Robert F. Kennedy – Discorsi 1960-1968

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F. KENNEDY DISCORSI 1960-1968

ROBERT F. KENNEDY

DISCORSI 1960-1968

Robert F. Kennedy. Discorsi 1960-1968

I testi di Bob Kennedy, selezionati da RFK Human Rights Italia, sono qui presentati nella traduzione presente nel libro di Mauro Colombo e Alberto Mattioli, Parola di Bob. Le «profezie» di Robert F. Kennedy rilette e commentate dai protagonisti del nostro tempo, In Dialogo, 2018.

THE ENEMY WITHIN

I tre anni della difficile battaglia

contro l’organizzazione criminale mafiosa negli Stati Uniti descritti da Robert F. Kennedy nel suo libro “Il nemico interno”.

The Enemy Within, Harper and Brothers, New York 1960, pp.306-307.

Più di venti persone, leader sindacali, personale dirigente, gangster e altri direttamente coinvolti nelle indagini sono stati arrestati e condannati a pene detentive come risultato del lavoro di questi uomini [...]. Vi è un’enorme soddisfazione ovviamente nel fatto che il Congresso abbia approvato una legge per fronteggiare i reati che abbiamo scoperto [...].

La sordida disonestà scoperta dal

Comitato McClellan ha riflessi su tutti gli americani, per quanto incide su ogni comparto della nostra vita economica (lavoro, amministrazione, legge, stampa).

La nuova legge sul lavoro è preambolo di un grande passo avanti, ma non può essere considerata un traguardo finale; non possiamo permetterci di accontentarci del lavoro fatto finora.

Quanto scoperto dal Comitato McClellan era, secondo me, solo un sintomo di una più grave malattia morale [...]. Perché la nostra nazione resista in un periodo di

accresciuta concorrenza internazionale, dobbiamo riaffermare alcuni valori fondamentali dei nostri antenati, valori che sono profondamente radicati nella storia del nostro Paese e nella sua crescita fino a una posizione di forza e considerazione nella comunità delle nazioni. Il tiranno, il bullo, il corruttore e il corrotto sono figure vergognose. I leader sindacali che sono diventati ladri, che hanno truffato quanti avevano dato loro fiducia, hanno disonorato un movimento vitale e in larga parte onesto. Gli uomini d’affari che hanno ceduto alla tentazione di trattare per ottenere vantaggi rispetto ai loro concorrenti hanno alterato la concezione morale del libero sistema economico americano.

Né il movimento operaio, né il nostro sistema economico possono tollerare questa corruzione paralizzante. Il premier Kruscev ha detto che siamo un Paese morente, una società decadente. Il fatto che lo dica non significa che sia vero. Ma non c’è alcun dubbio che la corruzione, la disonestà e le debolezze, fisiche e morali, si siano largamente diffuse in questo Paese. [...] Per rispondere alla sfida dei nostri tempi, in modo che si possa poi guardare a questo periodo non come a qualcosa di cui ci si debba vergognare, ma come a un punto di svolta sulla strada per migliorare l’America, dobbiamo prima sconfiggere il nemico che abbiamo in casa. n

DISCORSO A NEW YORK

7 febbraio 1966

Siamo di fronte a un nuovo crocevia verso un futuro incerto. La strada davanti a noi non è ancora tracciata. Sappiamo solo che sarà piena di difficoltà e di insidie.

Può apparire strano parlare in questo momento di nuovi crocevia e nuove svolte. In fondo siamo nel bel mezzo del più duraturo periodo di espansione prolungata nella nostra storia. Il nostro potere e la nostra ricchezza non sono mai stati così grandi. I nostri ragazzi vanno in buona parte al college e molti studenti delle scuole superiori di oggi imparano addirittura quanto certi studenti universitari di ieri. Quotidianamente c’è qualche viaggiatore alle frontiere della scienza che ritorna con la notizia di nuove possibilità, nuove prospettive, nuove opportunità per noi e per i nostri figli. E dopo le elezioni del 1964 il governo federale ha esaudito vecchi sogni a dozzine: Medicare [Il sistema di assicurazione sanitaria, ndr], incentivi all’istruzione, diritto di voto, riforma dell’immigrazione. L’eredità del New Deal è compiuta. Non c’è un problema per il quale non vi sia un programma. Non c’è un problema per il quale non venga speso denaro. Non c’è un problema o un programma su cui dozzine o centinaia o migliaia di burocrati non siano fervidamente al lavoro.

Ma tutto questo rappresenta la soluzione ai nostri problemi? Chiaramente

no. Abbiamo speso somme sempre crescenti per le nostre scuole. Tuttavia troppi ragazzi ancora si diplomano totalmente sprovvisti degli strumenti per aiutare se stessi, le proprie famiglie o le comunità in cui vivono. Abbiamo speso somme senza precedenti in edifici di ogni tipo. Eppure le nostre comunità appaiono di anno in anno meno belle e razionali. Abbiamo speso miliardi per sostenere i prezzi dell’agricoltura. Eppure l’economia rurale continua a declinare e sempre più persone lasciano la campagna per andare a vivere nei centri urbani. Abbiamo speso miliardi in armamenti e in aiuti all’estero. Ciononostante il mondo è ancora pericoloso e la nostra posizione col passare del tempo diventa sempre più precaria e difficile.

Qual è il motivo di tutto ciò? La risposta la conosciamo da sempre, anche se qualche volta l’abbiamo dimenticata. Il denaro di per sé non è una soluzione. [...] Ci sono cose più importanti dello spendere. Si chiamano immaginazione, coraggio e determinazione. E per quelli di noi che parlano al pubblico, ai nostri concittadini, è necessario un quarto requisito speciale: la sincerità. Qualche esempio servirà a chiarire la questione.

Uno è il welfare. Gli oppositori del welfare hanno sempre detto che è degradante, sia per il contribuente, sia per chi ne beneficia. Hanno detto che distrugge il rispetto per se stessi, che disincentiva, che è contrario agli ideali americani. Molti di noi hanno deprecato e disprezzato queste critiche. La gente aveva bisogno del welfare e ovviamente noi sentivamo che aiutare le persone in difficoltà fosse

la cosa giusta da fare. Ma nel nostro impulso ad aiutare abbiamo perso di vista un fatto elementare. In effetti le critiche al welfare hanno un nucleo di verità, e sono confermate dall’evidenza. Studi recenti hanno mostrato, per esempio, che i contributi di welfare più elevati hanno spesso incoraggiato gli studenti ad abbandonare la scuola, hanno spinto le famiglie a disintegrarsi, hanno spesso condotto a una condizione di dipendenza per tutta la vita.

Cecil Moore, a capo dell’Naacp di Filadelfia [l’Associazione nazionale per l’avanzamento delle persone di colore, ndr], una volta ha detto che il welfare è stata la cosa peggiore che potesse capitare a un nero. Persino per una posizione estrema come questa vi è il supporto dei fatti. Molti di noi, siccome erano impegnati nel fare qualcosa che ritenevano fosse giusta, hanno ignorato le critiche. Ma conseguentemente hanno anche ignorato la reale richiesta, che era e rimane un lavoro decente e dignitoso per tutti. [...] Altro esempio: abbiamo fatto funzionare le nostre scuole in base alla teoria secondo cui il sistema scolastico di per sé fosse buono; se un ragazzo falliva, era il ragazzo a sbagliare. E su questa base abbiamo etichettato i ragazzi che sono andati incontro all’insuccesso scolastico: li abbiamo definiti culturalmente svantaggiati, o ritardati, oppure pigri, o stupidi. Ma i risultati di questo sistema sono che da un quarto a un terzo dei nostri giovani non raggiunge neanche i requisiti intellettivi minimi per le Forze armate; che più della metà dei diplomati di molte delle nostre scuole superiori non sono preparati nemmeno per i lavori

più rudimentali; che centinaia di migliaia di ragazzi si perdono per strada. Non possiamo più permetterci questo spreco. Se i nostri attuali metodi educativi non riescono a fare di meglio, allora debbono essere cambiati per adattarsi agli studenti, così come i medici cambiano una terapia che non riesce a curare un malato. Dobbiamo guardare al fallimento di uno studente come al fallimento della scuola e al nostro fallimento. Dobbiamo ritenerci responsabili delle carenze dei nostri ragazzi. [...]

Non vi è questione che non richieda lo stesso nuovo modo di pensare, la stessa volontà di osare. [...] Abbiamo impegnato il nostro surplus di cibo per nutrire chi soffre la fame all’estero e abbiamo offerto il nostro aiuto per frenare la crescita della popolazione; ma saremo pronti a impegnarci nella misura necessaria a evitare la fame di massa che il nostro attuale livello di sforzo non può prevenire? Abbiamo abbandonato l’isolazionismo e siamo intervenuti in ogni angolo del mondo; ma saremo ugualmente pronti ad abbandonare lo status quo e a unirci alle forze nascenti della rivoluzione in America Latina, in Africa, in Asia? [...] Lincoln lo disse al meglio: «Dobbiamo pensare in modo nuovo e agire in modo nuovo. Dobbiamo emanciparci». Dirlo, comunque, non è farlo. Non è facile, a metà della vita di una persona, o della sua carriera politica, dire che i vecchi orizzonti sono troppo limitati, che il nostro sistema educativo deve ripartire da capo, che nuove visioni devono sostituire le vecchie se vogliamo che la nostra vitalità si conservi e si rinnovi. Eppure dobbiamo essere determinati a farlo. n

DISCORSO ALL’UNIVERSITÀ

DI CAPETOWN (Sudafrica)

In occasione del “Day of Affirmation”, 6 giugno 1966

Vengo qui questa sera per il mio profondo interesse e affetto verso una terra colonizzata dagli olandesi a metà del diciassettesimo secolo, poi conquistata dagli inglesi e infine diventata indipendente; una terra in cui gli abitanti nativi furono inizialmente soggiogati, ma i rapporti con i quali restano ancora oggi problematici; una terra che si definì su una frontiera ostile; una terra che ha domato ricche risorse naturali attraverso l’applicazione energica della tecnologia moderna; una terra che un tempo importava schiavi e ora deve lottare per cancellare le ultime tracce di quella servitù passata. Mi riferisco, naturalmente, agli Stati Uniti d’America.

Ma sono felice di essere qui in Sudafrica, così come lo sono mia moglie e tutti i membri del nostro gruppo, e siamo felici di essere qui a Città del Capo. Sto già apprezzando molto la mia visita. Sto cercando di incontrare e confrontarmi con persone di tutti gli strati sociali e di tutti i segmenti dell’opinione sudafricana, inclusi coloro che rappresentano le opinioni del governo. Oggi sono lieto

di incontrare l’Unione Nazionale degli Studenti Sudafricani (NUSAS ndt). Da un decennio la NUSAS difende e lavora per i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, principi che incarnano le speranze collettive degli uomini di buona volontà in tutto il mondo.

Il vostro lavoro, sia in patria sia negli affari internazionali studenteschi, vi ha portato grande onore, sia a voi stessi che al vostro paese. So che la National Student Association negli Stati Uniti sente un legame particolarmente stretto con questa organizzazione. E desidero ringraziare in modo speciale il signor Ian Robertson, che ha per primo esteso questo invito a nome della NUSAS; desidero ringraziarlo per la sua gentilezza nell’avermi invitato. Mi dispiace molto che non possa essere qui con noi questa sera. Sono felice di aver avuto l’opportunità di incontrarlo e parlargli prima di questa serata, e di avergli donato una copia di Profiles in Courage, un libro scritto dal Presidente John Kennedy, firmato per lui dalla vedova del Presidente Kennedy, la signora Jacqueline Kennedy.

Questa è una Giornata di Affermazione, una celebrazione della libertà. Siamo qui in nome della libertà.

Al cuore di quella libertà e democrazia occidentale c’è la convinzione che l’individuo, figlio di Dio, sia la pietra di paragone di ogni valore, e che tutta la società, tutti i gruppi e tutti gli stati esistano per il suo beneficio. Pertanto, l’ampliamento della libertà per ogni essere umano dev’essere il supremo obiettivo e la pratica costante di ogni società occidentale.

Il primo elemento di questa libertà individuale è la libertà di parola; il diritto di esprimere e comunicare idee, di distinguersi dalle bestie mute dei campi e delle foreste; il diritto di richiamare i governi ai loro doveri e alle loro responsabilità; soprattutto, il diritto di affermare la propria appartenenza e la propria lealtà al corpo politico — alla società — agli uomini con cui condividiamo la nostra terra, la nostra eredità e il futuro dei nostri figli.

Di pari passo con la libertà di parola va il potere di farsi ascoltare — di partecipare alle decisioni del governo che plasmano la vita degli uomini. Tutto ciò che rende degna di essere vissuta la vita dell’uomo — la famiglia, il lavoro, l’istruzione, un posto dove crescere i propri figli e un posto dove riposare— tutto questo dipende dalle decisioni del governo; tutto può essere spazzato via da un governo che non ascolta le richieste del suo popolo, e intendo di tutto il suo popolo. Pertanto, l’essenza stessa dell’umanità può essere protetta e preservata solo là dove il governo deve rispondere — non solo ai ricchi; non solo a quelli di una particolare religione; non solo a quelli di una particolare razza; ma a tutto il popolo.

E anche un governo fondato sul consenso dei governati, come nella nostra Costituzione, deve essere limitato nel suo potere di agire contro il popolo: affinché non vi sia interferenza con il diritto di culto, ma anche nessuna interferenza con la sicurezza della casa; nessuna imposizione arbitraria di pene o sanzioni da parte di funzionari alti o bassi; nessu-

na restrizione alla libertà degli uomini di cercare istruzione o lavoro o opportunità di qualunque tipo, in modo che ciascuno possa diventare tutto ciò che è in grado di diventare.

Questi sono i diritti sacri della società occidentale. Queste furono le differenze essenziali tra noi e la Germania nazista, come tra Atene e la Persia.

Queste sono le differenze essenziali con il comunismo oggi. Io sono assolutamente contrario al comunismo perché esalta lo Stato al di sopra dell’individuo e della famiglia, e perché il suo sistema comporta la mancanza di libertà di parola, di protesta, di religione e di stampa, che è caratteristica di un regime totalitario. La via dell’opposizione al comunismo, tuttavia, non è quella di imitarne la dittatura, ma di ampliare la libertà individuale. In ogni paese ci sono coloro che etichetterebbero come “comunista” ogni minaccia al loro privilegio. Ma permettetemi di dirvi, come ho visto nei miei viaggi in ogni parte del mondo, che la riforma non è comunismo. E la negazione della libertà, in qualsiasi nome, rafforza soltanto quel comunismo che pretende di combattere.

Molte nazioni hanno formulato le proprie definizioni e dichiarazioni di questi principi. E spesso ci sono stati ampi e tragici divari tra promessa e realizzazione, ideale e realtà. Eppure i grandi ideali ci hanno costantemente richiamato ai nostri doveri. E — con dolorosa lentezza — noi negli Stati Uniti abbiamo esteso e ampliato il significato e la pratica della libertà a tutto il nostro popolo.

Per due secoli, il mio paese ha lottato per superare l’handicap autoimposto del pregiudizio e della discriminazione basati sulla nazionalità, sulla classe sociale o sulla razza — discriminazione profondamente ripugnante sia alla teoria sia al dettato della nostra Costituzione. Anche quando mio padre cresceva a Boston, nel Massachusetts, cartelli gli dicevano “No Irish Need Apply”. Due generazioni dopo, il Presidente Kennedy divenne il primo irlandese e il primo cattolico a guidare la nazione; ma quanti uomini di talento, prima del 1961, erano stati privati della possibilità di contribuire al progresso del paese perché erano cattolici, o di origine irlandese? Quanti figli di genitori italiani, ebrei o polacchi dormivano nei bassifondi — non istruiti, non alfabetizzati, il loro potenziale perso per sempre per la nostra nazione e per la razza umana? E ancora oggi, quale prezzo pagheremo prima di aver garantito pari opportunità a milioni di americani neri?

Negli ultimi cinque anni abbiamo fatto di più per garantire l’uguaglianza ai nostri cittadini neri e per aiutare i diseredati, bianchi e neri, che nei cento anni precedenti. Ma molto, molto di più resta da fare.

Poiché ci sono milioni di afroamericani che non hanno la formazione necessaria nemmeno per i lavori più semplici, e migliaia di loro ogni giorno vedono negati i loro pieni e uguali diritti secondo la legge; e la violenza degli emarginati, degli offesi e degli oppressi incombe sulle strade di Harlem, di Watts e del Southside di Chicago.

Eppure un afroamericano si sta formando come astronauta, uno dei primi esploratori dell’umanità nello spazio; un altro è il principale avvocato dello Stato americano, e decine siedono sui banchi dei nostri tribunali; e un altro ancora, il dottor Martin Luther King, è il secondo uomo di origine africana a ricevere il Premio Nobel per la Pace per i suoi sforzi non violenti a favore della giustizia sociale tra tutte le razze.

Abbiamo approvato leggi che vietano la discriminazione nell’istruzione, nel lavoro, nell’alloggio; ma queste leggi da sole non possono superare l’eredità di secoli – di famiglie distrutte e bambini privati di opportunità, di povertà, degrado e sofferenza.

Dunque il cammino verso la piena uguaglianza e libertà non è facile, e grandi costi e pericoli ci accompagnano. Siamo impegnati in un cambiamento pacifico e non violento, ed è importante che tutti lo comprendano – anche se il cambiamento può destabilizzare. Tuttavia, anche nella turbolenza della protesta e della lotta c’è una maggiore speranza per il futuro, poiché gli uomini imparano a rivendicare e ottenere da soli i diritti che prima chiedevano ad altri.

E, cosa più importante di tutte, l’intero apparato di potere governativo è stato impegnato nell’obiettivo dell’uguaglianza davanti alla legge – così come ora ci impegniamo a raggiungere la pari opportunità nei fatti.

Dobbiamo riconoscere la piena uguaglianza umana di tutti i nostri cittadini –

davanti a Dio, davanti alla legge e nei consigli del governo. Dobbiamo farlo, non perché sia economicamente vantaggioso – anche se lo è; non perché le leggi di Dio lo impongano – anche se lo fanno; non perché lo desiderino le persone di altri Paesi. Dobbiamo farlo per un’unica e fondamentale ragione: perché è la cosa giusta da fare.

Riconosciamo che vi sono problemi e ostacoli da superare per il raggiungimento di questi ideali negli Stati Uniti, così come riconosciamo che altre nazioni, in America Latina, in Asia e in Africa, hanno i propri problemi politici, economici e sociali, le loro barriere uniche all’eliminazione delle ingiustizie.

In alcuni paesi vi è preoccupazione che il cambiamento possa travolgere i diritti di una minoranza, specialmente laddove tale minoranza appartiene a una razza diversa da quella della maggioranza. Noi, negli Stati Uniti, crediamo nella protezione delle minoranze; riconosciamo il contributo che esse possono apportare e la leadership che possono fornire; e non crediamo che alcun popolo – sia esso maggioranza o minoranza, o singoli esseri umani – sia “sacrificabile” in nome di una teoria o di una politica. Riconosciamo anche che la giustizia, tra uomini e nazioni, è imperfetta, e che l’umanità a volte avanza davvero molto lentamente.

Non tutti si sviluppano nello stesso modo e allo stesso ritmo. Le nazioni, come gli uomini, spesso marciano al ritmo di tamburi diversi, e le soluzioni specifiche degli Stati Uniti non possono né

devono essere imposte o trapiantate altrove, e non è nostra intenzione farlo. Ciò che conta, tuttavia, è che tutte le nazioni devono avanzare verso una maggiore libertà; verso la giustizia per tutti; verso una società forte e al tempo stesso flessibile, in grado di rispondere alle esigenze di tutta la sua gente, qualunque sia la loro razza, e alle richieste di un mondo di immensi e vertiginosi cambiamenti che riguardano tutti noi.

L’aereo che mi ha portato in questo paese ha sorvolato in poche ore oceani e paesi che sono stati crogiolo di storia umana. In pochi minuti abbiamo tracciato le migrazioni degli uomini attraverso migliaia di anni; in pochi secondi, uno sguardo fugace, e abbiamo sorvolato campi di battaglia su cui milioni di uomini hanno lottato e sono morti. Non abbiamo visto confini nazionali, né vasti abissi o alte mura che dividano popoli da popoli; solo la natura e le opere dell’uomo – case, fabbriche e fattorie – ovunque a riflettere lo sforzo comune dell’uomo per arricchire la propria vita. Ovunque, le nuove tecnologie e le comunicazioni avvicinano uomini e nazioni, e le preoccupazioni di uno inevitabilmente diventano le preoccupazioni di tutti. E questa nostra nuova vicinanza sta lentamente togliendo le false maschere, le illusioni di differenze che sono alla radice dell’ingiustizia, dell’odio e della guerra. Solo l’uomo legato alla terra si ostina ancora nella superstizione oscura e velenosa che il suo mondo finisca alla collina più vicina, che il suo universo termini sulla riva di un fiume, che la sua comune umanità sia racchiusa nel cerchio stretto di coloro che condividono la sua città o le sue idee o il colore della sua pelle.

È vostro compito, il compito dei giovani di questo mondo, estirpare gli ultimi resti di quell’antica e crudele credenza dalla civiltà umana.

Ogni nazione ha ostacoli diversi e obiettivi diversi, plasmati dai capricci della storia e dell’esperienza. Eppure, mentre parlo con i giovani di tutto il mondo, resto colpito non tanto dalla loro diversità quanto dalla somiglianza dei loro obiettivi, dei loro desideri, delle loro preoccupazioni e della loro speranza per il futuro. C’è discriminazione a New York, la disuguaglianza razziale dell’apartheid in Sudafrica e la servitù nei monti del Perù. Persone muoiono di fame per strada in India; un ex Primo Ministro è giustiziato sommariamente in Congo; intellettuali vengono incarcerati in Russia; migliaia sono massacrati in Indonesia; e in tutto il mondo la ricchezza viene sperperata in armamenti. Questi sono mali diversi, ma sono tutti opera dell’uomo. Riflettono le imperfezioni della giustizia umana, l’inadeguatezza della compassione umana, la difettosità della nostra sensibilità verso le sofferenze dei nostri simili; rappresentano i limiti della nostra capacità di utilizzare la conoscenza per il benessere dei nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo. Perciò, questi mali ci chiamano a far appello a qualità comuni di coscienza e di indignazione, a una determinazione condivisa a cancellare le sofferenze inutili dei nostri simili, sia in patria che nel mondo.

Sono proprio queste qualità a fare della nostra gioventù di oggi l’unica vera comunità internazionale. Più di questo, penso che potremmo tutti essere d’ac-

cordo su quale tipo di mondo vogliamo costruire. Sarebbe un mondo di nazioni indipendenti, in cammino verso una comunità internazionale, ciascuna delle quali protegge e rispetta le libertà fondamentali dell’uomo. Sarebbe un mondo che esige da ogni governo l’accettazione della propria responsabilità di garantire la giustizia sociale. Sarebbe un mondo di progresso economico in costante accelerazione – non come fine a se stesso, ma come mezzo per liberare la capacità di ogni essere umano di coltivare i propri talenti e di inseguire le proprie speranze. In breve, sarebbe un mondo di cui tutti saremmo orgogliosi di essere stati i costruttori.

Poco più a nord di qui ci sono terre di sfida e di opportunità – ricche di risorse naturali, terre, minerali e popolazione. Ma sono anche terre alle prese con enormi difficoltà: ignoranza schiacciante, tensioni interne e conflitti, e grandi ostacoli legati al clima e alla geografia. Molte di queste nazioni, in passato colonie, sono state oppresse ed espropriate. Eppure non si sono allontanate dalle grandi tradizioni dell’Occidente; sperano, e scommettono sul proprio progresso e sulla propria stabilità, sulla possibilità che noi sapremo accettare le nostre responsabilità verso di loro, aiutandole a superare la povertà.

Nel mondo che vorremmo costruire, il Sudafrica potrebbe svolgere un ruolo eccezionale, e un ruolo di leadership in questo impegno. Questo paese è senza dubbio un deposito preminente della ricchezza, della conoscenza e delle competenze del continente. Qui si trovano la

maggior parte degli scienziati ricercatori africani e della produzione di acciaio, la maggior parte delle riserve di carbone e di energia elettrica. Molti sudafricani hanno dato contributi importanti allo sviluppo tecnico dell’Africa e alla scienza mondiale; i nomi di alcuni sono conosciuti ovunque gli uomini cercano di eliminare i devastanti effetti delle malattie tropicali e delle pestilenze. Nelle vostre facoltà e nei vostri consigli, qui in questa stessa aula, ci sono centinaia e migliaia di uomini e donne che potrebbero trasformare per sempre la vita di milioni di persone.

Ma l’aiuto e la leadership del Sudafrica o degli Stati Uniti non possono essere accettati se noi – all’interno dei nostri paesi o nei rapporti con gli altri – neghiamo l’integrità individuale, la dignità umana e l’umanità comune dell’uomo. Se vogliamo guidare al di fuori dei nostri confini; se vogliamo aiutare chi ha bisogno del nostro sostegno; se vogliamo adempiere alle nostre responsabilità verso l’umanità, dobbiamo prima, tutti noi, demolire i confini che la storia ha eretto tra gli uomini all’interno delle nostre nazioni – barriere di razza e religione, classe sociale e ignoranza.

La nostra risposta è la speranza del mondo; è affidarsi alla gioventù. Le crudeltà e gli ostacoli di questo pianeta in rapido mutamento non si piegheranno a dogmi obsoleti e slogan superati. Non possono essere mossi da coloro che si aggrappano a un presente già morente, che preferiscono l’illusione della sicurezza all’emozione e al pericolo che accompagnano anche il progresso più pacifico. Questo mondo richiede le qualità della

gioventù: non un’età della vita ma uno stato d’animo, un temperamento della volontà, una qualità dell’immaginazione, una predominanza del coraggio sulla timidezza, dell’appetito per l’avventura sulla vita di comodità – un uomo come il Rettore di questa Università. Viviamo in un mondo rivoluzionario; e dunque, come ho detto in America Latina, in Asia, in Europa e nel mio stesso paese, gli Stati Uniti, sono i giovani che devono prendere l’iniziativa. Pertanto voi, e i vostri giovani compatrioti ovunque, avete sulle spalle un peso di responsabilità maggiore di qualsiasi altra generazione che sia mai esistita.

“Non c’è,” disse un filosofo italiano, “niente di più difficile da intraprendere, più pericoloso da condurre, o più incerto nel suo successo, che prendere l’iniziativa nell’introduzione di un nuovo ordine delle cose.” Eppure questa è la misura del compito della vostra generazione, e la strada è disseminata di molti pericoli. La prima è il pericolo della futilità; la convinzione che non ci sia nulla che un uomo o una donna possano fare contro l’enorme serie di mali del mondo –contro la miseria, contro l’ignoranza, o contro l’ingiustizia e la violenza. Eppure molti dei grandi movimenti di pensiero e di azione del mondo sono scaturiti dal lavoro di un singolo uomo. Un giovane monaco diede inizio alla Riforma protestante, un giovane generale estese un impero dalla Macedonia fino ai confini della terra, e una giovane donna riconquistò il territorio della Francia. Fu un giovane esploratore italiano a scoprire il Nuovo Mondo, e Thomas Jefferson, a 32 anni, proclamò che tutti gli uomi-

ni sono creati uguali. “Datemi un punto d’appoggio,” disse Archimede, “e solleverò il mondo.” Questi uomini mossero il mondo, e così possiamo fare tutti noi. Pochi avranno la grandezza di piegare la storia; ma ciascuno di noi può lavorare per cambiare una piccola parte degli eventi, e nella somma di tutti questi atti sarà scritta la storia di questa generazione. Migliaia di volontari del Corpo di Pace stanno facendo la differenza nei villaggi isolati e nelle baraccopoli di dozzine di paesi. Migliaia di uomini e donne sconosciuti in Europa resistettero all’occupazione nazista e molti morirono, ma tutti contribuirono alla forza e alla libertà ultima dei loro paesi. È da innumerevoli e diversi atti di coraggio come questi che nasce la convinzione che la storia umana si modella così. Ogni volta che un uomo si alza per un ideale, o agisce per migliorare la condizione degli altri, o si scaglia contro l’ingiustizia, invia una piccola onda di speranza, e incrociandosi da un milione di diversi centri di energia e audacia queste onde costruiscono una corrente che può abbattere i più possenti muri di oppressione e resistenza.

“Se Atene ti sembrerà grande,” disse Pericle, “considera allora che le sue glorie furono acquistate da uomini valorosi, e da uomini che impararono il loro dovere.” Questa è la fonte di ogni grandezza in tutte le società, ed è la chiave del progresso nel nostro tempo.

La seconda pericolosità è quella della convenienza; di coloro che dicono che speranze e convinzioni debbano piegarsi davanti alle necessità immediate. Certo, se dobbiamo agire efficacemente

dobbiamo confrontarci con il mondo così com’è. Dobbiamo fare ciò che deve essere fatto. Ma se c’è una cosa per cui il Presidente Kennedy si è battuto che ha toccato il sentimento più profondo dei giovani di tutto il mondo, è la convinzione che idealismo, alte aspirazioni e profonde convinzioni non siano incompatibili con i programmi più pratici ed efficienti – che non vi è nessuna incongruenza fondamentale tra ideali e possibilità realistiche – nessuna separazione tra i desideri più profondi del cuore e della mente e l’applicazione razionale dello sforzo umano ai problemi umani. Non è realistico né pragmatico risolvere problemi e agire senza essere guidati da scopi e valori morali ultimi, anche se tutti conosciamo qualcuno che sostiene il contrario. A mio giudizio, è una follia sconsiderata. Perché ignora le realtà della fede umana, della passione e della convinzione; forze, in ultima analisi, più potenti di tutti i calcoli dei nostri economisti o dei nostri generali. Naturalmente, aderire a standard, idealismo e visione di fronte a pericoli immediati richiede grande coraggio e fiducia in se stessi. Ma sappiamo anche che solo chi osa fallire in grande, può raggiungere grandi risultati.

È questo nuovo idealismo che è anche, credo, l’eredità comune di una generazione che ha imparato che, mentre l’efficienza può condurre ai campi di Auschwitz o alle strade di Budapest, solo gli ideali di umanità e amore possono scalare le colline dell’Acropoli.

Un terzo pericolo è la timidezza. Pochi uomini sono disposti a sfidare la disapprovazione dei loro pari, la censura

dei loro colleghi, l’ira della loro società. Il coraggio morale è una merce più rara del coraggio in battaglia o della grande intelligenza. Eppure è la qualità essenziale e vitale per coloro che cercano di cambiare un mondo che resiste al cambiamento con grande dolore. Aristotele ci dice: “Ai giochi olimpici non sono incoronati i migliori o i più forti, ma quelli che si presentano a combattere… così nella vita degli uomini onorevoli e giusti è chi agisce rettamente a vincere il premio.” Credo che in questa generazione coloro che avranno il coraggio di entrare nel conflitto troveranno compagni in ogni angolo del mondo.

Per i più fortunati tra noi, il quarto pericolo è il conforto; la tentazione di seguire il percorso facile e familiare dell’ambizione personale e del successo finanziario, così ampiamente disteso davanti a coloro che hanno il privilegio di un’istruzione. Ma questa non è la strada che la storia ha tracciato per noi. C’è una maledizione cinese che dice: “Possa egli vivere in tempi interessanti.” Che ci piaccia o no, viviamo in tempi interessanti. Sono tempi di pericolo e incertezza; ma sono anche i più creativi in tutta la storia dell’umanità. E ognuno qui sarà infine giudicato – si giudicherà infine da sé – per lo sforzo che ha contribuito a costruire una nuova società mondiale e per quanto i suoi ideali e obiettivi hanno plasmato quel contributo.

Così ci separiamo, io verso il mio paese e voi qui. Noi siamo – se un uomo di quaranta anni può rivendicare questo privilegio – membri della più grande generazione giovane del mondo. Ognuno

di noi ha il proprio lavoro da fare. So che a volte vi sentite molto soli con i vostri problemi e le vostre difficoltà. Ma voglio dire quanto sono colpito da ciò che rappresentate e dallo sforzo che state compiendo; e lo dico non solo per me stesso, ma per uomini e donne di tutto il mondo. E spero che spesso troverete conforto nel sapere che siete uniti ai vostri coetanei in ogni paese, loro alle prese con i loro problemi e voi con i vostri, ma tutti uniti in uno scopo comune; che, come i giovani del mio paese e di ogni paese che ho visitato, siete in molti modi più strettamente legati ai fratelli della vostra epoca che alla generazione più anziana in nessuna di queste nazioni; siete determinati a costruire un futuro migliore. Il presidente Kennedy parlava ai giovani d’America, ma oltre loro a tutti i giovani del mondo, quando disse: “L’energia, la fede, la devozione che portiamo in questo impegno illumineranno il nostro paese e tutti coloro che lo servono – e il bagliore di quel fuoco può davvero illuminare il mondo.”

E aggiunse: “Con una buona coscienza come nostra unica ricompensa certa, con la storia come giudice finale delle nostre azioni, andiamo avanti a guidare la terra che amiamo, chiedendo la Sua benedizione e il Suo aiuto, ma sapendo che qui sulla terra il lavoro di Dio deve essere veramente nostro.”

Vi ringrazio. n

DISCORSO AL SENATO

3 ottobre 1966

Questa settimana l’America deve misurarsi con il suo sogno, con il sogno di una nazione che promette a tutti la possibilità di condividere i diritti, i privilegi e i doveri della democrazia. Non è la prima prova e non sarà l’ultima.

L’Economic Opportunity Act che lancia la guerra alla povertà non è perfetto. Né i suoi presentatori, né i suoi più accaniti sostenitori ritengono che il testo di legge non possa essere migliorato in maniera significativa. D’altro canto non è nemmeno l’unico programma del governo che intende dare una risposta ai bisogni dei poveri. Ma la guerra alla povertà è, a suo modo, una iniziativa senza precedenti. Vi piaccia o meno, la guerra alla povertà rappresenta l’accettazione da parte della nazione del principio secondo cui la povertà deve essere eliminata. Non si tratta solo di dare un lavoro ai padri disoccupati, una istruzione ai figli e l’assistenza medica alle madri, pur se ovviamente la guerra alla povertà è tutte queste cose. La guerra alla povertà rappresenta l’accettazione del principio secondo cui ogni americano deve avere le stesse opportunità di una vita serena per sé e per i suoi figli, le stesse opportunità di partecipare al governo della città, dello Stato e del Paese, le stesse opportunità di prendere parte alle grandi iniziative della vita pubblica americana. Molto tempo

fa John Adams indicò gli ideali ai quali questa proposta si ispira: «Il povero ha la coscienza pulita – scrisse –, eppure si vergogna». Brancola nel buio sentendosi lontano dagli altri. L’umanità non sembra avvedersi di lui. Vaga senza mèta, inosservato; tra la folla, in chiesa, al mercato, è avvolto dalle tenebre come se si trovasse in una soffitta o in una cella. Non è oggetto di disapprovazione, di censura o di biasimo, è semplicemente invisibile. Essere ignorato e sapere di esserlo è intollerabile. Questo disegno di legge costituisce la pubblica dichiarazione che i poveri d’America non sono ignorati, non sono dimenticati, che vogliamo vederli, ascoltarli, aiutarli in spirito di collaborazione a diventare cittadini attivi e produttivi e non beneficiari passivi delle briciole che cadono dalla tavola dei ricchi. n

DISCORSO ALL’UNIVERSITÀ

DEL KANSAS

18 marzo 1968

Ci sono milioni di persone che vivono in luoghi nascosti, i cui nomi e le cui facce sono completamente ignoti. Ma io ho visto questi altri americani, ho visto i bambini affamati in Mississippi, con i loro corpi talmente falcidiati dalla fame e le loro menti così danneggiate per tutta la vita da non avere futuro. Ho visto questi bambini in Mississippi, qui negli Stati Uniti, un Paese con un prodotto interno lordo di 800 miliardi di dollari; ho visto bambini nella regione del delta del Mississippi con le pance rigonfie e i volti coperti dalle piaghe per inedia; e noi non abbiamo ancora sviluppato una politica che ci consenta di procurare il cibo necessario affinché essi possano vivere e affinché le loro vite non siano distrutte. Non credo che questo sia accettabile negli Stati Uniti d’America. Penso vi sia bisogno di un cambiamento.

Ho visto gli indiani vivere nelle loro riserve disadorne e misere, senza lavoro, con una disoccupazione dell’8o% e con così poca speranza nel futuro da parte dei giovani, ragazzi e ragazze di meno di vent’anni, che tra loro la principale causa di morte è il suicidio. Che costoro, i primi americani, questa minoranza, qui negli Stati Uniti, mettano fine alla propria vita uccidendosi, non penso sia accettabile

da parte nostra. Che vi siano ragazzi e ragazze i quali, mentre frequentano le scuole superiori e sentono che le loro vite sono senza speranza, che nessuno si occuperà di loro, che nessuno si impegnerà per loro e che nessuno si scomoderà per loro, sono pieni di disperazione al punto da impiccarsi, spararsi e uccidersi, non penso sia accettabile e ritengo che gli Stati Uniti d’America e il popolo americano, noi tutti, possiamo fare molto, molto di più. E mi candido per questa ragione; corro per la presidenza perché ho visto uomini fieri sulle colline dell’Appalachia, uomini che desiderano semplicemente lavorare con dignità, ma non possono, perché le miniere sono state chiuse, il loro lavoro non c’è più e nessuno, né l’industria, né il sindacato, né il governo, se ne è preoccupato a sufficienza da aiutarli. Penso che noi, in questo Paese, con lo spirito generoso che c’è qui negli Stati Uniti, possiamo fare meglio.

Ho visto la gente del ghetto nero ascoltare promesse sempre più grandi di eguaglianza e di giustizia, mentre in realtà siedono ancora nelle stesse scuole fatiscenti e si accalcano nelle stesse stanze sudicie, senza riscaldamento, difendendosi dal freddo e dai topi. Se riteniamo che noi, in quanto americani, siamo legati insieme da una comune preoccupazione gli uni per gli altri, allora incombe un’urgente priorità nazionale. Dobbiamo iniziare a porre fine alla vergogna di quest’altra America. E questo è per noi, come individui e come cittadini, uno dei grandi compiti da assegnare quest’anno alla leadership. Ma pur impegnandoci a cancellare

la povertà materiale, abbiamo un altro compito, ancora più grande, che è di confrontarci con la povertà di soddisfazione – negli scopi e nella dignità – che ci affligge tutti.

Con troppa insistenza e troppo a lungo sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro Pil ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel Pil – se giudichiamo gli Usa in base a esso – comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, e i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che

rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani. n

DISCORSO IN ONORE DI MARTIN LUTHER KING

lndianapolis, 4 aprile 1968

Signore e signori, questa sera sono qui per parlare un paio di minuti soltanto. Perché [...] ho una notizia molto triste per voi, e credo una notizia triste per tutti i nostri concittadini americani, e per coloro che amano la pace in tutto il mondo.

Martin Luther King ha dedicato la sua vita alla causa dell’amore e della giustizia per tutti gli esseri umani, ed è morto proprio a causa di questo suo impegno.

In questo momento così difficile per gli Stati Uniti, dovremmo forse chiederci che tipo di nazione rappresentiamo e quali sono i nostri obiettivi.

Può certo esserci amarezza, odio, e desiderio di vendetta tra le persone di colore che si trovano tra voi, viste le prove che ci sono dei bianchi tra i responsabili dell’assassinio.

Possiamo scegliere di muoverci in questa direzione come nazione, in una ulteriore polarizzazione, dividendoci neri con neri, bianchi con bianchi, pieni di odio gli uni verso gli altri. O possiamo invece fare uno sforzo per capire, come ha fatto Martin Luther King, e sostituire

a questa violenza, a questa macchia di sangue che si è allargata a tutto il Paese, un tentativo di comprendere attraverso la compassione e l’amore.

A quelli di voi che sono tentati di lasciarsi andare all’odio e alla sfiducia verso i bianchi per l’ingiustizia di quello che è accaduto, posso soltanto dire che provo i loro stessi sentimenti in fondo al mio cuore. Ho avuto anch’io qualcuno della mia famiglia ucciso, anche se da un uomo bianco come lui.

Ma dobbiamo fare uno sforzo negli Stati Uniti, dobbiamo fare uno sforzo per comprendere, per superare questi momenti difficili.

Il mio poeta preferito è Eschilo. Egli scrisse: “Anche mentre dormiamo, il dolore che non riesce a dimenticare cade goccia a goccia sul nostro cuore fino a quando, pur nella nostra disperazione e persino contro la nostra volontà la saggezza prevale attraverso la grazia di Dio”.

Non abbiamo certo bisogno di divisioni negli Stati Uniti, non abbiamo bisogno di odio, né di violenza o anarchia. Abbiamo invece bisogno di amore e saggezza, compassione gli uni verso gli altri, e di un sentimento di giustizia verso tutti coloro che ancora soffrono nel nostro Paese, siano essi bianchi o neri.

Questa sera vi chiedo quindi di tornare alle vostre case e di dire una preghiera per la famiglia di Martin Luther King. Ma, cosa ancora più importante, vi chiedo di dire una preghiera per il nostro Paese che tutti amiamo, una preghiera perché

possiamo provare quell’amore e quella compassione di cui parlavo poco fa. Possiamo fare molto nel nostro Paese. Ci saranno indubbiamente momenti difficili. Ne abbiamo avuti in passato e ne avremo sicuramente in futuro. Non siamo ancora, purtroppo, alla fine della violenza, dell’anarchia e del disordine.

Ma la grande maggioranza dei bianchi e dei neri di questo Paese vuole migliorare la qualità della nostra vita e vuole giustizia per tutti gli esseri umani che vivono nella nostra terra.

Dedichiamoci a perseguire quello che i greci scrissero tanti anni fa: domare la natura selvaggia dell’uomo e rendere gentile la vita in questo nostro mondo.

Dedichiamoci a questo, e diciamo tutti una preghiera per il nostro Paese e per la nostra gente. Grazie. n

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