FIAT LUX VIII

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N.8

"PELARGONIUM"


A Maria ti dedico questo numero perché non riesco a pensare a nessun'altro più meritevole di te. Lo dedico ad un fiore gentile Lo dedico ad una guerriera Lo dedico a un' amica che ho dovuto salutare troppo, troppo presto... (ti devo ancora un caffè al bar d'ingegneria) Ciao cuginetta

-Pasquale

A mio nonno, Rocco agente di polizia penitenziaria e marinaio dentro al cuore -Matteo


Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre. -Ian Maclaren

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Indice Prefazione: Pasquale Bruno

pag.5

Prosa: Sara Paolella Pasquale Bruno

pag.7 pag.12

Poesia: Tania Ferrara Emmanuele Zottoli Alessia Pierno

pag.14 pag.15 pag.16

Critica letteraria Con il cuore dei giganti: Matteo Balsamo

pag.17 pag.18

Critica cinematografica Komorebi: Sara Picariello

pag.21 pag.22

Fotografia Punto di fuga: Carmine Faiella Gabriele Maurizio

pag.24 pag.25 pag.26

CuriositĂ

pag.27


PREFAZIONE FASE 2 Finita la quarantena vediamo delinearsi di fronte a noi un lungo periodo di incertezza, timore, convivenza con una realtà che non vediamo ma è ancora opprimente, una realtà che segna i nostri volti con le irritazioni e i mal di testa dovuti alle mascherine accompagnati da una perenne ansia per la disinfezione. Si apre con la fase 2 un periodo in cui, ancora più di prima ci dovremmo sentire responsabili del nostro prossimo, della comunità in cui ci poniamo e che ci è affidata, un periodo in cui, memori della reclusione, dovremmo sentirci più vicini all'altro, grazie ad una sensibilità, ad una umanità riscoperta e riconquistata. Dovremmo. La verità è che non è stato così, e proprio come i leoni chiusi in gabbia di "Musica da camera" (numero precedente che se non avete letto vi invitiamo a recuperare) abbiamo visto in questa quarantena crescere il nostro nervosismo, la nostra ira e la nostra insofferenza che hanno cercato di continuo, ovunque fosse possibile trovarne, valvole di sfogo (come accaduto per il caso di Aisha Romano, solo per citarne uno ed il più conosciuto) ma non può bastare una quarantena a renderci migliori (se un contagio fosse stato sufficiente già dopo la peste di Atene del 430 a.C. saremmo diventati santi). Inutile prendersi in giro e andare a cercare negli stereotipi il capro espiatorio quotidiano: la verità è che abbiamo bisogno di gentilezza, di compassione, di reimparare a prenderci gratuitamente cura di chi ci sta più o meno affianco, di costruire quella catena solidale che Leopardi auspicava nella "Ginestra": dobbiamo far sbocciare il nostro fiore, il nostro "pelargonium", il geranio violetto dalle proprietà antinfiammatorie ed antidepressive che nel linguaggio dei fiori (mi affido a Wikipedia) è associato all'essere gentili, per prenderci cura del corpo e dello spirito, ma stavolta non solo del nostro. Questo mese non vi offriamo racconti, poesie o foto, ma semi, che ci auguriamo pianterete nel vostro giardino, un giardino aperto a chiunque abbia il desiderio di passeggiare, di respirare aria buona, di stare bene, con e grazie a voi. Non aver paura di splendere. FIAT LUX: RIVISTA LETTERARIA Il fondatore e capo redattore


PROSA A CURA DI

Sara Paolella Pasquale Bruno


UNA MATTINA, TRE GIORNATE

Prosa


Il cielo è limpido, di un azzurro accecante, se non per qualche pennellata di nuvole bianche, e per qualche macchiolina nera che vola lenta, accompagnata da un leggero soffio di vento, che smuove leggermente anche le foglie degli alberi, risvegliandoli dal loro torpore. Il sole attraversa la persiana a casa di Emma, che è sveglia e si rigira tra le coperte, mentre ha un piede che dondola già fuori dal letto- per costringersi ad alzarsi- e la mano alta, contro la parete bianca, intenta a fare le ombre cinesi, aiutata dai leggeri raggi del sole che illuminano la sua stanza.

Anche Elia e Claudia sono a letto, entrambi ai lati, girati di spalle, cercando di ampliare quanto più possibile la distanza tra i loro corpi. Succede sempre così quando litigano la sera. Urlano, non si parlano più, dormono distanti. Claudia prova a dormire più del solito, è mattiniera, ma pensare di doversi svegliare in un mondo dove Elia non le sorride la mattina la mette di cattivo umore, quindi tira le coperte fin sopra la sua testa, e dorme. Elia invece, non dorme mai. Né quando litigano, né quando non lo fanno. Resta spesso sveglio a pensare e ora riflette sulla litigata della sera prima, sulla distanza che li sta dividendo lentamente- e non è solo quella che li separa ora tra le lenzuola azzurrine. Si passa una mano sul volto, grattandosi un po’ la testa e poi coprendosi gli occhi, cercando riparo dalla luce del sole. Deve aggiustare la tapparella che non si chiude completamente, così da lasciare la stanza più al buio. Claudia dormirà meglio.

Greta cammina nel parco, osservando curiosamente tutte le persone che finiscono sotto i suoi vispi occhi verdi. Si dirige verso quella che è ormai diventata la sua panchina, quella sotto il salice piangente, sulla quale sono incise varie iniziali, e qualche brutta parola- di quelle che non le è permesso pronunciare quando è a casa. Prende il suo Kindle ed inizia a leggere, mentre il vento le accarezza le guance rosee e le smuove le trecce bionde. Di tanto in tanto, i suoi occhi lasciano la pagina bianca e luminosa, venendo catturata dal via vai di gente che passa vicino alla sua panchina. Alcuni passeggiano tenendosi per mano, ci sono dei bambini che si divertono sulle altalene, gente che fa pic-nic, cani che scorrazzano felici, finalmente privi di guinzaglio, che possono correre sull’erba umida. C’è anche una ragazza che corre, mentre cerca di non far cadere nessuno dei pacchi che porta, improvvisandosi equilibrista, avanzando nel vuoto, dal momento che la pila di scatoloni sembra coprirle la visuale.


“Mi dispiace per il ritardo, sono mortificata. Scusa Elia” farfuglia Emma, poggiando una delle scatole che porta sul bancone, accanto alla cassa. Elia le sorride e le porge un bicchiere d’acqua, mentre curioso si avvicina al grande pacco che gli era appena stato consegnato, alzando stranito un sopracciglio e grattandosi la testa, come fa sempre, prestando poco caso al “grazie” sommesso che esce dalle labbra di Emma. Non si ricordava di dover aspettare una consegna. Ma soprattutto, non si ricordava di aver ordinato una pianta.

“L’ha ordinata Claudia. È passata qualche giorno fa in negozio, aveva detto di voler comprare una pianta per metterla nel vostro appartamento. Credevo che lo sapessi. Ma, lei dove è? Sta bene? Posso fare qual…?” “No Emma, non mi aveva detto nulla” commenta affranto Elia “Non mi dice mai nulla. Non più” continua, continuando ad osservare perplesso le grandi foglie verdi che sbucano fuori dallo scatolone appena aperto. “Sta ancora dormendo, non l’ho svegliata” le confessa ed Emma si rattrista, perché sa che se Claudia non è al bar con Elia, è perché la sera prima hanno litigato. Ultimamente succede sempre più spesso.

“Posso fare qualcosa? Vuoi parlarne?” gli chiede, desiderosa di poterlo aiutare e rendersi utile. “Non hai nulla di meglio da fare piuttosto che ascoltare le lamentele di un povero vecchio?” “Hai solo quattro anni più di me Elia.” “Allora sei diventata vecchia anche tu.”

Emma ride, insiste nuovamente. Vorrebbe aiutarlo, dirgli qualcosa per farlo stare meglio. Se Emma potesse, vorrebbe far stare meglio tutto il mondo. Se potesse, si prenderebbe cura del mondo intero. Come è solita fare lei, poche frasi- ma sempre incredibilmente adatte a qualsiasi situazione, qualche sorriso, qualche accortezza in più. Se fossero tutti come Emma, probabilmente non ci sarebbe nemmeno bisogno di cercare qualcuno che si prenda cura di noi.

“Puoi portare la pianta a casa?” ed Emma annuisce felice, ricaricandosi il pacco che aveva appena poggiato sul bancone sopra gli altri due che deve ancora consegnare. Ignorando il “ma sei sicura di farcela?” di Elia apre la porta con l’aiuto del piede, e lo saluta con un cenno della mano, ma non prima che lui le dica: “Se vuoi farmi davvero un piacere, prenditi un po’ cura di te stessa”


Elia richiude la porta dietro Emma, mentre ritorna al bancone, incapace di eliminare dalla sua mente l’immagine di quella pianta. Sospira, al ricordo della litigata della notte precedente, e sospira ancora, al pensiero di quella che scaturirà di nuovo quando tornerà a casa. Era stanco delle decisioni impulsive della sua compagna, che si trattasse di iniziare a dipingere tutto il bancone del bar per poi lasciarlo a metà (ed era toccato a lui finirlo), vendere la macchina per diventare “eco-friendly” come sosteneva lei, o di comprare una stupida pianta. Quando mangiavano fuori casa, ormai non si scambiavano più gli ordini: Claudia mangiava il suo, e Elia rigirava la forchetta nel suo piatto, speranzoso che lei proponesse il loro solito scambio. Non dormivano più abbracciati la notte. Elia pensa a tutte queste cose, mentre sciacqua le tazzine del caffè sotto l’acqua fredda. Era colpa sua? Si era dimenticato come prendersi cura di lei? O era colpa di Claudia? Forse non era colpa di nessuno, era successo e basta. Elia prende lo straccio e asciuga le tazze. Greta sbuffa stizzita, prima di riporre il Kindle nel suo zainetto, e di alzarsi, camminando sotto le lunghe foglie del salice, dove poco prima alcuni avevano deciso di fare un pic-nic. Si inginocchia, e in silenzio inizia a raccogliere tutto quello che si erano dimenticati di buttare. Li aveva guardati a lungo, nella speranza che il suo sguardo minaccioso li aiutasse ad intuire che stavano dimenticando qualcosa- ma niente. Sospira mentre solleva dall’erba un bicchiere di plastica, quando all’improvviso un’altra mano si aggiunge alla sua.

“Vuoi una mano? Ti aiuto a finire prima.” le chiede una ragazza e Greta annuisce, mentre la scruta con i suoi occhi verdi. “Tu sei la ragazza che stamattina portava tutti quei pacchi” commenta, riconoscendola. “Sì, sono io. Senza più pacchi però” le risponde Emma sorridendo, mentre raccoglie una lattina di Coca-cola. “Hanno lasciato un bel casino” Emma le sorride, mentre camminano assieme verso il cesto dell’immondizia per buttare tutto ciò che hanno raccolto. Greta recupera il suo zaino, e assieme ad Emma si incammina verso l’uscita del parco, dal momento che si sta facendo tardi, ed è ora di tornare a casa, prima che i suoi genitori inizino a preoccuparsi. “Grazie per avermi aiutata a pulire” dice Greta, una volta arrivata al cancello. “Grazie a te, per aver cominciato a farlo, anche se nessuno te lo aveva chiesto” le risponde Emma, che vede il viso della ragazza illuminarsi, mentre sorride ampiamente.

“A quanto pare, a nessuno importa di tutto questo” dice frustrata, alzando le mani al cielo “Vorrà dire che ci penserò io. Qualcuno deve pur farlo. Me ne prenderò cura io.” Greta risponde risoluta, con una disarmante convinzione nelle sue parole. Emma ne resta ammaliata, continua ad ammirarla immobile, ancora poggiata contro il cancello del parco, mentre la figura della ragazzina si fa sempre più piccola, fino a scomparire dietro l’angolo.


Anche Emma riprende a camminare, a passo svelto però, perché aveva promesso al suo vicino che lo avrebbe aiutato ad impacchettare le sue cose per il trasloco. Mentre si dirige verso casa, si aggiusta lo chignon cadente nel quale aveva raccolto i capelli in fretta, e ripensa alle parole di Elia, confusa. Non era la prima volta che glielo dicevano. “Pensa a te”, “impara a dire di no”. Glielo avevano ripetuto molte persone- ironicamente erano sempre le persone che lei si ritrovava ad aiutare. Rendersi utile la aiutava a credere di aver fatto qualcosa di costruttivo nelle sue inutili giornate. Non riusciva più a trovare un senso in ciò che faceva, se non quello di aiutare gli altri, di metterli al di sopra di sé stessa. La verità è che forse Emma aveva imparato così bene a prendersi cura delle persone, che si era dimenticata che era una persona pure lei.

Anche Elia torna a casa, ma stranamente non trova nessuno ad aspettarlo. Se non l’enorme pianta ordinata da Claudia, dritta e imponente, piantata in un vaso posato sul tavolo. Di Claudia però, nessun segno, fatta eccezione per un piccolo biglietto che sporge leggermente da sotto al vaso, con su scritto “Abbi cura di me” sul fronte, e sul retro “Ho bisogno di tempo Claudia”

Elia si sente improvvisamente soffocare. Si siede, ma sente un peso opprimergli le spalle. Si alza, ma lo sente ancora. Sente una lacrima rigargli il viso, mentre si gratta la testa confuso, vorrebbe capire perché gli manca il fiato. Forse sta per venirgli un infarto? Forse è solo tutto l’amore che prova per Claudia, è così tanto, eppure a Claudia non era bastato evidentemente. Non sa più che farsene ora; dove dovrebbe metterlo? Fissa la pianta. “Mi sa che mi toccherà davvero badare a te.” Emma entra finalmente nel suo appartamento, lanciando le chiavi sulla mensola accanto allo specchio che ha all’ingresso, che fissa per un’istante di sfuggita. Poi torna indietro. Scruta il suo riflesso e si osserva attenta, notando il suo aspetto trasandato, per poi sciogliersi i capelli e aggiustarli facendoseli cadere sulle spalle. “Avrò cura di me” dice al suo riflesso, cercando di restare seria, decidendo di farsi una lunga doccia per rilassarsi. Nel momento in cui si sfila la converse bordeaux con il piede sinistro, che aveva già liberato, le vibra il cellulare e lo recupera dalla tasca dei suoi jeans scuri. Legge il messaggio di Elia, di poche parole, come suo solito: Claudia se n’è andata. Emma subito si infila di nuovo la scarpa sinistra, e riafferra le chiavi, mentre si guarda allo specchio per raccogliere i capelli.

“Magari un altro giorno” esclama ridendo al suo riflesso, scuotendo il capo. Prende il cappotto, chiude la porta ed esce.

SARA PAOLELLA


PASQUALE BRUNO


Poesia A cura di:

Tania Ferrara Emmanuele Zottoli Alessia Pierno


Ed è così strano essere sempre Uguali a sé stessi E poi all’improvviso cambiare In maniera così naturale Senza accorgertene Sei diverso Solo per un’altra persona. E forse se questo Non avviene È solo un vano sentimento. Ed è così strano che L’amore curi tutti i mali Ma cosa o chi cura il mal d’amore? Ed è così strano… Si vive solo il tempo in cui si ama E durerà Se te ne prendi cura.

TANIA FERRARA

Robert Doisneau, Bacio davanti all’hotel De Ville, 1959

Poesia


Poesia

Abbi cura di ciò che non si vede, di quello che di solito cede nel giro delle cose che non importano. Abbi cura delle poche persone che si incontrano, e deponi le maschere che non servono. Abbi cura delle cose che prima o poi si perdono, e perditi pure tu per poi venirti a ritrovare. Abbi cura di ciò che non sai fare e molto più per quello che non sai dire, Abbi cura del divenire e delle sue inconclusioni, abbi perfino cura delle canzoni che ascoltavi la sera. Abbi cura della tua era che più non torna dopo ogni passo errato.

Avrei voluto tanto mi dicessi questo, prima d'andare verso un luogo non meglio specificato.

Emmanuele zottoli


Poesia

Si aggrappa ad un disegno della mente la mia anima randagia Sfiaccata, si tormenta, si stupisce: com’è stato possibile Abituarsi, frugare negli altri l’amore genitore Accontentarsi, morire, poi bastarsi con tutti i vuoti nel cuore

ALESSIA PIERNO


C R I T I C A

A

L E T T E R A R I A

C U R A

D I :

Matteo Balsamo

CON IL CUORE DEI GIGANTI Il titolo di questa rubrica è ispirato alla celebre citazione di Bernard de Chartes: “…come nani sulle spalle dei giganti” Il nostro sarà un tentativo di salire sulle spalle dei colossi del passato e da spiriti di bassa statura con il loro aiuto guardare al presente e al futuro con occhio critico e curioso. In questo spazio, verranno trattati un autore e un’opera letteraria in linea con il tema mensile della rivista. Non verranno date solo note tecniche o mere nozioni sullo stile ma fornirà un ponte di lancio al nostro pensiero per poi addentrarsi nelle profondità: tentare di interpretali ed offrire poi uno spunto di riflessione.


Critica

SE TI ABBRACCIO NON AVER PAURA di MATTEO BALSAMO

Sto scrivendo queste parole a mano, con la penna, come non facevo da tempo. Non lasciatevi ingannare dal testo ricopiato tramite computer: è stato proprio così. Le ultime volte in cui ho scritto qualcosa in questo modo risalgono ai tempi del liceo, nei temi da svolgere in classe. C’è un motivo, forse inconscio, per cui sto preferendo farlo. Sento che la penna mi guida fluidamente, e la testa la dirige con sapienza. Il motivo più banale è che ho trascorso la maggior parte della mia giornata davanti a uno schermo per seguire le lezioni universitarie online e forse per spulciare dallo smartphone qualche novità dal mondo dei social. Mi sento solo, è innegabile, e cerco quindi un modo per ritrovare me stesso. La fatica non è solo nel bruciore degli occhi, ma nella fame del cuore che non sa accontentarsi.

Abbiamo bisogno di qualcuno da amare, parafrasando Springsteen. Oggi ho rivisto per cinque minuti, da lontano, uno dei miei più cari amici e, con guanti e mascherina, ne ho avuto la conferma. Spesso non riusciamo a dare il valore necessario alle cose e alle persone con cui ci relazioniamo, ma sono di gran lunga più importanti della valanga dei nostri stupidi impegni. Il vero tempo è quello in cui il tempo non esiste; quindi, dilatando l’animo, mi accorgo che il voler bene e il prendersi cura dell’altro sono la nostra massima e più sincera aspirazione. Sono un regalo, un dono affettuoso che la vita ci offre e a cui chiede risposta.


Critica

Per l’appunto, un dono fu il libro di cui oggi vi parlo: “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas, da cui è liberamente tratto il film “Tutto il mio folle amore” (2019) di Gabriele Salvatores. Un diario di viaggio autentico, vissuto, che risente del vento sferzante e sabbioso dell’America: in sella a una moto, un papà e suo figlio, un ragazzo autistico. Ispirato a una storia vera, quella del viaggio in moto di Franco Antonello (nel film interpretato da Claudio Santamaria) e di suo figlio Andrea.

La prima reazione alle parole del medico che annunciava la malattia, dice Fulvio parlando di Franco, è stata di incredulità. “Non è possibile, deve essere una diagnosi sbagliata”. Eppure, ricollegando i fili, si rende conto della verità. Una verità che non potrà mai permettere ad Andrea di fare una vacanza “normale” con gli amici, tra sghignazzi, cocktails colorati di rosso e palloni che rotolano sulla sabbia. Andrea non avrà mai la possibilità di allontanare il suo peso, la sua bolla di sapone che lo riveste, mentre osserva il mondo con occhi malinconici. E visto che tra “turni macchinosi” e “riempitivi vari” si dovrà trovare il modo di giungere a settembre (all’inizio della scuola), papà Franco decide di prendere il largo e di farlo alla grande: un viaggio esplorativo verso il continente americano, come due cowboy sul loro destriero. Franco guida, Andrea si aggrappa forte a lui mentre attraversano Florida, Louisiana, Texas, New Mexico, Colorado, Arizona, Nevada, California fino al Guatemala, Costa Rica, Panama e infine il Brasile.


Critica

Una corsa con sottofondo di coyote, odore di patatine fritte, blues, alberi esotici e con la sensazione della pioggia leggera sulla pelle. L’amore si diffonde e ha il sapore di un “liquido dolce”, luna antica nel cuore dei Navajo; ferita ancora aperta che diventerà cicatrice con il tempo e grazie all’amorevole premura di un padre travolgente e del tempo, che corre sulla sua Harley Davidson. Tutti i sapori e le sfumature del continente bombardano i sensi di Andrea, che giungerà perfino ad accarezzare un coccodrillo e a stringere a sé con gioia una cameriera e uno sciamano. Altro che comportamento stereotipato. Il coraggio è dietro l’angolo, e Andrea lo incontra grazie ad Angelica, una ragazza Brasiliana conosciuta lungo il cammino che fa breccia nel suo cuore veloce, che alla fine riuscirà a tener abbracciata per alcuni lunghi minuti. Lei, dal canto suo, aveva intravisto la bellezza di Andrea nei suoi occhi, nuvole in corsa. Per tre mesi, dunque, è stato il figlio a insegnare al padre la temerarietà, l’audacia di abbandonarsi alla vita; la normalità scompare e si fa sempre più evidente l’umanità, che non conosce il diverso. Senza bussola né meta, e con il volto raggiante, Andrea sa trasmettere la gioia della vita benché parli poco e male. Le parole non servono perché tutto è contenuto nella forza di un abbraccio.


⽊漏れ⽇

KOMOREBI

CRITICA CINEMATOGRAFICA

A CURA DI: SARA PICARIELLO

Komorebi è la parola giapponese usata per indicare la luce del sole che filtra tra le foglie degli alberi. Le parole giapponesi sono estremamente affascinanti, questo perché i kanji, ideogrammicondensatori di significato, sono utilizzati per esprimere concetti complessi che non potrebbero essere espressi con le parole del nostro alfabeto. In particolare l’aver creato una parola appositamente per rendere lo spettacolare effetto visivo della luce tra gli alberi, mi ha da sempre trasmesso qualcosa di poetico e di magico. Pronunciando una semplice parola siamo lì, tra quegli alberi attraverso cui il sole cerca di penetrare, rompendosi in fasci di luce. Un effetto visivo per me simile alla luce dei proiettori, che girando lo sguardo durante la proiezione di un film, vedo uscire dalle piccole finestre poste in alto nella sala, una somiglianza forse lontana ma dettata dalla stessa sensazione di quiete che mi trasmette il trovarmi tra la natura o in una scura sala di un cinema. Cosa sarà quindi Komorebi? Definirla una rubrica cinematografica forse è un po’azzardato, mi piacerebbe più definirla come la piccola finestra di una sala dalla quale proietterò un film, scelto da me, visto di recente, ma anche più datato, che consiglio di vedere (se non lo avete ancora fatto). Lo analizzerò, commenterò fornendo una chiave di lettura personale e delle curiosità a riguardo. Detto questo buona lettura!


CRITICA CINEMATOGRAFICA

Critica

UN AFFARE DI FAMIGLIA DI SARA PICARIELLO

Radicate saldamente nel terreno, le radici sorreggono l’albero e sono fonte del suo sostentamento: l’acqua e i sali minerali che assorbono dal terreno garantiscono lo sviluppo dei rami e la successiva crescita delle foglie e dei suoi frutti. Grazie al sole, i frutti verdognoli appena spuntati, acquistano un colore, un profumo, un sapore, ma è l’albero che si prende cura dei suoi frutti, tenendoli stretti ai rami per proteggerli dal vento, che infuria in tutte le direzioni e, dalla pioggia che violentemente si abbatte su di loro. Fino al momento in cui, ormai maturi, non decidono di cadere. L’albero nel suo insieme sembra essere, in tutto e per tutto, una famiglia, in cui ogni parte coopera per sostenersi e creare un equilibrio perfetto, una famiglia tenuta insieme da quelle salde radici ancorate al terreno. È inevitabile, quindi, che tutte le parti di un nucleo famigliare debbano essere legate da un collante che le definisca come famiglia, ma qual è per noi uomini? Forse è il sangue? O è magari qualcosa che è al di là di ogni legge genetica ma è talmente potente da permettere di scegliere liberamente cosa definire una famiglia? Sono questi i quesiti che si pone il film diretto da Hirokazu Kore'eda, Un affare di famiglia, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes nel 2018. L’intera filmografia del regista e sceneggiatore nipponico, è una continua ricerca sulla natura umana, sulle debolezze e le paure che attanagliano l’animo, una ricerca sulla famiglia e tutte le implicazioni sociali ad essa connesse. Kere'eda si inserisce facilmente in quella corrente “neorealista” che fa riferimento a grandi maestri come Ozu e Kurosawa, quindi in quel cinema di scene di vita quotidiana, di case ricche di vita e di ricordi, in quel cinema di riprese ad altezza bambino per offrirci occhi innocenti con cui osservare il mondo. Il suo stile è però anche ricco di suggestioni tratte dai grandi registi italiani come Fellini, ma soprattutto De Sica e Rossellini, proprio per l’interesse rivolto a personaggi umili, alla gente comune, piuttosto che ai grandi eroi. Già nei suoi lavori precedenti, Father and sons (2013), Little sister (2015) e Ritratto di famiglia con tempesta (2016), Kore'eda aveva presentato diverse famiglie alle prese con problemi di natura differente ma tutti tesi a sottolineare una condizione ancora molto sentita in Giappone: il legame di sangue. Nella società giapponese non esiste altra forma di famiglia se non quella

caratterizzata da un rapporto di sangue, ecco perché l’affidamento e l’adozione non funzionano o non sono accettati. Con un affare di famiglia il regista è tornato su questa tematica facendoci entrare nella casa e soprattutto nella vita di una singolare famiglia della periferia di Tokyo. In un supermercato entrano quelli che sembrano essere un padre e suo figlio. Si aggirano guardinghi tra gli scaffali colmi di cibo, per poi fermarsi ogni tanto di fronte ad uno di essi. Mentre il padre osserva, furtivo, i clienti o i dipendenti per proteggere il figlio dai loro sguardi indagatori, il bambino fa scivolare con estrema naturalezza alcuni prodotti nel suo zaino, e così escono indifferenti. Sulla strada verso casa, dopo essersi fermati ad acquistare delle crocchette per la cena, notano tra le sbarre di un balcone una bambina, abbandonata a sé stessa e al freddo di una gelida serata invernale. Promettendosi di riaccompagnarla in quel luogo, non prima di averle fatto mangiare qualcosa e acquistare un po’ di calore, l’uomo decide di portarla con sé.

Ad accoglierli in casa, una costruzione nascosta tra fitte piante, bassa e fatiscente, rispetto all’altezza e alla modernità della metropoli, ci sono quelle che sembrano essere una nonna, una moglie e una sorella, le quali accettano di buon cuore di aiutare la piccola, promettendo di riaccompagnarla più tardi. Ma questa che sembra essere una famiglia, notando i lividi e le bruciature sul corpicino della bambina, decide di non lasciarla sul quel balcone, ma di prendersene cura. È forse un rapimento?


Critica

Sembrerebbe di sì, ma sono stati altri ad abbandonarla, perché mai dovrebbero consegnarla ad un luogo in cui ha patito tanta sofferenza? La vita di questa singolare famiglia continua a scorrere, seguendo il ritmo delle stagini, tra furtarelli, lavori precari e cene consumante rumorosamente, inginocchiati intorno al tavolo di quella casa colma di oggetti, accumulati negli anni. Kore'eda ci mostra vari attimi della giornata dei protagonisti e lo fa con un realismo esasperante, tanto da poter risultare a tratti “sgradevole” agli occhi degli spettatori occidentali. Impariamo così a conoscerli, ad uno ad uno, godiamo con loro di quella felicità creata con poco, ma ci accorgiamo anche che c’è qualcosa in quella famiglia che non è come sembra, la loro felicità si basa su un segreto che emergerà con tutta la sua potenza solo nel finale, in cui tutto si sgretola e inizia a capitolare e in cui il film assume le tinte misteriose di un giallo.

Tutte le azioni della famiglia che potrebbero risultare immorali, hanno invece per loro un senso, una morale. Ma quando la società incarnata nella legge irrompe nella vita dei componenti di quel nucleo famigliare, l’equilibrio creato in nelle mura di casa si spezza, e l’idillio di cui anche noi siamo partecipi, finisce. Il regista, però, non giudica i suoi personaggi pur essendo dei criminali, generando negli spettatori sentimenti contrastanti, tra la compassione e la condanna. Tutti siamo complici di quel segreto e quando nel finale ci confrontiamo, faccia a faccia con i protagonisti, sentiamo il peso delle loro menzogne. Anche noi in nome della felicità siamo venuti a patti con le bugie. Il nostro sguardo è costantemente condizionato da quello dei protagonisti, il mondo lo possiamo osservare solo attraverso i loro occhi. Ecco perché riusciamo solo ad immaginare o a sentire i fuochi d’artificio di una serata estiva: la siepe alta che copre la loro casa gli nega

ogni visione e noi siamo lì ad osservare dall’alto i loro volti, sognanti e pieni di speranza. Ecco perché le inquadrature sono tutte basse: è quella la prospettiva di un bambino o di chi passa la maggior parte della giornata seduto a terra. Ed ecco perché l’oceano lo vediamo attraverso lo sguardo di una nonna che osserva la sua famiglia urlare alle onde, ringraziando l’universo per quella gioia che le è stata concessa nell’ultima parte della sua vita. Il cinema di Kore'eda è un cinema di luoghi e ambienti. La casa, infatti, è il fulcro del film, è un rifugio contro il mondo esterno, una scatola che conserva tutti i segreti dei suoi abitanti. Quella casa, testimone, anch’essa, di tante bugie, ha visto esplodere la vita di questa singolare famiglia, ed anche se nel finale perderà tutto ciò che nascondeva, le sue pareti vuote, continueranno a custodire una vita, che ormai si è già trasformata in ricordo. La scenografia stracolma di oggetti è estremamente eloquente, ci parla di un vissuto e ci dice di quei personaggi, sin da subito, molto di più di quanto possiamo immaginare. Quegli oggetti tutti diversi, accatastati gli uni sugli altri tanto da non poterli più distinguere, sono proprio come le loro vite: hanno esperienze diverse, ma si sono avvicinate e “accatastate” le une sulle altre tanto da formare un nucleo, che è insomma, una famiglia. La loro vicinanza è dovuta al semplice bisogno di sopravvivere, economicamente, ma anche, e soprattutto, psicologicamente. Ognuno di loro ha i propri lividi, per alcuni sono visibili, per altri no, ma ciò che li tiene uniti e li rende una famiglia è la volontà di curarli. Una concezione moderna di famiglia stride con le convinzioni, le tradizioni, con la legge, di un paese che per certi aspetti è ancora indietro rispetto ad altri. Il legame di sangue non è garanzia di affetto, non giustifica il perdurare di situazioni dolorose, forse non è garanzia di nulla. La famiglia diviene quindi il luogo in cui si è compresi, rispettati e amati, il luogo in cui una bambina può asciugare le lacrime di una donna che ha bisogno di una figlia, in cui un bambino può chiamare papà un uomo inadeguato che non ha altro da insegnargli, se non l’arte del furto, e in cui una donna anziana può condividere la sua vecchiaia e la sua pensione con le persone che ama. Non ci saranno le stesse radici ad unirli ma c’è qualcosa di molto più potente capace di creare un equilibrio perfetto di vite imperfette.


P U N T O

18

Carmine Faiella Gabriele Maurizio

D I F U G A

FOTOGRAFIA


Carmine Faiella

La Madre


Carezza

Gabriele Maurizio


CuriositĂ


LO SAPEVATE CHE... Alla

ricerca

perduto

di

assoluto

il

del Proust

tempo è

romanzo

in più

lungo della storia? Consta di

ben

nove

milioni

seicento-nove-mila caratteri.

Il nome Jessica è stato inventato dal famoso drammaturgo inglese William Shakespeare che lo utilizza per la prima volta nell’opera "Il mercante di Venezia". Il nome appartiene alla figlia del protagonista e probabilmente lo scrittore inglese prese ispirazione dal nome biblico Isca, in latino passato come Jesca. Per cui care Jessiche di tutto il modo potete dire di essere personaggi shakespeariani.

e


Lo scrittore ceco non amava i bambini eppure un giorno, durante una passeggiata al parco Steglitzer di Berlino, lui e la sua compagna Fora Diamant si fermarono a parlare con una bambina, Elsi, la quale aveva appena perso la sua bambola Brigida. Frank cercò di rassicurare la bambina spiegandole che la sua bambola era partita in viaggio e che presto le avrebbe scritto. Per aiutare Elsi ad elaborare la perdita, Kafka finse di essere Brigida per tre settimane e per tre settimane scrisse alla bambina una lettera al giorno da parte della sua bambola. Nell’ultima la bambola spiegava alla sua padrona che si era sposata e che per questo non avrebbe più potuto tornare da Elsi.

CURIOSITÀ

I primi libri stampati da Johannes Gutenberg e i suoi artigiani erano molto simili ai manoscritti del tempo. Lo stampatore infatti cercò di ricreare circa 290 caratteri in un elaborato stile gotico, simili alla scrittura umana di un amanuense. Inoltre, le prime lettere di ogni sezione erano in rosso, come nei manoscritti, proprio per non scioccare i lettori con una struttura troppo innovativa.

Genesi 1, la Bibbia. Gutenberg


Tutti conoscono l’amicizia che legava Shelley, Keats e Byron ma forse non tutti sanno che i primi due, non avendo più notizie del giovane Lord da tempo, preoccupati, decisero di cercarlo: Keats rimase a Roma, nel caso in cui fosse tornato, mentre Shelly si recò a Venezia, dove Byron aveva detto di essere diretto. Poche settimane dopo, Keats ricevette una lettera da parte di Shelly, che gli spiegava di aver trovato Byron in condizioni disastrose, malnutrito e disidratato, dal momento che non aveva fatto altro che divertirsi eccessivamente, senza mai fermarsi, rischiando quasi di morire. La risposta di Keats fu molto semplice e breve “avresti dovuto lasciarlo fare.”


I Romani non si radevano mai da soli, ma andavano tutti dal tonsor (barbiere), il quale bagnava la pelle dei clienti solo con acqua prima di radere. Ma anche i più bravi barbieri, purtroppo, sfregiavano spesso i volti dei loro clienti, le cui ferite venivano curate con un'applicazione di tele di ragno bagnate in olio e aceto. È anche per questo motivo che molti Romani preferivano farsi crescere la barba. Gli Antichi Romani celebravano un vero e proprio rito religioso quando un giovane si faceva radere per la prima volta la barba. La cerimonia si chiamava "depositio barbae" (deposizione della barba). Era un giorno solenne, con feste e banchetti ai quali erano invitati gli amici di famiglia. La barba tagliata per la prima volta doveva essere offerta alle divinità.

Fonte: Focus


SII

GENTILE,

PRENDITI NON

CURA

TEMERE

DI

DI

CHI

AMI,

SPLENDERE

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