Lookout magazine n. 11 - dicembre 2013

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2013 UN ANNO DI CRONACHE DAL MONDO


IDEE PER L’AMBIENTE. DAL1988. GESTIONE IMPIANTI ECOLOGICI ENGINEERING AMBIENTALE BONIFICHE

Progest opera nel campo dell’ingegneria industriale e ambientale, del consulting specialistico e dei servizi reali, sviluppati nella sfera professionale dell’ambiente e della sicurezza sul lavoro. Nel corso degli anni la società ha avuto l’opportunità di confrontarsi con i principali committenti operanti sul territorio nazionale divenendo in breve tempo una struttura di riferimento per ciò che concerne le problematiche dei settori “Ambiente e Sicurezza”. Oggi Progest, grazie ad un progressivo percorso di specializzazione e ad un team tecnico accuratamente selezionato e qualificato, è in grado di offrire ai propri Clienti attività di Global Service per la risoluzione di ogni tipo di problematica in tema di ambiente e sicurezza.

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inbox il direttore editoriale risponde

Il Cile, la Bachelet e i militari Il Cile è un Paese splendido. Il guaio di questa nazione e del resto del Sud America è di avere sempre il fiato dei militari sul collo. Il fatto che Michelle Bachelet possa governare per un secondo mandato non è cosa da poco. Francesco Atzeni Non credo che il Cile di oggi abbia “il fiato dei militari sul collo”. Le forze armate cilene sono perfettamente integrate all’interno della società e non dobbiamo dimenticare che lo stesso Pinochet, pur essendo andato al potere con un colpo di stato, ha lasciato pacificamente il governo dopo essere stato sconfitto alle elezioni.

Caos libico, tremano le compagnie occidentali Si sono voluti sbarazzare di Gheddafi? Adesso ne pagheranno le conseguenze. Maria Clara Mussa, direttore responsabile Cybernaua Fin dal primo numero noi abbiamo criticato l’avventurismo occidentale, che in nome di una pulsione neocolonialista ha apertamente appoggiato quelle primavere arabe che sono tutte fallite. L’Occidente è intervenuto in armi in appoggio di una rivolta della quale non si erano comprese le motivazioni. Siamo andati in Libia con i nostri aerei, le nostre forze speciali e i nostri droni e abbiamo fatto uscire tutto il dentifricio dal tubetto. Adesso sarà difficile rimetterlo dentro.

Uranio impoverito o vaccini: di chi è la colpa? Non sono affatto d’accordo sulla non pericolosità dell’uranio impoverito. Centoventidue Paesi dell’Onu lo hanno considerato pericoloso. Inoltre, il parlamento europeo ha espresso una precisa presa di posizione contro il suo impiego con la risoluzione del 22 maggio 2008. Anche i vaccini possono presentare pericoli (alcuni sono stati ritirati dal commercio) ma certamente le migliaia di residenti civili, ad esempio nei Balcani e in Iraq, che sono stati colpiti da gravi malattie, non sono stati certamente vaccinati da personale italiano, né con vaccini impiegati per le missioni all’estero dall’Italia. Sostenere che la gravissima situazione italiana (dovuta principalmente dalla mancanza tempestiva di misure di protezione) sia dovuta esclusivamente ai vaccini, e non all’uranio impoverito e ad altri fattori patogeni, è semplicemente privo di senso. Falco Accame, presidente Anavafaf I dati scientifici sull’uranio impoverito ci dicono che i lavoratori delle fabbriche di munizioni che trattano questo isotopo non mostrano particolare tendenza ad ammalarsi di neoplasia. Lo stesso vale per i soldati di altri contingenti, impegnati negli stessi teatri nei quali hanno operato militari italiani poi ammalatisi. Il presidente milanese di una ONG che ha lavorato a Baghdad per oltre sette mesi, poco dopo il suo ritorno in Italia si è ammalato di mesotelioma pleurico, un tumore riconducibile all’esposizione all’amianto. Ebbene, poco prima di morire ci ha raccontato che l’80% dei tetti delle abitazioni della capitale irachena erano costruiti in eternit. È quindi verosimile che l’esposizione alle fibre di asbesto possa essere una delle cause dell’incremento di morbilità nelle truppe impegnate sul terreno. Anche i dati epidemiologici degli abitanti del Salto di Quirra non mostrano particolari deviazioni dalla norma in tema di mortalità per patologie riconducibili all’esposizione alle radiazioni. Nel nostro articolo non abbiamo espresso certezze ma soltanto dubbi. Il dubbio principale, in tema di uranio impoverito, resta quello di aver inseguito il nemico sbagliato.

Anno I - Numero 11 - dicembre 2013

DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi @luciotirinnanzi redazione@lookoutnews.it

EDITORE G-Risk - CEO Giuseppe De Donno Via Tagliamento, 25 00198 Roma Tel. +39 06 8549343 - Fax +39 06 85344635 segreteria_grisk@grisk.it - www.grisk.it

REDAZIONE Rocco Bellantone Dario Scittarelli Cristiana Era Marta Pranzetti

DIRETTORE SCIENTIFICO Mario Mori

ART DIRECTION Francesco Verduci

DIRETTORE EDITORIALE Alfredo Mantici direttore@lookoutnews.it

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LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

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L’editoriale

Un anno con LookOut News

È

trascorso quasi un anno dal quel 21 dicembre del 2012 quando LookOut News prese vita. Da quel giorno, mese dopo mese, la platea dei nostri lettori si è costantemente ampliata. Una platea molto selezionata e selettiva, costituita da persone che ci tengono a essere costantemente aggiornate sui principali eventi mondiali. Lettori attenti, che in media consultano il nostro giornale in maniera approfondita, e che ci inviano commenti positivi o negativi che siano, sempre frutto di un’attenzione critica e intelligente. In questo anno di lavoro LookOut News è cresciuto e continua a crescere. Abbiamo aumentato il numero dei nostri corrispondenti dall’estero e dei nostri collaboratori esterni e, in controtendenza con un mercato del lavoro che sul piano occupazionale penalizza i giovani, abbiamo acquisito nuove risorse umane e professionali. Il 2013 è stato un anno molto complicato sotto il profilo della geopolitica, della sicurezza internazionale e dell’economia. Noi abbiamo tentato di “coprire” tutti gli eventi più importanti sia sul piano dell’informazione che sotto il profilo dell’analisi degli eventi e dei fenomeni a essi connessi. Nel nostro lavoro abbiamo sempre evitato di inforcare gli occhiali dell’ideologia e di seguire per convenienza il mainstream giornalistico. Quando tutti prevedevano l’imminente caduta di Assad, abbiamo invitato alla prudenza. Mentre il giornalista collettivo allarmava i suoi lettori sulla crisi tra Iran e Israele - sempre sull’orlo di esplodere in modo irreparabile - noi abbiamo raccontato della fredda e razionale cautela con la quale Tel Aviv ha seguito le mosse degli Ayatollah. E per questi motivi che abbiamo pensato di proporvi per la fine di questo 2013 un numero speciale del nostro mensile, contenente una rassegna degli interventi più significativi che abbiamo pubblicato nel nostro primo anno di vita, non solo allo scopo di ripercorre con voi i momenti salienti di questi dodici mesi ma anche per dimostrare che abbiamo adempiuto al nostro slogan con il quale ci siamo presentati: “Il mondo che nessuno vi racconta”. Il successo editoriale che abbiamo avuto ci ha consolidato e ci permette adesso di aprirci a nuove avventure delle quali vi parleremo nei prossimi mesi. Intanto, fin dal prossimo numero, troverete una nuova sezione intitolata “Società”: questo perché il web consente di analizzare nel dettaglio il rapporto tra prodotto editoriale e utenti. Abbiamo notato dei picchi di interesse quando sia sul nostro quotidiano che sul magazine abbiamo affrontato temi caldi della vita sociale e politica del nostro Paese. Per questo nei prossimi numeri troverete inchieste sui temi più scottanti che interessano l’Italia, che saranno sempre condotte con rigore scientifico, mirando a dar voce a tutte le principali opinioni e a concedere il dovuto spazio anche alle “altre campane”. Arrivederci quindi a tutti nel prossimo 2014, per trascorrere un altro anno con LookOut News.

Mario Mori


anno I - n. 0 gennaio 2013

L’inverno delle priMaVere Dalla Sharia in Egitto al conflitto in Siria. I frutti avvelenati delle rivoluzioni arabe

sicUreZZa

Elezioni in Egitto |

geopolitica

Il nuovo corso cinese |

econoMia

Il gas del futuro


nUMero

Zero gennaio

2013

Egitto ovvero il caso-scuola di quegli accadimenti che passeranno alla storia come “primavere arabe”: dall’infelice Costituzione voluta dal presidente Mohammed Morsi al previsto insuccesso di una rivoluzione a metà, che dopo poco più di un anno avrebbe generato nuove e più pesanti instabilità in tutto Medio Oriente. E poi i droni, il mezzo più abusato dagli Stati Uniti per condurre la guerra al terrorismo, oggi non a caso ancora al centro di feroci critiche internazionali, con dubbi sulla costituzionalità e sull’opportunità d’impiego in campo militare. Per questa raccolta, abbiamo selezionato due articoli: lo shale gas, la nuova frontiera energetica che sta ridisegnando la geopolitica e la geo-economia del pianeta, e la Siria, dove affrontavamo le ragioni per cui Assad non sarebbe caduto presto.


nUMero

Zero gennaio

2013

Siria |

Perché il regime non cade

L

a guerra civile siriana vede principalmente contrapposti gli alawiti minoranza che governa il Paese da oltre quarant’anni - e i sunniti, che costituiscono la maggioranza della popolazione. Si tratta di due comunità religiose, ma è bene chiarire subito che la natura del conflitto non è confessionale, ma economica. Infatti, tutti i settori nevralgici della vita del Paese - dalla politica alle alte sfere militari, fino al sistema produttivo e alle telecomunicazioni - sono controllati dalla minoranza alawita. La maggioranza sunnita - se si escludono le famiglie di imprenditori - si trova invece in una posizione di totale sudditanza. Bisogna tuttavia considerare che il pugno di ferro del regime, nonché l’impostazione laica e socialista conferita alla Siria dagli Assad, ha avuto, negli anni, il merito di ridurre al minimo la conflittualità all’interno della nazione. È per questo motivo che oggi molte minoranze, come i cristiani e i drusi, temendo di diventare vittime di un conflitto settario qualora i sunniti - e con loro i Fratelli Musulmani - dovessero salire al potere, continuano a essere in favore del regime. Ma anche le famiglie sunnite che hanno dato vita ad attività nel commercio e nell’industria vedendo qualsiasi cambiamento come una minaccia ai privilegi acquisiti durante il regime alawita, sono schierate con gli Assad.

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LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

Nonostante la guerra civile sia alimentata dai dissidi tra la minoranza alawita al potere e la maggioranza sunnita, la natura del conflitto siriano resta prettamente economica

Sul versante militare, poi, se è pur vero che le truppe sono in prevalenza sunnite, va tenuto presente che le loro sorti sono legate al mantenimento in vita del regime stesso. Quindi, malgrado le numerose defezioni, molti soldati, sebbene sunniti, continuano a difendere la minoranza alawita al potere. Sul fronte internazionale, il Qatar e l’Arabia Saudita sono in prima linea nel sostenere la ribellione contro gli Assad, finanziando rifornimenti di armi all’opposizione siriana nel tentativo di limitare l’ascesa iraniana nella regione. Fondamentale, inoltre, è il ruolo della Turchia, che, offrendo asilo ai disertori dell’esercito siriano, ha reso possibile la costituzione della Free Syrian Army, che dall’ottobre 2011 conduce azioni militari in difesa delle principali città ribelli, come Hama e Homs.

Al lato opposto dello scacchiere sono posizionate Russia, Cina e la Repubblica Islamica dell’Iran. La Russia - oltre a fornire armi e missili alle forze alawite - vuole mantenere l’accesso al porto di Tartus, unico sbocco sul Mediterraneo per la sua flotta. Russia e Cina, nel febbraio 2012, in veste di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (e quindi con diritto di veto), hanno bocciato la risoluzione proposta dalla Lega Araba per allontanare Bashar Assad e portare la Siria alle sue prime libere elezioni. La Repubblica Islamica è invece legata al regime degli Assad attraverso una solida alleanza nata nel 1980 in seguito all’invasione irachena dell’Iran. Con il fallimento della missione di peacekeeping dell’ONU (aprile-agosto 2012) è proprio la Repubblica Islamica - che, attraverso la Siria, fornisce supporto a Hezbollah in Libano e ad Hamas nella Striscia di Gaza - a costituire l’ostacolo principale a un intervento internazionale decisivo contro gli Assad, insieme alla presenza di numerose formazioni jihadiste schierate dalla parte dei ribelli. (di Dario Scittarelli)


gennaio 2013

USA |

I

Shale gas: l’ultima frontiera

l 21 novembre il Parlamento Europeo ha approvato (con 492 voti favorevoli, 195 contrari e 13 astenuti) due risoluzioni in materia di sfruttamento del petrolio e del gas da scisti, in base alle quali si è attribuito a ciascuno stato membro il diritto di decidere in materia di esplorazioni e sfruttamento. È stato invece bocciato l’emendamento che chiedeva la messa al bando della tecnica di frantumazione idraulica, necessaria per liberare il gas imprigionato nei sedimenti rocciosi. Le risoluzioni contengono anche l’invito ad approntare una vigorosa legislazione che limiti gli effetti ambientali dell’estrazione del gas da scisti quali: il frastuono dei pozzi, il consumo di acqua e di suolo, l’inquinamento delle falde profonde e delle acque di superficie e l’inquinamento del paesaggio. In particolare, le risoluzioni si soffermano sulla necessità di disciplinare rigorosamente il consumo di acqua (2300-4000 metri cubi a pozzo) e di additivi chimici, attualmente segreti, usati nelle miscele per la frantumazione idraulica. Lo shale gas è un cosiddetto “gas non convenzionale”, ovvero gas localizzato in bacini scarsamente permeabili, a profondità comprese tra 1500 e 2500 metri. Per l’estrazione viene utilizzata una tecnica messa a punto dalla Mitchell Energy and Development Corporation, che prevede - una volta raggiunto lo strato di roccia scistosa e rivestito il pozzo con cemento e materiali conduttori, in genere acciaio - trivellazioni orizzontali (horizontal drilling) per centinaia di metri e la produzione di microfratture nelle rocce con impulsi elettrici ad alta tensione. Nell’ultima fase della trivellazione, viene iniettata nel pozzo una miscela di acqua (oltre 90%), sabbia (9%) e additivi chimici, con lo scopo di fratturare definitivamente le rocce (hydraulic fracturing) e consentire al gas intrappolato di fluire ad alta pressione verso la superficie. Insieme al gas

L’estrazione del gas da scisti potrebbe avviare un nuovo boom economico, mutando gli scenari geopolitici e mitigando gli effetti sull’ambiente. La sfida è iniziata

in pressione, una quota compresa tra il 15 e il 60% della miscela usata per la frantumazione idraulica rifluisce in superficie, mentre la parte restante resta imprigionata in profondità. Nel 2011, l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha identificato 48 bacini di gas da scisti in 32 diversi Stati, per un totale di 70 grandi formazioni, pari a 187.000 miliardi di metri cubi (mmc) attualmente estraibili, con riserve stimate in 624.000 mmc (risked gas in place). I giacimenti di gas da scisti sono concentrati in Cina, USA, Argentina, Messico e Canada. Attualmente, il maggior produttore di gas non convenzionale sono gli USA, dove lo shale gas costituisce circa il 37% della produzione totale di gas naturale. Il costo di estrazione dello shale gas negli USA va da 3,74 $/Mbtu per il pozzo Marcellus (Pennsylvania) a 5,18 $/Mbtu per il pozzo Barnett (Texas). Negli Stati Uniti, in seguito alla messa a coltivazione dei giacimenti di shale gas il prezzo del gas è passato da 7/8$ (2008) a 3$ (2012) per mcf (milione di piede cubico), mentre la dipendenza dalle importazioni, in particolare di gas naturale liquefatto, si è notevolmente ridotta.

La IEA (International Energy Agency) prevede che entro il 2015 gli USA sopravanzeranno la Russia, diventando così il primo produttore mondiale di gas naturale, a un prezzo pari a 1/5 di quello europeo. L’estrazione su vasta scala del gas da scisti negli USA ha avuto effetti positivi non solo sull’indotto e le industrie collegate dei trasporti, delle abitazioni e della produzione di energia, ma anche sulle produzioni industriali, un tempo ritenute mature o trasferite all’estero (chimica, fertilizzanti, acciaio, alluminio, pneumatici, plastiche, vernici e giocattoli) che, viceversa, stanno investendo per decine di miliardi di dollari. In Europa il gas, che può essere acquistato su mercati spot o con contratti indicizzati legati al prezzo del petrolio, ha un prezzo mediamente superiore di 3-4 volte che in USA. Nonostante ciò, la produzione di gas non convenzionale è modesta (alcuni milioni di mc), anche se a partire del 2009 si è assistito a una ripresa delle esplorazioni, in particolare in: Polonia, Austria (bacino di Vienna), Francia (bacino di Parigi e bacino del Sud-Est), Germania-Olanda (bacino del Mare del Nord), Svezia e UK. In conclusione, l’estrazione di gas da scisti, che potrebbe anche avviare un nuovo boom economico, pone tuttavia importanti sfide che vanno dai nuovi scenari geopolitici, al miglioramento delle tecniche di estrazione, alla mitigazione degli effetti sull’ambiente e sulla salute umana, alla revisione delle strategie di approvvigionamento per i Paesi a elevata dipendenza energetica. (di B. Woods)

LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

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anno I - n. 1 febbraio 2013

La pistola fUMante Successi e segreti dell’intelligence cubana, da Dallas al Venezuela sicUreZZa

La frontiera dei Patriot

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geopolitica

La minaccia di Boko Haram

|

econoMia

UK e Tobin Tax


nUMero

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febbraio

2013

Ben prima che il mondo celebrasse il cinquantesimo anniversario del suo assassinio, abbiamo voluto parlare di John fitzgerald Kennedy, icona intramontabile del Novecento dominato dagli Stati Uniti, e di quella pista che sinora era rimasta la meno battuta, per far luce sul suo attentato: una pista che porta dritto alla Cuba di fidel castro. Uno sguardo attento anche al narcotraffico latinoamericano, di cui poco si parla ma che sta conoscendo mutamenti rilevanti, accompagnati da una stagione di sangue senza precedenti. Per questa raccolta, abbiamo scelto il “caso Kennedy” e una riflessione intorno al sistema delle lobby, dove ci domandiamo le ragioni per cui in Italia questa parola è ancora così indigesta.


nUMero

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febbraio

2013

Cuba |

Il servizio cubano e il “caso Kennedy”. Coincidenze imbarazzanti

I

servizi cubani nascono durante la rivoluzione castrista: nel 1958 il fratello di Fidel, Raul Castro istituì il SIB (Servicio de Intelligencia Basica), al cui comando venne posto il capitano Ramiro Valdes Menendez e i cui compiti erano due: scoprire i traditori nelle file della rivoluzione che passavano informazioni alla polizia governativa di Batista, e infiltrare i ranghi della polizia e dell’esercito di Batista, per acquisire informazioni sui piani governativi e tentare di influenzarli a favore della rivoluzione. Come si può notare, i castristi avevano le idee molto chiare sui compiti di un servizio segreto moderno: spionaggio, controspionaggio, controllo e manipolazione del processo decisionale dell’avversario. Il 10 gennaio del 1959, appena due settimane dopo la vittoria della Rivoluzione, Castro nominò Valdes capo del Departamento de Inteligencia del Ejercito Rebelde (la prima delle nuove sigle...), che stabilì la propria sede in un enorme e moderno compound dell’Avana, da allora conosciuto con il nome “Direttorato”. Il settore, in continua espansione fin dal marzo dello stesso anno, venne posto sotto la duplice competenza del Ministero delle Forze Armate Rivoluzionarie e del Ministero degli esteri. A partire dal 1960, visti i rapporti eccellenti stabiliti tra il

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LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

Lee Harvey Oswald è al centro di una storia che incrocia la scuola dei cubani di Minsk, il colonnello del KGB Prusakov e la moglie di Lee. Tutto questo alla vigilia dell’attentato a Dallas

regime castrista e l’Unione Sovietica, i funzionari dei servizi cubani vennero presi sotto l’ala protettrice del KGB, che si curò dell’istruzione e dell’addestramento dei funzionari delle nuove strutture di sicurezza cubane. Una delle scuole utilizzate per l’addestramento intensivo dei cubani era situata a Minsk e dal 1960 ha curato l’addestramento di trecento agenti castristi ogni tre anni (durata media dei corsi avanzati). Un dato curioso - che potrebbe spalancare la porta a nuove teorie del complotto sull’assassino del presidente Kennedy (Dallas, 22 novembre 1963) - è dato da una strana catena di circostanze, quantomeno sorprendenti: la scuola dei cubani era situata in via Ulianova a Minsk. Nel ’61-’62 risiedeva a Minsk, nell’edificio accanto

alla scuola, anche Lee Harvey Oswald, l’uomo che un anno dopo avrebbe sparato al presidente Kennedy. Non solo: il direttore della scuola di addestramento era il colonnello del KGB Ilya Vasilievich Prusakov, zio di Marina Prusakova, ovvero la ragazza che fu presa in moglie da Oswald e che lo avrebbe seguito negli Stati Uniti proprio alla vigilia dell’attentato di Dallas. Secondo le testimonianze di defezionisti dei servizi dell’Avana che parteciparono ai corsi di via Ulianova - e secondo quanto lasciato scritto dallo stesso Oswald nel suo diario - molti giovani cubani strinsero amicizia con il giovane americano, che manifestava simpatie per Cuba e per Castro e che trascorreva, senza spiegazioni accettabili al riguardo, un periodo di


febbraio 2013

soggiorno in Unione Sovietica; non per motivi di studio o di lavoro ma piuttosto “per diporto” (in piena guerra fredda?). Queste strane circostanze che sembrano collegare Oswald, i giovani “studenti” cubani e lo zio della sua futura moglie nonché colonnello del KGB, diventano ancora più strane se le si collega a un dato oggettivo riferito da Brian Latell (un funzionario Cia che ha diretto il desk Cuba negli anni ’70 e ’80) e rilevato dalle stazioni di intercettazione della National Security Agency americana il 22 novembre del 1963, nelle ore che precedettero l’assassinio di Kennedy. In quel lasso di tempo, il traffico radio istituzionale tra Cuba e le ambasciate nel resto del mondo si ridusse drasticamente, mentre venne registrato un contestuale, incomprensibile e massiccio incremento del traffico radio tra la capitale cubana e Dallas, e viceversa. Non è questa la sede per riaprire il dibattito sul caso Kennedy e sulle tante contraddizioni che hanno segnato il lavoro degli investigatori e della Commissione Warren. Ma se le coincidenze non bastano a illuminare i misteri di Dallas, esse possono tuttavia essere sufficienti a indurci a guardare con sospettoso rispetto alla possibile, micidiale, capacità operativa dei servizi cubani e dei loro maestri sovietici. Di questa capacità è stata d’altronde offerta testimonianza in tutte le sedi, istituzionali e giornalistiche, nelle quali è stata data voce ad esuli cubani, già agenti dell’intelligence castrista. (de Il Grigio)

Lobby: una parolaccia, solo in Italia

S

econdo John Kennedy: “il lobbista è colui che mi fa capire in tre minuti quello che i miei collaboratori mi spiegano in tre giorni”. Il lobbista in una democrazia avanzata altri non è che il consulente di clienti appartenenti a tutte le categorie produttive, che presta la sua opera per contribuire in modo legittimo al processo decisionale politico, con informazioni e analisi che ambiscono a illustrare temi ritenuti degni di essere inseriti nelle dinamiche legislative o a influenzare lecitamente iter amministrativi complessi. Solo in Italia questa attività è considerata “borderline”, ai confini della legalità. Perché? La risposta è molto semplice: perché non è regolamentata. Negli Stati Uniti i lobbisti, fin dalla loro comparsa nella seconda metà dell’ottocento - nella Lobby del Willard Hotel dove alloggiava, prima di trasferirsi alla Casa Bianca, il presidente Ulysses Sam Grant - sono stati autorizzati a operare come gruppi di pressione e consulenza con varie leggi, l’ultima delle quali è lo Ethics Government Act del 1978 che garantisce a questi professionisti di operare alla luce del sole, all’interno di rigidi confini di legalità. A Bruxelles esiste un albo ufficiale di lobbisti autorizzati a operare nell’ambito delle strutture comunitarie. Secondo Il Sole 24 Ore, oggi in Italia sono attivi circa 1.500 professionisti del lobbying che lavorano al di fuori di qualsiasi regola e muovono un giro d’affari di circa 150 milioni di euro. Perché nel nostro Paese non si affronta questo problema una volta per tutte? Perché mettere in contatto in modo trasparente piccole, medie e grandi imprese con i decisori politici e con i vertici delle amministrazioni, deve continuare ad essere opera di “faccendieri”? Cercare di fare buone e chiare leggi col contributo di rappresentanti professionali di legittimi interessi imprenditoriali deve per forza essere fatto attraverso canali sotterranei? Perché non si prende atto a livello legislativo che è proprio la mancanza di regole che favorisce i traffichini e le

P4? La risposta a queste domande potrebbe essere imbarazzante: in primo luogo si tratta evidentemente di inerzia legislativa, forse motivata dalla paura di un confronto con un’opinione pubblica alla quale finora il lobbismo è stato presentato con forti accenti negativi. In secondo luogo, perché forse si preferisce continuare a operare in un’area grigia dove c’è sempre spazio, in assenza di regole, per la corruzione e per la concussione. “Conoscere per decidere” dovrebbe essere il cardine fondamentale per l’azione legislativa. Ma per “conoscere” è essenziale che il legislatore disponga delle giuste informazioni, anche provenienti da settori legittimamente interessati e non solo dagli uffici amministrativi o dai gabinetti dei ministri, con le quali regolare la vita e lo sviluppo del Paese. Utilizzare a questi fini dei professionisti legalmente riconosciuti (e quindi facilmente controllabili) non può che contribuire a migliorare l’operatività del parlamento e la morale pubblica. La democrazia teme giustamente ciò che non viene fatto alla luce del sole. La regolamentazione di un’attività professionale che, finché resterà nella sua area grigia ai confini della legalità continuerà a prestare il fianco ad accuse di “piduismo”, è necessaria e urgente anche da noi. D’altronde, in Italia molte iniziative produttive sono state sviluppate al di fuori di una cornice legislativa, con pessimi risultati anche di immagine: ricordate le TV private? Sono andate avanti per anni senza una riga di regolamento o di legge. Così il lobbismo: uno strumento d’informazione e consulenza che, se utilizzato alla luce del sole, non può che migliorare il processo legislativo, anche quando vuole sostenere in modo trasparente legittime istanze del mondo della produzione e delle professioni. Se questa attività verrà condannata a restare nell’ombra, l’assenza di regole non potrà che favorire portatori di interessi ambigui, logge e cricche più o meno segrete e il lobbismo “proibito” continuerà a essere un fattore di inquinamento della nostra democrazia.

LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

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sicUreZZa

“Guerra fredda” Israele-Iran |

geopolitica

L’altra verità su Abbottabad |

econoMia

Il rapporto globale sul clima

anno I - n. 2 marzo 2013

Trema la finanza internazionale

La nuova guerra di

obaMa


nUMero

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MarZo

2013 Oggi è sotto gli occhi di tutti quanto il gigante americano abbia vacillato pericolosamente, a causa di una gestione spregiudicata dell’economia e soprattutto della finanza, giudicata da molti “fuori controllo”. Il presidente degli Stati Uniti, barack obama, al centro del potere ma anche delle critiche, voleva fare della lotta a Wall Street una bandiera ma, in parte, siamo ancora dov’eravamo rimasti. Così come resta congelato anche il piano israeliano per un attacco preventivo a Teheran, che qui abbiamo descritto, e che oggi è tornato di estrema attualità, nonostante i tavoli della pace per arrestare la proliferazione nucleare degli ayatollah. Per questa raccolta, oltre al “giorno del giudizio” del presidente Obama sulla finanza, abbiamo inserito un profilo della poco nota Muttawa, ovvero il corpo di sorveglianti della virtù e della prevenzione del vizio dell’Arabia Saudita.


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USA |

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Il giorno del giudizio

unedì 5 Febbraio 2013 il Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti d’America ha citato in giudizio per frode, presso la Corte Federale di Los Angeles (California), la maggiore delle agenzie di rating americane ovvero Standard & Poor’s (S&P). L’accusa, lanciata direttamente dal Procuratore Generale, Eric Holder primo afroamericano a rivestire questo ruolo - riporta che S&P “consapevolmente e con intento illecito ha congegnato, preso parte e realizzato un meccanismo volto a frodare gli investitori” in alcune attività finanziarie connesse ai mutui immobiliari. In particolare, S&P è accusata di aver manipolato i giudizi (rating) sui titoli garantiti da mutui a causa di un significativo conflitto d’interesse. L’attenzione del Dipartimento della Giustizia si è concentrata su un insieme di 40 CDO (collateralized debt obligation), cioè obbligazioni con collaterale rappresentato da pacchetti di cartolarizzazioni di mutui immobiliari, per il cui rating S&P ha ricevuto 13 mln di dollari. La difesa di S&P è che i suoi rating rappresentano delle opinioni indipendenti, che come tali sono protette dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, e che le valutazioni sono realizzate per mezzo di sofisticati software. Secondo il Dipartimento di Giustizia, invece, almeno nel caso dei 40 CDO, Standard & Poor’s è stata condizionata dall’obiettivo di accrescere i profitti e la propria quota di mercato, con il risultato di aver consapevolmente sottovalutato e ignorato i veri rischi impliciti nelle operazioni di rifinanziamento. Per queste ragioni, dopo essersi visto rifiutare un accordo per cattiva pratica da un miliardo di

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LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

Barack Obama, libero dai vincoli elettorali, ha dichiarato una nuova guerra. Gli obiettivi vanno da Wall Street all’intero mondo della finanza. Cos’ha in mente il Presidente?

dollari, il Dipartimento di Giustizia ha avanzato la richiesta di una sanzione di 5 miliardi di dollari per frode ai danni degli investitori (fondi pensione, banche, etc.). Mentre anche la Security and Exchange Commission (SEC - Commisisione di Controllo sulla Borsa) ha messo sotto inchiesta S&P per irregolarità, almeno una dozzina di Procuratori Federali ha manifestato l’intenzione di unirsi all’azione del Dipartimento di Giustizia. Infine, secondo fonti accreditate, una simile azione sta per essere intentata contro gli altri due colossi del rating: Moody’s e Fitch. A commentatori poco attenti, l’iniziativa di Eric Holder può apparire come inattesa, ma rileggendo le cronache degli ultimi anni si osserva che l’Amministrazione Obama ha sempre ritenuto che, nella crisi indotta dallo scoppio della bolla speculativa nel mercato immobiliare e il crack dei mutui subprime, ci sia stato qualcosa di più e di diverso che una sconsiderata euforia e sottovalutazione dei rischi. Tant’è che negli Stati Uniti sono state avviate numerose inchieste. Alcune di queste, come quella

condotta dal Permanent Subcommittee on Investigations del Senato, si sono concentrate sull’identificazione delle principali cause che hanno determinato il collasso economico-finanziario registrato nel 2008. Altre, come quelle condotte dalla Security and Exchange Commission e dalla Financial Fraud Enforcement Task Force, si sono concluse con una serie di patteggiamenti con le banche inquisite. L’azione contro S&P, primo atto della seconda amministrazione Obama, va allora letta in questa luce: dar seguito a quanto accertato dalle varie commissioni d’inchiesta e recidere i nodi oscuri - frode, inganno, comportamenti collusivi, etc. - che hanno prodotto la peggiore crisi mondiale dai tempi del ’29 nel secolo scorso. All’azione risarcitoria, l’amministrazione Obama ha unito un’imponente azione legislativa (il cosiddetto Dodd-Frank Act) volta a ripristinare le condizioni minime per un corretto esercizio dell’attività creditizia e finanziaria, nonostante le forti resistenze delle banche d’affari. In questo scenario, la richiesta di risarcimento contro S&P non è altro che il corollario, come qualche commentatore ha fatto notare, dell’enunciato che: troppo grandi per fallire non vuol dire troppo grandi per essere incriminate! Purtroppo, il colpevole silenzio su questi temi dell’Unione Europea, alle prese con i vagheggiamenti di Cameron e la definizione del nuovo bilancio, si rivela assordante. (di B. Woods)


MarZo 2013

Arabia Saudita |

P

attugliano le strade in gruppi di tre o quattro, spesso accompagnati da poliziotti in uniforme, nelle loro inconfondibili tuniche bianche e barbe lunghe, e richiamano all’ordine musulmani e non, quando un atteggiamento si discosta dai dettami della Sharia. Localmente noti come mutaween (da cui la traslitterazione, più comunemente usata, Muttawa), costoro sono i membri del Comitato (Haia) per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, un apparato sostenuto dal governo saudita e incaricato di sorvegliare che i precetti coranici vengano rispettati. Nello specifico, i mutaween possono intervenire per segnalare un abbigliamento non consono al codice islamico e per assicurarsi che la separazione tra i sessi sia rispettata; possono vietare il consumo di generi alimentari vietati dalla religione islamica (carne di maiale e bevande alcoliche) come anche l’utilizzo di prodotti contrari alla morale islamica (la Barbie e altri giocattoli d’importazione sono stati banditi dal Regno); hanno il potere di arrestare chiunque colto in flagrante di atti omosessuali, di fornicazione e di prostituzione, di proselitismo, di smercio di droga e di accertarsi che tutti i negozi chiudano per le cinque preghiere quotidiane. Ma l’abuso di potere e le violenze usate sui cittadini, a più riprese denunciate, hanno recentemente indotto il Re a ridurne l’autonomia, sottoponendo il Comitato a nuove stringenti direttive.

Muttawa, la “buoncostume” dell’Islam I sorveglianti della virtù e della prevenzione del vizio costituiscono l’ente moralizzatore saudita

Nel gennaio 2012 il Re Abdullah ne rimpiazzava, inoltre, il presidente, destituendo al-Humain, in carica dal 2009, e nominando Sheikh Abdullatif Abdulaziz al-Sheikh al suo posto. La mossa, giunta inaspettata, ha fatto pensare a una svolta in senso progressista impartita all’istituto della Muttawa, vista e considerata la reputazione di alSheikh quale pensatore moderato e più aperto del suo predecessore. Ma non dimentichiamo che i legami tra la casa dei Saud nell’establishment politico e quella degli Sheikh (discendenti di Muhammad Abdel Wahhab, fondatore della dottrina wahhabita) nell’establishment religioso sono molto radicati in un sistema che da oltre un secolo imbriglia le libertà dei cittadini. Nel giugno 2012, poi, la morte del Principe Nayef, ex Ministro dell’Interno e simbolo degli anni di ferro della sicurezza nazionale saudita, ha inferto un altro colpo alla polizia religiosa da lui sempre sostenuta con veemenza.

Ad oggi, episodi catastrofici dovuti alla negligenza o all’eccessivo zelo di alcuni membri del Comitato, come l’incendio in una scuola della Mecca nel 2002 o il fatale inseguimento automobilistico dello scorso luglio, restano casi isolati. Ma vi sono obiettivi che sembrano essere tallonati con maggiore fervore. Prime fra tutte le donne, le coppie sospettate di non essere sposate e le ricorrenze pagane degli stranieri presenti nel Paese: ogni anno nel giorno di San Valentino si acuiscono i controlli della polizia religiosa contro commercianti di fiori e dolciumi (che non possono esporre mercanzia di colore rosso) e contro la popolazione che più che mai deve astenersi dall’esibire pubblicamente gesti di affetto e intimità. Certo è che, negli anni, diverse situazioni sono state tollerate (un tempo era vietato anche l’uso della bicicletta o fumare in pubblico) e questo fa ben sperare relativamente ad alcune delle limitazioni tuttora vigenti, ma si tenga presente che il Comitato per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio rimane un’ingiunzione scritturale coranica e, in quanto tale in un Paese che proclama il Corano come Costituzione, difficilmente congedabile. (di Marta Pranzetti)

LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

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geopolitica

La guerra per il Continente Nero |

sicUreZZa

La Cina alla conquista del mondo |

econoMia

I danni del Fiscal Compact

anno I - n. 3 aprile 2013

Vogliono tutti

l’africa Dalla Cina all’Arabia Saudita fino a Mokhtar Belmokhtar, la primula rossa di Al Qaeda


nUMero

3

aprile

2013 Africa, la regione più maltrattata e violenta della terra. Abbiamo voluto raccontare la penetrazione araba e cinese nel grande continente, ma soprattutto tracciare un profilo dei nuovi signori della guerra che spadroneggiano lungo aree sterminate che non conoscono confini. Per questo, abbiamo messo in copertina e nella raccolta Mokhtar belmokhtar, simbolo dei peggiori trafficanti di uomini e armi che il mondo conosca e uomo chiave per comprendere chi siano i nuovi padroni di questa terra senza legge. Inoltre, un’analisi delle Isole Senkaku e del braccio di ferro per il controllo del Pacifico che, oggi ancor più di ieri, oppone la Cina a Giappone e Stati Uniti. Da questo numero, abbiamo estratto anche l’articolo riguardante il Fiscal Compact, il sistema che i tecnocrati di Bruxelles hanno imposto all’eurozona e che abbiamo visto nel tempo divenire sempre meno virtuoso.


nUMero

3

aprile

2013

Mali |

Belmokhtar, famoso o famigerato?

È

Tutti vogliono l’Africa. Gli interessi della regione sono enormi e, ad amministrare il caos, gli interessi divergenti e variegati, servono loro: i predoni delle guerre travestiti da terroristi

uno degli uomini più ricercati del mondo. È un terrorista. È uno jihadista di Al Qaeda. È un trafficante di armi. È al centro di una caccia all’uomo internazionale. È stato più volte dichiarato morto per poi riapparire. E oggi è scomparso di nuovo. No, non stiamo parlando di Osama Bin Laden ma della nuova icona del terrorismo qaedista: Mr. Marlboro, al secolo Mokhtar Belmokhtar. La sua immagine, come nella migliore tradizione iconografica dell’Islam, non era mai stata nota né riprodotta fino a poco tempo fa e, se non fosse per alcuni video diffusi negli ultimi mesi da Al Qaeda nel Maghreb Islamico che lo raffigurano guercio, con il classico mitra al fianco e la bandiera nera alle spalle inneggiante il Jihad - , non sapremmo neanche che volto ha. Sembra quasi che l’incognita del volto sia una volontà precisa da parte dei terroristi che si affacciano oggi nella scena internazionale e che questo schema venga volutamente riproposto dalla galassia qaedista: è vero che le immagini sia di Bin Laden sia di Al Zawahiri (il numero uno e due di Al Qaeda) siano state sovraesposte nel tempo e che le loro facce siano note ovunque, dall’11 settembre in poi. Però, anche Osama ha improvvisamente deciso di scomparire, e ciò è avvenuto molto tempo prima di essere scovato e ucciso. Quasi come se volesse imitare il Profeta che, velato nel volto, a un certo punto semplicemente scompare. E, comunque, Bin Laden e Al Zawahiri rappresentano ormai la “vecchia Al Qaeda” mentre la “nuova Al Qaeda” è poco colta: non comunica se non con i fatti, non teorizza ma agisce e sembra non amare affatto né i video né le esternazioni di alcun tipo, se non quando strettamente necessarie. Pare, insomma, prediligere sempre e comunque l’anonimato e l’irriconoscibilità dei propri leader, aggiungendo mistero e confusione sull’organizzazione e su chi siano davvero i suoi capi. Non si

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LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

dimentichi che, inizialmente, lo stesso Belmokhtar era alla testa di un gruppo noto come Al-Mulathameen, ovvero la “brigata dell’uomo mascherato”. Casomai, oggi è il voyeurismo dell’Occidente a spingere costantemente l’opinione pubblica a desiderare di conoscere il volto del cattivo di turno, a vedere che faccia abbia il nemico pubblico numero uno: per gli americani, è così fin dai tempi del West, una tradizione che è proseguita con i vari John Dillinger e che arriva fino a oggi. Da quando è stato riconosciuto quale ideatore dell’attacco all’impianto di In Amenas in Algeria (suo Paese di nascita), Mokhtar Belmokhtar è diventato un’icona pop, ed è assurto improvvisamente a leader della “nuova Al Qaeda”, per poi sparire nuovamente come nel più classico dei copioni. Così, anche l’esercito del Ciad, che lo inseguiva fin dalla presa francese di Timbuctù a fine gennaio scorso, lo ha confuso più volte con altri combattenti e lo ha creduto morto insieme ad Abou Zeid nelle impenetrabili montagne nel nord del Mali, salvo poi essere smentito dai francesi stessi, che non hanno ancora riscontri ufficiali del suo decesso. Che sia defunto o meno durante i

pesanti scontri avvenuti ad Adrar Des Ifoghas (Mali), l’effetto che lui e gli altri “most wanted terrorist” hanno a livello emotivo sull’opinione pubblica, è devastante. Sì, perché la proliferazione di primule rosse nel giardino del terrorismo internazionale - ma soprattutto l’incertezza sulle loro sorti - comunica insicurezza al mondo e rende implicita la sconfitta dell’Occidente che è costretto a inseguire costantemente questi estremisti, come nel più classico dei film di guardie e ladri. E, ormai, il fantasma di Belmokhtar aleggia non solo nel Nord Africa ma è vivo anche in Europa, Francia in primis, dove l’allerta attentati è salita progressivamente dall’inizio della guerra. Che poi, è bene ricordarlo, Mokhtar Belmokhtar non è affatto un rivoluzionario né un ideologo né un fondamentalista che ha sposato la causa della guerra santa. È piuttosto un predone, un signore della guerra, un trafficante, un sequestratore. Insomma, non è un profeta del Jihad ma un bandito. Il fatto è che anche un bieco criminale può, a seconda della distorsione dell’informazione, assurgere a simbolo di una lotta. Ed è proprio quanto accade con Mr. Marlboro, che non a caso si è guadagnato una posizione grazie al traffico di sigarette in Algeria (non certo un curriculum da ideologo). Ad ogni buon conto, egli è oggi il simbolo delle contraddizioni e delle falle nel sistema della lotta al terrorismo internazionale. La miglior risposta a questa gente, che gestisce le molte terre di nessuno e che si nasconde dietro la parola Al Qaeda, sarebbe la cattura. (L.T.)


aprile 2013

Unione Europea |

C

on l’avvio dell’Unione monetaria, i vincoli imposti alla politica fiscale sono stati recentemente inaspriti con l’approvazione del Fiscal Compact. Il Patto Fiscale, che occupa l’intero titolo terzo del Trattato sulla Stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, parla un lessico rigorista portando all’estremo i parametri del Trattato di Maastricht (1991) e le disposizioni fiscali, già emanate nel Patto di stabilità e crescita del 1999. Introduce una specie di “golden rule” rafforzata, secondo cui il saldo di bilancio strutturale - ossia al netto dell’andamento del ciclo - non deve superare lo 0,5% del PIL, mentre la distanza fra la quota del debito sul PIL e la percentuale del 60% deve invece essere ridotta del 5% l’anno. L’egemonia tecnocrate di Bruxelles ha decretato, per intenderci, che il saldo di bilancio degli Stati dell’eurozona - includendo anche la spesa per gli investimenti - si chiuda in pareggio o quasi: un sentiero di convergenza rapida verso l’equilibrio dei bilanci nazionali. Tradotto significa che la compressione dei bilanci comporterà, per lo Stato italiano, l’impegno alla riduzione del debito pubblico di 45 miliardi di euro l’anno, per ben quattro lustri, nel tentativo di decrementare il rapporto debito/PIL dall’attuale 120 % (circa) fino alla soglia canonica del 60%. Il debito italiano rimane tra i più alti del mondo e la spesa pubblica esige di essere “aggredita e rimodellata”.

Il cappio del Fiscal Compact Tutte le difficoltà del Patto Fiscale e gli onerosi saldi di bilancio voluti dall’egemonia tecnocrate di Bruxelles per gli Stati dell’eurozona

È tristemente noto: le misure draconiane del trattato di stabilità fiscale impongono tetti rigidi di spesa ad economie in recessione per arrestare l’incremento dell’indebitamento pubblico. E, se ancora non bastasse, l’intarsio normativo tra il Trattato intergovernativo e le costituzioni nazionali, perfezionatosi in Italia con la modifica dell’art. 81 della Carta fondamentale, lascia deboli speranze ad eventuali retrocessioni. A conti fatti, dunque, non si può negare che il nostro destino sia ormai incatenato, in maniera indissolubile, a quello europeo. Del resto il Paese non era in grado di reggersi sulle proprie gambe e i tecnocrati montiani hanno pensato bene di affidarlo all’Europa germanocentrica che adesso ci fa sentire il fiato sul collo. I più sobillano che la cecità dei nostri governanti genererà politiche economicamente suicide, votate all’austerità perpetua. Atmosfere cupe, purgatoriali, che richiamano alla memoria gli acuminati versi danteschi “Ahi, serva

Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”. Solo che, per un curioso contrappasso ironico, questa volta un nocchiero l’Italia sembra averlo trovato, se non fosse che è un inflessibile autocrate. Ne è riprova il fatto che la cogenza delle norme viene affidata a minuziose procedure di controllo e severe misure sanzionatorie, volte proprio a garantire la corretta trasposizione dei principi pattizi. Infatti, qualora non venga data esecuzione alla sentenza emessa nei confronti del paese contraente, che non abbia rispettato i limiti di deficit fissati per i disavanzi eccessivi, la Corte di giustizia, su istanza di uno Stato membro, dispone l’applicazione di sanzioni finanziarie nei confronti del paese inadempiente. La misura sanzionatoria ammonta a un importo massimo equivalente allo 0,1% del PIL dello Stato trasgressore. E, per dirla tutta, nel caso dell’Italia la sanzione pecuniaria potrebbe ammontare a circa 15 miliardi di euro da versare al Fondo ESM, cd. fondo salva stati. Insomma il patto di stabilità assume, via via, i contorni di un robusto steccato cinto da rigidi paletti, dentro il quale il gregge di Eurolandia - stretto nella trappola - soffoca i mugugni e fa buon viso al cattivo gioco delle autocrazie tedesche e nord europee. (B. W.)

LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

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geopolitica

Tutti gli interessi di Ankara

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sicUreZZa

I pro e i contro dell’embargo

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econoMia

India: la tigre di carta

anno I - n. 4 maggio 2013

L’imperatore in cerca di

Un regno Recep Tayyip Erdogan: il premier turco che sogna l’Europa ma strizza l’occhio a tutta l’Asia


nUMero

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Maggio

2013

recep tayyip erdogan e il sogno impossibile della Grande Turchia: europea ma asiatica, islamica ma laica, grande potenza regionale ma confinata in un’area instabile. Il racconto della scommessa del potente premier di Ankara che sognava di diventare il nuovo imperatore ma che, per il momento, ha dovuto ridimensionare le proprie pretese. Così come l’India, la potenza emergente su cui in molti puntavano e che, come abbiamo provato a raccontare, è ben più debole di quanto non voglia apparire e che per il momento resta la tigre di carta di cui New Delhi non vorrebbe sentir parlare. Loro sono anche gli articoli estratti per questa raccolta.


nUMero

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Maggio

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Turchia |

S

Il nuovo eroe nazionale?

in dal suo insediamento nel 2002, la figura del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan non ha mancato di sollevare interesse, talvolta mista a preoccupazione, per la sua appartenenza a un movimento islamista, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP). La sua premiership è iniziata all’insegna della politica estera, sintetizzabile con “zero problemi con i Paesi vicini”. Politica successivamente rivista e corretta dallo stesso Erdogan, che ha così rivelato doti di raffinato pragmatismo politico. In politica interna, il premier turco ha proceduto a una progressiva emarginazione dei militari, che tradizionalmente e costituzionalmente hanno rappresentato un baluardo a difesa del laicismo dello Stato moderno voluto dal padre della patria, Mustafà Kemal Ataturk. La sfida ai militari, che può indicare la supremazia del potere civile liberamente eletto, ossia uno dei capisaldi democratici, può essere in realtà interpretata anche come uno scontro tra laicismo (non necessariamente democratico, visto che in passato i generali turchi hanno governato il Paese con colpi di stato e pugno di ferro) e l’islamismo, non sempre moderato, dell’AKP. Significativo è stato il 2011, quando centinaia di ufficiali sono finiti sotto processo (evento mai avvenuto prima nella storia della Turchia moderna) e i Capi di Stato Maggiore di Esercito, Forze dell’ordine e Aeronautica si sono dimessi, rimpiazzati da elementi meno ostili all’entourage del premier. L’intero processo giudiziario per cospirazione contro il governo, noto con il nome di “Ergenekon”, ha fatto finire in prigione, tra gli altri, l’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ilker Basbug, e ha ridotto al silenzio una gran parte delle Forze Armate.

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LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

Frustrate le aspettative di entrare nell’Unione Europea, Erdogan sogna un ruolo più incisivo a livello internazionale e si ritaglia la parte di “ago della bilancia” nello scenario mediorientale

Sotto la spinta iniziale di Fethullah Gülen - leader del movimento islamico Cemaat e vero ideatore del caso “Ergenekon” - Erdogan è riuscito a indebolire uno dei più consistenti eserciti della regione (oltre che della NATO) grazie allo scaltro utilizzo dello strumento della magistratura. Il Ceemat non è ufficialmente un movimento politico, ma rappresenta una vera “terza forza” nel Paese: grazie ai suoi 6 milioni di seguaci, al controllo di svariate testate giornalistiche e all’infiltrazione di propri adepti nelle file di polizia e magistratura. Con il suo supporto, l’AKP ha potuto vincere le elezioni e consentire a Erdogan di accrescere il proprio potere. Il rapporto di collaborazione, tuttavia, si è incrinato con l’acuirsi delle tensioni interne per gli eccessi giudiziari e per l’attacco diretto contro gli stessi uomini di Erdogan e contro i negoziati con il PKK, a cui il leader di Ceemat, Gülen, è sempre stato profondamente ostile. Questo ha indotto il premier turco a riavvicinarsi ai militari, perché evidentemente non li vuole eliminare ma solo indebolire. E non potrebbe essere diversamente:

quello turco è il secondo esercito più grande dell’Alleanza Atlantica, gode di prestigio e sostegno da parte della popolazione e, con un conflitto come quello siriano che preme ai confini, Erdogan è stato costretto sia a moderare le proprie posizioni sia a rivedere la politica dell’AKP. A ben vedere, Erdogan ha rivisto anche altre posizioni, più radicali, di un passato non troppo lontano: ha abbandonato l’amico siriano Bashar Assad, sostenendo il Libero Esercito Siriano e piazzando missili Patriot al confine; ha smorzato i toni antisemiti e si è riavvicinato a Israele; ha allentato i rapporti con l’Iran; sta, infine, espandendo la propria politica economica sia verso l’Asia che verso l’Africa, forte di un’economia in crescita e dell’immagine di “ago della bilancia” che pian piano si sta costruendo nella regione. In fin dei conti, quella di Erdogan è una visione moderna di una politica di stampo neo-ottomano e, se l’Unione Europea ha smorzato gli entusiasmi turchi per un accesso imminente, il governo di Ankara ha cominciato a guardare altrove per accrescere il proprio ruolo di potenza regionale. Nonostante gli eccessi dell’appartenenza a un partito (e alla sua ideologia) che vorrebbe l’Islam non relegato alla sola sfera privata, il pragmatismo politico a cui abbiamo accennato lo ha portato a correggere il tiro e a saper attendere. Del resto, sul piano internazionale prestigio e potere valgono bene l’attesa. E valgono un accordo con il PKK. (di Cristiana Era)


Maggio 2013

India |

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egli anni successivi all’indipendenza dal Regno Unito (1947), l’India è stata coinvolta in diversi conflitti locali (Maldive, Sri Lanka, etc.) e ricorrenti guerre regionali, legate a contese territoriali, sia con il Pakistan (1947, 1965, 1971, 1999) che con la Cina (1962). L’India fronteggia, infine, da alcuni decenni movimenti armati indipendentisti in diversi stati e distretti: Naxatile, Esercito Popolare di Liberazione, Mujahideen e Lashkare-Taiba sono solo alcuni esempi. In questo scenario, le spese per gli armamenti sono cresciute ininterrottamente (+38% negli ultimi cinque anni) tanto da collocare l’India al primo posto tra gli acquirenti mondiali (oltre il 10% del volume globale delle vendite di armi, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute). Nonostante la crescente spesa per gli armamenti convenzionali e le oltre 80 testate nucleari attribuite all’arsenale indiano, prestigiosi think tank ritengono che “nel Paese manchi la cultura atta a perseguire un’attiva politica della sicurezza [...] i politici e i burocrati mostrano scarso interesse nella strategia di grande potenza [...] e il ministero della Difesa mostra una cronica carenza di esperienza militare” (The Economist n. 8829, 2013). Tutto ciò si traduce in sprechi come lo sviluppo del carro Arjun, in fallimenti come il progetto per il nuovo caccia che si trascina da oltre 20 anni, e in episodi diffusi di corruzione, che ipotecano pesantemente l’efficienza e l’efficacia di

La tigre di carta L’efficacia delle politiche di un Paese che insegue prepotentemente la crescita, si vedono anche dalla capacità di tradurre tutto ciò in un benessere duraturo e un progresso per tutti

imponenti spese militari, confinando così l’India al ruolo di potenza regionale. Tanto per capire, la Repubblica indiana, con il suo miliardo e 200 milioni di abitanti, è al decimo posto nella graduatoria mondiale del prodotto interno lordo, con un Pil pari a 1.847,977 miliardi di dollari. Nella medesima classifica, la povera Italia, nonostante i suoi soli 60 milioni di abitanti, è invece all’ottavo posto, con 2.193,971 miliardi di dollari. In India, agricoltura e pesca impiegano il 50% della forza lavoro e producono il 12% del Pil, mentre il terziario e l’industria si dividono il restante 50% della forza lavoro producendo rispettivamente il 60% e il 28% del Pil. Dal 2000 al 2009, il prodotto interno lordo indiano è cresciuto in media dell’8% annuo, tanto da qualificare l’India come uno dei Paesi emergenti più promettenti. Tuttavia, la crisi mondiale del 2008 ha

prodotto una brusca frenata nella crescita indiana (+2,4% nel 2010), anche se il Paese sembra essersi lasciato alle spalle la crisi (+6,8% nel 2012) e ha evidenziato, semmai, alcune criticità che ne condizionano la sostenibilità e la capacità di resistere agli shock esterni. Dunque, l’India continua a essere essenzialmente un Paese agricolo, su cui pesa la prospettiva di una crescente inflazione in particolare in questo settore, con una crescita economica strutturalmente debole che ha fatto sì che una parte estesa della popolazione sia sotto-occupata in settori a bassa paga e a bassa produttività, con un conseguente precario accesso ai servizi essenziali (sanità, educazione, etc.). La crescita economica ha, inoltre, accresciuto le disuguaglianze sociali e mantenuto una larga parte della popolazione al di sotto della povertà, sia essa definita con parametri nazionali o internazionali. Infine, l’India deve fronteggiare un massiccio fenomeno di urbanizzazione che porterà, entro il 2030, il 40% della popolazione complessiva nelle aree urbane, il doppio di quanto registrato nel 2000. Alla luce di tutto ciò, anche dal punto di vista economico, qualificare l’India come una “grande potenza” appare quanto meno avventato. (di B. Woods)

LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

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geopolitica

Il Pakistan di Sharif

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sicUreZZa

Le ex repubbliche sovietiche

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econoMia

L’isolamento della Merkel

anno I - n. 5 giugno 2013

Ha già vinto

lUi

La Guida Suprema dell’Iran, Ayatollah Ali Khamenei, ha ipotecato le elezioni per il dopo Ahmadinejad SPECIALE ELEZIONI


nUMero

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giUgno

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Prima che fosse eletto Hassan Rouhani, abbiamo voluto dare un’interpretazione alle elezioni iraniane: la scelta sarebbe stata comunque nelle mani del suo leader, ayatollah ali Khamenei. Perché, chiunque fosse stato il vincitore, egli sarebbe stato espressione della Guida Suprema e dell’idea che egli aveva in mente su quale posto nel mondo avrebbe dovuto occupare l’Iran nel futuro prossimo. E, mentre il tempo dell’ex presidente Ahmadinejad tramontava, si eclissava anche quello di un amico dell’Iran, Hugo Chavez. Cosa rimane oggi del chavismo in Venezuela? Oltre all’articolo principale estratto da questo numero speciale, abbiamo qui riportato anche un articolo sull’isolamento progressivo della Germania di Angela Merkel, che racconta lo studio alla base delle politiche di ferro euro-tedesche.


nUMero

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giUgno

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Iran |

Elezioni iraniane, chi ha già perso

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e il Segretario di Stato americano, John Kerry, parlando delle prossime elezioni presidenziali in Iran (14 giugno 2013) si è detto “scettico” sulla scelta dei candidati da parte del Consiglio di Vigilanza - asserendo che è difficile considerare quelle elezioni come libere dopo i veti opposti a diverse candidature - la risposta del ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Salehi, non si è fatta attendere. Salehi ha avuto un moto di stizza e, nel rispondere al suo omologo americano, ha citato nientemeno che la Carta di Algeri (4 luglio 1976), una dichiarazione non ufficiale sull’autodeterminazione e sui diritti universali dei popoli, secondo cui ogni popolo decide il proprio statuto politico in piena libertà e senza alcuna ingerenza esterna (art. 5). Come a dire che nessuno, men che meno gli Stati Uniti, dovrebbe “immischiarsi negli affari interni dell’Iran”. Secondo il ministro, infatti, il sostegno alla democrazia da parte degli Stati Uniti “è solo un sotterfugio ed è tutto uno spettacolo”. Perché, in fondo “sarebbe contrario agli interessi di Washington rispettare il diritto internazionale e smettere di interferire negli affari interni di altri Paesi” ha ironizzato Salehi. Ma fin qui, niente di nuovo: siamo nella dialettica ordinaria tra due Paesi che si avversano. Venendo all’attualità, mentre gli Stati Uniti quanto a politica estera sembrano oggi indecisi a tutto e appaiono piuttosto ripiegati sui problemi interni dell’amministrazione Obama (colpita da scandali a ripetizione), in Iran, è forse superfluo ricordarlo, si sta invece vivendo una fase di passaggio delicatissima, forse cruciale: il Paese è sempre più isolato e sotto l’occhio severo di un Occidente

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LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

La strategia politica di Ali Khamenei per difendere l’Iran e le sue istituzioni più conservatrici, prevede l’arrocco

che non solo non apprezza la politica iraniana praticamente dal giorno della Rivoluzione, ma che lo strangola attraverso un embargo pesantissimo. Ragion per cui cerca di rafforzarsi, difendendo strenuamente le proprie posizioni. Ora, un Paese sovrano ha tutto il diritto di far applicare le regole che si è dato e nessuno Stato straniero dovrebbe in teoria interferire (altrimenti, per coerenza, gli Stati Uniti dovrebbero essere già intervenuti in Siria). Ciò detto, ha sorpreso molti - ma non tutti - la piega che hanno preso queste elezioni iraniane, ovvero il rafforzamento ottenuto manu militari dall’ala conservatrice della Repubblica Islamica, che trova nell’ayatollah Khamenei il suo maggiore sponsor, grazie al Consiglio di Vigilanza. È accaduto, infatti, che al momento di definire la lista definitiva dei candidati ammessi, il Consiglio di Vigilanza, cui la Costituzione affida il controllo delle elezioni del Presidente della Repubblica (così come gli affida l’interpretazione della Costituzione stessa e il controllo delle elezioni, dei Membri dell’Assemblea Nazionale e dei referendum), ha ammesso

solamente otto candidati su oltre seicento possibili, sei dei quali di diretta emanazione dell’ala conservatrice. La Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei, ha così la strada spianata per vedere eletto presto un candidato a lui gradito, soprattutto dopo che le fratture e le distanze con Ahmadinejad sono divenute incolmabili. Con in mano sei delle otto candidature alla presidenza, appare dunque evidente il progetto politico-strategico di Teheran: rafforzare l’intera classe clericale sciita iraniana, eliminando i possibili pericoli interni e le derive secolari o moderate che, agli occhi degli ayatollah, indebolirebbero la forza dell’Iran e minerebbero per sempre l’Islam sciita in un contesto storico che vede questa parte minoritaria dell’Islam sempre più isolata. Insomma, quello che lo stesso presidente Ahmadinejad ha contestato come un colpo di mano di Khamenei, altro non è se non una scelta estremamente pragmatica da parte della Guida Suprema, ben consapevole che per gli sciiti è di vitale importanza mantenere il potere almeno in Iran, visto che gli sciiti alawiti di Bashar Assad in Siria non sembrano poi così saldi al potere e ancor meno si sentono sicuri di sopravvivere ai sunniti, più numerosi e meglio protetti da una larga parte del mondo arabo come dall’Occidente. Il Medio Oriente, è ormai palese, si trova nel bel mezzo di una guerra di religione, incruenta in Iran ma già oltremodo sanguinaria in Siria e anche in Libano. (di Devendra)


giUgno 2013

Germania |

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La solitudine della Cancelliera

n altro pilastro dell’austerità è crollato fragorosamente dopo aver perso il sostegno e la copertura ideologica dei teorici del ‘rigore a ogni costo’, cioè di quel Fondo Monetario Internazionale (FMI) che, da baluardo del fondamentalismo del mercato e delle politiche fiscali restrittive degli anni di Reagan e della Thatcher, sotto la guida del professor Blanchard si è progressivamente spostato verso politiche fiscali espansive, riconoscendo che il rigore peggiora il rapporto debito pubblico/Pil, invece di migliorarlo (World Economic Outlook October 2012, FMI). Nel 2010, nel celebrato articolo “Growth in a Time of Debt”, pubblicato dalla prestigiosa rivista American Economic Review, la professoressa C. Reinhart e il professor K. Rogoff - ribattezzati “R&R” ed entrambi docenti dell’Università di Harvard - propongono lo studio della relazione crescita/debito/inflazione, per un insieme di 44 nazioni su di un intervallo di 200 anni. Le conclusioni, basate su oltre 3.700 osservazioni annuali, quindi in principio un data-set di tutto rispetto per l’economia, sono dirompenti: per la prima volta si afferma con ragionevole certezza che esiste un livello soglia del rapporto debito/Pil: 90% per l’insieme dei Paesi considerati, ma solo il 60% per i Paesi emergenti, superato il quale l’ulteriore peggioramento del rapporto comprometterebbe la crescita di lungo periodo. Basandosi sullo stesso data-set e proseguendo nella ricerca, nel 2012 “R&R” pubblicano sul Journal of Economic Perspectives “Public Debt Overhangs: Advanced

Può un giovane di 28 anni sconfessare uno studio su cui si basano le politiche fiscali di un intero continente? Sembra di sì. Adesso, per la rigorista Germania sorgono problemi seri

Economy Episodes since 1800” ovvero “Il debito pubblico incombente: avvenimenti nelle economie sviluppate dal 1800”. Scopo del nuovo articolo è indagare le conseguenze sulla crescita e sui tassi d’interesse in Paesi in cui il rapporto debito pubblico/Pil sia risultato superiore alla soglia critica del 90% individuata. “R&R” concludono: se il rapporto debito pubblico/Pil eccede il 90% per più di 5 anni, pur non avendo effetti sui tassi d’interesse reali e sulle crisi finanziarie, si riduce sensibilmente il tasso annuo di crescita e si determinano perdite economiche consistenti e un sostanziale declino della produzione. Quindi, non è solo la conferma delle tesi del 2010 ma anche l’individuazione del livello del debito pubblico, questa volta, come la vera ipoteca sulla crescita economica di un Paese. Da porre in evidenza che, trattandosi di studi empirici, non di ricerche teoriche, la bontà delle conclusioni è assicurata dalla coerenza e correttezza della statistica utilizzata.

Ma poco dopo accade l’incredibile: il ventottenne Thomas Herndon, studente di dottorato dell’Università Amherst (Massachussets), si mette a rifare i calcoli di “R&R” e non riesce a ottenere gli stessi risultati. Prova e riprova, ma i conti non tornano. Alla fine, Thomas si fa coraggio e chiede direttamente a “R&R”, i guru del rigore, i file sorgente. E cosa scopre? Che “R&R” hanno commesso alcuni grossolani errori: hanno disallineato le colonne nelle addizioni e, soprattutto, hanno escluso alcuni Paesi (Nuova Zelanda, Canada e Australia) che erano in controtendenza rispetto alle loro conclusioni. La vicenda diventa pubblica e “R&R” non possono far altro che ammettere gli errori e scusarsi. Tuttavia, se un errore di calcolo è sempre comprensibile e forse giustificabile, certamente politicamente non corretta si rivela la pulizia dei dati, anche perché talvolta è la scorciatoia usata per validare una ricerca econometrica. A questo punto, visti i risultati ottenuti con le diverse scelte compiute da Barack Obama e da Shinzo Abe rispetto a quelle della UE, e visto il crollo dei puntelli teorici delle politiche deflattive, in molti adesso si interrogano sul perché la UE deve continuare a seguire le arbitrarie regole dettate in sorda solitudine dalla Cancelliera Merkel e dalla Bundesbank. (di B. Woods)

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geopolitica

MO, l’ora di religione

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sicUreZZa

Il Brasile in ebollizione

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econoMia

La favola dell’austerity

anno I - n. 6 luglio 2013

sUnniti ontro

sciiti Dal Nordafrica alla Penisola Araba, dalla Siria al Libano e Iraq, l’Islam combatte contro se stesso. È la sua “Guerra dei Trent’anni”?


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2013 Raccontare una “guerra di religione” è forse la cosa più difficile da tentare e questo numero è certo stato molto impegnativo. Ma, al netto degli interessi e delle strategie degli Stati che ruotavano (e ruotano) come avvoltoi intorno alla Siria, esiste un conflitto più ampio che agita l’intero Medio Oriente, e che ormai trascina l’Islam in una guerra fratricida tra due concezioni diverse della medesima religione. sciiti e sunniti sono vittime e carnefici al tempo stesso, indubbiamente protagonisti di una stagione di sangue che potrebbe essere solo all’inizio. Per questa raccolta, lo spazio è andato principalmente a tale argomento pregnante, non senza una riflessione sulla conferenza di pace “Ginevra 2”, un fantasma aleggiato lungo tutto il 2013 che non è ancora divenuto realtà.


nUMero

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2013

Medio Oriente |

L

La “Guerra dei Trent’anni”, tra fede e ragione

a scossa impressa all’impalcatura creata in quindici secoli alla Chiesa di Roma dalla riforma di Martin Lutero non soltanto ha creato le comunità protestanti ma ha destabilizzato l’intero assetto politico europeo che, pochi decenni dopo la ribellione religiosa luterana, è sfociata in una guerra continentale: la Guerra dei Trent’Anni, che dal 1618 al 1648 ha sconvolto gli assetti politici, economici e sociali del Vecchio Continente. Perché parliamo della Guerra dei Trent’Anni in riferimento a quello che sta succedendo oggi in Medio Oriente? Perché i tre conflitti più importanti che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi in Siria, in Iraq e, per molti versi, in Libano, hanno le stesse caratteristiche storiche di questa guerra. Al posto dei cattolici e dei protestanti oggi ci sono sunniti e sciiti. Al posto dei principi tedeschi e olandesi ci sono i “proletari” sciiti libanesi, siriani e iracheni. Al posto dei vescovi, del papato e dei re cattolici, le classi dirigenti sunnite del Libano e dell’Iraq e la maggioranza sunnita siriana. Un mix di religione e politica che, com’è accaduto da noi, può durare un’intera generazione. Tutto comincia con la scomparsa a Tripoli nel 1978 dell’imam sciita Moussa Sadr.

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LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

Fede e ragione sono gli ingredienti salienti per tentare di leggere con gli occhi del vicino Oriente una guerra che mescola politica e religione

Esule in Libia per sfuggire alle persecuzioni dei cristiano-maroniti e dei sunniti in Libano, venne probabilmente ucciso dai servizi segreti di Gheddafi per fare un favore alla casa regnante saudita. L’assassinio di Sadr provoca i primi fermenti di ribellione in Libano, che vedono il sottoproletariato sciita della periferia sud di Beirut e i poverissimi contadini e allevatori della Valle della Bekaa e del Libano Sud raccogliersi sotto le bandiere del primo partito sciita della storia libeanese, Amal, fondato da un coraggioso avvocato di Beirut, Nabil Berri. Dai quindici anni di guerra civile escono indubbiamente

come forza dominante proprio gli sciiti, che dal ‘90 occupano (e, di fatto, amministrano) tutto il Libano Sud sotto le bandiere della formazione che sulle ceneri di Amal è diventata protagonista delle tensioni mediorientali: Hezbollah, il Partito di Dio. Pur essendo nata come formazione guerrigliera e terroristica clandestina, a lei vanno attribuiti gli attentati che fecero strage di marines americani e di soldati francesi a Beirut nel 1983. Hezbollah è riuscito a crescere come partito politico e forza militare quasi regolare, l’unica che può vantare di aver sconfitto l’esercito di Israele durante la campagna del 2006. Il suo segreto è stato


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costruire una propria infrastruttura amministrativa locale che nel Libano sud gestisce addirittura ospedali, scuole e case di riposo. Grazie al sodalizio stabilito con l’Iran – la casa madre degli sciiti di tutto il mondo - Hezbollah è diventata una piccola potenza economica e militare e oggi la troviamo impegnata a sostenere in Siria il regime di Assad, rappresentante degli alawiti, una minoranza del 15% di derivazione sciita che da oltre cinquant’anni governa la Siria con il contributo di una componente dell’alta borghesia sunnita. Ridurre il conflitto siriano a una guerra di religione sarebbe fuorviante e pericoloso. Il conflitto ha delle radici economiche e sociali che almeno all’inizio hanno superato quelle religiose. È infatti iniziato come la rivolta di una borghesia sunnita non adeguatamente rappresentata nei centri del potere siriano che ha preteso di far pesare con il suo 75% della popolazione la demografia in politica. La resistenza alawita e degli Assad - che i media occidentali davano per spacciati da oltre un anno - si spiega con la certezza che alla vittoria sunnita seguirebbe un’imponente pulizia etnica ai danni di alawiti, cristiani e collaborazionisti sunniti. Nel conflitto siriano la religione rispunta quando, in risposta al pesante intervento di Hezbollah a sostegno dei lealisti siriani, agli inizi di maggio lo sceicco libanese sunnita Salim Al Rafii lancia una fatwa, cioè un appello religioso, invitando tutti i sunniti libanesi alla mobilitazione per la difesa

dei confratelli siriani. La fatwa riporta la religione al centro del conflitto. Ma la soluzione resterà comunque politica, e per capire quello che succederà bisogna guardare fuori dai confini siriani: a Mosca, Teheran, Ankara e Riad. La “Guerra dei Trent’anni” continua in Iraq, dove è saltato il “tappo” che comprimeva con la dittatura di Saddam Hussein e opprimeva la maggioranza sciita che, col suo 65% di popolazione, dopo l’intervento americano ha mostrato di voler contare nella politica del nuovo Iraq. Qui è in corso una vera e propria guerra civile combattuta con kamikaze e autobomba. E anche qui i protagonisti veri sono fuori: da un parte l’Iran, che con un Iraq sciita vedrebbe rafforzate le sue ambizioni di potenza regionale (gli iraniani amano definirsi “persiani” per ricordare i fasti di un impero che non sarebbe difficile ricostruire sotto le insegne del credo sciita). Dall’altra, c’è l’Arabia Saudita che vedrebbe traballare le sue altrettanto forti ambizioni di potenza regionale. La nostra “Guerra dei Trent’anni” innescata dalla religione ha trasformato, con la pace di Westfalia, l’Europa Continentale. Sparita l’egemonia del papato e del Sacro Romano Impero, sono nati gli Stati nazionali come li conosciamo oggi. Il grande conflitto tra sciiti e sunniti, ne siamo sicuri, quale che sarà l’esito, cambierà gli equilibri geopolitici di tutto il vicino Oriente. (di Alfredo Mantici)

Ginevra 2, la chimera della conferenza di pace

G

uerra settaria tra sunniti e sciiti, milioni di rifugiati, una terra lacerata dalle bombe che hanno raso al suolo città intere, potenze straniere che trafficano armi e uomini, pattuglie di soldataglie che terrorizzano le popolazioni inermi, confini in ebollizione, forse persino uso di armi chimiche. Tutto questo, e se possibile molto altro ancora, è il panorama del Medio Oriente del 2013 di cui la Siria è il cuore pugnalato a morte, alimentato solo dall’odio e dal calcolo politico. Per la prima volta, si capisce come questa guerra si stia ingigantendo anziché concludersi, come la Conferenza di pace di Ginevra sia sempre più una chimera e come i confini siriani siano davvero in discussione per la prima volta da quasi un secolo. La possibilità stessa di una frammentazione del Paese non è recondita. Come non lo è più il contagio di altri Stati confinanti. Su tutti, il Libano.

LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

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econoMia

Sistema bancario nel mirino |

geopolitica

L’evoluzione egiziana

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sicUreZZa

Sudafrica: allarme sicurezza

anno I - n. 7 agosto 2013

Crisi economica

acHtUng, babY! E se la prossima vittima della recessione che ha colpito l’Europa fosse la Germania di Angela Merkel?


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“frau Merkel” è protagonista incontrastata dell’Europa Unita e uno dei personaggi che sono destinati a rimanere nella storia, nel bene e nel male. Intorno alla sua figura, tra imperativi categorici e colpi di mano economici, c’è un mondo che abbiamo voluto raccontare: quello delle banche e delle relative strategie per uscire indenni dagli anni della crisi. Non troppo lontano, in Egitto, tutto è cambiato ancora una volta e i militari al comando del generale Al Sisi già si domandano cosa fare con l’Etiopia, che vuol “rubare” loro le sacre acque del Nilo: analisi dei possibili scenari mentre Addis Abeba va costruendo la grande diga della discordia. Per questa raccolta, abbiamo estrapolato la doppia sfida delle grandi opere: la diga etiope e il Canale di Nicaragua che intende scippare a Panama la leadership nelle rotte commerciali transoceaniche.


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Egitto |

M

La guerra per l’acqua

entre i lavori per la costruzione in Etiopia di una gigantesca diga sul Nilo, la Grand Ethiopian Renaissance Dam, proseguono intensamente sotto la direzione del gruppo italiano Salini, i venti di guerra tra Il Cairo e Addis Abeba crescono pericolosamente di intensità. “Difenderemo ogni goccia d’acqua del Nilo con il nostro sangue!” fu il duro monito che l’ormai ex presidente egiziano Morsi rivolse all’Etiopia pochi giorni prima di essere defenestrato dai militari. Questi ultimi, dal canto loro, sembrano parimenti intenzionati a mantenere alta la tensione con gli etiopi e, nei circoli politico-militari del Cairo, si parla sempre più frequentemente di una prossima “guerra del Nilo”. Il problema non è solo tecnico. Perché per l’Egitto il Nilo non è soltanto un corso d’acqua: è la ragione stessa dell’esistenza della nazione. Toccare il Nilo per gli egiziani significa mettere in discussione l’identità millenaria di una civiltà della quale vanno orgogliosi. L’Egitto, lo scriveva già Erodoto, è infatti “il dono del Nilo”. E dal Nilo l’Egitto prende ogni anno ben 55 miliardi di metri cubi di acqua, su un totale di 75 miliardi. La rimanente parte, circa 20 miliardi di metri cubi, spetta invece, per la stragrande maggioranza, al Sudan: circa 18 miliardi di metri cubi. Ciò che avanza viene suddiviso tra Etiopia, Uganda, Ruanda, Kenya, Tanzania e Burundi. È questo il risultato di un accordo siglato tra il Cairo e Khartoum nel 1959, poco dopo l’indipendenza del Sudan, accordo cui l’Etiopia non partecipò. Ma oggi che il diritto di veto egiziano su tutti i progetti upstream del Nilo (risalente al 1929) è ormai un retaggio dell’era coloniale, l’Etiopia sta costruendo proprio a monte, sul Nilo Azzurro, la più grande diga del continente africano.

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LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

Il punto non è la religione né la politica né l’economia. Ma la sopravvivenza, che all’Egitto è garantita dalle acque del Nilo

La versione del Cairo Una riduzione di quasi il 50% del volume delle acque del Nilo: è questo ciò che l’Egitto teme possa avvenire con la realizzazione della Renaissance Dam. Un downgrade alquanto significativo: da 55 miliardi di metri cubi annui si scenderebbe infatti a 30 miliardi. E, se si stima che per far fronte all’incremento demografico previsto nel Paese per il 2050 (150 milioni di abitanti) serviranno almeno 20 miliardi di metri cubi di acqua in più all’anno, ben si comprende l’ostilità del Cairo al progetto. Oltretutto, una diminuzione nel flusso di acqua avrebbe ulteriori ripercussioni negative nel Paese, influenzando la navigabilità del Nilo, la sua pescosità (gli agenti inquinanti sarebbero meno “diluiti”) e la fertilità delle sue sponde, in quanto la diga tratterrebbe il limo e gli altri sedimenti che contribuiscono da sempre ad arricchire il terreno. Di conseguenza, nel lungo periodo, la Grand Ethiopian Renaissance Dam avrebbe effetti negativi anche sull’agricoltura egiziana e sull’occupazione nel settore. La risposta etiope Addis Abeba rassicura: la Renaissance Dam servirà a produrre energia

idroelettrica e, in quanto tale, non ridurrà la quantità di acqua che dal Nilo Azzurro arriva al Cairo (come accadrebbe, ad esempio, se lo scopo dell’opera fosse l’irrigazione). Una volta riempito l’enorme bacino artificiale, quindi, il volume delle acque resterà sostanzialmente inalterato. Unico accorgimento: coordinare sempre le operazioni della diga etiope a monte con quella egiziana di Assuan a valle, evitando di chiudere la Renaissance Dam nei periodi di siccità. Del resto, sembra proprio che il governo di Addis Abeba voglia intraprendere un percorso cooperativo: come si legge nel sito dedicato alla costruzione dell’opera, la diga è “espressione dell’impegno dell’Etiopia per il vantaggio di tutti i Paesi del bacino del Nilo”. Ai quali - è il caso di aggiungere - con 800 milioni di euro di ricavi stimati all’anno, l’Etiopia sarà ben lieta di vendere loro energia elettrica. Gli osservatori internazionali Le diplomazie ritengono che la “guerra del Nilo” possa essere scongiurata solo se l’Etiopia sarà in grado di fornire al Cairo garanzie serie e “visibili” sul flusso delle acque, limitando decisamente l’ampiezza della diga. Una concessione che difficilmente l’Etiopia vorrà fare. Al momento, soluzioni negoziali sembrano difficili e il caos che regna in Egitto non facilita un razionale percorso di trattativa. Al contrario, non è da escludere che i militari, per attenuare le tensioni interne e chiamare alla mobilitazione anche i sostenitori di Morsi contro il nemico esterno, possano tentare di far salire la temperatura della crisi per difendere “anche col sangue ogni goccia d’acqua del Nilo”. (di Dario Scittarelli)


agosto 2013

Nicaragua |

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opo quasi cento anni di dominio incontrastato, presto il canale di Panama potrebbe vedere messo in discussione il suo monopolio lungo la rotta commerciale che collega l’Atlantico al Pacifico. La “minaccia” arriva dal vicino Nicaragua, che il 7 giugno ha sbloccato il progetto per la costruzione di un canale transoceanico, avvicinando così il Paese alla realizzazione di un sogno coltivato da quando, nel 1914, gli Stati Uniti preferirono puntare su Panama per la costruzione di questa grande opera. La missione è stata affidata all’uomo d’affari cinese Wang Jing, proprietario del Gruppo HKND, con base a Hong Kong. Il progetto partirà nel 2014 con un investimento base pari a 40 miliardi di dollari. I lavori saranno realizzati dalla società registrata ad hoc, HK Nicaragua Canal Development Investment Company, a cui il governo nicaraguense ha affidato una concessione di 50 anni. Il canale, per la cui costruzione saranno necessari tra i dieci e i quindici anni, sarà lungo 286 chilometri (il triplo di quello di Panama) e collegherà i Caraibi con il Pacifico, attraversando il Lago di Nicaragua, il più grande lago d’acqua dolce dell’America Centrale, consentendo l’attraversamento a navi container con carichi massimi di 250.000 tonnellate (il doppio del peso permesso a Panama).

La sfida dei canali

Le rotte commerciali del nuovo millennio potrebbero ridisegnare le carte nautiche del Novecento. Il canale di Panama presto potrebbe essere messo in ombra

Numeri imponenti, che rischiano di offuscare la cerimonia per la conclusione dei lavori di ampliamento del canale di Panama, programmata per la fine del 2014, in occasione del centenario dell’opera. Se Panama annaspa, dal canto suo il Nicaragua gongola. Sorride il presidente Daniel Ortega, che potrebbe passare alla storia come l’uomo che ha permesso la storica realizzazione dell’opera. E sorridono gli imprenditori del Paese, perché oltre agli affari legati al commercio il canale si porterà dietro un enorme indotto derivante dalla realizzazione di grandi infrastrutture: due porti, due zone di libero commercio, un oleodotto, una ferrovia e un aeroporto internazionale. C’è anche chi la pensa diversamente, come le associazioni ambientaliste e gli studiosi preoccupati per l’impatto ambientale del canale e chi, poi, non

si fida affatto di Wang Jing. Quarant’anni, originario di Pechino, prima di darsi agli affari Jing ha studiato medicina. Ha iniziato comprando una miniera d’oro in Cambogia e poi, nel 2010, ha investito sulla multinazionale delle telecomunicazioni Xinwei Telecom Enterprise Group, società che ha allargato il proprio giro arrivando fino al Nicaragua, dove però dei 700 milioni di dollari di finanziamenti promessi ad oggi si è visto ben poco. Dice di non avere legami di sangue con membri del governo cinese, né tantomeno con rappresentanti del partito comunista o dell’esercito. A prescindere dalle voci che si rincorrono sul web su una sua possibile parentela con Whang Zheng (vice presidente cinese dal 1988 al 1993), ciò che è certo è che Pechino ha già messo più di un piede dentro quest’opera, nonostante Cina e Nicaragua non abbiano rapporti formali. Tra i partner di Jing vi sarebbero infatti la China Railway Construction e altri gruppi petroliferi statali, che vedono di buon occhio la possibilità di ammortizzare i costi del trasporto del petrolio e del carbone attraverso l’America Latina. (di Hugo)

LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

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geopolitica

Egitto, Israele: che succede?

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econoMia

Perché investire in Pakistan

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sicUreZZa

Marocco, l’Islam possibile

anno I - n. 8 settembre 2013

assadssino? Gli USA hanno deciso di intervenire unilateralmente contro il regime siriano accusato di aver gasato la popolazione. E adesso? esclUsiVo: parla l’aVVocato di al Qaeda


nUMero

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setteMbre

2013

È o non è un criminale da deporre? Di certo, bashar al assad non voleva essere il presidente-dittatore della Siria. Ma gli è toccato in sorte. In questo numero, abbiamo voluto ricostruire il contesto familiare in cui è cresciuto e lo scenario in cui opera, per comprendere alcuni aspetti del disastro che si è trovato a dover amministrare. Così come, abbiamo intervistato il legale difensore e vecchio amico del numero uno di Al Qaeda, Al Zawahiri, nonché il consigliere dell’ambasciata pakistana in Italia, che ci ha parlato delle prospettive economiche per i nostri due Paesi. Dal buio di Damasco alle ombre argentine: abbiamo descritto anche il rischio default che si avvicinava per la Kirchner, articolo selezionato per questa raccolta insieme a un articolo che racconta la calma di Israele in mezzo alla tempesta mediorientale.


nUMero

8

setteMbre

2013

Israele |

La calma in mezzo alla tempesta

U

scito con una maggioranza precaria dalle ultime elezioni politiche, Netanyahu si è immediatamente liberato del suo imbarazzante ministro degli esteri, Avigdor Lieberman, le cui posizioni estremiste avevano contribuito alla rottura totale delle relazioni con la Turchia dopo l’incidente della Mavi Marmara, la nave turca assalita nel 2010 dalle forze speciali israeliane mentre tentava di superare il blocco di Gaza: il rifiuto di Lieberman di offrire scuse formali al governo di Ankara per la morte di nove cittadini turchi, rischiò di far perdere ad Israele il più antico e consolidato interlocutore politico islamico. Nel nuovo gabinetto Netanyahu, oltre che quella di primo ministro ha mantenuto anche la carica di ministro degli Esteri e ha preso direttamente in mano le redini della politica estera israeliana all’insegna di un sorprendente atteggiamento di costante cautela e moderazione. Un esempio di questo nuovo corso della politica israeliana è desumibile dall’atteggiamento del governo di Tel Aviv nei confronti delle turbolenze egiziane. Anche durante la presidenza egiziana di Morsi, le forze armate israeliane avevano mantenuto riservatissimi canali di cooperazione con quelle egizie per tenere sotto controllo le bande islamiste del Sinai. Dopo la defenestrazione di Morsi, pur senza manifestare un aperto appoggio al generale Al Sisi - certamente, per non metterlo in imbarazzo - Netanyahu ha preso un’iniziativa per certi versi incredibile: d’intesa (clandestina) nientemeno che con la monarchia saudita, Israele 42

LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

Prudenza “svizzera” e piani di riserva. Sul tavolo di guerra del premier ci sono le opzioni per rispondere a ogni tipo di aggressione. Israele non è mai impreparata

ha avviato un’intensa campagna internazionale per assicurare un sostegno finanziario al “nuovo” Egitto. Così, alla fine dello scorso mese di luglio, il premier israeliano ha inviato a Washington uno dei suoi più stretti e fidati collaboratori, Eran Lerman, ovvero il vice direttore del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele, per promuovere insieme al senatore repubblicano, Raund Paul, l’avvio di un “Piano Marshall” per l’Egitto, la cui economia è stata ridotta in condizioni molto precarie dal governo Morsi. Netanyahu, quindi, con l’apparentemente incredibile sostegno dei sauditi, si è fatto promotore di un ambizioso progetto di sostegno del nuovo corso egiziano nella consapevolezza che, nel mondo arabo, solo la crescita economica è in grado di consentire l’emergere di classi medie e borghesi moderne e secolarizzate, le quali sono le sole in grado di fronteggiare le onnipresenti spinte islamiste. Anche nei confronti di Siria e Iran, nonostante i venti di guerra

agitati da un’amministrazione Obama che sembra priva di un chiaro disegno strategico per il Medio Oriente, Israele ha mostrato toni di ragionevolezza e inaspettata moderazione, almeno sinora. Il giovane ministro delle relazioni internazionali e degli Affari Strategici, Yuval Steiniz (anch’egli stretto collaboratore di Netanyahu), nello smentire le accuse frettolosamente lanciate dal premier turco Erdogan contro Israele, accusato senza mezzi termini di essere l’ispiratore del golpe dei militari egiziani, ha dichiarato: “la nostra politica estera è di non interferenza negli affari dei nostri vicini. L’intero Medio Oriente è attraversato da tempeste violente. Noi oggi siamo come la Svizzera durante la seconda guerra mondiale: quando tutta l’Europa era in guerra, la Svizzera era neutrale”. Come si vede, si tratta di posizioni molto moderate e coraggiose, in un momento storico nel quale l’amministrazione USA e i suoi più stretti alleati appaiono impegnati in avventure nelle quali sembrano contare più i muscoli che il cervello (Libia e Siria insegnano). Insomma, da “Sparta del Medio Oriente” Israele vuole diventare una Berna del Levante. Una lezione per tutti di fredda razionalità, prudenza strategica e coraggio politico. (de Il Grigio)


setteMbre 2013

Argentina |

Un nuovo default? A differenza degli auspici, Buenos Aires è ancora alle prese con la “reflazione”

V

enerdì 23 agosto l’Argentina ha perso l’appello presentato alla Second US Circuit Court of Appeals di New York. La Corte ha condannato Buenos Aires a pagare 1,33 miliardi di dollari ai possessori di titoli di Stato che avevano rifiutato la ristrutturazione del debito (30 centesimi per ogni dollaro e allungamento delle scadenze) dopo il default di circa 100 miliardi del 2001. La Corte ha sospeso l’esecuzione della sentenza, in attesa del pronunciamento della Corte Suprema sull’appello presentato contro il risarcimento accordato ai creditori, i cosiddetti holdout bondholders, guidati

dalla Elliot Management Corporation, ora esposta per oltre 630 milioni. La sentenza, evidentemente annunciata, è stata preceduta a luglio dalla cancellazione dei piani di sostegno predisposti dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), indotta dal Tesoro degli Stati Uniti per evitare le conseguenze di un nuovo default. La decisione sulla ristrutturazione del debito sovrano argentino che, come ha affermato Christine Lagarde - direttore generale del FMI - costituisce una pesante ipoteca su ogni futura ristrutturazione del debito sovrano di qualunque Paese, avviene mentre in Argentina infuria la campagna in vista delle elezioni che il 27 ottobre rinnoveranno metà della Camera e un terzo del Senato (la campagna elettorale vede Mauricio Macri, sindaco di Buenos Aires, opporsi al partito della presidente Kirchner). La “decada ganada” ovvero l’ultimo decennio seguito al default del 2001 (ricordate le code fuori alle banche chiuse, le imponenti manifestazioni a Plaza de Mayo, il movimento Cacerolazo di fronte alla Casa Rosada?) è stato segnato dalle presidenze di Nestor e Cristina Kirchner. Durante le presidenze Kirchner, le politiche espansive

(bassi tassi d’interesse e basso valore del peso) hanno prodotto imponenti attivi commerciali e tassi medi di crescita del 9%. La Grande Recessione ha però colpito duramente la fragile ripresa argentina e la caduta della domanda estera è stata contrasta con una crescente spesa pubblica finanziata dalla Banca centrale. La situazione economica è rapidamente peggiorata: l’inflazione è cresciuta fino a tassi con doppia cifra (tasso ufficiale al 10%, ma quello reale è almeno il doppio) e il peso si è ufficialmente svalutato di oltre il 12% dall’inizio dell’anno (4,75 pesos per un dollaro, al mercato nero occorrono però 6,75 pesos per un dollaro, pari a una svalutazione del 40%). Tutto ciò non è stato sufficiente a contrastare la perdita di competitività dei prodotti argentini. La bilancia commerciale è tornata a valori negativi, la disoccupazione sfiora l’8% e il deficit pubblico raggiunge il 2,6% e la crescita del 3,9% prevista per l’anno in corso già improbabile per l’imponente fuga di capitali - potrebbe essere vanificata dalle decisioni statunitensi. L’Argentina potrebbe, insomma, precipitare in nuovo default e in una vera e propria “reflazione” (l’insieme di recessione e inflazione sperimentata in occidente negli anni ‘70) dagli sviluppi imprevedibili, come ha recentemente ammonito il ministro delle Finanze francesi Pierre Moscovici, e non solo per il Sud del mondo. (di Rocco Bellantone)

LOOKOUT n. 11 dicembre 2013

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l’altra copertina: iran, roUHani e la boMba

anno I - n. 9 ottobre 2013

francesco doVe Vai? Dopo quasi cinquecento anni un gesuita diventa Papa. Farà la rivoluzione? SPECIALE PAPA BERGOGLIO


anno I - n. 9 ottobre 2013

roUHani doVe Vai? Dopo quasi trent’anni un presidente iraniano apre agli USA. Farà la rivoluzione?


nUMero

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ottobre

2013

Ancora religione, ancora scenari inediti. Ma stavolta il protagonista è un uomo che promette di cambiare quel che sembrava immutabile: Santa Romana Chiesa. papa francesco è senz’altro uomo-simbolo del 2013, perché la sua diversità è anzitutto culturale e la sua concezione della Santa Sede sono molto distanti da chi lo ha preceduto. Il motivo? È il primo pontefice gesuita nella storia della Chiesa. E questo fatto è già una rivoluzione. A suo modo, anche il presidente iraniano, Hassan rouhani, è un rivoluzionario. Di ben altra cultura e di diverso spessore, è comunque un uomo-chiave del 2013, colui che ha portato a sedere allo stesso tavolo il “Grande Satana” e l’”Asse del Male”. Se i negoziati sul nucleare iraniano andranno a buon fine, gran parte del merito sarà certamente suo. Per questa raccolta, non potevamo che selezionare due articoli su questo tema.


ottobre 2013

Vaticano |

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Il mistero Bergoglio

ronto? Signora Rosalba buongiorno, sono Papa Francesco”. La signora Tomassoni di Pesaro, mamma di un giovane imprenditore ucciso nel giugno scorso, stentava a credere che non si trattasse di uno scherzo. Al telefono c’era il Papa. Lo stesso Papa che ha telefonato a un ragazzo di Pinerolo affetto da distrofia muscolare, a una donna argentina vittima di uno stupro, alla commessa di una libreria di via della Conciliazione a Roma. Le telefonate del Papa sono diventate un caso giornalistico. Quello che ha fatto il Pontefice è, rispetto a tutti i suoi predecessori, qualcosa di eccezionale, ma diventa meno eccezionale se ci fermiamo a riflettere sul fatto che il Papa è un gesuita al 100%. Papa Francesco e i suoi “compagni” (così si autodefiniscono i gesuiti) da 473 anni rappresentano il nucleo più anticonformista e rivolto al sociale di tutta la Chiesa Cattolica Romana: un’avanguardia di cultura, di integrazione e di apertura al dialogo anche al di fuori dei confini della Chiesa, che non ha eguali rispetto a tutti gli altri ordini religiosi. Nel mezzo millennio della loro esistenza, i gesuiti sono stati guardati con sospetto, spesso tenuti ai margini del potere ecclesiale o, addirittura, perseguitati (come nel Sei-settecento durante la guerra dei Guaranì che li vide reagire militarmente ai tentativi spagnoli di oppressione degli indios del Paraguay) o esiliati (nel 1773, su richiesta dei “cattolicissimi” re di Portogallo, Spagna, Francia e Napoli, la Compagnia venne sciolta

Il gesuita argentino che parla al cuore delle persone e rompe i tabù millenari di Santa Romana Chiesa, con il suo originale papato dimostra di avere tutte le caratteristiche per rivoluzionare il mondo cattolico

dal Papa Clemente XIV e verrà riammessa nel corpo della Chiesa nel 1814). I gesuiti sono stati sempre una presenza scomoda nell’universo cattolico. Hanno investito nella cultura, nella scienza e nel sociale come elementi pratici di apostolato semplice e accessibile. Al secondo processo contro Galileo Galilei nel 1621, si schierarono a difesa dello scienziato pisano, accusato di eresia per il suo saggio sul Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Il gesuita Melchior Inchofer, un grande matematico, tentò di salvarlo dagli strali del Santo Uffizio dichiarando che tutte le accuse contro di lui erano “inconsistenti”. Padre Matteo Ricci da Macerata, inviato alla fine del Cinquecento in Cina per compiere apostolato, trascorse vent’anni a studiare la lingua, percorse tutto il difficilissimo cursus studiorum che consentiva l’accesso al mandarinato e divenne consigliere dell’Imperatore. Oggi è sepolto a

Pechino in uno dei recinti imperiali con il nome di Li Madou Xitai. Nonostante i loro successi in campo teologico, scientifico, filosofico ed educativo, per quasi cinquecento anni i gesuiti sono stati tenuti accuratamente lontani dalle leve del potere della Chiesa di Roma. Perché? Perché sono intellettualmente onesti e sufficientemente spregiudicati da mettere in crisi, se vogliono, qualunque centro di potere, laico o religioso, non con la violenza ma con l’esempio e con il ragionamento. Guardiamo come si è comportato Papa Francesco di fronte alla possibilità di un attacco armato americano e francese contro la Siria. Invece di fare appello al pacifismo di maniera che spesso caratterizza gli appelli “contro la violenza”, il Papa ha contribuito in modo fondamentale a fermare l’escalation militare con una semplice e dura accusa di carattere politico: “le guerre fanno comodo soltanto ai mercanti di

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cannoni”. Che sia un uomo fuori dal comune lo dimostra il fatto che al termine dell’angelus che chiudeva una veglia di digiuno per la pace, ha augurato “buon appetito” ai 250mila fedeli presenti in Piazza San Pietro. Insomma, chi è Bergoglio? Un eccentrico buontempone? Un uomo semplice che si diverte a fare impazzire la sua scorta? Niente di tutto questo. Papa Francesco è soltanto un lucidissimo “cervello gesuita”. Se visitiamo il bellissimo sito web della Compagnia (www.gesuiti.it), troviamo nelle numerose schede chiare e sintetiche tutti i fondamenti teoretici che sono alla base del comportamento quotidiano del Papa gesuita. Il Papa rifiuta di andare a vivere nei lussuosi appartamenti pontifici? Ecco cosa dicono i gesuiti: “Noi ci immergiamo nel cuore del mondo, le nostre case sono spesso situate nel cuore delle città piuttosto che in campagna o in luoghi isolati, sono residenze piuttosto che conventi o monasteri. Anche il nostro modo di vestire è inusuale... a seconda delle circostanze valutiamo come è più appropriato presentarsi alla gente. La nostra missione nasce dall’ascolto attento e discreto del contesto in cui viviamo”. Il Papa saluta la piazza dicendo “buonasera”? Fa filtrare attraverso la voce di un suo collaboratore che il celibato dei preti non è un dogma? Ecco la teoria ufficiale della Compagnia: “La nostra concezione del mondo è decisamente ottimistica: tutto può essere trasformato in occasione favorevole per aprirsi alla grazia, anche le contraddizioni e gli errori… andare a fondo nelle questioni non significa trovare una risposta a tutto, significa dialogare pazientemente con le domande che in ogni

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epoca abitano nel cuore dell’uomo...”. Sono strani i gesuiti. Nel 1660 un gesuita laureato in Fisica ha inventato la distillazione delle vinacce, quindi l’acquavite e i suoi derivati. Nel 1683 i gesuiti hanno piantato le prime vigne in California, producendo il pregiato Novitiate Jesuit Wine Black Muscat. Sul loro sito, lo sfondo della sezione storica è rappresentato da un affresco greco antico che raffigura atleti nudi in gara, mentre la sezione dedicata al fondatore della Compagnia, Sant’Ignazio, ha come sfondo l’immagine dell’atleta nero Jessie Owens ai blocchetti di partenza della gara dei 100 metri piani alle Olimpiadi di Berlino. Sono strani i gesuiti. Se scorriamo gli indici della loro rivista mensile La Civilità Cattolica (edita nel 1850, la prima rivista pubblicata in Italia in assoluto) troviamo trattati, tutti nello stesso stile semplice, chiaro e sintetico, gli argomenti più strani e disparati: dall’arte contemporanea alle recensioni cinematografiche, dalla politica cinese alle ultime scoperte della fisica, dalla storia alla politica alla letteratura alla medicina. Una rivista “religiosa”, piena di argomenti laici, con una peculiarità: per una norma interna mai violata, sulla rivista possono scrivere soltanto padri gesuiti. È la dimostrazione di come per comprendere

il mondo e tentare di migliorarlo, la Compagnia imponga ai suoi religiosi standard culturali, scientifici e accademici decisamente straordinari. È proprio alla “sua” rivista che il Papa ha concesso un’intervista, per alcuni versi straordinaria, nella quale non ha esitato ad affrontare temi spinosi come l’aborto e il divorzio in termini decisamente “rivoluzionari”. Un ordine che individua nella cultura uno strumento di apostolato non poteva non dedicare le sue energie all’istruzione non soltanto primaria e secondaria, ma anche universitaria e accademica. Nelle università, nei licei e nelle scuole rette dai gesuiti, i padri sono coinvolti nell’insegnamento di tutte le materie, a tutti i livelli. Non si limitano all’insegnamento della religione o della teologia, ma operano a tutto campo. Tutti i comportamenti, le parole e le riflessioni scritte del nuovo Pontefice sono coerenti con le regole della Compagnia e con i suoi quasi cinquecento anni di storia. Bergoglio è un gesuita a tutto tondo, e se non interverranno imponderabili fattori esterni e paralizzanti reazioni conservatrici della Curia Romana, “rivoluzionerà” dalle fondamenta la Chiesa di Roma così come l’abbiamo finora conosciuta. Intanto, negli ultimi mesi le donazioni alla Caritas in America Latina sono cresciute del 30% e, secondo un sondaggio Demopolis commissionato da La Repubblica, Papa Francesco ha il sostegno del 97% dei cattolici (e fin qui niente di strano), ma anche del 67% di non cattolici e di non credenti. Dopo sei mesi di “lavoro”, non è poco. (di Alfredo Mantici)


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Tutte le fatiche del Presidente

on la crisi in Siria da un lato e il braccio di ferro sul programma nucleare iraniano dall’altro, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, parlando all’ONU, ha offerto un’immagine degli Stati Uniti di superpotenza “riluttante” e in balia degli eventi, che non dev’essere piaciuta molto ai cittadini di New York, dove si svolgeva la riunione, e all’intera America. “Il concetto di Impero americano potrebbe essere un utile strumento di propaganda, ma non è questa la politica attuale degli Stati Uniti” ha affermato il sempre più criptico presidente USA. Che fine ha fatto l’American dream? Si chiedono ora i commentatori dei media statunitensi. Perché, dalle parole del comandante in capo, non si afferra neanche lontanamente quale sia la nuova strategia degli Stati Uniti nel mondo. Un fatto che, per un popolo orgoglioso e sempre più bisognoso di regole da rispettare com’è quello americano, è piuttosto sconvolgente. Con l’avvicendarsi degli appuntamenti internazionali e dei tavoli diplomatici per la pace, l’Amministrazione Obama sembra non riuscire più a esprimere chiaramente il pensiero dominante nella società americana - tantomeno quello della stanza Ovale - e lo stesso Barack appare sempre più sfuggente e pensieroso. Che il due volte presidente abbia perso un bel po’ dello smalto della prima presidenza lo si era capito da tempo, ma offrire un’immagine così appannata degli States proprio quando la minaccia si fa più seria, non è affare da poco. Scavalcati in diplomazia dalla Russia di Putin, in economia dalla Cina di Xi Jinping e in aggressività addirittura dalla Francia di Hollande, gli

In attesa che i presidenti di Iran e Stati Uniti s’incontrino personalmente (ma già si sono telefonati), all’ONU sono andate in scena le prove generali per la pace in Medio Oriente

Stati Uniti hanno dovuto ingoiare l’ennesimo boccone amaro: quello di una rivitalizzata Repubblica Islamica che - inaspettatamente - gioca bene le sue carte e, pur aprendo al dialogo dopo decenni di gelidi rapporti bilaterali, resta ferma sulle proprie posizioni e sbatte in faccia all’Occidente i suoi errori e parla piuttosto dei diritti per il suo Paese. Le aperture di cui è stato capace l’Iran - dalle elezioni democratiche di cui Hassan Rouhani è diretta emanazione fino al ritrovato senso di speranza, razionalità e moderazione che appartengono al “grande popolo dell’Iran” - concorrono così a spingere il mondo verso una pace condivisa e duratura. Mentre a Obama non resta altro che passare a ratificare decisioni altrui. Infatti, non serve più ripetere alle Nazioni Unite che le questioni delle armi nucleari e del conflitto arabo-israeliano possono essere la base per “una pace più ampia”. Questo lo sanno tutti. E vale a poco ribadire la linea secondo la quale nella risoluzione ONU sulla Siria deve comparire il Chapter VII (quello secondo cui l’intervento è

conseguenza del mancato rispetto della risoluzione stessa). Siamo già andati ben oltre e il presidente Rouhani - che alla CNN parla di pace e condanna i massacri nazisti e l’Olocausto - ne può approfittare. Ad esempio, citando uno dietro l’altro i peggiori esempi di politiche aggressive internazionali degli ultimi tempi, delle quali gli Stati Uniti (e Israele) sono in un modo o in un altro corresponsabili: “In nessuna parte del mondo la violenza è stata così mortale e distruttiva come in Nord Africa e Asia occidentale - ha arringato il presidente iraniano alla platea ONU - L’intervento militare in Afghanistan, la guerra di Saddam Hussein contro l’Iran, l’occupazione del Kuwait, gli interventi militari contro l’Iraq, la brutale repressione del popolo palestinese, l’assassinio di persone comuni e di personaggi politici in Iran, e gli attentati terroristici in Paesi come l’Iraq, l’Afghanistan e il Libano”. Ma, come diceva Oscar Wilde, “bisogna sempre perdonare i propri nemici, niente li infastidisce di più”. Così, il presidente iraniano ha ora la possibilità di scippare figurativamente il Nobel per la Pace proprio al presidente Barack Obama, togliendogli anche lo scettro di homo novus con cui era stato salutato all’alba della sua prima storica elezione. E, visto che la storia guarda sempre avanti, forse oggi il centro del mondo non è più in America ma in Medio Oriente. (di Luciano Tirinnanzi)

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econoMia: roUsseff e KircHner sUll’orlo della crisi

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Un aMico ti ascolta Gli USA hanno “spiato” tutto il mondo. Il Datagate ha aperto il vaso di Pandora. E adesso che succede?


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Ormai sappiamo di tutto e di più sul datagate, lo scoop del secolo che ha svelato molti degli usi e costumi degli spioni americani dell’NSA. Nessuno, però, aveva ancora aveva collegato l’ennesima clamorosa fuga di notizie dai più segreti uffici dei servizi di sicurezza degli Stati Uniti a una serie di episodi emblematici, che potrebbero anche aver favorito una campagna anti-americana, orchestrata per minare la credibilità americana agli occhi del resto del mondo. Per questa raccolta, abbiamo scelto l’articolo “Dalla Russia con amore”. Per quanto riguarda l’Italia, infine, soltanto in pochi avevano mostrato le ragioni per cui l’interesse nelle telecomunicazioni italiane è alto. Noi lo abbiamo fatto.


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Dalla Russia con amore

roviamo a immaginare che dietro al gigantesco scandalo Datagate, che minaccia i rapporti diplomatici, commerciali e quant’altro tra l’America e gli Stati amici del mondo, ci sia qualcosa di più di una spy story dai toni farseschi e dai tratti inquietanti. Facciamo un’ipotesi più intrigante e teorizziamo che dietro a tutto ciò si celi un progetto più grande, e magari pure raffinato, come non lo si vedeva dai sempre più nostalgici anni della Cold War. Ad esempio, che dietro al caso Datagate - lo smascheramento a mezzo stampa dei più inconfessabili segreti dell’intelligence USA, grazie a una fuoriuscita senza controllo d’informazioni in possesso di un ex funzionario infedele - ci sia la regia di una potenza mondiale, diretta concorrente degli Stati Uniti. Molti indizi portano a ritenere che oggi in Europa sia in atto una vera guerra di disinformazione, che oppone chi ha interessi strategici nei confronti dell’Unione Europea: ovvero Usa e Russia, divise tra shale gas e accordi di libero scambio. Ma andiamo con ordine. A ben vedere, la NSA, National Security Agency, era l’agenzia d’intelligence americana più segreta degli Stati Uniti, mentre oggi è involontariamente la più famosa. Sin dalla sua fondazione nel 1952, essa è cresciuta fino a diventare più indaffarata della stessa CIA e viene ormai considerata dal governo di Washington uno

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E se questa fosse una guerra tra spie che si combatte a colpi di disinformazione? Protagonisti, i soliti noti (USA-Russia). Scena del delitto, ancora la vecchia Europa

strumento essenziale per garantire la homeland security. Come noto, le telecomunicazioni sono oggi tanto più reali quanto centrali nella vita di ogni società moderna e sviluppata. In primis negli Stati Uniti, che detengono il primato in questo settore, perché per primi hanno avuto accesso alla tecnologia più avanzata, vale a dire internet. Essendone i creatori, e dunque i più esperti, ne hanno fatta una forma di cultura diffusa e massificata al punto che essa ha permeato lo stile di vita americano, terreno fertile e particolarmente ricettivo tanto alle matematiche applicate quanto ai deliri di onnipotenza. Qualcuno, dalle parti di Washington, anni fa teorizzò le

intercettazioni di massa come sistema efficace di tutela e controllo della nazione. Si chiamava J. Edgar Hoover. E, in seguito, qualcun altro - che si chiamava Richard Nixon - lo mise in pratica grazie alla propria posizione privilegiata. Gli andò male, ebbe un perdono presidenziale e si dovette fare da parte. Ma quella teoria fece comunque scuola negli ambienti governativi e fu infine applicata nell’epoca in cui poteva essere sfruttata meglio, quando cioè quella tecnologia aveva ormai raggiunto il suo punto più alto. Oggigiorno questo sistema d’intercettazioni permette di raggiungere (quindi spiare) chiunque e ovunque, per carpirne i più intimi segreti e le abitudini.


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Volendo, è persino possibile ascoltare in diretta, comodamente seduti su un divano Chesterfield a migliaia di chilometri di distanza, un capo di Stato che confida ai suoi intimi le strategie di governo. È questo il lavoro della NSA: ascoltare e registrare miliardi d’informazioni in ogni momento. Ed essendo le informazioni la moneta più preziosa al mondo, sapere in anticipo cosa pensano i tuoi competitor vale qualsiasi prezzo per uno Stato che ha interessi diffusi in tutto il mondo. E si fa di tutto, compreso intercettare gli amici. Quali amici poi? Uno Stato non ha amici, solo concorrenti. L’unico accordo segreto degli Stati Uniti per non spiarsi reciprocamente, è stato siglato soltanto con altri quattro partner, conosciuti come il “Five Eyes Group”, di cui oltre agli States fanno parte: Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. L’accordo in origine si chiamava UKUSA, fu sottoscritto già nel 1947 e, tra le altre cose, comprendeva anche l’installazione di stazioni di ascolto in ciascuno dei Paesi contraenti, che in seguito si sarebbero chiamate ECHELON. Raggiunto il livello di ampiezza del quale oggi siamo tutti a conoscenza (anche grazie alle rivelazioni di Snowden) non c’è da stupirsi che sia divenuto lo strumento principe dell’intelligence USA per la guerra globale al terrorismo. E neanche dobbiamo stupirci se, avendo a disposizione tali apparecchiature, i policy makers americani siano stati sedotti dalla possibilità a portata di mouse di conoscere in tempo reale cosa si dicono Angela Merkel e i colleghi europei al telefono e cosa si scrivono via mail le alte sfere dei ministeri economici, industriali o

militari. Perché, in fondo, è nel loro interesse. Ma torniamo al principio. Come noto, agli inizi di giugno Edward Snowden, la fonte interna all’NSA, fornisce al giornalista britannico Glenn Greenwald i documenti che provano come l’agenzia americana abbia spiato e archiviato milioni di conversazioni telefoniche. Greenwald lavora al quotidiano londinese The Guardian, che pubblica il pezzo e dà il via al gigantesco scandalo. Fin qui è storia nota. Quel che non è noto è che sin dai tempi della Guerra Fredda, The Guardian era sospettato di avere buoni rapporti con ambienti sovietici e di amplificare in Occidente campagne mediatiche (le più clamorose quella contro gli euro-missili alla fine degli anni Settanta e quella per il disarmo negli anni Ottanta) orchestrate dalla direzione A del primo direttorato principale del KGB, il servizio segreto russo di cui faceva parte anche Vladimir Putin. E nei salotti dell’intelligence occidentali, il giornale era additato come vero e proprio terminale infiltrato dai sovietici. La direzione A del KGB si occupava della disinformazione e, attraverso giornalisti e giornali

occidentali, attivava campagne di manipolazione delle opinioni pubbliche europee e americane. In Italia, per dire, anche Paese Sera era considerato uno di questi canali (in proposito, si veda il dossier Mitrokhin). Il Guardian lo sarebbe stato per l’Inghilterra. Se questi sospetti fossero fondati, allora sarebbe possibile ipotizzare che la redazione del Guardian abbia mantenuto aperto quel canale anche con i successori del KGB, ovvero l’SVR e l’FSB. A questo punto, entriamo nel mondo degli specchi dello spionaggio e del controspionaggio: i russi, venuti direttamente in contatto sia con Greenwald che con Edward Snowden - forse a Ginevra, dove Snowden ha lavorato per il governo USA - avrebbero garantito copertura e protezione in cambio delle preziose informazioni. Quindi, avrebbero avviato una campagna stampa, che è verosimile possa durare ancora nel tempo. Infatti, nonostante il Guardian sia stato costretto dalle autorità britanniche a distruggere gli hard disk dove erano contenuti i file segreti, le notizie continuano ancora a uscire in un’escalation che promette nuovi sviluppi. Le Monde, Der spiegel, New York Times, Pro Publica sono solo alcune delle testate che si sono aggiudicate - non è chiaro attraverso quali canali - i più recenti scoop. E già s’intravede l’inizio di una forma di risposta filo-americana al Datagate: da pochi giorni circola la notizia secondo cui i russi avrebbero spiato a loro volta tutti i leader, europei e non solo, al G20 di San Pietroburgo. Forse, l’inizio di un nuovo capitolo di una guerra tra spie a colpi di disinformazione. Obiettivo? L’Europa e il suo inestimabile mercato. (di Luciano Tirinnanzi)

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Dalla redazione di Lookout News arrivederci con le novitĂ del 2014



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