FIAT LUX II

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N.2

"Come pietra viva�


"Se potessi entrare per qualche istante nel regno minerale... Mi vestirei con sobrietĂ al matrimonio delle pietre, scivolerei dentro la clessidra insieme ai granelli di sabbia, imparerei dalla roccia a stare imperturbabile sotto il sole e la pioggia, ammirerei la luce del diamante. Ma una cosa vorrei fare piĂš di tutte: incontrare la grafite e chiederle quali sono le parole piĂš belle che sono passate sotto la sua matita." -Fabrizio Caramagna

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Prefazione

È arrivato il momento di entrare nel vivo. Il primo numero di “Fiat Lux” (se non lo avete ancora letto sappiate che siete delle brutte persone, ma vi vogliamo bene lo stesso, e poi, potete sempre recuperare) è stato,essenzialmente, il nostro manifesto, l’esposizione chiara, aiutata dagli strumenti della prosa, della poesia e della critica letteraria e cinematografica, concreta e pragmatica degli obiettivi che “Fiat Lux” si prefigge come rivista letteraria. Tuttavia è con questo secondo numero che diamo un esempio concreto del nostro “modus operandi”. Se il mese precedente abbiamo detto di voler spostare la nostra (e con la nostra anche la vostra) attenzione sui particolari nascosti, sotterranei ed ordinari della nostra vita, oggi abbiamo intenzione di mantenere la parola data. Lo scopo di “Fiat Lux” è, riassumendo brevemente, fare poesia su ciò che normalmente viene scartato dai più, relegato al margine per conferirgli così, una dignità letteraria che altrimenti difficilmente avrebbe riconosciuto. Oggi tratteremo i sassi. Loro c’erano da prima che la vita sulla Terra conoscesse il proprio inizio: ci hanno permesso di accendere il primo fuoco, di erigere il primo muro, di rompere le prime catene, ci hanno aiutato a costruire case per vivere, strade per camminare, conoscere e scoprire, sono stati un mezzo per porre fine alla vita di un nostro fratello e del materiale per creare opere d’arte immortali, come la pietra stessa. Questo di novembre sarà un viaggio nel mondo minerale nel tentativo di guardare il mondo da una prospettiva più umile e più “pesante”, navigando nella simbologia che la roccia porterebbe con sé, un viaggio che darà voce al ciottolo che tutti i giorni incrociamo per strada e verso il quale la massima attenzione che riserviamo è quella di un calcio, darà voce alle statue che tutti i giorni destano la meraviglia di chi le osserva, e darà voce a chi le pietre le nasconde nell’anima, e che poi finisce per trascinarle con sé, nelle profondità degli abissi. Il numero che ci aspetta questo mese sarà, citando Saffo, la poetessa lirica dell’isola di Lesbo, dolceamaro, con racconti leggeri, come le piccole pomici che galleggiano sul mare, critiche dure come il diaspro e poesie delicate come perle nate dai cuori bivalvi dei nostri poeti. Fatta questa doverosa premessa, non mi resta che augurarvi un buon cammino (e fidatevi, le pietre sanno essere compagni di viaggio migliori di quanto possiate credere).

Abbiate il coraggio di splendere.

FIAT LUX: RIVISTA LETTERARIA Il fondatore e capo redattore Pasquale Bruno


PROSA A CURA DI

Sara Paolella Pasquale Bruno


Prosa

Breve (ma non troppo) storia di un sasso

I sassi nelle tasche se li mettono quelli che si ammazzano. Quelli che si ammazzano si mettono i sassi nelle tasche. Prendono i sassi, camminano, e si buttano in acqua. Si lasciano trasportare in basso, mentre lanciano un ultimo sguardo verso la luce, e si adagiano sul fondo. E lì ci restano, perché ci vogliono restare (almeno fino a quando qualcuno non va a reclamarne il cadavere con prepotenza).

Ma i sassi invece? Nessuno ci pensa mai ai sassi. Non possono fare nulla se non obbedire in silenzio, succubi delle decisioni di chi crede di comandare il mondo. Non è che i sassi abbiano tutta questa voglia di essere il mezzo con il quale ci si può togliere la vita. Non hanno nemmeno tanta voglia di restare a mollo nell’acqua, mentre i pesci mordicchiano il cadavere fresco del disgraziato, che si decomporrà a breve. Io però ci penso ai sassi, ma questo è perché sono un sasso. Proprio uno di quelli che ora è sul fondo di un fiume al quale non appartiene e che non vede l’ora di trovare un modo per tornare sulla terra ferma. Eppure, prima di trovarmi qui sotto, zuppo d’acqua, mentre i pesci mi guardano un po’ con disprezzo (perché sono un assassino) e con divertimento (perché l’acqua non fa per me), ero una montagna. Sono stato tante cose ora che ci rifletto, ma questo è perché io sono un sasso, e i sassi sono la Terra. Siamo la materia del pianeta, l’essenza che gli ha dato forma e che ne ha ospitato la vita. Un pesce mi passa davanti, coprendo la mia figura tonda, facendomi perdere il contatto con l’obiettivo della videocamera. “Stiamo cercando di girare un docufilm qui, non se ne è reso conto Signor. Fisch?” sbotto. Mi aggiusto come meglio posso, facendo segno al regista, Kamień, di ricominciare a girare. Lo osservo mentre si aggiusta il cappello bianco (abbastanza superfluo quando ti trovi nel letto di un fiume), che spicca sulla sua colorazione nera. Kamień è venuto direttamente dalle miniere di carbone della Polonia per girare questo documentario con me.


È una pietra per bene, tutta d’un pezzo, che ha occhio per i dettagli e per le piccole cose che passano inosservate, cavallo di battaglia dei suoi innumerevoli e pluripremiati film. Anche lui, come me, è uno dei membri fondatori del PSI, Pro Sassi Indifesi, il partito che nasce per difendere i sassi dai soprusi e dall’opinione comune che i sassi non servano a nulla. Pertanto Kamień ora è qui, sul fondo del fiume dove mi trovo ora, per registrare la mia storia, in modo da poter raccogliere una testimonianza importante per far aumentare la consapevolezza sulla nostra condizione. Vogliamo dimostrare al mondo intero che dovrebbe mostrarci un po’ di riconoscenza, perché senza sassi la vita non esisterebbe. E no, non sto esagerando. Io c’ero. Io ci sono sempre stato. Forse "sempre" è iperbolico. Non so quando sono attivamente diventato sasso, ma posso affermare con certezza che il momento in cui ho acquisito piena consapevolezza del mio essere è stato moltissimo tempo fa. Ho passato anche molti anni in uno stato di quiete quasi noioso, a mollo nell’acqua, senza fare niente. In realtà ho capito solo dopo tanto tempo che una colonia di minuscoli esseri unicellulari si muoveva su di me, cresceva e si moltiplicava, solleticando il mio dorso grigiastro. Solo perché non facevo niente, non significava che non fossi utile a qualcosa. Il discorso dell’utilità- inutilità mi ha sempre causato problemi, soprattutto da giovane, mentre vedevo il mondo attorno a me crescere e fiorire, divertendosi e vivendo.

La prima volta che mi sono sentito utile- ma utile per davvero- è stato veramente molto tempo fa. Erano passate centinaia di anni da quando ero una roccia che si annoiava sul fondo del mare, e l’acqua si era ritirata, lasciando posto all’aria, e alla luce. Mi annoiavo un po’ anche lì, ma questa situazione non durò molto. Mi trasferii in una grotta, che non era di mio particolare gradimento, ma i Grandi Sassi (non sto a spiegarvi la complessa gerarchia geologica di noi Sassi, ma vi basta sapere che loro, quelli che sono più vicino al cuore della Terra, sono quelli “che comandano” e che decretano gli spostamenti salienti di tutti noi, che ci muoviamo a placche, e veniamo sballottati con grande forza e casino un po’ ovunque) avevano deciso così. Dalla mia posizione potevo vedere molte cose, come il sorgere e il calare del sole- il mio passatempo preferito- e diverse creature, che correvano libere sul terreno brullo. Fu un milione di anni fa, se non ho sbagliato i conti, che le cose cambiarono. Alcuni di quegli animali entrarono nella caverna per cercare riparo dal freddo, e muovevano i loro tozzi arti goffamente, a fatica, tentennando ad ogni movimento. Fu forse per reggersi alla parete, che una zampa pelosa mi strinse e mi strappò dal mio gruppo, portandomi vicino alla sua bocca, per mordermi. I suoi denti erano duri e spessi, ma io lo ero di più. Un gemito straziante uscì dalle sue labbra sporche, mentre mi scagliò, per rabbia o per dolore, contro la parete opposta alla mia, quella bianca e sottile. Fu in quell’esatto istante che accadde qualcosa. Quando io e una delle pietre ci scontrammo, furono faville. Le scintille si sprigionarono nell’aria, rischiarando l’oscurità. Caddero al suolo come comete, tra i versi primordiali degli ominidi nella caverna, che mi si riavvicinarono e mi lanciarono nuovamente contro le pietre bianche, mentre le scintille scendevano lente e luminose su un mucchietto di foglie secche trasportate dal vento. Si accese un fuoco, il fuoco. Viaggiai con loro per molto tempo, passando da mano a mano, fin quando caddi e mi dimenticarono per terra. Godersi quel riposo fu piacevole, e desiderai quasi di poter restare con i miei nuovi amici per sempre. Eppure dentro di me mi torturavo, e nella notte mi domandavo spesso come qualcuno potesse dimenticarsi così facilmente di me, senza chiedersi che fine avessi fatto. Ora, dopo le mie innumerevoli esperienze, posso solo rispondere dicendo che gli umani sono davvero, davvero strani. Credo di averne avuto la conferma quando mi chiusero in una teca, nella “Casa di Dio”. Eppure, anche se era casa sua, io questo “Dio” non l’ho mai visto, né l’ho mai conosciuto (ma forse riuscirò a farlo in futuro). Venivano ogni giorno e da ogni parte del mondo per vedermi e sfiorarmi: c’era chi si inginocchiava e mi chiedeva di fare miracoli, come se avessi un qualche potere sovrannaturale, chi mi guardava con ammirazione o chi più semplicemente si baciava le dita affusolate e le poggiava sul vetro, quasi come se potesse toccarmi mediante questo gesto infantile.


Si era sparsa la voce che “il figlio di Dio”, mi avesse preso durante una delle sue prediche e avesse pronunciato, avendomi tra le mani “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Almeno Lui sono riuscito a conoscerlo però. Non così, perché nessuno mi raccolse più da terra da quando quegli ominidi mi lasciarono sul suolo sabbioso (se non uno della loro specie molto strano- credo nel 1190-, con il volto coperto d’argento e marchiato da una croce sul petto, che mi pose qui in questa Chiesa). Eppure, il Figlio, mi passò a pochi metri di distanza quando pronunciò questa frase. Quando lo sentii parlare rimasi estasiato da tanta bravura e rimasi davvero dispiaciuto quando venni a sapere della sua morte; era un bravo ragazzo. Cosa avesse fatto poi per far incazzare questi umani così tanto me lo domando ancora- sempre di notte, assieme alla questione del dimenticarsi delle persone. Aveva detto solo di essere gentili gli uni con gli altri. Eppure, se ci penso attentamente, mi sembra naturale che questo possa averli fatti arrabbiare.

Pensate che una volta uscito da questa prigione di cristallo sono finito in un cantiere, dove un giorno un operaio mi ha afferrato e mi ha piazzato in un muro, assieme ad altre pietre. Eravamo felici, lì. Tutti assieme, provenienti un po’ da tutto il mondo, per assolvere uno scopo ben preciso (e qui ritorniamo alla questione dell’utilità): essere un muro. Fui un po’ meno felice quando seppi a cosa serviva quel muro. Me lo disse Sten, un sasso svedese, che era stato posizionato accanto a me. “Klip, ma tu lo sai a che serve questo muro?” “Non so Sten, a dividere le cose. In genere è questo che fanno i muri. Tengono fuori qualcosa, proteggiamo la città.” “Klip, noi siamo un muro nella città” “In effetti, non ci avevo mai fatto caso”- dissi guardandomi intorno- “e cosa stiamo tenendo fuori esattamente?” “Stiamo dividendo le persone Klip. Non li senti la notte, quando a volte qualcuno viene qui e piange, allungando lo sguardo dall’altro lato, come se potesse vedere oltre?” Pensai molto alle parole di Sten, e quella notte (sempre mentre non dormivo per rispondere ai miei soliti quesiti) capii cosa aveva provato a dirmi. Il mio sguardo fu catturato un uomo di mezza età, che passeggiava in maniera troppo animata, procedendo celermente in linea retta, percorrendo a ripetizione la stessa distanza. Si fermò all’improvviso quando una voce lo richiamò, severa e senza volto, immobilizzandolo. Vidi quella sera uno dei pochi atti di umanità sui quali ebbi la fortuna di posare gli occhi. L’uomo aveva gli occhi stanchi e pochi capelli in testa, le mani callose e cercava di nasconderle nelle tasche della giacca lacerata, per ripararsi dal freddo berlinese. “Sono tutti dall’altro lato. Sono tutti a Berlino Ovest. Io sono rimasto solo” disse. “Tunnel 57” Rispose solo questo quella voce imponente, che non ho mai avuto la fortuna di associare ad un volto. L’uomo sorrise al vuoto riconoscente, piegandosi dinanzi alla bontà del nulla, e riprese la sua strada in silenzio, ma con occhi vispi e speranzosi. Che fosse stata quella voce il vero Dio?

Quando demolirono il muro, mi separai a malincuore da Sten. Mi prese con sé una ragazza, come ricordo. Ero perplesso dalla sua scelta: perché ricordare tempi oscuri? Solo ora comprendo che la memoria è importante, perché la storia ci insegna ad evitare il buio, evitando strade già percorse, cercando la luce in quelle nuove. Rimasi a casa di quella ragazza per molto tempo, fin quando non mi donò a suo nipote. Mi ripose in una libreria, ma i libri non sono mai stati tipi loquaci, pur essendo pieni di cose da dire. Bisogna aprirli per sapere cosa hanno da dire, e non ne ebbi mai la possibilità. Desiderai spesso- sempre di notte- di essere spostato, e qualche tempo fa, successe. Mi prese e mi mise in tasca. Capii troppo tardi perché ero nella sua tasca, e purtroppo, non fui in grado di fare nulla per fermarlo. Quando entrai in acqua, per la prima volta desiderai di non essere pesante e di pietra, ma di poter essere leggero e dolce, siccome la vita non lo era stata con lui. Anche se sono nato in acqua, non mi è mai piaciut “Taglia” urla Kamień al cameraman. “Ci serve un finale ad effetto Klip” “Non saprei che dire Kamień. Sai, penso che noi sassi non potremo mai avere l’onore di parlare di fine. Siamo eterni. Abbiamo la storia dentro di noi, ma ambiamo all’immortalità”

SARA PAOLELLA


L'ABBRACCIO DELLA PIETRA

Prosa

Sentiva i colpi del martello rimbalzare nel braccio, piccole scosse, una dietro l’altra, nate dal rinculo dello scalpello che intaccava con decisione (ma senza troppa forza) la pietra, staccando le prime schegge, per saggiare la durezza di quel blocco di marmo. Diede solo pochi colpi, poi si allontanò un attimo, lasciandolo per un momento alla sua solitudine.

Nacqui molto tempo fa, trascorrendo i millenni rinchiusa nel cuore della montagna, custodendo, rinchiusi in me, i segreti del fuoco primordiale che mi aveva generata, al centro della Terra. Forse ero un po' più debole rispetto ai miei fratelli, ma non mi importava allora, non mi sentivo “sbagliata” protetta com’ero nel ventre di mia madre, e lì avevo riposato: la Notte ed il monte furono lo scudo fino a

quando

gli

occhi

avidi

degli

uomini

non

mi

scovarono

con

un’esplosione: mi legarono con funi, mi separarono dalla montagna, che era stata mia madre, con trapani e seghe. Fu il mio primo contatto con gli uomini: Fuoco e Violenza. Mi lanciarono dalla collina, facendomi rotolare verso la valle, ad ogni colpo con il terreno si sollevavano un mare di schegge, sentì il lato sinistro incrinarsi, dall’interno, poi mi trascinarono per tutta la cava, tra le bestemmie degli operai per lo sforzo e mi issarono su un carro insieme ad altri. Avevo paura, facevo fatica a capire, ero sbalzata in un mondo sconosciuto e pericoloso, temevo la mia destinazione, e cosa mi avrebbe aspettato una volta arrivati, solo molto

più

tardi

compresi

la

mia

destinazione,

ero

commissionato da uno scultore, ed era da lui che ero diretto.

stato


Accese una lucerna e la poggiò con delicatezza su un tavolo in disordine, pieno di attrezzi: era completamente buio e ed erano completamente soli, lui ed il marmo, la luce si rifletteva su quella superficie irregolare sulla quale la lucescorreva, liquida, colmando gli avvallamenti e le fessure. Stette un po' ad osservarlo, le mani sui fianchi, poi si decise, riprese la lanterna in mano, e si avvicinò al blocco per ispezionarlo: era veramente enorme, largo quattro braccia ed alto dodici: delle dimensioni imponenti, ma servivano a poco; era molto rovinato. Il tempo non era stato clemente con lui: soggetto alle intemperie, pieno di muschi,cotto dal sole, forato, fragile, rovinato, mal definito, infatti avevano già provato a scolpirlo, molti anni prima (lo scultore passò la mano sui graffi rabbiosi lasciati dallo scalpello) ed era stato evidentemente un maldestro tentativo di sbozzarlo ed una volta accortisi che non era adatto l’avevano abbandonato sul ciglio di una strada, e lui se ne era fatto carico.Appena posò le dita nodose in una delle fratture sembrò quasi che la pietra si ritirasse sotto il suo tocco: aveva paura della mano dell’uomo, forse aveva sofferto molto…

Lo scultore posò d’istinto le sue labbra su quella superficie grezza, mal scolpita, e gli sussurrò una frase, con una dolcezza che non gli era mai appartenuta: “Andrà tutto bene, mi prenderò io cura di te…” La capiva, ed anche lui come quella pietra aveva sofferto molto, per colpa degli uomini. Poggiò la fronte sulla roccia bianca per qualche istante, poi si riprese ed andò al banco dove aveva poggiati gli attrezzi, ma invece di afferrare subito il martello, si chinò in basso e prese un grosso secchio poggiato alla gamba del tavolino, pieno di un impasto che aveva preparato poco prima, mentre aspettava che glielo portassero, ed iniziò, con pochi gesti lenti, a cospargere i fori e le ferite di quel marmo con malta di calce, per restituirgli la levigatezza che le era appartenuta, riportandolo alla bellezza di quando era nato, per curarlo.

“piano…piano…PIANO MAREMMA MAIALA!” Si alzò una nuvola enorme di polvere mista a schegge di marmo: una fune si era spezzata, ed ero caduta sulla strada, proprio sul lato sinistro; mi salì su per il corpo, come una scossa, una fitta di dolore improvviso. Un ometto alto ed ossuto corse trotterellando verso di me, strillando in modo isterico contro un tizio grasso e sudato che cercava di capire cosa fosse successo. “ho detto PIANO!” “e abbiamo fatto piano messer Agostino ma se volete che non cade la prossima volta ci pagate di più ed usiamo corde migliori.” “avete rovinato il marmo!” Agostino mi girò intorno e sferrò un calcio proprio dove mi faceva male “c’è una crepa!” Mi legarono altre funi intorno tutto il corpo e grazie a leve di legno mi rialzarono in piedi. Era vero, la frattura si estendeva per tutta la lunghezza del corpo, esattamente sul fianco sinistro, dall’alto guardavo a terra le schegge che avevo perso come qualcosa di distante, come se non mi fossero mai appartenute, ero completamente stordito; dalla ferita ogni tanto cadeva sabbia sottile. “ora spiegatemi come dovrei farci una scultura con una cosa del genere, è rotta, è inutile!” Agostino mi girava in torno ansimando. “se site così bravo come dite, ce la fate qualcosa, no?” “Ma va’ a piallo n’culo!” Per qualcuno che la vedeva dall’esterno, quella scena sarebbe stata anche divertente, ma non per me, che continuavo a fissare frastornato le schegge, e per la prima volta da quando ero nato, mi rendevo dolorosamente conto di quanto fossi fragile per il mondo esterno…


Il blocco era completamente rinato, liscio, bianco, la luce della lanterna ora si rifletteva sulla sua superfice, la malta, che si era seccata, riuscendo ad attecchire nelle fenditure della roccia, aveva colmato le mancanze. Era pronta per essere scolpita, ma prima bisognava tracciare le misure e le proporzioni della statua. Lo scultore cavò un carboncino dalla tasca dei calzoni ed iniziò a tracciare le forme sulla superficie levigata: andava a mano libera, affidandosi all’ingegno, all’esperienza, e alla memoria dei disegni preparatori su cui tanto aveva lavorato in quei giorni; seguiva le venature della roccia, le curve, i rigonfiamenti: una linea nera ora fioriva sul bianco, ma, arrivato ad un certo punto, mentre definiva bene le proporzioni della cassa toracica, il carboncino si spezzò contro un piccolo foro che si era salvato dalla mano di calce e l’uomo si fermò, colto da un pensiero. Lo scultore corse verso il tavolo, prese un panno, lo inumidì e iniziò a sfregare vigorosamente contro la pietra, seguendo la linea tracciata, cancellandola. Stavolta non avrebbe seguito un disegno, decise, avrebbe lavorato d’istinto, senza calcoli, senza piani. Non era una pietra come le altre: era difettosa; come lui. Rotta, nodosa e sgraziata; come lui. Un semplice strato di malta non poteva coprire quella colpa fatale di cui anche lui si era macchiato: l’essere nati fratturati. Il carboncino non si era spezzato per caso. Non poteva chiedere a quella roccia, che tanto gli somigliava, di farsi imprigionare sotto una fitta rete di linee nere, lui stesso non lo accettava, e sebbene non avesse mai avuto il coraggio di ribellarsi, non avrebbe costretto quel marmo alla sua stessa condanna: avrebbe seguito l’anima e l’ingegno, nient’altro. Si girò di nuovo al tavolo, posò i monconi del carboncino, prese martello e scalpello e si diresse verso la pietra.

Agostino mi colpiva con rabbia, grondando sudore ad ogni colpo. Lamentava che per me aveva sborsato una fortuna, ma il colosso di marmo che fatto arrivare dal nord con l’intenzione di farne la statua più bella e grandiosa del comune era “difettoso”, e questo lo aveva mandato su tutte le furie, ma non per questo cedeva nei miei confronti, nonostante la mia ferita, perché avrebbe perso troppo denaro, e non poteva permetterselo. Si era intestardito, e lavorava di scalpello nel tentativo di sbozzarmi, con foga ed ossessione, ma non mi avrebbe avuto, perché la pietra resiste, si ribella, spesso respinge, ed è ciò che io avrei fatto. Dopo ore di lavoro, tutto ciò che riuscì ad ottenere da me furono poche schegge a terra, ma fu comunque in grado di sbozzarmi in qualcosa che aveva una forma vagamente antropomorfa; Agostino si mise di fronte a me, le mani sui fianchi, gli occhi iniettati di sangue per lo sforzo e la collera, io lo guardai in segno di sfida, anche se era troppo stupido per accorgersene; tutto il mio corpo pulsava per lo sforzo di resistere allo scalpello, i graffi bruciavano. Chiamò un garzone della sua bottega, che corse goffamente incontro a lui: “stanotte lo butteremo in mezzo alla strada, non voglio più vederlo” disse ansimando con un filo di voce incrinato dalla collera, e così fece; quella notte, mentre il sonno regnava indisturbato per i vicoli della città, utilizzando dei tronchi mi trasportarono via dalla bottega, e a fatica mi spinsero in un vicolo vicino ad una chiesa dove mi gettarono, lì, sopra un cumulo di rifiuti.

Lo scolpiva con una delicatezza che non gli era mai appartenuta. Lo scultore si soffermava su ogni strato, rimuovendo poche schegge di marmo per volta, soffiando la polvere in eccesso, passando delicatamente la mano callosa su ogni tratto, per controllarne la superficie, sentire la roccia, e senza accorgersene, lentamente, iniziò a parlare con quel blocco di marmo.


Prima erano poche le parole che, biascicate, dopo aver danzato per pochi attimi intorno a quella strana coppia di amanti, si perdevano nell’oscurità della stanza; poi queste poche parole diventarono racconto, confessioni. Faceva domande a quel sasso, chiedeva da dove fosse venuto, cosa avesse visto, domandava, tra un colpo di scalpello e l’altro, se sentiva dolore; mai si sarebbe immaginato di aver mai potuto fare una cosa del genere, conversare con un sasso, chiedere di entrare a prendere parte dei suoi segreti, dialogare con una pietra che sentiva più viva di qualsiasi Uomo avesse mai incontrato. Per la prima volta non si sentiva giudicato, ma capito, compreso: la pietra non deride, la pietra non sminuisce, la pietra ascolta e custodisce dentro di se le parole che le hai affidato, più gelosamente di quanto farebbe tua madre o tuo padre, e gli offrì la solidità che per molto tempo gli era mancata. Sotto lo scalpello il marmo prendeva forma, cullato dalle parole che fluivano dalla sua bocca; i muscoli guizzavano dalla roccia e si sviluppavano come fossero dotati di vita propria, le curve disegnate con lo scalpello si espandevano con una grazia innaturale ed ipnotica, mentre la nuvola di polvere di marmo che nasceva dal blocco si alzava sempre più in alto, insieme al suono del colpo febbrile dello scultore che scandiva i ritmi del lavoro, e si depositava sui suoi vestiti, colorandoli di una tenue sfumatura di bianco, ridonandogli, seppur temporaneamente la purezza di un tempo. Terminato di formare gli ultimi tratti posò finalmente gli strumenti per scegliere delle pietre abrasive con cui, lentamente, iniziò il lavoro di rifinitura.

Mi svegliò il tramestio e gli odori del mercato. I commercianti e i venditori facevano a gara tra chi conquistava per primo le orecchie del popolo, gridando le proprie offerte. Era un giorno di festa il mercato, l’avevo imparato in tutti quegli anni passati sulla strada, affacciato alle vite della gente, che non si meravigliava più di nulla. All’alba di quella notte in cui mi confinarono su di un lato di quella strada, destai per pochi minuti la curiosità dei passanti, che si chiedevano come avesse fatto un blocco di marmo di quelle dimensioni ad arrivare fin lì, ma presto il loro interesse scemò in fretta, molto in fretta, e presto non fecero più caso a me. Tuttavia gli innamorati incidevano i loro nomi sulla mia pelle, e mentre alcune coppie che davanti a me si erano giurate amore eterno ora portavano in braccio il figlio appena nato, vedevo altre non si scambiavano più il saluto, i bambini mi usavano per i loro giochi, i criminali come nascondiglio per spiare potenziali vittime, i cani banchettavano ai miei piedi gli scarti ed i rifiuti che quotidianamente mi venivano gettati contro, come se per i cittadini le strade che avevano costruito con tanta fatica fossero la loro pattumiera. La città mi aveva distrutto: bruciata dal sole, il vento e la pioggia avevano fatto crescere sul mio manto bianco erbe infestanti ma la cosa più grave era che la frattura non era più da sola, la crepa si era allargata, altre ne erano spuntate, ed io ero l’ombra di me stessa, appartenevo ad un luogo che non mi apparteneva, violentata da tempo e dall’indifferenza.

Era un giorno di mercato, e quel giorno un ragazzo, diverso da tutti gli altri che spesso la mattina della domenica mi correvano intorno, stava prendendo le mie misure, mentre un uomo anziano, barbuto, dalle vesti ricercate, gli dava indicazioni. “messer Leonardo, cosa ci farete? È enorme!” “Non lo so ancora, ma se il comune me lo affida, è una buona occasione per mettere alla prova il mio genio” disse, carezzandosi le vesti. “Il tuo genio?” in quel momento un piccolo uomo, dalla barba ispida e i capelli impastati di polvere, saltò su di me, rivolgendosi al vecchio con tono di sfida, sfruttando la posizione elevata che gli davo decisamente malvolentieri: “Non eri tu quello che diceva che lo scultore conduce le sue opere con maggior fatica di corpo che il pittore, ed il pittore conduce le opere sue con maggior fatica di mente? E tu, abbasseresti il tuo genio, da sempre votato alla nobile arte della pittura, ad una pratica così bassa e volgare come la scultura?” Saltò giù e mi si piazzò davanti “È mio, ho già preso accordi con la signoria, quindi potete anche andarvene, sia tu che il tuo garzoncello, lascia la scultura a chi almeno la forza nelle braccia ce l’ha ancora” Quindi anche lui doveva essere uno scultore, come Agostino, e ripensando alla volgarità ed alla violenza del suo scalpello mi salì un’ondata di disgusto. “Ce l’ha ancora?”


“Ce l’ha ancora?” Leonardo si voltò verso il ragazzo, gli strappò di mano la barra metallica che usava per le misure e la piegò a mezzaluna, con uno sforzo non indifferente, ma non tralasciando trasparire nulla (ad eccezione di una vena che pulsava alla base del collo) sotto lo sguardo annoiato del tizio che mi era saltato sulla testa e che aveva avuto l’arroganza di definirmi “suo”. “ecco tieni” gli lanciò la sbarra ai piedi “vediamo chi ha ancora forza nelle braccia, raddrizzala!" Quell’uomo dal corpo contorto guardò la mezzaluna di ferro a terra che ondeggiava, poi rivolse a Leonardo una fragorosa risata: “Perché vo’ tu che io raddrizzi le cose che tu hai fatto storte? Me lo vengo a prendere domani”, e disse, rivolto al garzone “te levaci le mani da dosso”; poi fece per andarsene, ma prima di svoltare l’angolo della cattedrale si avvicinò a me, e mi guardò come nessuno mi aveva mai guardato: i suoi occhi non erano quelli bramosi degli operai della cava, né quelli rossi di rabbia di Agostino, né quelli avidi di Leonardo, erano occhi sì fieri di quella vittoria, ma velati di tristezza e rancore, occhi che guardavano me, un blocco di pietra spaccato dalle intemperie, con orgoglio: “ci vediamo domani in bottega” sussurrò, e si allontanò per la strada, perdendosi tra i rumori della folla e del mercato. Guardai verso Leonardo, la sbarra era ancora a terra, ma lui ed il ragazzino non c’erano più. Stranamente, ripensando al tizio dalle mani nodose, non sentivo salire più la rabbia di prima, quando mi aveva definito “suo”, piuttosto ero curioso, non nego che mi sarebbe piaciuto parlargli, ma non era possibile; gli uomini non capiscono il linguaggio delle pietre, vanno troppo in fretta, perciò mi limitai ad aspettare, rassegnandomi ad assistere in modo passivo, di nuovo, al mio destino. All’alba una squadra venne a prelevarmi; scrutai tra la piccola folla di operai, ma non c’era traccia di quell’ometto che invece mi stava aspettando in bottega, e quando finalmente varcai l’enorme portone, lo vidi, in piedi con le braccia al petto che mi aspettava, con lo stesso volto di quei bambini che correvano intorno a me la domenica mattina, prima della messa, mentre si rincorrevano presi dai loro giochi. “Presto presto, portatelo dentro e sparite, lasciateci soli, MA FATE PIANO, è un ospite speciale…” Non appena mi misero in piedi, li vidi uscire e mi guardai intorno, era una semplice stanza buia, intorno a me c’erano altri blocchi di marmo che bisbigliavano tra di loro, facendo apprezzamenti tutt’altro che gentili sul mio aspetto “poco curato”, ma non mi importava di loro, mi interessava di quell’uomo, di quello scultore, che accesa una lanterna e preso scalpello e martello, si avvicinava per dare i primi colpi, ed io mi preparai ad incassare. Evidentemente mi ero sbagliato, anche lui era come Agostino, ero stato uno stupido a pensare il contrario, sentivo ancora i graffi bruciare di rabbia, ma quando sferrò il primo colpo, non fu quello che mi aspettavo. Era leggero, delicato, mi sentii come se sgrassasse da me un malessere che mi ricopriva dalla nascita, anche se tolse poche schegge, ero stranamente leggero, più “pulito” … Fatto questo si allontanò per poi ritornare poco dopo, ma invece di riprendere quei suoi attrezzi così uguali ma usati in un modo così diverso da come avevo imparato, mi osservò per molto, molto tempo, esaminandomi da cima a fondo indagando le mie fratture, le mie ferite, e poggiò la sua mano tra le fessure della mia pietra. All’inizio ebbi paura, non ero abituato da molto tempo ad un contatto così intimo ma sentii tenerezza in quel tocco, una tenerezza che osservando le dite nodose e piene di calli, le unghie rotte di quella mano, non mi sarei mai aspettato: sentivo dolore, sentivo incomprensione ed anche lui, come me, aveva conosciuto il Fuoco e la Violenza; non potevo averne la certezza, ma il mio cuore di pietra lo sentiva, e sapevo che anche lui sentiva, e non opposi resistenza quando, dopo che mi ebbe ricoperto di malta, dopo che aveva colmato i miei vuoti, inizio con movimenti lenti e gentili a grattare via la sporcizia, quella che mi portavo dentro dalla nascita, ad alleggerirmi dal peso di ciò che non mi apparteneva. Non mi stava rendendo migliore, semplicemente mi liberava da me stesso, scavava nel mio marmo e mi liberava.


“È bellissimo, dalle sue mani nascono miracoli” estasiato, il console si avvicinò all’enorme statua che troneggiava, perfetta in ogni suo dettaglio, al centro del laboratorio “come ha fatto?” chiese voltandosi verso lo scultore; lui all’inizio non disse nulla, poi lentamente si avvicinò a chi gli aveva commissionato l’opera e guardò la statua: “Le mie mani non hanno fatto niente” disse “ho solo ascoltato il sospiro… Il sospiro della pietra, fino a intravedere un angelo nel marmo, e poi ho fatto l’unica cosa che si doveva fare, ho scolpito… ho scolpito fino a liberarlo…” I suoi vestiti erano ancora intrisi della polvere di quel marmo abbandonato sul ciglio della strada, e sentì quella polvere silenziosa, leggera, scaldargli il corpo e farsi più vicina, era l’abbraccio della pietra.

PASQUALE BRUNO


Poesia A cura di:

Tania Ferrara Giovanni Signorile Emmanuele Zottoli Alessia Pierno


Poesia

Incerto è il rumore… La carta singhiozza, trema la penna, il cuore detta stanco … Ricordo colorate grida, giocavo a nascondino: chiusi gli occhi e iniziai a contare. I nascosti rifugi degli altri cercavo felice. Ma… Sto giocando, ancora… Cosa cerco? Ciottoli. Ciottoli d’anima perduti, Ciottoli di spontanei fiori, Frammenti

di

quella

che

ero e non sono. Sguardi di brina, occhi di ghiaia. Sulla bocca mi ha baciato una pietra, fredda.

Tania Ferrara


Poesia

"Tu non hai avuto cura" Mi dissero "Hai disposto contro di noi la fitta sassaiola dell'ingiuria, perdi il filo, e con lui gli amic."

Ora sono nel novero dei nemici e ho smesso di cogliere il vecchio fiore, mi pare facesse un tempo rima con amore. I sassi lasciano lividi, danno quei brividi che non sono più i soliti. Solo le parole rimangono a far eco: “io, tu…noi"

EMMANUELE ZOTTOLI


Poesia

È in fondo al mio cuore un’umida grotta, lì vengono piante goccia a goccia le lacrime e, uniche a far elevare le svettanti stalagmiti, seguono, dall’alto al basso, una via a gocciare incessanti fin tanto che -sulla superficienulla, nell’etterno suo accadere, sia più edificante di quel semplice avvenimento che è il cadere. È in fondo al mio cuore un arido suolo: lì si spegne tutta l’acqua che ha a filtrare e, unica a far più tollerabile la vita in questa landa desolata, segue, dal basso all’alto, una via a disegnar petali fin tanto che -in superficie- il caldo soffio del cambiamento stilli l’acque in sorsi di vapore, sì che la sabbia intrappolata nei cristalli dia al mondo -nascita ostinata di bellezza- la Rosa del Deserto. La mia liquida origine mi fa morto già nel nascere, ma io son vivo, vivo! nel volo per cui cado nella risalita per cui penetro è la forza che tutta traggo nell’unirmi alla terra su cui giaccio. Ho scritto del pavimento d’una stalattite perché il minerale si ricongiungesse con questo suo soffitto; ho scritto del deserto l’unico vero fiore perché questo -suo figlionon appassisse. Ma io son roccia, roccia: la colonna accresciuta il fiore nato dalla sabbia: il risorto calcare la Rosa di pietra

Giovanni Signorile


Definiscimi. A mani nude o a parole tue, se vuoi, modellami. Il tuo sguardo, fresa, la tua voce, cetra, mi lasciano di stucco. Eppure sono pietra.

Scolpiscimi. Tira fuori il meglio di me.

Se ce n’è, scalfiscimi.

Manda in frantumi questo blocco: cela ormai da troppo il freddo gelido silenzio che mi trattiene, dentro.

Colpiscimi. Tocco dopo tocco, sbaglierai, feriscimi.

Io mentre crollo ti perdonerò se di coccio in coccio mi sarò rotta.

Fragile come creta, come un’argilla: cotta.

Mi lascerò guidare dai tuoi calli, avrò la forma che saprai darmi.

ALESSIA PIERNO

Poesia


C R I T I C A

A

L E T T E R A R I A

C U R A

D I :

Maria Urti Matteo Balsamo

CON IL CUORE DEI GIGANTI Il titolo di questa rubrica è ispirato alla celebre citazione di Bernard de Chartes: “…come nani sulle spalle dei giganti” Il nostro sarà un tentativo di salire sulle spalle dei colossi del passato e da spiriti di bassa statura con il loro aiuto guardare al presente e al futuro con occhio critico e curioso. In questo spazio, verranno trattati un autore e un’opera letteraria in linea con il tema mensile della rivista. Non verranno date solo note tecniche o mere nozioni sullo stile ma fornirà un ponte di lancio al nostro pensiero per poi addentrarsi nelle profondità: tentare di interpretali ed offrire poi uno spunto di riflessione.


CRITICA LETTERARIA

LA MERAVIGLIA DELL'ORDINARIO Wisława Szymborska (1923 –2012) è stata una poetessa e saggista polacca, vincitrice nel 1996 del premio Nobel e di altri numerosi riconoscimenti.

Busso alla porta della pietra – Sono io, fammi entrare. Voglio venirti dentro, dare un’occhiata, respirarti come l’aria. – Vattene – dice la pietra.

– Sono di pietra – dice la pietra– E devo restare seria per forza. Vattene via. Non ho i muscoli per ridere. Busso alla porta della pietra. – Sono io, fammi entrare.

Sono ermeticamente chiusa.

Non posso attendere duemila secoli Anche fatte a pezzi

per entrare sotto il tuo tetto. saremo chiuse ermeticamente. Anche ridotte in polvere non faremo entrare nessuno. Busso alla porta della pietra. – Sono io, fammi entrare.

– Se non mi credi – dice la pietrarivolgiti alla foglia, dirà la stessa cosa. Chiedi a una goccia d’acqua, dirà come la foglia.

Vengo per pura curiosità.

Chiedi infine a un capello della tua testa.

La vita è la sua unica occasione.

Scoppio dal ridere, d’una immensa risata

Vorrei girare per il tuo palazzo,

che non so far scoppiare.

e visitare poi anche la foglia e la goccia

Busso alla porta della pietra.

d’acqua. Ho poco tempo per farlo. La mia mortalità dovrebbe commuoverti.

– Sono io, fammi entrare. – Non ho porta – dice la pietra.


CRITICA LETTERARIA

La poesia “Conversazione con una pietra”, in forma dialettica riporta numerose richieste da parte di un uomo il quale, fissando la pietra, vuole entrane all’interno. L’interlocutore non si presenta, si rivolge con un semplice IO, come se la pietra sapesse chi gli sta parlando. La conversazione è irreale, frutto di una smodata immaginazione. La scrittura è lontana da ogni tipo di retorica o da orpelli poetici, sebbene presenti un’accurata tecnica. I termini sono semplici, alla portata di tutti, ma la comprensione del testo non è immediata. Dietro questa banale conversazione, quasi fanciullesca si nasconde un aspetto meditativo, invita a riflettere sulla natura. (negli ultimi versi anche altri elementi naturali quali la foglia e l’acqua si mostrano restii ad un’apertura verso l’uomo) La pietra, esempio perfetto dell’incomunicabilità uomo-natura, rappresenta solo una minuscola parte dell’intera natura, chiusa e immune ai problemi dell’umanità. Pur provando a frantumarsi non potrà mai aprirsi all’essere mortale che si sforza in tutti i modi di comprenderla. A questo punto è d’obbligo un rimando alla Natura Matrigna leopardiana dove l’elemento naturale è un simbolo aulico, è la splendida luna, unica luce del cielo, non una delle tante pietre che abitano il mondo. (“tu mortal non sei, -E forse del mio dir poco ti cale”). Un altro esempio dei suoi componimenti può essere: “Vista con granello di sabbia” (Lo chiamiamo granello di sabbia. -Ma lui non chiama se stesso né granello, né sabbia.-Fa a meno di nome -generale, individuale, instabile, stabile, scorretto o corretto.) L’attenzione della poetessa è volta alle cose, minute, futili, alle quali nessuno presterebbe attenzione. (Wislawa potrebbe essere un’illustre redattrice di fiat lux). Oggetto della sua poesia può essere anche un’azione scontata come quella di “Scrivere un curriculum”; riporta infatti la difficoltà e l’imbarazzo di fissare in poche righe tante esperienza e la rabbia di dover trascrivere non le informazioni rilevanti per l’uomo in esame bensì quelle utili ai fini del curriculum. La poetessa sa di lasciare ai suoi lettori molti quesititi, la “poetica del non so”, ma come Socrate, sostiene che solo l’uomo che crede di non sapere, è realmente saggio. Quando avrà smesso di farsi domande è allora che smetterà di vivere. La poesia va vista come resistenza dell’anima, che ha sempre più sete di sapere. Wislawa Szymborska afferma di essere letta da due sole persone su mille, ma da questa considerazione ne fa una riflessione sulla poesia in generale, gli autori di poesia sono considerati meno degni di lode di quelli di prosa e poco letti, a detta della poetessa; è per questo che ci propone una poesia alla portata di tutti, anche chi non è abituato alla lettura può avvicinarsi ai suoi componimenti e scoprire l’ordinarietà che diventa straordinaria meraviglia.

Maria Urti


ALDA MERINI: LE PIETRE. IL DOLORE CHE DIVENTA POESIA. “Le più belle poesie si scrivono sopra le pietre coi ginocchi piagati

e le mani aguzzate dal mistero. Le più belle poesie si scrivono davanti a un altare vuoto, accerchiatii da agenti della divina follia.” . A. Merini

“Come una pietra che rotola” cantava Bob Dylan in

una

Rolling

canzoneStone”,

manifesto

dal

alludendo

titolo a

una

“Like

a

“miss

solitudine” che in un primo momento “vestiva bene” e se la rideva di tutti quelli che le giravano intorno,

convinta

che

la

propria

indipendenza

fosse la propria forza. Eppure, ad un certo punto non parla più con un tono di voce alto e fiero; non sembra più così orgogliosa come un tempo, perché è “caduta in rovina” e deve rimediare qualcosa da mangiare. “Come ci si sente?”. Ecco

dove stare, come una completa sconosciuta? Come una pietra che rotola via?”

REISE | PAGE 4

la domanda. “Come ci si sente senza un posto


Questa sensazione di isolamento, estremo raggio della solitudine come scelta o come condizione, accompagna l’uomo da sempre, ed è la fase più buia che ciascuno di noi possa provare, seppure ognuno in maniera diversa. Oscurità, solo oscurità, intorno e davanti a noi. Dante ha incominciato così; Dostoevskij pure; Alda Merini ha vissuto quella oscurità sulla propria pelle e l’ha trasformata in poesia. Nata nel 1931 a Milano da un padre colto, affettuoso e premuroso e da una madre pragmatica, distante ed altera, la giovane Alda assiste alla drammatica esperienza della seconda guerra mondiale, ritrovando nel 1943 la propria casa travolta da un bombardamento, dopo un periodo trascorso in un rifugio antiaereo. Pochi anni più tardi compone le sue prime poesie, che ricevono il parere positivo del critico Giacinto Spagnoletti. A quindici anni, ritornando a casa entusiasta con una recensione di Spagnoletti su una delle sue composizioni, vede il padre strapparle di mano il foglio e stracciarlo: “Ascoltami, cara, la poesia non dà il pane”. Alda conosce le prime “ombre della mente” nel 1947, quando inizia a soffrire di disturbo bipolare, venendo internata in una clinica milanese. Dal ’64 al ’72 vive, inoltre, la terribile esperienza del manicomio.

Noi qui dentro si vive in un lungo letargo, si vive afferrandosi a qualunque sguardo, contandosi i pezzi lasciati là fuori, che sono i suoi lividi, che sono i miei fiori. Io non scrivo più niente, mi legano i polsi, ora l'unico tempo è nel tempo che colsi: qui dentro il dolore è un ospite usuale, ma l'amore che manca è l'amore che fa male. Ogni uomo della vita mia era il verso di una poesia perduto, straziato, raccolto, abbracciato; ogni amore della vita mia ogni amore della vita mia è cielo è voragine, è terra che mangio per vivere ancora.”

Roberto Vecchioni – Canzone per Alda Merini

Riprendendo uno dei versi che gli confidò, parlando e poetando, “perché basta anche un niente per essere felici, basta vivere come le cose che dici”. Cosa si può imparare da Alda? A vivere nonostante il dolore, a vivere attraverso il dolore e a credere fermamente in ciò che si è, ai propri ideali, alle proprie emozioni, ai propri tormenti.


“C'è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce” – Leonard Cohen

Ecco, solo così si può uscire dalla “selva

Alda ha continuato a scrivere, nonostante il

oscura” e rivedere le stelle. Per farlo, però,

divieto del padre, e ha trovato la propria

dobbiamo prima ricordarci chi siamo e

voce, unica, in un miliardo di suoni; ha dato

soprattutto che possiamo comunicare con gli

un nome alla propria sofferenza, vincendola

altri, attraverso la scrittura, la pittura, la

“con la penna in mano”, come afferma

musica, la danza, la recitazione; imparare il

Maria Corti. Siamo destinati ad essere,

modo per comunicare noi stessi all’altro, e a

prima o poi, “pietre rotolanti”, ma non

farci dono. È il compito più difficile che

dobbiamo poi affliggerci tanto: dopotutto,

l’uomo ha, ma è necessario che si perseveri,

c’è sempre il sole a rischiarare il percorso

anche se farlo significa andare contro il

e, anche se non lo vediamo noi, c’è sempre

parere di qualcuno, o di molti.

qualcuno che può indicarcelo. Perché il sole c’è sempre, anche nei momenti di buio, e i veri pazzi sono quelli che non vogliono vederlo.

Matteo Balsamo


⽊漏れ⽇

KOMOREBI

CRITICA CINEMATOGRAFICA

A CURA DI: SARA PICARIELLO

Komorebi è la parola giapponese usata per indicare la luce del sole che filtra tra le foglie degli alberi. Le parole giapponesi sono estremamente affascinanti, questo perché i kanji, ideogrammicondensatori di significato, sono utilizzati per esprimere concetti complessi che non potrebbero essere espressi con le parole del nostro alfabeto. In particolare l’aver creato una parola appositamente per rendere lo spettacolare effetto visivo della luce tra gli alberi, mi ha da sempre trasmesso qualcosa di poetico e di magico. Pronunciando una semplice parola siamo lì, tra quegli alberi attraverso cui il sole cerca di penetrare, rompendosi in fasci di luce. Un effetto visivo per me simile alla luce dei proiettori, che girando lo sguardo durante la proiezione di un film, vedo uscire dalle piccole finestre poste in alto nella sala, una somiglianza forse lontana ma dettata dalla stessa sensazione di quiete che mi trasmette il trovarmi tra la natura o in una scura sala di un cinema. Cosa sarà quindi Komorebi? Definirla una rubrica cinematografica forse è un po’azzardato, mi piacerebbe più definirla come la piccola finestra di una sala dalla quale proietterò un film, scelto da me, visto di recente, ma anche più datato, che consiglio di vedere (se non lo avete ancora fatto). Lo analizzerò, commenterò fornendo una chiave di lettura personale e delle curiosità a riguardo. Detto questo buona lettura!


CRITICA CINEMATOGRAFICA

INTERVIEW

THE HOURS: LE PIETRE DELL’ANIMA Spesso la nostra mente inizia a vagare tra i ricordi e le sensazioni. Tra questi potrebbe trovare qualcosa di oscuro e celato (una frase, un pensiero, un’esperienza) che attrae tanto la sua attenzione da crescere e occupare ogni suo spazio, fino a prendere il controllo totale e trasformarsi in un masso nero e pesante che grava su di lei. Un peso così grande non sempre la mente lo riesce a trasportare e a quel punto potrebbe decidere di farlo scivolare nelle tasche, affinché non gravi solo su di lei ma su tutto il corpo che, a poco a poco, si ritrova completamente sommerso dall’acqua. Quel masso lo trascina sempre più in basso, dove non arriva la luce, e dove, ad un tratto, smette di respirare. Il 28 Marzo del 1941 Virginia Woolf si suicidò, sprofondando nel fiume Ouse (in Sassex) “con le tasche piene di sassi e la testa piena di sussurri”. La scrittrice soffriva sin da giovane di crisi depressive e di bipolarismo, probabilmente dovuti alla morte di molti dei suoi familiari e agli abusi sessuali subiti insieme alla sorella Vanessa da parte dei fratellastri, disturbi che più volte l’avevano spinta al suicidio. Nel 1941 i fantasmi del passato si erano ripresentati ed erano diventati così ingombranti da impedirle di scrivere, di pensare e, quindi, di vivere. Non riuscendo a sopportare di nuovo tutto il dolore, decise di porre fine alla sua vita, lasciando oltre che le sue opere, una bellissima lettera al marito Leonard Woolf, la persona che l’aveva salvata e con cui aveva vissuto gli anni più felici della sua vita.


Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco neanche a scrivere come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n'è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.

V.

Per gli antichi medici greci lo stato di benessere

La malinconia e la depressione non sono proprio la

dell’individuo dipendeva dall’equilibrio di quattro

stessa cosa: la depressione nonè solo tristezza e

fluidi, denominati umori: sangue, bile, atrabile o bile

apatia, ma una vera malattia cronica; è

nera e flegma. Attribuivano, per tanto, i mali

comunqueinteressante, come i greci identificassero

dell’anima ad un eccesso di bile nera, ed è per questo

una relazione tra il corpo e lamente/anima proprio in

che utilizzavano il termine melanconia che deriva

questo scuro fluido materiale. Anche nella

dall’unione di mélaina (nero) e cholé (bile). La sede

depressionec‘è la stessa relazione tra corpo e anima,

dell’atrabile era

che però non identificherei in unfluido che può

la milza, detta in inglese spleen, termine

essere eliminato, ma in masso, un peso che ti

che sarà utilizzato dagli scrittori romantici e decadenti per indicare uno stato d’animo caratterizzato da insoddisfazione, noia e fastidio di tutto. .

schiaccia, titoglie il sonno, la forza ed infine anche il respiro.


In The Huors, film del 2003 di Stephen Daldry, le tre donne protagoniste sono tutte gravate da un peso che indissolubilmente le lega e le rende simili. Film delicato e poeticamente struggente, tratto dal romanzo omonimo di Michael Cunnigham, è un omaggio alla figura di Virginia Woolf e in particolare ad una delle opere più amate della scrittrice: Mrs Dalloway, che diviene il file rouge dell’intera pellicola. La trama ruota intorno a tre donne vissute in luoghi ed epoche diversi, accomunate da quel desiderio di felicità e di evasione da una vita che solo apparentemente è perfetta, proprio come quella di Clarissa Dalloway, ma in realtà è segnata da desideri inespressi e da fantasmi del passato. Come in Mrs Dalloway viene mostrata una sola ed intera giornata della protagonista, così il film segue l’avvicendarsi quotidiano di un solo giorno della vita delle tre donne. La prima donna che ci viene presentata è Virginia Woolf, interpretata da Nicole Kidman. Siamo nel 1923 a Richmond, nelle campagne londinesi, dove la scrittrice e il marito si erano rifugiati, su consiglio medico, per sfuggire alle voci che tormentavano Virginia. La donna è quindi all’inizio di una delle sue crisi depressive ma è anche al principio dell’opera che la consacrerà come scrittrice: Mrs Dalloway.

lla Los Angeles del 1951 vive, invece, Laura Brown (Julien Moore), che sembra essere la perfetta moglie borghese ed una madre amorevole, ma in realtà è una donna sola, profondamente infelice e che sogna una vita diversa, ed è per questo che medita il suicidio per sottrarsi alla realtà. Laura è impegnata, inoltre, nella lettura del romanzo Mrs Dalloway, riconoscendosi nella protagonista, in quella sua fragilità sottesa ad una facciata di donna sicura e che ha il pieno controllo della propria vita. La terza donna è Clarissa Vaughan, interpretatadalla magistrale Meryl Streep. Clarissa è un'editrice di successo che vive a New York nel 2001, con la compagna Sally, e sta organizzando una festa in onore di Richard, suo caro amico scrittore, malato di AIDS, per il premio ricevuto per il suo ultimo romanzo. È proprio Richard ad aver soprannominato Clarissa, Signora Dalloway, non solo per il nome, ma anche per quell’equilibrio illusorio in cui vive e che è una caratteristica anche della protagonista del romanzo. Le tre donne si correlano a vicenda attraverso il romanzo woolfiano: se Virginia nel 1923 lo sta scrivendo e Laura Brawn nel 1951 lo sta leggendo, Clarissa, nel 2001, lo sta vivendo, diventa la Signora Dalloway.


La figura di Clarissa Dalloway sembra quasi sdoppiarsi ed essere in tutte e tre le protagoniste. Virginia, infatti, proietta sulla protagonista del suo romanzo il dolore, la frustrazione e l’angoscia per quelle voci che non la abbandonano mai. Laura Brown, non è affatto la moglie perfetta, non ama suo marito, come Clarissa Dalloway non ama Richard, l’uomo che ha sposato solo per interesse, mettendo da parte non solo l’amore per Peter Walsh, ma anche quella passione per Sally Seton. Anche Laura inoltre, prova un’attrazione per l’amica Kitty, tanto da baciarla di fronte al figlio. Clarissa Vaughan, invece, non riesce a liberarsi dal passato, impersonificato dall’amico Richard, di cui si prende cura da più di dieci anni. Clarissa pur essendo l’unica ad avere la vera possibilità di essere felice, con una carriera affermata e una compagna che ama, è incastrata nei ricordi, nelle ore della gioventù passata con Richard che la obbligano ad occuparsi di lui. Anche la Clarissa del romanzo è allo stesso modo intrappolata nel passato con Peter e non lo ha mai dimenticato. Sono quindi innumerevoli i richiami all’opera della Woolf che sono stati sapientemente orchestrati e anche ribaltati prima da Cunnigham nel suo romanzo e poi da Daldry nel film: tutto è costruito su questo parallelo tra il romanzo di Virginia Woolf e la vita delle protagoniste. Il romanzo sembra avere una funzione epifanica, è l’oggetto che permette ad almeno due delle donne di prendere una decisione, di scegliere la vita invece della morte. Virginia infatti si interroga su come far terminare il romanzo che sta scrivendo, e se in un primo momento l’unica fine possibile per la signora Dalloway sembra essere la morte, decide poi che non sarà Clarissa a morire, ma il suo personaggio speculare, Septimus Warren Smith. “La morte di qualcuno dà agli altri la possibilità di apprezzare la vita. È il contrasto.”

Così dice Virginia al marito Leonard. Laura Brown, invece, ha deciso di togliersi la vita, ma quando sul letto dell’albergo in cui sta per compiere il suicidio, con in mano il romanzo della Woolf, immagina di essere travolta da quell’acqua che nel 1941 aveva sommerso la scrittrice, si ridesta sceglie la vita, a scapito però dei figli che poco dopo abbandonerà. Laura ha paura della morte, ma nello stesso tempo non vuole affrontare il dolore ed è per questo che sceglie la fuga. È un personaggio quindi estremamente interessante perché non può essere giudicato o condannato, ha solo una scelta: o la morte o la vita che però, può ricominciare solo con la fuga. Tutto ciò ha una conseguenza anche per Clarissa Vaughan: Richard si scoprirà essere il figlio di Laura Brown. Lui non ha mai accettato l’abbandono della madre ed è per questo gravato, come le protagoniste, dal peso di un macigno alimentato, inoltre, dalla malattia e dal non essere diventato lo scrittore che avrebbe voluto. Sceglierà per questo la morte e lo farà in presenza di Clarissa dopo averle rivelato tutto il suo affetto, quasi per liberarla dal suo passato e permetterle di essere felice nonostante il dolore della perdita. Tutte le azioni dei protagonisti hanno delle conseguenze, ogni scelta si riversa su di un altro personaggio ed il passato e il presente si intrecciano continuamente, l’uno influenza l’altro. Nessuno in nessun luogo o tempo potrà mai sottrarsi alla responsabilità delle proprie azioni. Questo mette in luce un altro aspetto: il tempo che diviene un concetto relativo perché le donne sono collegate anche a distanza di anni. Il tempo è fondamentale nel film. È il fluire incessante delle ore, scandite dai rintocchi dell’orologio e rappresenta il fluire della vita.


Punti forti del film sono la splendida colonna sonora, composta da Philip Glass che diviene un tutt’uno con gli stati d’animo delle protagoniste e le attrici che hanno saputo interpretare dei personaggi così complessi e hanno reso tutta la sofferenza, l’insoddisfazione e le turbe dell’animo umano con estrema intensità. Centrale è, inoltre, il tema dell’opposizione tra l’apparenza e ciò che si è realmente. Niente è come sembra: le storie apparentemente slegate sono in realtà un unicum narrativo, la vita apparentemente perfetta delle protagoniste nasconde crepe e ognuna di loro deve fare i conti con il proprio masso che le schiaccia. Questo è anche il tema del romanzo di Virginia Woolf: la vita di Clarissa appare perfetta, ma in realtà è solo un’illusione generata da quei canoni e parametri borghesi che reggevano la società primo novecentesca. “Non si può trovare la pace sfuggendo alla vita” dice Virginia a Leonard. Le tre protagoniste per eludere l’illusione della loro vita, sono alla continua ricerca della felicità e della pace, ma questi concetti sono relativi. La pace che i dottori consigliano a Virginia di trovare nella campagna non è la stessa che lei cerca, poiché desidera tornare in quel crogiuolo di energie che è Londra e la felicità che Laura riesce a trovare non è di certo la felicità dei figli. È estremamente difficile sfidare la depressione, eludere la pesantezza che è propria di quelle anime che non si accontentano delle apparenze, ma nonostante ciò il film non ha una visione pessimistica, lascia, piuttosto, un messaggio positivo, che è quello di scegliere la vita, di non lasciarsi vincere dalla corrente dell’acqua, di trovare il modo, anche doloroso come quello di Laura, di scrollarsi dalle tasche le pietre che ci portano affondo. È vero Virginia e Richard scelgono la morte, ma lo fanno per permettere alle persone che amano di essere libere. Leonard Woolf e Clarissa Vaughan sono forse le uniche figure che potranno raggiungere la felicità, perché dopo la perdita subita, seppur dolorosa, la loro vita riprenderà a scorrere e potranno finalmente ricominciare a vivere gli anni, i giorni e le ore.

“Caro Leonard, guardare la vita in faccia, sempre; guardare la vita in faccia e conoscerla per quello che è; alfine conoscerla, amarla per quello che è, e poi metterla da parte. Leonard, persempre gli anni che abbiamo trascorso, per sempre gli anni, per sempre l’amore;per sempre, le ore”.

Sara Picariello


CURIOSITA'

SU VARI AUTORI

Chi di voi non soffre di sindrome del foglio bianco? Stare lì e aver l’ansia di cosa scrivere, non è piacevole. Dan Brown , autore del best seller “ Il Codice Da Vinci” risolveva questo blocco psicologico stando appeso ad una sbarra a testa in giù. In questo modo riusciva a concentrarsi maggiormente e ad essere sereno e rilassato. NON PROVATELO, il sangue potrebbe annebbiarvi troppo il cervello.


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CURIOSITA'

SI RACCONTA CHE lo scrittore Giovanni Verga fosse un grande amante delle donne. Era inoltre solito frequentare diverse amanticontemporaneamente, con le quali si teneva in contatto tramite delle lettere. Per risparmiare tempo mandava la stessa lettera a più donne cambiando semplicemente intestazione e destinataria. Un vero e proprio Casanova siciliano.

LO SCRITTORE AMERICANO William Burroughs è noto per essere stato non solo uno degli iniziatori della Beat Generation, ma anche per essersi sposato due volte, nonostante fosse omosessuale. La prima volta si sposò in Croazia con Ilse Kappler, una ragazza

DID YOU KNOW?

ebrea, solo per farle ottenere il visto per gli Stati Uniti.

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D'ANNUNZIO E LA DUSE Nonostante con

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CURIOSITA'

SAPETE CHE ALDA MERINI segnava a penna, a matita e con il rossetto molti pensieri che vagavano nella sua mente, appuntandoli sulle pareti della sua camera da letto? Era l’affresco della propria vita interiore, che chiamava poeticamente “il muro degli angeli”. Questi pensieri sparsi assumevano la forma di disegni, numeri di telefono e schizzi di lirismo che ispireranno la sua poesia “Il bacio”, contenuta nella raccolta “Rasoi di seta” e dedicata a uno dei suoi tormentati amori.

CHI NON HA PENSATO CHE Chi non ha pensato che i ripetuti svenimenti di Dante, sia nella cantica dell’inferno sia in altre sue opere poetiche fossero frutto dell’estro dell’artista?In realtà, verso la fine dell’ottocento la psichiatria

DID YOU KNOW?

lambrosiana ha diagnosticato che il poeta era affetto, sin da piccolo, da epilessia, basandosi sulla rappresentazione che Dante stesso fornisce della sintomatologia degli attacchi.

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