il sole le ha in parte strutte, rudemente accarezzando quella carne immacolata e vivida, dove vene leggere si scoprono come al polso di una giovinetta. Cola il sole lungo le scalanature come una salivazione aurea, eppure non riesce ad avoriare quel bianco sovrumano, che resiste al cielo turchino, al verde smeraldo, al topazio bruciato della terra. Ma fra una scanalatura e l’altra, quasi golosamente sbocconcellate, dove tenta l’ombra di rassegnarsi un poco, è codesta ombra come una gelatina azzurra, o celeste piuttosto, nel tono della turchese, ma non così opaca, trasparente.

Perché colonne e volti, sedie e polpi, arbusti e lame di luce sono lì a riempire i fotogrammi, ed a costituirli, realizzando dei processi di significazione che per un osservatore europeo – ed ancor più italiano – convocano alla memoria una serie di contenuti che da un lato sono collettivi e dall’altro soggettivi. Collettivi in quanto elementi fondanti e condivisi di una solida parte della cultura europea, e soggettivi nella misura in cui ciascuno di noi, in base al percorso di esperienza e formazione che lo ha portato ad essere ciò che è oggi, dispone di determinate aspettative e capacità di accoglimento. L’osservazione delle immagini elleniche di List attiva dei processi percettivi che, inevitabilmente, finiscono col richiamare alla nostra mente tracce della nostra memoria; dove memoria non è da intendersi tanto come insieme di ricordi, bensì nel senso più ampio di cultura, un’entità formata dall’aver vissuto in un contesto che di quell’epoca ne è appunto figlio, per quanto non sempre noi ne siamo pienamente consapevoli. Ed è qui che scatta dunque la magia, resa ancor più potente dall’eccellenza tecnica delle fotografie. List era un fotografo colto, eclettico, indagatore: le immagini

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coniugano classicismo e surrealismo, presente e passato, antico e moderno. Un gioco continuo di rimandi fatto di ammirazione e scoperta, visioni d’insieme e scelta di dettagli, comprensione cerebrale e fascinazione emotiva. La Grecia antica è lì, modernissima come noi mai. Per questo: e per la posizione eccelsa, che sembra comandare a tutti i mari, e per queste incorruttibili colonne senz’ombra, è, più d’ogni altro luogo dell’Ellade, l’Ellade stessa, la Grecia della nostra civiltà. Finché un mozzicone rimarrà di tali colonne, il candore di quella pietra non si offuscherà, e l’azzurro seguiterà a gemere dai solchi devastati delle scanalature, come una resina celeste, scandendo ancora, fino all’ultimo superstite, l’avvento di una luce fissa che divenne forma.

(Citazioni nel testo: Cesare Brandi, “Viaggio nella Grecia Antica”, 1954)

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gallery Selezione a cura di Giuseppe Lentini Fotografie tratte dalla pagina Facebook Fotografia Transfigurativa - The Gallery


Angelo Casoni


Zhenay Karpenko


Alfredo Toriello


Elle Letizia


Valerio Bianco


Stefano Montinaro


Ilaria Siddi


Rosita Percacciuolo


Giorgio Cerutti


Marzia Bernini


Rosetta Agliardi


Andrea Virdis


Barbara Businaro


Stefania Piccoli


Mimmo Summa


Alessandro Mazzoli


Jan Noszczyk


Enzo Fornione


Maria Serra


Giuseppe Leonardi


Città sospese Indagine sul Paesaggio

di Carlo Riggi

La lampadina del frigorifero è davvero spenta quando la porta è chiusa? Se lo chiede il fisico parigino Étienne Klein, ed è una domanda formidabile. Gran parte delle nostre convinzioni si regge su quel che conosciamo, o crediamo di conoscere, più che su quel che vediamo. Crediamo più alle nostre convinzioni che ai nostri occhi, e un po’ facciamo bene: noi fotografi sappiamo quanto l’immagine possa essere fuorviante. L’aggettivo “fuorviante”, tuttavia, introduce l’idea di una verità prestabilita, una via da seguire pedissequamente e da cui non deragliare. Il che può essere ragionevole in molti ambiti, ma non in quello della Fotografia, tanto meno se Transfigurativa. La verità che ci interessa non è una meta univoca da raggiungere, ma è l’esperienza di essere quel che siamo nel qui ed ora, in contatto autentico, pieno, vitale col nostro mondo. Senza la presenza fisica ed emotiva dell’au�tore, e senza una fotocamera a mediare l’incontro col reale, non c’è Fotografia. Altro che AI! Possiamo forzare la forma del segno, piegarla alla nostra illusione di onnipotenza, ma senza quell’attimo di genuino e disarmato stupore otterremo al massimo un simulacro di verità, un feticcio. Magari bellissimo, ma Rodolfo Rubagotti freddo e sterile. Questo vale per qualunque genere fotografico, ma soprattutto per il Paesaggio: il più inclusivo di tutti. Il fotografo ha sempre a che fare coi paesaggi. Qualunque cosa inquadri, ciò che ha davanti è sempre una rappresentazione della realtà messa in scena dalla realtà stessa. Nel mirino egli ha sempre un paesaggio, quello che la sua geo-collocazione sensoriale, psichica, emozionale, gli consente di vedere in quel momento tramite la fotocamera, il trait-d’union, la barriera di contatto tra la dimensione della preconcezione e quella del percetto. Se pensiamo al paesaggio come uno Antonella Messina 34


spazio d’incontro tra scenari interni ed esterni, esso è tutto ciò che i nostri sensi percepiscono intorno a noi, in un perimetro la cui vastità non è definita in ampiezza ma in profondità, attraverso i parametri dello spazio, del tempo, del sentimento e del caso; insomma, la dimensione del sogno. La foto di paesaggio è una finestra sospesa, bidirezionale: tanto guardi all’esterno, tanto vedi all’interno; è l’affermazione di un semplice dato di fatto: questo posto io l’ho sognato. Nelle scienze classiche il reale è un evento condivisibile e riproducibile. Ma la fotografia è scienza del singolare, ciò che transita anche solo una volta dal nostro apparato fotografico, fino a diventare immagine, è verità. Così, fare paesaggio, indagare con i propri sensi questo territorio a metà tra il fantastico e il reale, sospeso tra passato e presente, e proiettato verso il futuro, fa del fotografo uno scienziato. La rappresentazione del paesaggio non riguarda solo i suoi connotati estetici, ogni scenario variamente antropizzato è il Rosita Percacciuolo riflesso della cultura che lo ha prodotto e comprende i caratteri ambientali, sociologici e psicologici di un popolo all’interno del proprio spazio/tempo. Sono passati 40 anni da quando Ghirri propose a un gruppo selezionato di colleghi di condurre l’esperienza di “Viaggio in Italia”. “Adesso quindi un libro potrà servire a cominciare storie diverse: niente più universi dipinti, niente più spazi rappresentati senza realtà alle spalle (…). Il paesaggio è per noi l’incrocio tra la natura e la cultura quindi anche il luogo della distruzione, in un certo senso. (…) Forse alla fine il paesaggio è proprio il luogo della tensione infinita”. (L. Ghirri)

Anche la FT si è interrogata a lungo sul paesaggio, conducendo con un gruppo ristretto un progetto intitolato “Città sospese”. Una ricognizione dei nostri spazi allucinati, dei nostri sogni sul mondo; una ricerca sulla natura, cioè su tutto quel che le nostre emozioni possono cogliere di ciò che in qualche modo ci appartiene. Non tanto “noi stessi nel nostro paesaggio”, ma “il nostro paesaggio in noi stessi”. La fotocamera ci permette di rendere il nostro occhio straniero, e finalmente poter vedere cose che ci stanno davanti da sempre. Cose di cui sappiamo, ma che non abbiamo mai conosciuto davvero, come la lampadina del frigo quando la porta è chiusa. Fotografare, nell’ottica transfigurativa, è recuperare la realtà invisibile nella sua dimensione emotiva e poetica, instaurare una nuova dialettica tra segno e forma, favorendo una diversa conoscenza delle cose tramite l’esperienza del sogno. Il sogno, il nostro paesaggio.

La mostra “Città sospese”, prima uscita pubblica del progetto Paesaggio FT, sarà inaugurata sabato 9 dicembre allo “Spazio bianco” di Pesaro.

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di Alessandro Mazzoli

appunti

N

on è semplice parlare di segno senza scomodare la semiologia ma è necessario. Mi è necessario, per intraprendere un breve cammino tra le immagini nel nostro modo di guardare il mondo, di immaginarlo attraverso l’arte della fotografia. La prima nozione di segno arriva dal disegno, da un dialogo semplice tra una matita e la carta, tra una scheggia di selce e la parte di una grotta, nel vibrare attraverso la sostanza del tempo del filo teso tra i due estremi, il passato e il presente. Un universo di segni, segni dei tempi che si sono stratificati a comporre il nostro legame con l’origine. Quando facciamo una fotografia, disegniamo con la luce, o meglio, lasciamo che la luce ridisegni il mondo che guardiamo attraverso l’inquadratura. Questo lo fanno tutti, ma la differenza tra immaginazione e documentazione, tra creazione e memorizzazione, forse è proprio nei segni che lasciamo imprimere alla materia sensibile della nostra fotocamera. Uno dei primi esperimenti che ho fatto studiando fotografia erano i rayogrammi, veri disegni di luce su carta fotosensibile e il nostro grande Man Ray ne ha fatto parte della sua opera e non solo. E in un paesaggio, in un ritratto che valore ha il segno? In un interno, un particolare, un oggetto, una

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fantasmagoria visionaria. Fotografare tutto, ricordo queste parole di uno stimato professore, il soggetto è davvero importante o è l’insieme di segni che appaiono nell’immagine, anche a nostra insaputa, al di là dell’ intenzione o in ribellione con essa. Sedimentazione, l’attesa per lo sviluppo della pellicola, far finta di avere un rullino da sviluppare anche con una potente scheda da chissà quanti gigabyte per lasciar riposare le immagini e potersi sorprendere del contenuto che è rimasto impresso. Ingannare la memoria, rileggere i segni che abbiamo impresso, trovare il punctum superando lo studium (scomodo con un cenno Roland Barthes perché ci troviamo quasi sempre noi fotografi a definire il punctum di un’immagine quasi come un gioco, una caccia al tesoro nascosto della visione). Dunque il segno è davvero un segno, un colpo di luce, un dettaglio che diventa visibile e caratterizza il significato della fotografia, una parola, un segnale, una ferita su una superficie, uno sguardo inaspettato di un soggetto, un’ombra che sembra appunto un segno. L’esperienza della visione, come la lettura, genera significato, un significato di volta in volta poetico, filosofico, emozionale. Sapere di aver innescato questo processo, che questo processo ha generato poesia, emozioni, una qualche forma di conoscenza, è aver impresso un segno e non solo sulla carta, non solo su uno schermo. Mi accompagno in questa breve riflessione con due scatti del fotografo tedesco Robert Hausser; l’odore dell’inchiostro e il fruscio della carta, la radice antica dell’origine delle immagini, il disegno, appaiono come l’evocazione di un principio antico, fondante, un segno originario che continua nel corso del tempo a raccontare il mondo attraverso la visione. 37


di Agostino Maiello

l’autore

Gli spazi di Detroit

Una conversazione con Dave Jordano

C

lasse 1945, nato a Detroit, Dave Jordano si trasferisce a Chicago nel ‘77 per aprire uno studio di fotografia commerciale. Nel 2000, dopo quasi un quarto di secolo di brillante carriera nel mondo della pubblicità, arriva la svolta: la decisione di dedicarsi a progetti personali, al mondo della fotografia fine-art. E sono queste le immagini di Jordano che, qualche anno fa, hanno suscitato il mio interesse: prima una rispettosa quanto intensa galleria di ritratti della gente di Detroit, poi un’elegante serie di affascinanti notturni della stessa città. Dave, osservando le tue fotografie mi capita spesso di avere l’impressione di stare guardando un’immagine apparentemente semplice - semplice, ma non banale - ma che in realtà contiene qualcosa di non detto esplicitamente che stimola la mia curiosità. Più le guardi più scopri cose. Ritengo di essere un fotografo molto diretto. La maggior parte dei miei soggetti è posizionata al centro dell’inquadratura, e la domina. ...il classico approccio “less is more”, insomma. Sì, esatto. Ho sempre lavorato così, senza andare alla ricerca di fronzoli, in tutte le fasi del mio percorso di fotografo. Un percorso che ha visto momenti diversi. Quando ero al college scattavo in bianconero, e facevo fotografia documentaria. I maestri che all’epoca mi influenzavano erano Walker Evans, Atget, CartierBresson. Dopo gli studi dovetti trovarmi un lavoro... ed in effetti lo trovai, ma non mi piaceva. Quindi mollai tutto e me ne andai a Chicago, per aprire un mio studio fotografico. Dove vivi tuttora. Esatto, vivo a Chicago dal 1977. Ho trascorso qui la maggior parte della mia vita, e per più di 30 anni sono stato un fotografo commerciale, lavorando molto nel settore del food e della

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fotografia pubblicitaria. Ma nel 2000 mi è nato l’interesse di andare a riscoprire i miei scatti iniziali, quelli documentari, per provare a realizzare qualcosa di più significativo e durevole, che andasse oltre l’esigenza di fare pubblicità. Da allora ho deciso di dedicarmi anche a dei progetti personali, ormai è quasi un quarto di secolo che mi ci dedico. La gran parte dei miei progetti sono a lungo termine, di solito durano quattro o cinque anni; ed anche se l’intento di fondo è di natura documentaristica, rifletto molto su cosa fotografare e come fotografarlo. In effetti, guardando il tuo lavoro su Detroit, penso che tu ne abbia percorso ogni singolo metro quadro! In effetti sì! (ride, ndr) Ma a differenza dei tuoi inizi, con questi progetti personali hai lavorato sempre col colore. Assolutamente sì, sempre a colori. Per me è stato semplicemente logico. Il colore è parte del mondo, quindi perché non raccontarlo? Ma l’episodio che mi ha portato a lavorare a colori è stata la scoperta di Marktown, un quartiere di East Chicago, nell’Indiana. È una piccola comunità, di poco più di un chilometro quadrato, all’interno di una vasta area industriale con acciaierie e quant’altro; sembra una cittadina inglese, con i cottage, le sue stradine… È una zona abitata da molte persone di origine centro-sudamericana, con case e strade molto colorate. Mi resi conto che sarebbe stato un peccato lavorare in bianco e nero, e così decisi di lavorare a colori. Parliamo comunque di pellicola. Sì. All’epoca avevo una fotocamera 4x5”, poi nel 2004 presi una digitale. Lavoro così da allora. 39


Un tuo lavoro molto interessante è quello dedicato alle Storefront Churches, le chiese collocate all’interno di ex-negozi, tipiche di alcune comunità afroamericane. Il mio secondo lavoro a colori…. È stato molto interessante documentare quegli spazi, quegli interni. Le chiese sono normalmente considerate luoghi pubblici, ma a me interessava mostrare questi ambienti familiari, segni di come ciascuno pratichi la fede a suo modo. Alla fine, questi spazi finiscono col rappresentare speranza e sollievo, rinsaldando i legami all’interno di comunità spesso caratterizzate da povertà diffusa e da molta criminalità. Sei solito programmare in anticipo cosa fotografare o lasci che ti guidino le circostanze? Mi lascio guidare molto dall’istinto. Esco e cerco di soffermarmi su quel che trovo. L’importante è che vi sia un interesse verso ciò che si fa. Altrimenti non si riesce a sostenere la lunga durata necessaria a portare a termine un progetto complesso. Per me è sempre stato facile, posso dedicarmi ad un progetto per molti anni senza che il mio impegno venga meno. E quando lavori hai comunque in mente il risultato da raggiungere, immagino. Sì, nella mia mente c’è sempre in primo piano l’obiettivo di fondo. Ho sempre un’idea di come completare un progetto e di cosa ne verrà fuori... cerco di rimanere consapevole su cosa sto facendo e su quanto sono coinvolto emotivamente. Ad esempio, nei miei lavori su Detroit c’è una forte componente personale, perché è la città dove sono cresciuto. Negli anni ho visto la crisi abbattersi su di essa, ho provato compassione per chi ci vive, e mi sono detto che bisognava fare qualcosa. Naturalmente molti fotografi hanno raccontato il declino della città (Detroit ha attraversato varie crisi economiche, che hanno portato ad una enorme riduzione della popolazione, con quasi un terzo della superficie cittadina in stato di abbandono, e le prevedibili conseguenze in termini di povertà, criminalità e disagio, ndr), ma io non volevo fare l’ennesimo lavoro che mostrasse una sfilza di edifici abbandonati. Volevo puntare a qualcosa di positivo. Così decisi di dedicarmi ai ritratti delle persone che ci erano rimaste a vivere e che combattevano per la rinascita della

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città. In fondo ho sempre seguito questo approccio: non mi piace enfatizzare gli aspetti negativi di una realtà, mi piace puntare l’attenzione su chi reagisce e lotta per migliorare ciò che ha. Venendo dalla fotografia commerciale, ti è stato difficile approcciare le persone per chiederne il ritratto? Be’, come nel caso delle chiese di East Chicago, ho dovuto adattarmi. Abituato al food ed allo still-life, di certo non mi è venuto naturale andare a bussare a casa della gente per chiedere di fare foto. A volte credo di essere rimasto in strada aspettando a lungo, finché non usciva qualcuno al quale potevo iniziare a rivolgermi... La scelta delle persone da fotografare a Detroit, comunque, non era pianificata in anticipo. No, infatti. Di solito me ne andavo in giro in macchina e, quando vedevo una situazione potenzialmente interessante, mi fermavo, preparavo la fotocamera - un processo abbastanza lento: Hasselblad digitale, cavalletto, ecc. - e questo alla fine mi ha aiutato perché se c’era qualcuno nei dintorni facevo un cenno di saluto, e provavo ad avviare una conversazione, spiegando chi fossi e cosa stavo facendo. Così ho potuto far capire che non avevo intenzione di speculare, ed ho guadagnato la sicurezza di poter chiedere un ritratto. E poi magari si avvicinava qualcun altro, incuriosito; oppure la persona ritratta mi portava a conoscere un suo amico o parente, e così via. È andata così. Ho lasciato che la città, la mia città, mi inghiottisse. I ritratti sono diretti ma non crudi, come dicevamo prima c’è una forte rappresentazione di speranza e fiducia nel futuro. Niente toni accusatori o di tristezza. Questo era l’intento del progetto, offrire una visione in positivo di Detroit, mostrando persone che soffrono e lottano ma che hanno fiducia nel futuro. Devo dire che gran parte dei lavori

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che ho visto, per non dire quasi tutti, si sono invece concentrati sulle fabbriche dismesse, sui quartieri abbandonati... Qualche anno più tardi ci sei ritornato, questa volta in cerca di scenari notturni. Dopo la pubblicazione del libro su Detroit, sentivo di avere ancora qualcosa da dire su quella città. L’idea di fotografare di notte spaventava amici e colleghi. “Sei pazzo ad andare a Detroit di notte? È pericoloso”, mi dicevano. Decisi di correre il rischio, e non mi è mai successo nulla. Di notte gran parte della città è tranquilla e silenziosa, anche perché la popolazione si è ridotta moltissimo. A volte ero accompagnato da mia moglie, è anche lei una fotografa. Ci siamo sempre sentiti al sicuro e non ci è mai accaduto nulla. Non abbiamo quasi mai incontrato altre persone. Stavolta, dunque, i tuoi soggetti non erano le persone ma, come dire, altri simboli di rinascita e speranza. Sì, ero alla ricerca delle attività commerciali, dei negozietti di quartiere, quelli su cui un quartiere fa affidamento e che se chiudessero sarebbe un gran problema per chi vive lì vicino. Sono piccole realtà, spesso familiari, condotte da persone del posto, che resistono alle difficoltà e che offrono i loro prodotti e servizi alle comunità in cui si trovano e di cui fanno parte, aiutando a mantenerle vivibili. È meritorio che non abbiano mollato e che abbiano resistito. E questo è un progetto ancora in corso. Sì, lo è; ed è un progetto che mi piace molto fare, negli anni l’ho portato avanti in altre località - nel Michigan, nell’Indiana meridionale, nel North Carolina.... La fotografia notturna è un’esperienza meravigliosa. ...e ti porta ad incontrare meno persone, una situazione a cui sei più abituato! Giusto! Ma amo le sfide che mi pone il fare fotografia notturna negli spazi urbani. Ci sono difficoltà tecniche notevoli, l’ambiente è sempre diverso, ci sono illuminazioni miste, spesso con contrasti fortissimi...

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...non sempre puoi scegliere il punto di ripresa, tra recinzioni, proprietà private... ...già. E la sfida, oltre ad essere sul piano tecnico, lo è sul piano estetico. In effetti un angolo di strada o un edificio abbandonato non sono certo i tipici soggetti che catturano l’attenzione di un pubblico generico. Renderli interessanti è forse la sfida principale, visto che non stiamo parlando di un bel paesaggio o di un bel ritratto. Come affronti questo problema? Le mie immagini sono, naturalmente, post-prodotte. Io ho in mente una visualizzazione del soggetto che ho davanti, e quello che ho fotografato è la materia prima che uso per produrre l’immagine finale, esaltando certi dettagli, bilanciando i toni, e così via. Alla fine, l’essenza del discorso è riuscire ad aver sviluppato uno stile, qualcosa che valorizzi la mia personale creatività riflettendo come io ho interpretato quel soggetto. L’intento è creare qualcosa di unico e che sia riconoscibile, qualcosa che porti l’osservatore ad associare quel risultato a me. Allora, come ultima domanda, ti chiedo di indicarmi quali delle tue immagini dovremmo scegliere per corredare questo articolo. Sai cosa mi piacerebbe? Che le scegliessi tu!

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di Stefano Montinaro

ritmi

Segni in Tempo Reale

In fondo non è poi tanto difficile vederla così: quello che facciamo è soprattutto organizzare segni.

Lo facciamo quando produciamo immagini, ma lo facciamo anche quando ci limitiamo a guardarle. Semplificando in questo modo, è naturale pensare a quanto ci sia di soggettivo, relativo, provvisorio e disponibile al cambiamento in questa organizzazione, da qualsiasi fronte la si metta in atto. Le immagini sono veicoli di senso estremamente articolati, fortemente influenzate dal contesto e dall’approccio personale, culturale ed emotivo di chi le produce e di chi ne fruisce. Lo sguardo, con tutto il percorso di complessità che la sua costruzione necessariamente prevede, rappresenta sempre il perno di qualsiasi codifica, decodifica e ricodifica dei segni stessi. La leggenda racconta che Miles Davis, uno fra i più formidabili produttori di segni in tempo reale con la sua tromba, desse indicazioni più che scarne, al limite dell’inesistente, ai musicisti con cui collaborava, anche se si trattava di incidere lavori in studio. Usava raccomandare di non suonare quello che c’era, ma di suonare quello che non c’era. Forse è così che nasce un segno? Non è un appello all’improvvisazione indistinta, al lasciarsi andare alla forza dirompente e suggeritrice dell’emotività. E’ probabilmente invece qualcosa di più sottile, profondo e radicale. Si tratta di accettare l’idea che si stia manipolando materia vivente e, come tale, Don’t play what’s there; play what’s not there in continuo cambiamento. La composizione Miles Davis in tempo reale è da tempo territorio di indagine delle arti performative, ma le arti performative, generalizzando, maneggiano una materia mobile, plasmabile, e hanno come straordinario alleato nella codifica e ricodifica dei segni il flusso, l’accadere temporalmente progressivo degli eventi. E’ quindi impossibile per noi fotografi comporre davvero in tempo reale? I segni che noi organizziamo rimangono, siamo noi a donar loro l’immortalità fissandoli in un’immagine. Sembrerebbe il paradigma della stasi. Eppure.

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Forse Miles Davis ci può aiutare sul serio, anche senza aver mai (o chissà?) preso in mano una fotocamera. Forse anche noi possiamo fotografare quello che non c’è, quello che intuiamo, quello che non sappiamo, quello che esiste altrove e di cui, fotografando, facilitiamo l’arrivo. Possiamo farlo sognando, possibile che non possiamo farlo fotografando? Se è lì che rivolgiamo il nostro sguardo, diventa conseguente organizzare i segni attivando processi infiniti di codifica, decodifica e ricodifica: quando componiamo in tempo reale mentre scattiamo un’immagine, ma anche quando la ri-componiamo ogni volta che capita nuovamente sotto i nostri occhi, e quando permettiamo a chiunque ne fruisca di attivare a sua volta gli stessi processi. Si tratta di materia vivente, si tratta di lasciarla vivere.

MIchael Ackerman, End Time City, 1999

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da La Pizia

un minuto a mezzanotte

Il Segno e la forma

La fotografia nasce dall’incontro, mediato dalla fotocamera, tra una preconcezione e un dato di realtà.

È il nostro jingle, il nostro mantra. Mira soprattutto a evidenziare il ruolo della fotocamera, e comprende nella sua formulazione sia le istanze interiori che gli stimoli esterni, entrambi compartecipi dell’immagine finale. Alcuni pensano che il gesto fotografico segua un percorso prestabilito, con a capo il processo mentale, ma non è così: la fotografia non “nasce sempre nella testa”. Lo scatto può essere indifferentemente determinato da un’emergenza emotiva, un’idea, un’intuizione, oppure estorto dalla irresistibile pregnanza di una esperienza percettiva. Più spesso questo incontro avviene in regime di sincronicità, senza il prevalere di una qualche preesistente e consapevole intentio auctoris. In questo caso è la materia, ridefinita dalla fotocamera, ad accendere il contatto con la tensione creativa e innescare l’ineluttabile esigenza del clic. Nel gesto fotografico la materia, sottoposta a un processo di mutua plasmazione, si scompone e si scontorna fino a mostrare nuove configurazioni, nuove forme aggregate in grado di evocare significati inediti, imprevedibili allo stesso autore. I segni assumono nuova forma, tale da ricombinare il potenziale associativo e muovere l’avvio di originali derive di senso. La fotografia transfigurativa opera una dilatazione dello spazio e del tempo; in questa intercapedine il dato di realtà si profila secondo principi gestaltici, seguendo leggi gravitazionali del tutto autonome, legate all’oggetto, al soggetto e allo strumento in uso. Segno e forma sono inscindibili, da soli non possiedono alcun attributo riconoscibile; solo la capacità organizzatrice dello sguardo fotografico riesce a far sì che essi si costituiscano in unità semantiche, veicoli di significazione e comunicazione affettiva. Segno e forma non esistono finché non trovano una funzione inferenziale e un ricevente disponibile a lasciarsi interpellare: il fruitore di una fotografia, ma, ancor prima, il suo stesso autore.

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Tutte le fotografie, nel rispetto del diritto d’autore, vengono qui riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.


...ciò che impedisce alle cose di accadere tutte insieme.

post scriptum


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