FIAT LUX III

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N.3

"23:59”


Solo chi ha la forza di scrivere la parola fine può scrivere la parola inizio. (Lao Tzu)

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PREFAZIONE 23:59 È un orario magico, perché racchiude in sé tutto quello che è stato ed il seme, pronto a germogliare, di quello che sarà. Ed è quindi su questa terrazza vista futuro che il terzo numero di Fiat Lux ha deciso di affacciarsi, per guardare avanti, e piuttosto che fare un sunto statico del passato abbiamo deciso, in seno alla redazione, di trattare dell’inizio, di ciò che nasce, che comincia.

Ogni autore ha deciso di parlare del proprio “inizio” e mentre per chi è segno di rinascita e speranza, per altri è malinconia o semplicemente una tappa dell’inevitabile scorrere del tempo. Gli ultimi giorni di Dicembre sono sempre stati intrisi di un particolare velo di magia, speriamo di averlo colto, e sarete voi a dircelo. Detto ciò vi lascio subito alla lettura (ma solo per questa volta, non fateci l’abitudine), con la promessa di novità, cambiamenti e progetti futuri.

La redazione di Fiat Lux vi augura Buone feste, ed un inizio d’anno luminoso.

Abbiate il coraggio di splendere. FIAT LUX: RIVISTA LETTERARIA Il fondatore e capo redattore Pasquale Bruno


PROSA A CURA DI

Sara Paolella Pasquale Bruno


LACCI DELLE SCARPE Elio

inspira

prendere

profondamente

parola.

I

suoi

prima

occhi

di

stanchi

guizzano da una parte all’altra della sala e si sente quasi soffocare quando vede tutte le persone che sono attorno a lui. Hanno tutti lo

sguardo

puntato

sulla

sua

figura

mingherlina, sfatta, non lo staccano, restano lì

con

le

orecchie

tese

e

aspettano

che

proferisca parola, pronti a sentire e a giudicarlo. Lo incitano a parlare. Ma Elio non parla. Non è facile. E resta seduto guardando a terra, scuotendo la testa e facendo strisciare la punta sinistra della

sua

converse

usurata

sul

pavimento

malridotto di quella stanza. Lo giudicano in silenzio, mentre la parola passa ad un altro. Elio si morde il labbro e respira piano, cerca di prendere il fiato che ha

perso

poco

prima,

mentre

tende

le

orecchie perché Edoardo non ha paura di parlare, e infatti racconta. Non è la prima volta che lo sente condividere la sua storia con il resto del gruppo, e forse Edoardo, che partecipa da tanto tempo ai loro incontri, paura di parlare non ne ha più.


Prosa

Quando dissero ad Elio che sarebbe dovuto andare in terapia, a quelle di gruppo, rise. Elio se ne è sempre stato sulle sue, aprirsi con gli altri non è mai stata un’opzione accettabile per uno come lui, che è abituato a cavarsela sempre da solo. Non aveva intenzione di iniziare a condividere il suo mondo ora. Lancia gli occhi blu verso Edoardo, che continua a parlare, ed Elio lo ascolta, perché lui sa incantare tutti quando apre bocca. “Mia madre una volta mi ha insegnato questo trucco. Se si ripete qualcosa più e più volte perde il suo significato. Per esempio: compiti compiti compiti compiti compiti compiti compiti compiti - Vedete? Niente. La nostra esistenza, mi disse quella stessa volta, è così. Se guardi l’alba troppo spesso, diventano solo le cinque di mattina. Se fai lo stesso errore più e più volte, smetterai di chiamarlo un errore. È così che mi sono giustificato tutta la vita; è per questo che ora sono qui. È diventato solo uno svegliarsi svegliarsi svegliarsi svegliarsi svegliarsi svegliarsi svegliarsi finché un giorno ti dimentichi perché. Evidentemente le cose perdono significato dopo del tempo. Mi sono dato questa spiegazione quando da bambino i miei genitori si sono lasciati. Forse si saranno detti “ti amo” così tante volte che non sanno più cosa significa. Il trucco infondo me l’ha insegnato mia mamma. Da bambino questo è diventato il mio gioco preferito, riuscivo a far evaporare la puntura delle parole, non provavo più dolore. Solo solo solo solo solo, vedete? Niente. Tossicodipendente tossicodipendente tossicodipendente tossicodipendente vedete? Non è niente.” Elio sospira affranto, perché vorrebbe parlare come Edoardo, e riuscire prima o poi a dire cosa ha passato, vorrebbe parlare perché sa che solo così può ricominciare di nuovo, iniziare una nuova vita. Ascolta vagamente le parole di Diana, che da appuntamento al gruppo per l’ultimo giorno dell’anno, perché sa che molti resteranno soli a casa, e preferisce averli con lei. Ad Elio è sempre piaciuto il capodanno. Come se facendo quel conto alla rovescia ci potessimo

perdonare

per

tutti

i

nostri

fallimenti;

ci

diamo

un’altra

chance;

ci

ripetiamo i nostri nuovi propositi che forse manterremo solo fino al giorno dopo. Infondo però, lo sappiamo che non cambia niente, che la Terra ha fatto solo un altro giro attorno a sé stessa, Che domani sarà proprio come ieri.


Prosa

Elio inspira profondamente prima di prendere parola. I suoi occhi stanchi guizzano da una parte all’altra della sala e si sente quasi soffocare quando vede tutte le persone che sono attorno a lui. Hanno tutti lo sguardo puntato sulla sua figura mingherlina, sfatta, non lo staccano, restano lì con le orecchie tese e aspettano che proferisca parola, pronti a sentire e a giudicarlo. Lo incitano a parlare. Ed Elio ora parla. “La prima cosa che ti tolgono in prigione sono i lacci delle scarpe. Ho pensato che fosse così perché in questo modo distruggono la tua dignità. Oppure perché dimostrano la loro autorità. Mi sbagliavo. È così perché in questo modo non ti impicchi. Sono qui perché prima vendevo eroina. 10, 20, 80 grammi, non importava che io facessi del male alla gente, fino a quando il loro male contribuiva a farmi stare bene. È un po' ironico, non trovate? Vorrei che l'ironia appartenesse solo alle commedie britanniche o a ragazze bionde che con una chitarra e una voce fastidiosa credono di poter dominare il mondo. Quando vendevo tenevo un quaderno, per annotare tutte le persone che compravano da me, tutte le persone che sarebbero morte prima o poi. Non erano solo drogati, erano ragazzi che andavano all'università, gente che voleva farla finita, donne disperatemadri che avevano insegnato ai loro figli come allacciare i lacci delle scarpe. Anche i miei genitori erano dei drogati. Sono morti entrambi di overdose. Ho pagato per il loro funerale con le monete dello spaccio. Ecco che quell'ironia sta ritornando.”

Pausa. Inspira. Espira. Ricomincia.

“Tempo fa anche un poeta veniva qui in prigione, mi ha portato un quaderno una volta. Non sono mai stato un grande scrittore ma ho cominciato a scrivere. Ho iniziato a scrivere una poesia intitolata "se le strade potessero parlare"

ma non

riesco mai a finirla perché ad ogni lettera che scrivo rivedo il sangue dei miei genitori sui miei polpastrelli: perché se le strade potessero parlare direbbero che li hanno uccisi le persone come me, se le strade potessero parlare direbbero che li ho uccisi io, NO, se le strade potessero parlare... la mia mano trema e io non completo mai la mia poesia.

Non so scrivere e quel poeta mi disse che l’importante era sfogarmi con la carta, e non scrivere qualcosa di bello. Se le strade potessero parlare direbbero ai miei genitori da parte mia che li amavo e che sono ancora capace di fare qualcosa di bellissimo. Se le strade potessero parlare direbbero a tutti che rivoglio i lacci delle mie scarpe indietro”


Elio, Edoardo e tutti quanti si stringono attorno alla radio, ascoltando il conto alla rovescia, brindando con della scadente birra analcolica al nuovo anno. Poi vanno a casa.

Elio cammina in silenzio, e pensa che se le strade potessero parlare adesso, gli direbbero che è stato bravo, perché ce l’ha fatta. Ma le strade stanno zitte, non dicono niente, perché quello che noi chiamiamo silenzio è il respiro del mondo. Elio continua a camminare in silenzio, con le mani in tasca, fin quando non si porta le nocche sotto gli occhi azzurri, un po’ più blu del solito, per asciugarsi una lacrima. Eccolo lì. Piange leggermente. È questo il momento in cui capisci che il nuovo anno arriva, è questo il momento in cui sei pronto a perdonarti e a darti un’altra chance, a cominciare di nuovo, perché le strade non parlano a tutti, ma sussurrano a chi sa ascoltare che è sempre un buon momento per ricominciare.

SARA PAOLELLA


Prosa

L'INCIPIT Odio Dicembre. Odio il Natale. Sono le uniche che frasi che riesco a pensare mentre attraverso a grandi falcate la strada diretto verso l’auto reggendo due spaventose buste della spesa che minacciano di cedere ad ogni passo: sono in ritardo, per l’ennesima volta, e già mi preparo mentalmente alla lavata di capo che mi faranno non appen… “No. Non mi piace.” Penso, mentre rileggo il testo “cioè,

l’inizio

ci

può

stare,

ma

dopo?

Come

si

continua?

Descrivo

un

cenone

fallimentare? Bella idea del cazzo…” mi accarezzo il pizzetto “proviamo un’altra cosa, magari più ironica, meno pesante…” cancello tutto e ricomincio a scrivere con le dita che battono incerte sulla tastiera: Parenti, cibo, auguri e regali. Cibo, parenti, regali e auguri. Auguri, cibo, parenti e regali. Regali, auguri, cibo e parenti. Quella che avete appena letto è la nataliziosa declinazione di “December”, sostantivo maschile di terza declinazione, che per i latini indicava l’ultimo mese dell’anno del calendario giuliano, mentre per noi è un mese colmo di ansie e colesterolo che troveranno il loro apice nella notte del 31, in un bilancio spaventosamente complessivo dell’anno.

“E questa sembra una barzelletta che non ci ha creduto abbastanza…di certo non posso costruirci una storia sopra…” sbuffo “ed anche questo incipit va a farsi fottere”. Mi

stiracchio

sulla

sedia

girevole

ruotando

leggermente,

poi

mi

rialzo

di

scatto,

raddrizzandomi, e guardo l’orologio del monitor. Sono le due e quarantacinque del mattino. “Fantastico, sono quasi le tre ed ho messo insieme esattamente…” punto il dito verso lo schermo, scorrendo il file word “una decina di frasi sconnesse…”


Mi riabbandono nuovamente sulla sedia togliendomi gli occhiali e massaggiando le palpebre stanche, dopodiché, nello sforzo di rimettermi

al

lavoro,

pronunciai

una

di

quelle

frasi

che

da

universitario ripetevo almeno tre volte al giorno (sei se sotto esame): “ho bisogno di caffeina”. Scendo al piano terra, accendo la macchinetta e prendo una cialda dallo scatolo sul mobile, prima di inserirla l’annuso (uno dei veri pochi piaceri della vita: il profumo del caffè) e mentre aspetto che la linfa vitale sgorghi nella tazzina rifletto un po' sull’articolo (Una settimana fa la rivista per la quale lavoro mi ha

commissionato

un

racconto

breve

sul

Natale

appena

trascorso, qualcosa di simpatico, da consegnare entro domani, qualcosa che parli di questo periodo dell’anno, ma essendo la procrastinazione potente in me, mi sono ridotto, come mio solito, all'ultimo.

Ma mentre le altre volte riuscivo a cavare il ragno dal buco sotto pressione, stavolta niente, zero, nada. Ho i rotolacampo nel cervello.) Mi siedo e sorseggio con una smorfia il caffè, amaramente annacquato come il mio umore al momento (azzarderei un “come la mia vita” ma non voglio apparire disastroso). Riapro sulla tavola il portatile che ho portato giù con me e mentre lascio scorrere i pensieri, ricomincio a scrivere, stavolta abbandonando l’ironia e cercando di scendere più nel personale: Sto soffocando… È la sera di Natale, cammino per le strade del corso abbagliato dalle luminarie, dalle luci dei negozi, cerco di evitare quel fiume di persone che sembra sommergermi ad ogni passo, socchiudo gli occhi e cammino più svelto. È sera, fa freddo e dovrei rientrare: mi aspettano a casa; ma non ci voglio tornare, perché non provo più nessuna contentezza nell'incontrare persone che vedo solo una volta all'anno, scambiandosi frasi fatte, e chiedendosi a vicenda “come stai” Ho freddo ed ho i brividi. Ogni tanto sento il telefono vibrare nella tasca dei pantaloni, forse mi staranno cercando, saranno preoccupati, oppure saranno ovviamente altri auguri di Natale fatti da conoscenti di cui a stento ricordo il viso e che si ricordano di te solo oggi. Accelero il passo e mi sento soffocare.


Ho la sensazione di un vuoto, come se qualcosa che era dentro di me, alto e rigoglioso, si fosse avvizzito, seccandosi di anno in anno, fino a sparire sbriciolato, annegato nel tutto. Sono diventato grande ed il Natale non è più bello. Voglio tornare indietro, quando le luci dell’albero si riflettevano

nei

miei

tornare

all’inizio,

insieme

il

occhi

quando

presepe

ed

ogni

lucidi con

da

mio

anno

bambino, padre

era

una

voglio

facevamo sfida,

per

renderlo diverso e speciale, scartare con la mia sorellina i regali la mattina del 25, fare con lei un pupazzo di neve, voglio sedermi a tavola, la sera della vigilia, guardare avanti e trovare dopo tanto tempo mio nonno che se la ride con suo figlio, proprio lì, dove ora c’è solo una sedia vuota. Voglio… voglio… voglio… Voglio di nuovo sentire il Natale, rivoglio quello che mi hanno tolto; Le luci che una volta mi facevano sorridere di meraviglia ora mi accecano. Mi sento soffocare. Inizio a correre, voglio scappare lontano, l’aria fredda mi ferisce i polmoni affannati. Scivolo. Cado. Nessuno si ferma. Li guardo da terra… Tutti vanno di fretta, nessuno ha tempo per aiutarmi, ma hanno ragione, ci sono ancora tante cose da fare… Una volta, da piccolo, il Natale mi abbracciava, mi riscaldava durante il freddo dell’inverno, ora mi sta stritolando, mi schiaccia, sotto il peso dei ricordi, delle mancanze, della mia indifferenza da adulto…

Mi fermo un attimo perché ho gli occhi umidi. Cancello tutto, spengo il computer e fisso il muro cercando di trattenere le lacrime mentre mi rendo conto che per me, il 25 Dicembre, è solo un giorno come un altro, uguale ed identico al resto dell’anno: è per questo che non riesco più a scrivere niente. è per questo che mi fermo solo all’inizio e non riesco a continuare, dare corpo a questo maledetto articolo sul Natale; perché solo all’inizio questa data significava qualcosa per me, solo all’inizio…


Se da bambino mi chiedevate quale fosse la cosa più bella del mondo avrei risposto il futuro che tanto sognavo, il lavoro che volevo fare da grande, lo avrei detto con una voce alta, squillante, piena di speranza, perché per me anche le cose più piccole erano motivo di meraviglia, allora riuscivo a scorgere l’incanto della vita in ogni angolo. Ora, da adulto, potrei rispondere che l’età d’oro è la fanciullezza, il passato, ma non me la sento, credo che ci sia qualcosa di più. Per me la parte, o meglio, le parti più belle della vita è quando iniziamo: il principio di un amore, ad esempio, è meraviglioso, quando la fiamma brucia alta, svettante, intrepida contro le intemperie, ignara che prima o poi si ridurrà a misere braci, o peggio, in cenere; l’inizio di un progetto è, rispetto alla sua conclusione, migliore, perché colmo di aspettative e di rischi che ti regalano quel senso di entusiasmo per poi lasciare il posto a pacata e noiosa soddisfazione, o ad amare delusioni; La preparazione di un viaggio tanto atteso, gli attimi prima della partenza, il brivido dell’avventura, la sete di conoscenza che sarà sempre destinata ad eclissarsi in foto sbiadite; la nascita di una nuova vita… Mi alzo dalla sedia, salgo in camera e mi distendo nel letto. Spengo la luce; tra poco inizierà un nuovo anno, e come ogni inizio sarà promettente, luminoso, o forse è quello che spero, ma è un inizio, e mi va bene così. Nel 2020 si aprirà un nuovo atto di quella pazza drammaturgia che è la mia vita, e cercherò di prenderla al meglio che potrò. Sorrido sotto le coperte, un sorriso amaro.

È un buon inizio…

"il regno di Almataria" "Love" X Amataria PASQUALE BRUNO


Poesia A cura di:

Tania Ferrara Giovanni Signorile Emmanuele Zottoli Alessia Pierno


Poesia

Dimmi cos’è l’inizio Se non una farfalla che diventa bruco, Se non una lacrima che torna indietro, Se non labbra che varcano l’anima. Ogni istante è la soglia di una nuova alba, la fine di una vecchia notte. È per i coraggiosi riscrivere le sillabe della propria essenza. Sempre la stessa storia, lo sbaglio è la memoria.

Tania Ferrara


Poesia

Eppure è vero che siamo come l'acqua dei presepi, che scorre e poi ritorna di là dalle siepi, così che ad ogni valle di cartapesta Il sughero guardi e la pensi diversa. Forse hai ragione quando mi dici che i nostri giorni sono come i giri di questi pastori, credo ben poco a chi vuole che i nostri errori vadano via all'esplodere improvviso delle luci. Ben altra in fondo è la verità e pensarla la conduce via, non ho più certezza alcuna che non quel tuo solito ritornello.

Emmanuele Zottoli


Poesia

Scorrono tutte l’itineranti acque dai princìpi monti pe’ ‘l‘ azzurri fiumi: iniziali corsi molteplici d’una sola infinita fine, partono per il Mare sono il Mare che riempie il Mare. Così loro, così il nostro cammino un’unica dualità in cui la fine appare Inizio e la vita il viaggio con destinazione: l'Assoluto

Giovanni Signorile

LA FOCE DEL CINQUALE, CARLO CARRÀ


Dov’è

Poesia

che comincio? Qui dentro o al di là di questa mia pelle? E dov’è che finisco? Laddove i piedi mi trascinano oppure oltre, dove i pensieri mi spingono? Non lo so, nessuno lo sa. Nessuno lo sa ma un po' mi spaventa l’idea che il mio spazio nel mondo sia limitato a quello occupato dal mio corpo. E che il mio inizio, la mia fine, siano in me. Entrambi. Misteriosi e ineluttabili.

ALESSIA PIERNO


C R I T I C A

A

L E T T E R A R I A

C U R A

D I :

Matteo Balsamo Maria Urti

CON IL CUORE DEI GIGANTI Il titolo di questa rubrica è ispirato alla celebre citazione di Bernard de Chartes: “…come nani sulle spalle dei giganti” Il nostro sarà un tentativo di salire sulle spalle dei colossi del passato e da spiriti di bassa statura con il loro aiuto guardare al presente e al futuro con occhio critico e curioso. In questo spazio, verranno trattati un autore e un’opera letteraria in linea con il tema mensile della rivista. Non verranno date solo note tecniche o mere nozioni sullo stile ma fornirà un ponte di lancio al nostro pensiero per poi addentrarsi nelle profondità: tentare di interpretali ed offrire poi uno spunto di riflessione.


L'ANNO CHE VERRÀ Rovistando nei miei cassetti, ritrovo la raccolta di testi studiati per l’esame di Letteratura italiana I, il mio primo esame di Lettere. La nostalgia mi avvolge e inizio a sfogliarli, associando a ciascuno di essi un intimo e sentito ricordo. Arrivato a ben più di metà, riscopro uno dei miei preferiti e comincio a rileggerlo con passione. Inizia così: “Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?” A parlare è un venditore di almanacchi; una sorta di venditore ambulante di libri, come si possono senza dubbio trovare nei mercatini di Natale. Il periodo è quello della fine dell’anno, e il venditore espone la sua merce, fatta di calendari con indicazioni astronomiche, astrologiche e meteorologiche più curiosità sulle festività principali, fiere, mercati, novelle e passatempi. Cerca di attirare l’attenzione, e trova un “passeggere” che gli risponde.

REISE | PAGE 4

Passeggere. Almanacchi per l'anno nuovo? Venditore. Si signore. Il “passeggere” inizia a porre delle domande, che inizialmente sembrano retoriche, ma non lo sono affatto. Guardate qui: Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo? Venditore. Oh illustrissimo si, certo. Passeggere. Come quest'anno passato? Venditore. Più più assai. Passeggere. Come quello di là? Venditore. Più più, illustrissimo. Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi? Venditore. Signor no, non mi piacerebbe. Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi? Venditore. Saranno vent'anni, illustrissimo. Passeggere. A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno venturo? Venditore. Io? non saprei.


Se non lo avete già capito, il “Passeggere” è una finzione letteraria, e dietro questa figura si cela un grandissimo autore: Giacomo Leopardi. Ebbene sì, il Leopardi troppo spesso etichettato

sbrigativamente

profondamente

la

vita,

e

come

ne

“pessimista”,

aveva

compreso

e

che

in

vissuto

realtà solo

il

aveva dolore,

interrogato inutile

ma

onnipresente, nella vita di ognuno di noi. Questo testo è contenuto nelle “Operette morali”, e si discosta da molti altri pervasi da nichilismo ed angoscia, ma non voglio svelarvi ancora nulla. Fissate gli occhi su quel “non saprei”. Dopo ne riparleremo. Intanto, il dialogo continua:

Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice? Venditore. No in verità, illustrissimo. Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero? Venditore. Cotesto si sa. Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste? Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse. Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati? Venditore. Cotesto non vorrei. Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro? Venditore. Lo credo cotesto. Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo? Venditore. Signor no davvero, non tornerei. Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque? Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse senz'altri patti Il passeggere è riuscito a demolire, con poche ma puntuali domande, gran parte delle certezze

che

il

venditore

credeva

di

avere.

Con

tono

incalzante

e

ritmo

veloce,

ha

scardinato la patina di illusione che aveva apposto alle sue idee sul futuro, quindi non tanto dissimile rispetto al passato e al presente. Ecco il “non saprei”: il venditore, ripensando alla sua vita, si rende conto di non aver mai raggiunto la piena felicità. Desidera, dunque, una vita “come Dio me la mandasse, senz’altri patti”, ovvero una vita che cancelli le esperienze già provate, le sofferenze e le cicatrici e che ricominci da zero, avendo avanti l’ignoto. L’anno che verrà, direbbe Lucio Dalla. Il bello, però, deve ancora venire:


Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo? Venditore. Appunto. Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? Venditore. Speriamo. La speranza è l’unico antidoto al male, eppure è “vana illusione”. Ed è qui che Leopardi riesce ancora una volta a sorprenderci. Conoscendo il suo “pessimismo” saremmo immediatamente portati a credere che il prosieguo della discussione sarà una distruzione totale della fievole speranza. E invece, il passeggere dice:

Passeggere. Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete. In questa singola frase è contenuta più speranza che in centinaia di pagine di poesia e prosa; questa frase è anticipatrice del fiore che cresce tra l’aridità e la desolazione del Vesuvio, “fior gentile” e fragile che manda in cielo un profumo dolcissimo e delicato che “il deserto consola”. La vita può fiorire anche nelle asperità e nella durezza del mondo, e Leopardi ci insegna a proteggere le illusioni, continuando a credere che il prossimo anno potrà essere migliore, nonostante dopo le sue parole saremmo portati a pensare il contrario.

“Ma la televisione ha detto che il nuovo anno Porterà una trasformazione E tutti quanti stiamo già aspettando…”

“…Vedi caro amico cosa si deve inventare Per poter riderci sopra Per continuare a sperare?”

Lucio Dalla – L’anno che verrà


Ne “Il sabato del villaggio”, di qualche anno precedente, Leopardi rendeva in poesia la sua

“teoria

fondamentale:

del

piacere”,

l’attesa.

contenuta

L’attesa

è

la

nello culla

Zibaldone,

delle

attraverso

illusioni;

è

la

un

porta

concetto spalancata

sull’immaginazione e sulla probabilità di vivere serenamente il giorno che seguirà. L’attesa è l’impossibilità di conoscere il futuro, l’inconsapevolezza di cosa ci attenderà con certezza, senza avere però false aspettative (come invece accade in “Aspettando Godot” di Samuel Beckett). Allora, possiamo solamente “preparaci”, come dice il cantautore bolognese, predisporci a quello che di buono potrebbe accadere.

Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi. Passeggere. Ecco trenta soldi. Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla Una voce continua a gridare: “Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi!”

Matteo Balsamo


⽊漏れ⽇

KOMOREBI

CRITICA CINEMATOGRAFICA

A CURA DI: SARA PICARIELLO

Komorebi è la parola giapponese usata per indicare la luce del sole che filtra tra le foglie degli alberi. Le parole giapponesi sono estremamente affascinanti, questo perché i kanji, ideogrammicondensatori di significato, sono utilizzati per esprimere concetti complessi che non potrebbero essere espressi con le parole del nostro alfabeto. In particolare l’aver creato una parola appositamente per rendere lo spettacolare effetto visivo della luce tra gli alberi, mi ha da sempre trasmesso qualcosa di poetico e di magico. Pronunciando una semplice parola siamo lì, tra quegli alberi attraverso cui il sole cerca di penetrare, rompendosi in fasci di luce. Un effetto visivo per me simile alla luce dei proiettori, che girando lo sguardo durante la proiezione di un film, vedo uscire dalle piccole finestre poste in alto nella sala, una somiglianza forse lontana ma dettata dalla stessa sensazione di quiete che mi trasmette il trovarmi tra la natura o in una scura sala di un cinema. Cosa sarà quindi Komorebi? Definirla una rubrica cinematografica forse è un po’azzardato, mi piacerebbe più definirla come la piccola finestra di una sala dalla quale proietterò un film, scelto da me, visto di recente, ma anche più datato, che consiglio di vedere (se non lo avete ancora fatto). Lo analizzerò, commenterò fornendo una chiave di lettura personale e delle curiosità a riguardo. Detto questo buona lettura!


CRITICA CINEMATOGRAFICA

C'ERAVAMO TANTO AMATI TRA ILLUSIONI E FALSE SPERANZE

Il 28 marzo 1994 i Pink Floyd pubblicarono il loro ultimo album prima di The endless River del 2014: The division bell. È il secondo album dopo l'abbandono del bassista e cantante Roger Waters ed è anche l'album in cui Gilmour decise di compiere un'autoanalisi ed esprimere le sue frustrazioni e problemi, primo fra tutti quello della comunicazione. Il tema dell'incomunicabilità, infatti, è il filo rosso che tiene unite le varie canzoni. Il nome dell'album si riferisce al suono della campana che viene fatta suonare nel parlamento inglese per annunciare una votazione imminente ed indicava, quindi, il momento in cui bisognava prendere una decisione, schierarsi, per iniziare qualcosa di nuovo.

L'espressione fu presa dall'ultima traccia dell'album, High Hopes, quella che da molti fan è considerata il testamento della band: un inno alla gioventù ormai passata e al ricordo delle grandi speranze che sono state distrutte dal tempo e rese piccole creature, consumate da un lento decadimento.

High hopes è uno dei brani più intensi di The Division bell ed aveva un profondo significato per David Gilmour, in quanto rappresentava la parabola discendente non solo della sua vita e di conseguenza di quella di ogni uomo ormai adulto, ma anche quella della band. È una canzone generazionale, che a distanza di anni continua a parlarci perché ha ancora qualcosa da dire, grazie allo sguardo maturo con il quale Gilmour ha osservato e racchiuso in 7 minuti e 48 secondi la propria vita.

“Leaving the myriad small creatures trying to tie us to the ground To a life consumed by slow decay.”


Anche nel cinema ci sono film che hanno segnato generazioni intere e che hanno raccontato il passaggio dalla giovinezza all'età adulta, tra questi rientra sicuramente uno dei capolavori della commedia all'italiana: C'eravamo tanto amati di Ettore Scola del 1974. La crisi del '68, il sopraggiungere degli “anni di piombo” e la sfiducia nella politica da parte delle nuove generazioni portarono il cinema dei primi anni '70 ad abbandonare sempre di più il presente per muoversi alla scoperta della storia e della memoria nazionale. Nel passato i registi cercavano di trovare una chiave di lettura per il presente che appariva poco decifrabile, inoltre, avevano perso il senso d'appartenenza che caratterizzava gli autori del dopoguerra e il loro sguardo netto sul paesaggio che diventava soggetto della storia. Scola dedicò C'eravamo tanto amati, proprio a Vittorio de Sica, il regista che più di tutti aveva mostrato al mondo come l'Italia avesse affrontato con dignità la sconfitta subita nella seconda guerra mondiale e come gli italiani avessero raccolto i pezzi delle loro vite per ricominciare da zero. Sono numerosi infatti i riferimenti al grande regista e ad uno dei suoi capolavori, Ladri di biciclette. Ma soprattutto Scola decise di raccontare la storia di tre giovani amici, che dopo aver militato nelle fila dei partigiani prendono strade diverse, scelgono di ricominciare, ognuno come meglio crede, seguendo le proprie grandi speranze, dopo la distruzione della guerra. Segue così l'avvicendarsi della loro vita negli anni, mostrandoci le conseguenze delle loro scelte e la fine dei loro sogni giovanili e regalandoci, in generale, 30 anni di storia italiana.

Anche per Antonio, Gianni e Nicola, i tre protagonisti, il suono della “division bell” ha segnato l'inizio dell'età adulta e il momento in cui decidere come far ricominciare la propria vita.

Beyond the horizon of the place we lived when we were young In a world of magnets and miracles Our thoughts strayed constantly and without boundary The ringing of the division bell had begun. (Oltre l'orizzonte del luogo in cui vivevamo quando eravamo giovani, /in un mondo di magneti e miracoli,/i nostri pensieri si allargavano costantemente e senza confini, /il suono della Division Bell era iniziato). Tutto inizia sulle montagne innevate dove i partigiani rischiarono la loro vita per liberare l'Italia dal nazi-fascismo, è proprio in questa situazione che i tre giovani si sono conosciuti e hanno reso salda la loro amicizia. L'Italia viene liberata e per i tre partigiani è giunto il momento di dividersi e ricominciare la vita di tutti giorni. Ognuno prende la propria strada, nutrito di grandi ideali e di speranze per un futuro migliore, ma l'incontro con la realtà è spietato e per vivere bisognerà stabilire dei compromessi. Le voci fuori campo dei tre protagonisti si susseguono nel descrivere ciò che la vita ha riservato per loro. Antonio Cotichella (Nino Manfredi) è un portantino dell'autoambulanza ed incarna perfettamente l'immagine del proletariato romano. Potrebbe aspirare ad un lavoro più remunerativo, grazie alla politica adottata dal governo, ma non lo fa, per non tradire i propri principi e quelli del partito. Nonostante i sogni e le speranze giovanili in una nazione più giusta, l'ingresso nell'età adulta lo porta a cedere al compromesso storico di coltivare una felicità non più sociale ma personale

attraverso il lavoro e la famiglia.


È proprio grazie al suo lavoro che incontra Luciana (Stefania Sandrelli) la donna della sua vita, una giovane ragazza friulana che aspira a diventare un'attrice di successo. La loro storia procede tranquillamente, Luciana ammira di Antonio, la generosità e la bontà che lo caratterizzano, ma nella loro storia entrerà Gianni, che tornato a Roma dopo la laurea in legge, conquista con il suo fascino da intellettuale e da uomo in carriera, Luciana. Anche in amore, quindi, Antonio è costretto al compromesso: rinunciare alla donna che ama. Emblematica la scena in cui i due amanti rivelano il loro tradimento: se esternamente l'uomo sembra tranquillo, tutta la sua rabbia è espressa da un forte temporale visibile dalla finestra alle sue spalle ed esploderà solo dopo aver immagazzinato la notizia.

È in questo momento che pronuncia la famosa frase “Se semo stufati d'esse buoni e generosi!” .Antonio è la voce del popolo, l'italiano medio del dopoguerra, stanco del compromesso e della macchina del governo che si arricchisce sulle spalle dei più deboli.

Gianni Perego (Vittorio Gassman) è, invece la controparte di Antonio, potrebbe rappresentare quello che gli americani definiscono il self-made man, un uomo che con le proprie capacità riesce a realizzarsi: da semplice avvocato squattrinato di sinistra diventa ricco e di successo, grazie all'incontro con Romolo Catenacci (Aldo Fabrizi), un potente imprenditore edile, famoso per i molti brogli perpetrati contro i più poveri. L'affermazione di Gianni ha un prezzo molto caro: dovrà rinunciare a tutto ciò in cui crede per diventare l'uomo che aveva sempre rifiutato di essere. Il mondo che da giovane voleva cambiare, alla fine cambierà lui. Negli anni diventa avido, meschino e senza scrupoli, abbandona Luciana, che ama tanto, per sposare la figlia di Catenacci, Elide e completare così la sua ascesa verso il potere. Gianni vivrà nell'agiatezza e in un'apparente felicità.


“There was a ragged band that followed in our footsteps Running before times took our dreams away Leaving the myriad small creatures trying to tie us to the ground To a life consumed by slow decay”. (C'era un drappo stracciato che seguiva le nostre orme,/correndo prima che il tempo portasse via i nostri sogni. Lasciando la miriade di piccole creature che ci incatenavano al terreno, /ad una vita consumata da un lento decadimento).

Le piccole creature di cui parla Gilmour sono tutte le convenzioni sociali e il mito della carriera, che ci intrappolano e non ci fanno essere liberi. Le stesse creature hanno intrappolato Gianni e in certo senso anche Antonio. Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores) infine, è un giovane intellettuale di provincia, nato e cresciuto a Nocera Inferiore. Ha una giovane moglie e un figlio ed è professore nel ginnasio del paese. Fervente cultore del Neorealismo e in particolare di Vittorio De Sica, mal tollera il provincialismo e l'ottusità di vedute dei suoi conterranei, che non riconoscono la grandezza del regista. Per questo motivo lascia a Nocera la moglie e il figlio, convinto che nella Capitale possa trovare quella temperie artistica e intellettuale che solo una grande città può fornire. Ma la Roma del dopoguerra non è come la immaginava e le sue grandi aspettative diventeranno presto disillusioni. Nicola rappresenta l'intellettualismo fine a se stesso, che non smette mai di porsi domande ma che, però, non riesce più a trovare risposte concrete. Nicola è diverso da Gianni, non rinuncia ai suoi ideali, non rinnega sé stesso, piuttosto abbandona la moglie e il figlio e si fa licenziare perché convinto che “invece di inseguire un'improbabile felicità sia meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro”. Ma è diverso anche da Antonio perché non si arrende al reale e al pragmatismo, continua, invece a vivere di idee e illusioni.

At a higher altitude with flag unfurled We reached the dizzy heights of that dreamed of world (A un'altitudine maggiore bandiere spiegate / Raggiungevamo le gelide cime di quel mondo sognato)


Gilmour a questo punto esprime ammirazione verso coloro che non si sono lasciati incatenare, ma hanno volato alto e hanno raggiunto le vette più alte, forse c'è anche un riferimento alla band e agli anni migliori che hanno vissuto. Ma possiamo dire lo stesso di Nicola? Ha raggiunto le cime tanto agognate nonostante non sia caduto nella trappola del compromesso come Gianni e Antonio? Gli anni passano, il progresso avanza e ciò viene magistralmente reso da Scola attraverso un geniale artificio tecnico che rende a colori la pellicola che fino a qual momento era stata in bianco e nero, una metafora non solo della società che si evolve ma anche del cinema. Dal cinema neorealista del dopoguerra in bianco e nero, si passa alle pellicole a colori e a registi del calibro di Federico Fellini (che rivediamo in un cameo con Marcello Mastroianni durante le riprese de La Dolce vita e in particolare dell'iconica scena nella Fontana di Trevi) e di Michelangelo Antonioni del quale viene citato uno dei film più famosi L'eclissi. Sono gli anni in cui la televisione entra nelle case di molti italiani ed ogni sera è d'obbligo sintonizzarsi sulla Rai per assistere ad una nuova puntata di Lascia o Raddoppia condotto da Mike Bongiorno. Partecipa al noto programma anche Nicola e sarà proprio questa partecipazione a segnare la fine di tutte le sue illusioni: la causa della sua sconfitta sarà, infatti, una domanda su Ladri di biciclette del suo amato De Sica, che gli farà capire come la televisione non avesse ancora compreso il rapporto tra realtà e finzione che è alla base del cinema. Arrivano gli anni '70, Antonio incontra Gianni dopo ben 25 anni, i due sono visibilmente invecchiati e per un caso fortuito Antonio, vedendo Gianni in un parcheggio, crede che l'amico si sia ridotto a svolgere quell'umile lavoro, nonostante i tanti anni di studio. Amareggiato lo invita a cena insieme a Nicola, per ricordare i vecchi tempi, nella locanda di fiducia in cui si incontravano da giovani e che Antonio aveva continuato a frequentare negli anni, la Mezzaporzione. Gianni decide allora di fingersi povero, probabilmente per colmare quel senso di solitudine e tristezza che ormai prova da anni e passare così una piacevole serata. I tre infatti mangiano, bevono e si divertono fino a quando Gianni non pronuncia la perentoria frase: “La nostra generazione ha fallito” ed è in questo momento che inizia una lunga discussione tra Antonio e Nicola su come il proletariato abbia perso la propria fisionomia e si sia imborghesito, lite che continuerà animatamente anche all'esterno della locanda. Durante la sera si concluderà quindi la parabola dei tre amici e i loro personaggi varranno completamente delineati: Antonio non è più quello di un tempo, si è rassegnato all'impossibilità di un'azione rivoluzionaria, l'età adulta gli ha imposto nuovi doveri come quello di prendersi cura della propria famiglia: ha sposato dopo anni Luciana ed ora hanno dei figli; Nicola, invece, sembra non aver ancora abbandonato le sue convinzioni e i suoi ideali, ma in realtà ha ben chiaro che il futuro nel quale sperava ormai è già diventato passato, la moglie è andata avanti, ha sposato un altro e il figlio è cresciuto, mentre lui si è ridotto a scribacchiare su varie riviste cinematografiche. È per questo che si lascia andare ad un pianto liberatorio dopo il litigio con Antonio: anche lui ha quindi compreso il fallimento delle grandi speranze giovanili.

Gianni, invece, è il più disilluso dei tre, dopo la morte della moglie, Elide, che non ha mai realmente amato, e la partenza dei figli, vive nella sua enorme casa solo con l'ormai vecchio e invalido Romolo Catenacci, una figura quasi immortale, che è lì per ricordare costantemente a Gianni cosa diventerà. “L'essere più solo al mondo è l'uomo ricco” gli aveva profetizzato anni prima. Il culmine della desolazione lo raggiungerà durante la sera quando viene a conoscenza, proprio come noi spettatori, che Luciana ha sposato Antonio. La donna che lui non aveva mai smesso di amare e che aveva idealizzato come immagine di una giovinezza ormai lontana, è totalmente cambiata, ora è una madre, deve prendersi cura dei suoi figli e lo ha dimenticato da tempo.


Luciana è un personaggio focale nella vicenda, lega in qualche modo i tre protagonisti e come loro subisce un'evoluzione che è un po' la stessa di molte donne di quegli anni (ma anche dei giorni nostri) : rinuncia al suo sogno di diventare un'attrice per essere una moglie e una madre e sceglie un amore che gli possa garantire stabilità piuttosto che passione.

Quella che possiamo definire una vera e propria emancipazione è, invece, quella di Elide Catenacci (Giovanna Ralli). Nella sua prima apparizione è una donna semplice, un po' goffa, che non sa esprimersi perché non ha avuto l'opportunità di studiare.

Potrebbe

sembrare

un

personaggio

superficiale,

ma

in

realtà

è

forse

quello

più

sensibile. Negli anni vissuti con Gianni, per influenza del marito, inizia e leggere e a studiare, si prende cura di sé stessa, diventando così una donna colta e raffinata ed è proprio la cultura a farle capire che per l'uomo che aveva messo al centro del suo mondo, lei non aveva avuto alcuna importanza. Il film si chiude così come era iniziato, con il tuffo di Gianni nella sua piscina, sotto lo sguardo incredulo di Antonio, Nicola e Luciana. Un tuffo che potrebbe significare tutto, forse lo sprofondare nella solitudine dopo aver compreso il fallimento della propria esistenza, ma potrebbe anche non significare nulla e quindi “boh” è l'unico commento di Antonio dopo l'inattesa scoperta ed è anche quello di Scola che non ha mai definito il suo cinema affermativo: “Il mio non è mai un cinema affermativo, programmatico, che dà risposte, semmai lascia qualche interrogativo, se il film è ben riuscito. Anche questo finale invece di esprimere un giudizio negativo sul borghese che ha tradito, sul fallimento dell’intellettuale, sul velleitarismo del proletariato, si sofferma sull’analisi che i due litigiosi amici fanno dell’interiezione “boh”.


Non c'è quindi un giudizio negativo o una morale da offrire, ma solo la rappresentazione di un'Italia intera con tutte le sue sfaccettature. Ogni personaggio rappresenta un diverso modo

di

come

i

giovani

italiani

abbiano

reagito

e

ricominciato

a

vivere,

magari

rinunciando a tutti i sogni e alle grandi speranze , oppure no, ma perdendo in questo caso, altro di eguale importanza. Non c'è stato allora, e non c'è neanche oggi, un modo giusto o sbagliato per ricominciare, ma è inevitabile che una volta raggiunta l'età adulta si tirino le somme della propria vita. A quel punto ci potrebbe essere delusione per le scelte passate, come per alcuni personaggi del film, oppure il rimpianto di una gioventù ormai conclusa per chi come come Gilmour, ed i Pink Floyd in generale, non ha mai smesso di sognare e cercare di raggiungere le vette più elevate. Nonostante l'avanzare della vecchiaia, che cerca in tutti i modi di sopire i più potenti sentimenti, per loro le grandi speranze continueranno a scorrere come l'acqua di un fiume senza fine, sempre e per sempre.

Encumbered forever by desire and ambition There's a hunger still unsatisfied Our weary eyes still stray to the horizon Though down this road we've been so many times The grass was greener The light was brighter The taste was sweeter The nights of wonder With friends surrounded The dawn mist glowing The water flowing The endless river forever and ever

Sara Picariello


CURIOSITA' I


CURIOSITA' SI RACCONTA CHE Giacomo Leopardi era un grande estimatore del gelato? Nonostante la

corporatura

esile

e

gracile,

durante il suo soggiorno a Napoli il poeta amava percorrere a piedi la

strada

tra

il

Vomero

e

la

gelateria di Vito Pinto alla Carità. Inoltre, la Biblioteca Nazionale di Napoli

conserva

un

manoscritto

autografo di Leopardi, su cui sono appuntate le sue pietanze preferite; tra queste, i tortellini, le polpette, le

frittelle,

la

pasta

frolla

frappè. Poesia in cucina.

Agatha Christie è la scrittrice inglese più

tradotta,

seconda

solo

a

Shakespeare. Ciò che non tutti sanno è

che

non

fu

lei

a

scrivere

le

sue

opere. Almeno non materialmente. La scrittrice, infatti, soffriva di disgrafia, un

disturbo

dell’apprendimento

che

rendeva la sua calligrafia illeggibile e che

la

romanzi

costringeva a

qualcuno

per iscritto per lei.

a

dettare

che

li

i

suoi

mettesse

e

il


AVETE MAI NOTATO CHE... Dante Alighieri nella maggior parte delle illustrazioni che lo immortalano un

vestito

quella

era

indossa sempre

rosso? la

Ebbene

si,

divida

da

sua

speziale: per intervenire nella vita

politica

necessario delle

Arti.

di

Firenze

iscriversi Gli

,

era

a

speziali

una erano

proto-farmacisti( rappresentava

una

delle

Arti

maggiori) che si occupavano della

vendita

di

erbe

medicinali e cosmetici. Grazie alla sua testimonianza diretta, Dante

Alighieri

dell’Inferno,

è

nella

cantica

riuscito

a

descriverci sintomi di malattie dell'epoca.


CURIOSITA'Â ED ORA CHE SCRIVO? Molti autori sono stati vittime di quella che in psicoanalisi viene definita

sindrome

del

foglio

bianco, un disturbo che impedisce a chi scrive di proseguire nella stesura di un'opera. Tra questi c'è Vladimir Nabokov, autore di Lolita che per arginare questo disturbo componeva le sue opere

su

piccoli

conservava

in

bigliettini alcune

che

scatole.

Poteva cosĂŹ scrivere in maniera non

sequenziale

e

riordinare

le

parti ogni volta che voleva. Aveva dei bigliettini pronti anche sotto il cuscino,

casomai

nel

sonno

fosse venuta l'ispirazione.

TUA MADRE! Tipica della letteratura medievale era la tenzone. Essa consisteva in un confronto,attraverso poesie ,tra due poeti che discutevano di un dato argomento. Famosa fu la tenzone tra Dante Alighieri e Forese Donati i quali nel confronto,composto da tre sonetti ciascuno,si accusano violentemente divenendo anche molto scurrili. Che dire,anche nel '300 c'erano i dissing!

gli


TRUMAN CAPOTE NOTO AL PUBBLICO PER AVER SCRITTO “COLAZIONE DA TIFFANY”, MA CONSACRATO GRAZIE A “A SANGUE FREDDO”, NON INIZIAVA E NON TERMINAVA MAI UN LIBRO DI VENERDÌ, CAMBIAVA STANZA D’ALBERGO SE IL SUO TELEFONO AVEVA IL NUMERO TREDICI E NON LASCIAVA MAI PIÙ DI TRE MOZZICONI DI SIGARETTE NEL POSACENERE: QUELLI IN PIÙ LI INFILAVA NELLA SUA GIACCA.


GRAZIE ANNO,

PER CI

AVER

FINITO

VEDIAMO

CON

IL

2020

ALLO

STESSO ABBI

TRA

SARÀ

TEMPO CURA

CON

UN

NOI

MESE,

TUTTO

SPLENDERE!

GRAZIE PER LA LETTURA

TUO

QUANDO

DIVERSO

UGUALE! DI

IL

ED


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