Fiat Lux VI

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N.6

"ANATOMIA"


Io sono interamente corpo, e nient'altro; l'anima è soltanto una parola per indicare qualche cosa che riguarda il corpo NIETZSCHE

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PREFAZIONE Noi di Fiat Lux questo mese vogliamo parlare del corpo. Cosa è per noi il nostro corpo? Quanto influenza la nostra vita? Quanto potere ha su di noi? Il nostro corpo è quella nave che, staccatasi dal porto al momento della nostra nascita, ci trasporta per tutto l’arco della nostra vita, che ci permette di concretizzare i nostri desideri e le nostre ambizioni, che trasforma in atto ciò che noi siamo in potenza. Il corpo però non è una macchina statica, ma un essere, a volte persino a sé stante rispetto alla mente, in continua evoluzione, unico, ma internamente diviso in parti diverse e complesse e ci permette di entrare in contatto con il mondo esterno, di leggerlo, capirlo e controllarlo. Un corpo che in questi giorni è messo alla dura prova e che deve essere protetto e custodito per proteggere e custodire anche quello degli altri, un corpo che spesso non viene rispettato, da altri o da noi stessi, un corpo che noi non scegliamo, che ci è donato, unico, sia esso resistente, fragile o malato. C’è molto altro da dire, ma perché anticipare già tutto? Vi lascio ai miei redattori, le loro opere paleranno al posto mio. Non aver paura di splendere.

FIAT LUX: RIVISTA LETTERARIA Il fondatore e capo redattore


PROSA A CURA DI

Sara Paolella Pasquale Bruno


IL SENTIERO DELLE LACRIME SARA PAOLELLA Marciano verso la morte e non lo sanno. Forse alcuni sì, ma preferiscono tacere questo cattivo presagio, per non peggiorare ulteriormente l’umore di tutti. Camminare è faticoso, farlo portandosi dietro tutto ciò che uno possiede lo è di più; figuriamoci farlo sapendo di dover morire. Marciano tenendosi vicini quanto più possono, perché hanno intuito che ogni passo potrebbe essere l’ultimo con quel compagno accanto, che quello strano e impercettibile sfiorarsi di spalle potrebbe essere l’unico contatto umano che avranno per molto tempo. Lasciano profonde tracce nella neve mentre avanzano lentamente, con i denti digrignati a causa del freddo e della fame, ma non si lamentano. È una questione di onore, di resilienza. Ce l’hanno nelle vene da sempre questa capacità di adattarsi, di sopportare in silenzio. Sono come l’acqua dei fiumi, che scorre al di sopra delle rocce aguzze e le attraversa ugualmente con grazia, come il legno degli alberi che si incrina leggermente solo all’interno, ma non porta mai i segni sulla corteccia. Avevano combattuto, ma non era bastato. Avevano accettato i costumi dei bianchi, e non era bastato nemmeno quello. Avevano firmato trattati di pace, e questi non erano stati rispettati. Erano stati spostati e puniti, puniti e spostati e adesso, sono costretti a spostarsi ancora, a marciare più ad ovest di quanto nessuna tribù avesse mai fatto prima. “Dobbiamo durare, sopravvivere, ad ogni costo” Le parole di Nuvola Alta risuonano ad ogni passo nella mente di Piccolo Fiume, che continua a ripetersi questa frase all’infinito, per cercare di distrarsi dal dolore dei suoi piedi. Ha sempre pensato che i suoi piedi si sarebbero ridotti nello stato in cui sono ora per le troppe camminate sull’erba bagnata dalla rugiada, perché si arrampicava continuamente sugli alberi e la loro corteccia ruvida feriva la sua pelle ambrata, o perché era stato costretto a mettere le scarpe, una delle cose peggiori che i bianchi lo avevano costretto ad indossare- forse anche peggio di una cravatta. Eppure, i suoi piedi ora sono nello stato in cui sono attualmente per una marcia forzata. Solleva a fatica i piedi dal terreno innevato e soffice, chiedendosi se mai si fermeranno, se le giacche blu sanno dove stanno andando, se e quando tutto questo avrà una fine che non coincida necessariamente con il suo ultimo respiro. Ha le dita dei piedi blu, ormai insensibili e probabilmente è meglio così: ha una parte in meno del suo corpo che percepisce il freddo.


Prosa

La neve scende piano, e brilla sui capelli neri e lucidi del giovane, che ha sciolto le sue lunghe trecce per la prima volta in vita sua. Lo aiutano a sentire meno il vento che gli gela il collo, che soffia forte contro di loro- quasi come se la natura stesse cercando in ogni modo di farli restare nella loro terra. Tutti sanno che quello che sta accadendo è sbagliato, che non si possono costringere 16.000 uomini a spostarsi altrove. Quel 26 maggio 1838 aveva improvvisamente segnato la fine del mondo come lo conosceva, più di quanto aveva fatto il giorno in cui aveva visto i bianchi per la prima volta. Credeva che il suo mondo fosse giunto al termine quando gli avevano fatto indossare i loro abiti, quando lo avevano costretto a mettere le scarpe, ad imparare ad annodare la cravatta, quando gli avevano fatto conoscere Cristo, eppure non era così. A quanto pare il mondo dei Cherokee era destinato ad una fine molto più violenta, persino peggiore di quella che era toccata alle tribù delle pianure, che avevano lottato fino alla morte. Piccolo Fiume si era infuriato quando aveva saputo che Nuvola Alta aveva firmato. Si era sentito tradito, avrebbe voluto impugnare il suo arco e combattere, assieme a tutti i suoi compagni. Ma loro “dovevano sopravvivere ad ogni costo”. Continua a ripeterselo, all’infinito. Alza il capo da terra, distoglie lo sguardo dai suoi piedi atrofizzati e con i suoi grandi occhi neri cerca la figura di Nuvola Alta. Non è difficile da trovare. È il primo della fila di questa insensata marcia della morte e procede lento e calmo, dietro due bianchi a cavallo. Impassibile, avanza a piedi nudi nella neve, senza fiatare. Indossa i loro abiti tradizionali, è l’unico tra loro che con testardaggine porta i suoi soliti vestiti, compreso il suo copricapo in piume d’aquila, che sfoggia con orgoglio mentre incede chinato in avanti, forse per il suo peso, per la vecchiaia, o per tutto il dolore del suo popolo che si riversava sulle spalle anziane. A guardarlo ora, Piccolo Fiume non provava più la rabbia di un tempo. Quella che aveva confuso per debolezza era forza, quella che credeva codardia era buonsenso. “Ci fermeremo qui per stanotte” Le parole del bianco risuonano nel silenzio della distesa innevata e tutti iniziano a preparare come meglio possono un giaciglio per riposare, un fuoco per scaldarsi, delle fosse dove seppellire i morti. Stavano morendo in tanti in questa marcia, cadevano come fiocchi di neve, lentamente e in silenzio, senza infastidire nessuno. Non c’era tempo per piangere quelli che cadevano, questi venivano solo presi e trascinati, nei casi migliori messi su uno dei pochi carri che il Governo Americano aveva concesso loro per la traversata. Piccolo Fiume l’aveva definito il sentiero della morte e delle lacrime.


Prosa

Il fuoco scoppietta vivacemente, illuminando assieme alla luna e alle stelle la landa bianca, mentre Piccolo Fiume stende i piedi e li avvicina alla fiamma per osservarli meglio. Le dita del piede destro sono completamente nere, e sa che dovranno essere tagliate il primo possibile, se non vuole perdere l’intero piede. Nuvola Alta si siede accanto a lui, sente le sue piume pizzicargli il braccio nonostante il tessuto della sua giacca. Ha il viso segnato dal tempo, le rughe gli attraversano le guance pittate di rosso e bianco, attraversato da una vecchia cicatrice di caccia. Tutta la tribù conosce quella storia. Si dice che un giorno Nuvola Alta avesse lottato con un’aquila e che quella con i suoi artigli gli avesse graffiato il viso, marchiandolo per sempre. Eppure alla fine l’uomo aveva avuto la meglio riuscendo ad ucciderla e usando le sue piume per lo sfarzoso copricapo che indossava. Gli occhi di Nuvola Alta erano occhi che scintillavano, sempre illuminati dalla luce del sole o della luna, ma ora, pur essendo illuminati dalle fiamme che ardono, non brillano più. Si spostano sui piedi del giovane, che tenta di scaldarli inutilmente, mentre si sfrega le mani alitando su di esse. “Mi spiace” gli dice alludendo ai suoi piedi. “La nostra sopravvivenza vale di più di un paio di dita dei piedi” risponde battendo i denti per il freddo “dobbiamo sopravvivere, ad ogni costo” conclude, strappando un lieve sorriso malinconico a Nuvola Alta, che si raddrizza improvvisamente, liberandosi per un attimo dal pesante cimiero di piume, poggiandoselo sulle gambe. “Alcuni dei nostri guerrieri continuano a chiedermi quello che mi chiedesti tu quando firmai il loro trattato. Perché non combattiamo?” ripete le loro parole a voce bassa, quasi come se se lo stesse chiedendo anche lui “Forse avevi ragione, sono solo un povero vecchio ormai. Ma ero così stanco di vedere la mia gente morire. A quanto pare, non ha fatto molta differenza la mia scelta” “Stiamo scegliendo di soffrire e di essere liberi piuttosto che vivere sotto la degradante influenza delle leggi, che non hanno voluto ascoltare la nostra voce” risponde il giovane Cherokee, mettendogli una mano sulla spalla per rassicurare il suo Capo “La marcia finirà. Prima o poi deve finire. Giungeremo al di là del fiume, ci stabiliremo nella nuova terra, e la coltiveremo come facciamo sempre. Sopravviveremo.” Nuvola Alta annuisce, si rimette il cimiero in testa e nel silenzio della notte inizia a cantare, mentre a poco a poco, le voci di tutti si uniscono a lui. Intonano una canzone malinconica, e mentre le voci continuano il Capo bisbiglia al giovane “non perdere mai la speranza.”


Prosa

Ma la speranza di Piccolo Fiume diminuisce ad ogni colpo di tosse della madre. Le malattie dei bianchi sono a loro sconosciute e non sanno come curare quel respiro affannato, quei sussulti e quei brividi, che sembrano diffondersi tra la maggior parte di loro. Le stringe la mano mentre avanzano nella neve, ma il vento soffia forte e la loro vista è offuscata dalla coltre bianca che gli si alza contro. I bianchi, in sella ai loro cavalli continuano ad urlargli di avanzare, perché quando si è su un cavallo sembra tutto più facile. Continua a tenere saldamente la sua mano e ad alternare i piedi nella neve. Uno, due. Uno, due. Uno, due. Resistere. Sopravvivere. Ad ogni costo. I piedi non se li sente più. Il desiderio di lasciare tutto, di iniziare a correre per gettarsi su uno dei bianchi e ammazzarlo con le proprie mani aumenta ad ogni impronta che lascia nella neve. Ma resta fermo, e ripensa alla conversazione che ebbe con Nuvola Alta, quella che aveva menzionato la sera prima. Quando aveva saputo che le cinque tribù civilizzate, come li chiamavano i bianchi, avevano deciso di arrendersi e di spostarsi, Piccolo Fiume era furioso. Entrò deluso nella tenda di Nuvola Alta, seduto a gambe incrociate intento a guardare il fuoco. “Perché non combattiamo? Lo abbiamo già fatto prima, perché non continuiamo a combattere, perché non rispondiamo? È nostro dovere farlo, per l’onore, per la glor…” “Non c’è nessuna gloria ragazzo!” urlò “Ho ucciso per tutta la vita- animali e uomini- ho visto i miei fratelli essere brutalmente ammazzati, ho visto mia figlia morire sotto i miei occhi, non c’è niente di glorioso nella morte, nell’uccidere. Né gloria, né poesia. Un giorno capirai che quelle che ci narriamo sono solo storie perché noi uomini viviamo di parole, ma il sangue non è mai poetico. Resterà sempre solo rosso.” “Allora tingiamo di rosso la nostra terra, con il loro sangue.” “Non c’è onore nello scegliere di combattere una battaglia già persa. Non sarei meritevole del mio titolo se mandassi al macello la mia gente. Loro diventano sempre più forti, e noi sempre più deboli. Tutto quello che possiamo fare è andare via. Tutto quello che dobbiamo fare è sopravvivere, ad ogni costo.” “Sei vecchio e stanco Nuvola Alta, ma noi possiamo farcela. Possiamo ucciderli.” “La morte non corrisponde mai alla vittoria.” “Sei solo un povero pazzo. Credi che ci lasceranno in pace?!” “Cosa altro possono volere da noi? Non abbiamo più niente, ci hanno sottoposti ad ogni tipo di umiliazione. Forse quegli uomini sono malvagi, forse non dovevo firmare, ma non avevo altra scelta. Il mondo che ci hanno portato, la civilizzazione…il loro mondo non è fatto per la nostra sopravvivenza, eppure dobbiamo sopravvivere.”


Prosa

La presa non è più salda come prima. Sua madre è a terra, morta. Senza esitare, il giovane se la mette in spalla e continua a camminare, a trascinare dolorosamente i piedi nella neve cercando di reprimere le lacrime: fa così freddo che ghiaccerebbero. Uno, due. Uno, due. Sopravvivere. Ad ogni costo. Marciano verso la morte e metà di loro lo sa. Lo sa la metà che è morta, così come la metà che è rimasta viva. Gli hanno detto che ormai manca poco, ma non credono più alle parole dei bianchi. Ormai trovano conforto solo nel sole, che illumina la distesa ormai verde, punteggiata da piccoli fiori bianchi mai visti prima. Nuvola Alta ha detto che sono nati per coloro che sono morti. Piccolo Fiume ribolle ancora di rabbia. Non basta un fiore per ricordare sua madre. Cammina circondato dalla sua gente, ma ad ogni passo che fa, sa di avanzare nella solitudine. Abbassa il capo e si osserva i piedi: il sinistro è solo coperto da bolle che fanno male ad ogni passo, il destro ora è privo di 3 dita. Distoglie lo sguardo dai suoi piedi e fissa da lontano il suo Nuvola Alta, che cammina per primo, sempre più schiacciato dal peso del suo copricapo. Lo guarda da lontano e lo invidia: vorrebbe avere il suo spirito, accettare la vita con coraggio e gentilezza, saper perdonare, o magari soffrire con onore. Anche lui è rimasto solo ormai, non ha più nessuno- ma allora come fa a vivere così? Piccolo Fiume vorrebbe essere diverso, vorrebbe essere incapace di provare odio, ma non riesce a farne a meno. L’odio è tutto ciò che conosce ormai. Odia i bianchi che li hanno prelevati dalle loro case quel giorno di maggio, odia i bianchi che li hanno costretti a proseguire la loro marcia nella neve, al freddo, senza cibo. Odia continuare a marciare, essere costretto ad attraversare alcune città come se la sua gente stesse tenendo una sorta di umiliante sfilata. I bianchi escono fuori dalle loro case, si riuniscono tutti per vederli passare, e stanno in silenzio- alcuni girano anche il capo. Nuvola Alta marcia a testa alta, aggiustandosi il copricapo. Vuole che lo vedano bene, vuole che vedano lo scempio, l’umiliazione alla quale li ha sottoposti la loro “grande nazione”. Piccolo Fiume desidera che smettano di guardare. Tutto quello che lui vede è il colore della loro pelle. Tutto quello che i bianchi vedono è il colore della pelle indiana. Piccolo Fiume zoppicando leggermente avanza, raggiunge Nuvola Alta, che gli aveva fatto cenno di avvicinarsi a lui. Sono fermi su una piccola collina, e intravedono una pianura verdeggiante. “Mi hanno detto che è quella, che ci fermeremo lì, finalmente” “Sembra quasi casa nostra” commenta il giovane, toccandosi i capelli neri che aveva finalmente raccolto di nuovo in una treccia. Il silenzio viene spezzato dal verso di un’aquila, che solitaria vola alta nel cielo limpido. “È venuta a darci il benvenuto” Nuvola Alta la indica con la mano sinistra “è venuta a ricordarci che siamo sopravvissuti.”


42 PASSI

Noi siamo la nostra nave

PASQUALE BRUNO


Prosa

“Odio i funerali” Sarà il profumo melenso dell’incenso che gli pizzica il naso, sarà quell’aria di sottile imbarazzo che si crea con i parenti del trapassato, sarà che a 19 anni difficilmente ci si vuole interfacciare con la morte (sempre che esista un’età per farlo) ma a Krzysztof i funerali non erano mai piaciuti, e se ci andava era soltanto perché lo pagavano. Studiava pianoforte al conservatorio di Varsavia, e con l’aiuto di Dio e qualche bestemmia, tra un paio di anni avrebbe concluso gli studi e si sarebbe laureato; nel frattempo arrotondava lo stipendio suonando a pagamento nelle chiese: battesimi, comunioni, cresime, Natale e Pasqua. E funerali. Non era un ragazzo particolarmente religioso e non gli faceva molta differenza sapere o meno che un essere superiore poteva influire sulla sua vita, con quella arroganza che è tipica della sua gioventù, ma ammetteva che suonare in chiesa aveva il suo fascino. L'organo della chiesa di San Francesco era dotato di file importanti di canne, e suonare quelle melodie dai toni lugubri era un piacere decisamente appagante, forse l’unico, in quelle circostanze: il momento migliore di tutti era quando arrivava prima, prendeva il suo posto, e prima che arrivassero le prime vecchiette per recitare il rosario, si sfogava, letteralmente, (e chi ha provato lo sa) ma suonare un organo a pieno volume da una sensazione di potere che non potete immaginare. Ma non divaghiamo. I rintocchi secchi delle campane a morto lo avvisavano dell’arrivo del corteo funebre e Krzysztof iniziò, con gusto, a suonare una piccola melodia di sottofondo, un alleluia appositamente rallentato (il soffio profondo dei bordoni serpeggiava per tutta la piccola chiesa). Sotto di lui (l'organista sedeva sulla cantoria, quindi dall'alto riusciva ad avere una visione complessiva della navata centrale e di tutto l'altare) passava il piccolo corteo, capeggiato dal parroco incensiere-munito e, ovviamente, dalla bara. Percorsero la navata che doveva distare 50, no, 46...42, sì, 42 passi dall'altare di fronte al quale posarono con delicatezza la cassa ed andarono a mettersi nei banchi, molto silenziosamente, in attesa dell'inizio della funzione. Krzysztof suonò altre tre battute e si avviò alla conclusione; quando sollevò le dita dai tasti la chiesa venne avvolta da quel silenzio carico di imbarazzo che detestava tanto, interrotto solo saltuariamente da qualche singhiozzo. Curioso si sporse un po' dall'organo e diede un'occhiata alle teste dei familiari, e gli parve di conoscere, in prima fila il proprietario della pasticceria sotto casa, dove mamma comprava sempre il Makowiec, quando era periodo natalizio, e stringeva a sé una donna anziana, sui settanta, che affondava il volto sulla sua spalla, forse era la madre ed erano venuti fin lì per dare un ultimo saluto al padre.


Prosa

Krzysztof si fermò un attimo a pensare: di solito a quell'ora il suo negozio era aperto, ma se ora lui era lì, evidentemente l'aveva lasciato a qualcun'altro oppure aveva chiuso per lutto, che era sicuramentela soluzione più semplice. ecco, chissà quante volte avrà visto "chiuso per lutto" girovagando per Varsavia, ma lui, il pasticcere, aveva mai immaginato il giorno in cui lo avrebbe scritto? Il giorno in cui gli sarebbe toccato, dall'oggi al domani, seppellire il proprio padre, passare dal vedere un foglio, ad appenderlo lui stesso? Krzysztof passo lo sguardo dal figlio al genitore, rinchiuso in quella cassa che sembrava così piccola, chissà come faceva ad entrarci un corpo, lì dentro... Già, un corpo... Krzysztof immaginava come sarebbe stato morire, essere lui rinchiuso tra quelle quattro assi di abete, ma essere ancora cosciente di cosa gli accadeva intorno. Chi sarebbe venuto al suo funerale? Chi avrebbe pianto, e chi avrebbe finto? Chi sarebbe venuto solo per le condoglianze, giusto per fare presenza? Sicuramente mentre veniva portato in spalla verso l’altare ad ogni passo qualcuno avrebbe rievocato sicuramente un ricordo che lo riguardava: al primo passo qualcuno avrebbe ripensato quando da bambino giocavano insieme, al sesto passo il suo maestro avrebbe ripensato alle ore passate a fare lezioni, e forse si sarebbe anche pentito di essere stato così duro, al venticinquesimo passo sua madre avrebbe ripercorso mentalmente tutta la sua infanzia, al trentaseiesimo la sua ragazza avrebbe ripensato al loro primo bacio e così via. E poi? E poi niente, sarebbe stato dimenticato, perché se ad ogni passo veniva riportato alla mente un ricordo diverso, ad ogni passo lui sarebbe diventato più diafano, come un sogno che è sembrato troppo reale. Ad ogni passo, di quei 42, svaniva, sempre di più, dal mondo, fino a quando, una volta seppellito, sarebbe stato cancellato, riassorbito dalla terra, come se non fosse mai esistito, perché dopo che te ne sei andato, non rimane di te nient'altro che il ricordo di chi ti ha conosciuto, così come il padre del pasticcere potrà magari vivere nelle memorie del figlio, ma sarà già un ricordo sbiadito, se non totalmente assente, per il nipote. Tutto quello che facciamo, è legato alla nostra permanenza fisica sulla terra. Possiamo riempire la nostra vita di tutto lo spirito, l'anima e le sciocchezze che vogliamo, ma con la nostra morte, con la nostra decomposizione, anche queste andranno via, come l'aria del bordone, che potrà soffiare più forte che mai, ma quando Krzysztof alzerà il dito, la canna, da viva che era, ritornerà statica, e quando l'eco della chiesa sarà esaurito, sarà come se lui non avesse mai abbassato il dito sul tasto. Se la vita è un viaggio, il corpo è la barca che ci permette di compierlo, è lo spartito dove posare le note, senza i quali di certo non ci staccheremo dal porto, ma appena affonda, noi cadiamo con lui. Strano però, nasci, cresci, studi, vivi le tue prime esperienze, lavori per essere felice, ti sforzi per lasciare un segno, e poi, eccetto casi eccezionali, vieni dimenticato nell'arco di 50 anni, forse meno, mai di più, per cosa? Boh. La campanella suona. Tutti si alzano in piedi. Il prete entra insieme al diacono. Krzysztof attacca un Ave Maria. “Odio i funerali”.


Poesia A cura di:

Emmanuele Zottoli Tania Ferrara Alessia Pierno


TUM TUM... Poesia

È dura questa assenza, un abbandono della norma: Lontananza che si fa più acuta ad ogni alba. Nella stanza ritorna Il giro dei dilemmi che non posso più fugare con delle comode risa. Non ci resta che piangere caro Cuore, E a te non rimane che incresparti come una foglia, O accasciarti al suolo stanco E meditare la distanza dei tuoi simili. Non sento più i loro sussulti, ne i loro ritmati canti, dicono alla TV che siamo tutti uniti Eppure ogni cuore è pur sempre solo tra gli altri. Ti do in pasto versi, libri, Opere di fantasia per placare l'epilessia di cui scrivi. Vedi, anche queste parole non sono che rumore nel petto, tu intanto sogni per non morire, e perderti come l'abbaiare lontano di un cane, che in mezzo alla notte, la fa bella,

le da il fascino delle cose storte.

Emmanuele Zottoli


Poesia

P E N S I E R I

Come potrà mai parlare un cuore… Come potrà esternare le sue debolezze… Forse con una bocca fatta di labbra, lingua denti. Bocca, i tuoi dolci morsi paradiso degli amanti. Tu esprimi parole soavi, rassicuranti una bellezza rara interna da te… sgorga. Proferisci anche nel silenzio. Ma quella parola premurosa cambia sapore in un’altra bocca. Con te posso ferire ingannare diffamare. Ragioni tutti i sentimenti di questo mondo. La mia parola rivela ciò che sono. Basterebbe un po' di gentilezza affinché tu sia insieme al cuore lo strumento più nobile del corpo.

Tania Ferrara


Poesia

La proiezione di sĂŠ nel mondo. Lo spazio che occupa la vita quando non ci sta tutta in un corpo solo.

"SORELLA" Abbiamo lo stesso sangue nelle vene, noi due, gli stessi dispiaceri agli angoli degli occhi. Gli stessi posti sfocati nei ricordi, lo stesso nome maledetto nei discorsi. Sogni diversi ma che dormono vicino, respiri lenti sul guanciale del cuscino. Notti di lotte a non parlarsi, un po' ad odiarsi, giorni passati

a ritrovarsi.


Poesia

Abbiamo le stesse esitazioni nella voce, noi due, gli stessi denti storti a furia di mordere la vita. Le stesse risa strozzate nei singhiozzi, corpi diversi ma uniti ai nostri tocchi. Scale di grigi, tasti bianchi e buchi neri, i sacrifici gli occhi gonfi, i piagnistei. Un po' di affanno per tutta la strada fatta, quattro piedi in una scarpa.

Sorella, scusa tanto se a volte ti do della scema ma mi somigli: la tua condanna,

la mia lena.

Alessia Pierno


C R I T I C A

A

L E T T E R A R I A

C U R A

D I :

Matteo Balsamo

CON IL CUORE DEI GIGANTI Il titolo di questa rubrica è ispirato alla celebre citazione di Bernard de Chartes: “…come nani sulle spalle dei giganti” Il nostro sarà un tentativo di salire sulle spalle dei colossi del passato e da spiriti di bassa statura con il loro aiuto guardare al presente e al futuro con occhio critico e curioso. In questo spazio, verranno trattati un autore e un’opera letteraria in linea con il tema mensile della rivista. Non verranno date solo note tecniche o mere nozioni sullo stile ma fornirà un ponte di lancio al nostro pensiero per poi addentrarsi nelle profondità: tentare di interpretali ed offrire poi uno spunto di riflessione.


Critica

Speculum animae di Matteo Balsamo

IN LATINO OCULUS È L’OCCHIO INTESO ANATOMICAMENTE, L’ORGANO DELLA VISTA; IN POESIA, SPESSO, VIENE PREFERITO IL TERMINE LUMINA PER INTENDERE LE PUPILLE, OSSIA LA “LUCE” DEGLI OCCHI. VIRGILIO NE FA AMPIO USO NELL’ENEIDE, IL CAPOLAVORO DELLA POESIA LATINA DI TUTTI I TEMPI, RESTITUENDOCI L’ESSENZA DEL MOVIMENTO OCULARE: LO SGUARDO. LO SGUARDO È UN RINCORRERSI NEL TEMPO, UNA FRENESIA BIZZARRA O UN PROFONDO SCANDAGLIO; LO SGUARDO È UN RITROVARSI A TAVOLA A RACCONTARSI STORIE, UN BACIO DELL’ANIMA, UN’EMOZIONE CHE NON PUÒ MENTIRE. IN TEMPI COME QUESTI, DOVE IL DISTANZIAMENTO SOCIALE È RICHIESTO PER UNA VALIDISSIMA CAUSA, MANCA “SENTIRE” LO SGUARDO. PER FORTUNA, ABBIAMO MOLTEPLICI MEZZI TECNOLOGICI CHE POSSONO AIUTARCI A RITROVARLO, GUARDANDOCI DA UNO SCHERMO IN UNA VIDEO-CHIAMATA, PROVANDO A PERCEPIRE LO STATO D’ANIMO DEL NOSTRO AMICO, DELLA NOSTRA RAGAZZA, DI UN NOSTRO CARO.

A VOLTE, CREDERE DI PERCEPIRE PUÒ ESSERE CONFUSO CON TENTARE DI INDOVINARE E ALLORA LA SOVRASTRUTTURA DEI TELEFONI E DEL COMPUTER CROLLA ROVINOSAMENTE, LASCIANDOCI IN BALIA DELL’ASSENZA FISICA. LE EMOZIONI TRASPAIONO ANCHE DA UNO SCHERMO, È VERO, MA SONO ATTENUATE NELLA LORO VITALITÀ, QUASI COME SE UN FILTRO CI DIVIDESSE GLI UNI DAGLI ALTRI, QUASI COME SE FOSSERO ANNEBBIATE DAL FUMO… E ALLORA GLI OCCHI NON VEDONO. MA GLI OCCHI, SE SPERANO, SANNO PERFETTAMENTE CHE IL GUIZZO TORNERÀ; CHE IL BALUGINIO ASPETTA SOLO DI ESSERE ACCESO DALLA FEDE E DALL’ATTESA. PERCHÉ SANNO PARLARE MOLTO MEGLIO DI NOI.


Critica

“Alëša era allora un aitante giovanotto di diciannove anni che sprizzava salute da tutti pori, con le guance rosse e gli occhi limpidi. (…) Grandi occhi grigioscuri spalancati e splendenti”

VISTO? GLI OCCHI COMUNICANO MEGLIO DI QUALSIASI INVENZIONE DELL’UOMO. QUESTO PASSO È TRATTO DA “I FRATELLI KARAMAZOV” DI FËDOR DOSTOEVSKIJ E RIASSUME, IN POCHISSIME RIGHE, L’ANIMO DELL’ULTIMO NATO DI CASA KARAMAZOV CONNOTATO DA MITEZZA, BONTÀ, SERENITÀ, RIFLESSIVITÀ E AMORE INCONDIZIONATO PER LA VITA (GLI OCCHI SPLENDENTI). LUMINA, DIREBBE VIRGILIO. MA GUARDATE QUA:

“Raskol’nikov posò il gomito sinistro sul tavolino, con le dita della mano puntellò il mento e piantò gli occhi addosso a Svidrigajlov”. BASTA POCO PER COMPRENDERE CHE QUESTO PERSONAGGIO HA UN CARATTERE DIVERSO RISPETTO AD ALËŠA, PROPRIO A PARTIRE DALL’INFALLIBILE MOVIMENTO DELLO SGUARDO: “PUNTARE GLI OCCHI ADDOSSO” È MINACCIA, INTIMIDAZIONE, AGGRESSIONE E INVADENZA. INFATTI, QUESTO PERSONAGGIO HA UNA STORIA TUTTA PARTICOLARE INVENTATA E RACCONTATA DA DOSTOEVSKIJ IN UN ALTRO CLASSICO DELLA LETTERATURA OTTOCENTESCA MONDIALE, “DELITTO E CASTIGO”. MA NON VOGLIO SVELARVI TROPPO, ALTRIMENTI SI PERDEREBBE IL GUSTO DI SPIARE I LIBRI.

“In una carrozza di terza classe fin dall’alba erano venuti a trovarsi l’uno di fronte all’altro, due passeggeri: uno di loro era di bassa statura, sui ventisette anni, aveva i capelli ricci e quasi neri, e gli occhi grigi e piccoli, ma ardenti. Il suo vicino aveva occhi grandi azzurri e fissi; nel loro sguardo c’era qualcosa di sereno ma sofferente”.

QUEST’ALTRO PASSO È ESTRAPOLATO DA “L’IDIOTA” SEMPRE DI DOSTOEVSKIJ, ED È L’ENNESIMA PROVA CHE L’ESPRESSIONE DEGLI OCCHI VALE PIÙ DI CENTO AGGETTIVI, ORPELLI, RIEMPITIVI E DESCRIZIONI SUPERFLUE. NEGLI OCCHI SI CONDENSANO LA STORIA DEL PERSONAGGIO, I TRAUMI SUBITI, LE VITTORIE CONSEGUITE, GLI SFORZI FATTI E I FALLIMENTI. GLI OCCHI “SPECCHIO DI UN’AVVENTURA”; GLI OCCHI SPECCHIO DELL’ANIMA (SPECULUM ANIMAE). TUTTO PER QUELLA BENEDETTA LUCE CHE POSSA DAR SOLLIEVO DAI TURBAMENTI E RAGGIUNGERE LA SERENITÀ.


"QUANDO QUALCUNO CERCA, ALLORA ACCADE FACILMENTE CHE IL SUO OCCHIO PERDA LA CAPACITÀ DI VEDERE OGNI ALTRA COSA, FUORI DI QUELLA CHE CERCA, E CHE EGLI NON RIESCA A TROVAR NULLA, NON POSSA ASSORBIRE NULLA, IN SÉ, PERCHÉ PENSA SEMPRE UNICAMENTE A CIÒ CHE CERCA, PERCHÉ È POSSEDUTO DAL SUO SCOPO" DICE HERMAN HESSE IN SIDDHARTA. DOBBIAMO REIMPARARE A GUARDARE LA LUNA E NON IL DITO, E A CAPIRE CHE SI PUÒ ANCHE GUARDARE E NON VEDERE, SE A VOLTE RIMANIAMO FERMI SULLE NOSTRE CONVINZIONI, E PROVARE A CAPIRE L’ALTRO SEMPLICEMENTE OSSERVANDO IL SUO SGUARDO, FARO DEL COMPORTAMENTO NON VERBALE, STELLA DI VISSUTI E PROIEZIONE DI SPERANZE. IMPARARE DAGLI INNAMORATI “CON GLI OCCHI DENTRO AGLI OCCHI” (COME CANTA GINO PAOLI IN UNA SUA CANZONE) A COLTIVARE UN RAPPORTO SINCERO CON GLI ALTRI, PROVANDO A DISTRUGGERE A COLPI DI PICCONE IL MURO DELL’INCOMUNICABILITÀ CHE CI DIVIDE PER IMPARARE DI NUOVO AD AMARE, AD ESSERE SOLIDALI, A CONOSCERE COSA SIGNIFICHI LA FRATELLANZA. QUESTO VIRUS, SONO CERTO, È UN MERAVIGLIOSO BANCO DI PROVA CHE GIÀ CI FA COMPRENDERE COME SIANO LODEVOLI MA INSUFFICIENTI I CONTATTI VIRTUALI, E COME, CON GLI OCCHI FELICI, POTREMMO GODERE DEL RAPPORTO CON GLI ALTRI E RIABBRACCIARCI, SE SOLO IMPARASSIMO A VEDERE CHE “DENTRO IL DISEGNO DEL CAPPELLO C’È UN BOA CHE DIGERISCE UN ELEFANTE”. – IL PICCOLO PRINCIPE


⽊漏れ⽇

KOMOREBI

CRITICA CINEMATOGRAFICA

A CURA DI: SARA PICARIELLO

Komorebi è la parola giapponese usata per indicare la luce del sole che filtra tra le foglie degli alberi. Le parole giapponesi sono estremamente affascinanti, questo perché i kanji, ideogrammicondensatori di significato, sono utilizzati per esprimere concetti complessi che non potrebbero essere espressi con le parole del nostro alfabeto. In particolare l’aver creato una parola appositamente per rendere lo spettacolare effetto visivo della luce tra gli alberi, mi ha da sempre trasmesso qualcosa di poetico e di magico. Pronunciando una semplice parola siamo lì, tra quegli alberi attraverso cui il sole cerca di penetrare, rompendosi in fasci di luce. Un effetto visivo per me simile alla luce dei proiettori, che girando lo sguardo durante la proiezione di un film, vedo uscire dalle piccole finestre poste in alto nella sala, una somiglianza forse lontana ma dettata dalla stessa sensazione di quiete che mi trasmette il trovarmi tra la natura o in una scura sala di un cinema. Cosa sarà quindi Komorebi? Definirla una rubrica cinematografica forse è un po’azzardato, mi piacerebbe più definirla come la piccola finestra di una sala dalla quale proietterò un film, scelto da me, visto di recente, ma anche più datato, che consiglio di vedere (se non lo avete ancora fatto). Lo analizzerò, commenterò fornendo una chiave di lettura personale e delle curiosità a riguardo. Detto questo buona lettura!


CRITICA CINEMATOGRAFICA

Critica

DOV’È IL MIO CORPO? (J’AI PERDU MON CORPS) “Riprendere in mano la propria vita”. Quante volte abbiamo sentito questa frase, magari ci è capitato di leggerla in articoli motivazionali del tipo “Cambia la tua vita con cinque semplici mosse” o “Ritorna alla ribalta con un click” (come se poi, fosse tutto così facile). È, infatti, un’espressione idiomatica, il cui significato implica un controllo personale sulla propria vita, lo stesso che si può esercitare su di un oggetto prendendolo con le mani. Avete presente quando da bambini giocavamo con la plastilina e con le nostre piccole mani riuscivamo ad estrarre, da quei panetti colorati, delle figure quanto più fantasiose e astratte possibili? Prendere in mano la propria vita, presuppone un’azione del genere: plasmare, dare una forma, esercitare un controllo su qualcosa di plastico che può essere modellato. Ovviamente con delle differenze. Le nostre mani infatti non sono più così piccole, sono le mani di un adulto, un adulto che inevitabilmente deve cercare di dare alla sua vita una forma concreta, un adulto che deve scegliere in fretta e soprattutto bene, perché la figura di plastilina realizzata dalle mani di un bambino può essere facilmente disfatta e ricomposta in una nuova forma, mentre le scelte fatte da un adulto non possono essere semplicemente cancellate, e soprattutto, riprendere tra le mani una vita, la cui forma non sembra essere quella sperata, per renderla diversa, impone un grandissimo sforzo. Ma se tutto ciò non fosse vero? Se non potessimo esercitare alcun controllo sulla nostra esistenza, se ci illudessimo di poter plasmare la vita con le nostre scelte e azioni, quando invece è già tutto stabilito? Se esistesse un destino per ognuno di noi che scorre, fluido ed inarrestabile tanto da far scivolare continuamente via dalle mani il controllo della nostra vita?


Critica

Sono queste le domande principali che si pone il film d’animazione francese “Dov’è il mio corpo?” (J’ai perdu mon corps) di Jérémy Clapin. Presentato nel 2019 al festival di Cannes nella sezione Semaine de la Critique e disponibile dal 29 novembre sulla piattaforma di streaming, Netflix,

si

è

guadagnato

nell’ultimo

anno

vari

riconoscimenti

tra

i

festival

del

cinema

indipendente, in Europa e non solo, riuscendo anche ad ottenere una candidatura come miglior

film

d’animazione

lungometraggio,

adattando

agli allo

Oscar.

Clapin

schermo

il

si

confronta

romanzo

Happy

per Hand

la di

prima

volta

Guillaume

con

il

Luarant,

sceneggiatore del Favoloso Mondo di Amélie, e realizzando un’opera unica nel suo genere, travolgente

ed

emozionante:

una

favola

nera

che

nasconde

un’umanità

disarmante.

Tre

dimensioni temporali si intrecciano, incastrandosi sapientemente tra di loro, accompagnate da una colonna sonora incantevole, realizzata da Dan Levy. Clapin ci dona in questo modo, un viaggio sensoriale tra le strade di una malinconica Parigi e tra i ricordi di una mano.

L’incipit del film è singolare, nei primi minuti, infatti, assistiamo ad una scena a tratti grottesca: una mano mozzata prende vita, per motivi misteriosi, e scappa dal laboratorio in cui era conservata. Capiamo immediatamente, grazie alle scene successive in bianco e nero, e alla corsa spasmodica della mano verso un luogo che non ci è ancora del tutto chiaro, che essa sta cercando il suo corpo. La seguiamo, quindi, tra le strade di Parigi, sui tetti popolati dai piccioni, sui binari della metro mentre cerca di fuggire da un’orda di topi e persino nelle case dei parigini che per fortuna non si accorgono di lei. Inspiegabilmente la mano sembra essere dotata di tutti e cinque i sensi, inoltre, è scaltra: si destreggia tra i vari ostacoli che incontra lungo il suo viaggio, calcola le distanze per saltare, si nasconde per non essere vista dagli uomini utilizzando ciò che trova lungo il suo cammino; ma soprattutto prova delle emozioni: la paura quando sta per cadere, l’ansia quando deve affrontare i topi, il fastidio per il pizzicore causato dalle zampette delle formiche, la stanchezza per un viaggio che, nel vero senso della parola, risulta essere più grande di lei.


Critica Parallelamente a tutto ciò, il film segue un altro filone narrativo, mostrandoci la storia di Noufel, è

lui

che

la

mano

sta

cercando,

è

lui

il

protagonista di tutte le immagini in bianco e nero.

Naoufel

è

un

ragazzo

di

origine

magrebina, da bambino sognava di essere un astronauta

o

un

pianista

famoso,

per

influsso

della madre musicista, con la quale passava ore ad esercitarsi, amava stare sulla spiaggia con i suoi genitori, osservare la mamma suonare, far volare il suo razzo e registrare sui nastri delle

Osservando quella grande città dal punto di

cassette

vista

prodotti dal resto del mondo.

di

una

piccola

mano,

attraverso

delle

bellissime soggettive, riscopriamo un mondo ricco di dettagli che dalla nostra prospettiva raramente

possono

facendoci emozioni

provare di

essere

le

stesse

quell’arto

scovati

e,

sensazioni

mozzato,

il

ed

regista

riesce, in un modo del tutto inedito, a farci

tutti

i

di lui e dovrà adattarsi ai ritmi e ai rumori di una città nuova, completamente diversa dalla sua, lascandosi scivolare via dalle mani i sogni e le che

nero,

i

suoi

ricordi

lontani: la sensazione della sabbia sulla pelle, il

sole

calma

che

filtra

della

tra

le

brezza

dita

grassocce,

marina,

la

la

musica

prodotta dalle spinte sui tasti bianchi e lisci di un pianoforte, il fruscio del vento tra le foglie,

stesso.

metropoli

memorie di una vita passata, Clapin, infatti, decide di dare alla mano un’anima, capace di ripercorrere l’infanzia terminata bruscamente e troppo presto del suo corpo da cui è stata improvvisamente disperata ricerca.

recisa

e

di

cui

ora

è

alla

non

ha

mai

sua

vita

passivamente,

il

colme

traffico di

costante,

passeggeri,

che

ragazzo sembra non riuscire, o meglio non voler

turbamenti,

Sono

corriere,

sfrecciano sotto una folla di passanti distratti; il

un’automobile accartocciata da un forte urto,

Parigi.

la

metropolitane,

ritardo.

città,

domicilio,

francese:

poi, pezzi di vetro frantumati e lo scheletro di

nuova

a

come

osservando lo scorrere frenetico della vita della

inarrestabile,

una

pizze

Vive

di tenere risate, il tepore di un abbraccio, e

in

lavora

bambino.

questo che ha paura di tutto, soprattutto di sé

far

solitario

da

superato la morte dei suoi genitori, ed è per

l’adrenalina delle prime pedalate in bici, l’eco

infine la partenza, un viaggio in aereo, l’arrivo

aveva

Naoufel,

consegnando

e

quelli

allora, ad uno zio, che non si cura minimamente

Cresciuto

bianco

o

un incidente, e della sua casa. Viene affidato,

privo di ogni espressione facciale.

in

natura

priva, ancora bambino, di entrambi i genitori, in

ambizioni

alternano,

della

Forse il destino, o forse un’azione sbagliata, lo

entrare in totale empatia con un personaggio

Alle rocambolesche avventure della mano si

suoni

parte

di

questo rispetto

mondo, al

Preferirebbe in

un

iglù,

di

quale

vivere dal

questo è

al

quale

in

flusso

costante

riparo non

dai

vedere

niente della realtà circostante e in cui svanisce ogni singolo suono, se non l’ovattato rumore dei passi sulla neve.


Critica

Sarà, comunque, proprio a causa di un ritardo nella consegna di una pizza, che conoscerà Gabrielle e si innamorerà di lei dopo una lunga conversazione al citofono. La ricerca per poter vedere la ragazza di persona e il successivo incontro, rappresentano una totale svolta per Naoufel, che finalmente crede di avere un controllo sulla propria vita, crede di star vivendo per la prima volta ciò che lui ha stabilito. Ma forse il destino, o forse un’azione sbagliata, lo priva, nuovamente, di qualcosa: la sua mano. Le vicende della mano e quelle di Naoufel sono speculari: uguali, ma opposte. La mano rivuole il suo corpo e il viaggio che compie per ritrovarlo diventa metafora del voler indietro una vita passata, una corsa contro il tempo per raggiungere i momenti in cui tutto era più semplice. Naoufel compie, invece, un viaggio per poter ritrovare la ragazza di cui si è innamorato, la prima persona che ha mostrano un interesse nei suoi confronti, dopo la morte dei suoi genitori; anche il suo viaggio è metafora di altro. Rappresenta il superamento delle paure, ma anche l’accettazione del lutto, e delle colpe commesse, per liberarsi, finalmente, del passato. Il suo viaggio è, quindi simbolo del prendere in mano la propria vita per renderla migliore. Queste due linee narrative sono tenute insieme da quei ricordi sbiaditi, in bianco e nero, di un’infanzia che per la mano è la meta agognata, per il corpo è il momento in cui la morte e la tristezza hanno portato via ogni colore e in cui i suoni del mondo sono diventati assordanti. Nonostante le divergenze l’epilogo è simile. Entrambi, infatti, capiscono che la loro ricerca è Queste due linee narrative sono tenute insieme da quei ricordi sbiaditi, in bianco e nero, di un’infanzia che per la mano è la meta agognata, per il corpo è il momento in cui la morte e la tristezza hanno portato via ogni colore e in cui i suoni del mondo sono diventati assordanti. Nonostante le divergenze l’epilogo è simile.

Entrambi, infatti, capiscono che la loro ricerca è fallimentare: la mano non potrà avere indietro il suo

corpo

e

Naoufel

completamente

del

non

passato

riuscirà ed

a

avere

liberarsi ciò

che

disidera: nonostante gli sforzi per tenere stretta tra le mani la vita, per plasmarla attraverso le sue scelte, il flusso inarrestabile del destino gliela farà nuovamente scivolare via. Solo negli ultimi minuti Naoufel

dimostrerà

a

noi,

ma

soprattutto

a

stesso, di aver capito come dover giocare. Il salto nel vuoto che compie è il solo modo per superare il

destino,

forse

non

potrà

controllare

la

sua

esistenza, forse la vita gli riserberà ancora tante sconfitte

e

tanti

dolori,

ma

nonostante

ciò,

quando i suoi piedi hanno raggiunto un appoggio stabile dopo il folle slancio, in quel momento, per la prima volta, ha vinto contro il destino, essendo ancora vivo


Critica

Naoufel: “Tu credi nel destino? Dico davvero.” Gabrielle: “Che tutto sia già stato scritto? Che c’è un cammino prestabilito?” N: “Sì” G: “E che non possiamo cambiare nulla?” N: “Pensiamo di poterlo fare, ma è un’illusione. A meno che non commettiamo un atto irrazionale, e spezziamo l’incantesimo. Per sempre.”

SARA PICARIELLO


CuriositĂ


A PROPOSITO DEGLI OCCHI...

LO SAPEVATE CHE... Inizialmente

il

sostantivo

automobile era maschile. Tuttavia

dopo

alcuni

anni,

grazie soprattutto all'influenza di Gabriele D'Annunzio, il termine passò al

genere

femminile.

Per

il

poeta la macchina possedeva " la

LO SAPEVI CHE GLI OCCHI POSSONO AVERE UNO UN COLORE DIVERSO DALL’ALTRO? E’ un fenomeno chiamato eterocromia e si verifica quando, all’interno dell’iride, vi sono quantità di melanina differenti. La modella statunitense Sarah Mc Daniel presenta questa caratteristica somatica.

grazia,

vivacità

la

d'una

snellezza, seduttrice,

la e

quindi non poteva che essere un

sostantivo

Forse

D'Annunzio

leggermente donne.

femminile.

fissato

era con

le


AUTORI E OSSESSIONI

Charles

Ogni scrittore ha una propria

tedesco.

"Hank"

Bukowski,

celebre

scrittore e poeta associato alla corrente letteraria del “realismo sporco”, soffrì di bullismo a causa del suo forte accento

fissazione, qualcosa senza la

T

quale non può inziare

Soffrì inoltre di una grave forma di acne vulgaris

che

lo

costrinse

ad

essere

assolutamente a scrivere.

operato e ad essere coperto per il resto

Molti di loro, sono

della sua vita da fori. Queste motivazioni lo resero un ragazzo timido e solitario.

ossessionati dal Font utilizzato durante la stesura, come la scrittrice Nicola Lagioia, vincitore del premio Strega, che afferma di usare sempre e solo «Times New Roman, corpo 14, interlinea minima valore 21, rientro prima riga 0,25 cm, rientro a destra 2,4 cm, allineamento giustificato. È tutto collegato, non è solo il corpo o il font». Un altro

autore ben noto al grande pubblico è Alessandro Baricco, che dice di usare «Garamond. Sempre. Non posso scrivere con altro font. Testo allineato a sinistra, non giustificato».

NON CI CREDERAI MAI MA... Nella biblioteca di Harvard è stato trovato un libro rilegato in pelle umana. Si tratta di "Des destinées de l'ame" (I destini dell'anima), scritto dal poeta francese Arsène Houssayeè e pubblicato nel 1880. È l'università stessa ad aver condotto le analisi sulla copertina e confermato la nota dell'autore riportata nel libro: "Guardando attentamente se ne vedono i pori - aveva scritto regalando il volume a un amico - Un libro sull'anima umana merita di avere una copertura umana". La pelle sembrerebbe appartenere alla schiena di una donna malata di mente e morta di ictus. La pratica di rilegare i libri con tessuto cutaneo, che oggi può sembrare macabra, un tempo era considerata normale ed aveva il nome di "bibliopegia antropodermica". Si ritiene che i primi libri rilegati in pelle umana siano comparsi nel Medioevo poiché proprio in quell’epoca si era diffusa la prassi della concia di pelli di questo tipo. I campioni medievali non si sono conservati fino ai giorni nostri, ma in compenso ci sono molte citazioni riguardo questa pratica. Si sa che esistevano perfino una Bibbia e un Codice Canonico scritti interamente sul tenero involucro umano.


DANTE ALIGHIERI (Sì, ancora lui)

Ebbene si, proprio il sommo poeta, l'autore della Divina Commedia (una delle più grandi opere della letteratura mondiale), colui che ha introdotto gli studi linguistici (De vulgari eloquentia), affrontato il rapporto tra chiesa e stato (De monarchia), discusso di filosofia e teologia senza peli sulla lingua (Convivio), il grande Dante Alighieri non ci ha lasciato alcun testo scritto di suo pugno, nemmeno una firmetta su qualche documento ufficiale. La mancanza del testo originale proprio della Divina Commedia ha fatto sì che sorgessero mille ipotesi sul periodo di stesura, oltre che su numerosi passaggi interni al testo. Tutto ciò non ha di certo oscurato la grandezza dell'autore, anzi, forse questo ulteriore mistero, da sommare ad altri relativi alla sua vita ed alle sue opere (ad esempio clicca qui) , ha fatto si che diventasse uno dei letterati più studiati ed ammirati di tutti i tempi. Fonte: Libri, cinema, arte, cultura e società


GRAZIE PER LA LETTURA

IL

NOSTRO

SPESSO È

NON

STATO

CORPO

CE

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PIACEVOLE

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