Lookout News Magazine n. 14 dicembre 2014

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2015 I I temi caldi della geopolitica e le prospettive economiche

NUMERO SPECIALE I MIGLIORI ARTICOLI DEL 2014

Barack Obama Vladimir Putin

www.lookoutnews.it

Ancora due anni di mandato per entrambi sono suďŹƒcienti a cambiare gli equilibri geopolitici. USA e RUSSIA anche nel 2015 restano intrappolati nel ruolo di superpotenze antitetiche che giocano a spartirsi il mondo

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la Vignetta di

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VECCHIE SFIDE, NUOVI ORIZZONTI DI MARIO MORI

l’editOriale

anno che si conclude è stato per Lookout News denso di soddisfazioni e di impegno. Come ricorderete il 2014 è iniziato con la nostra “discesa in edicola” a fianco di Panorama. I sei numeri cartacei della rivista, che sono usciti tra gennaio e giugno, hanno avuto un grande successo, che è proseguito e si è consolidato con la nostra presenza fissa sul sito online del grande magazine Mondadori. Abbiamo deciso anche di aggiornare e modernizzare il nostro sito web e la risposta di voi lettori è stata decisamente incoraggiante: in un anno gli accessi si sono triplicati. Abbiamo avviato anche un “video-esperimento”, dotando il nostro sito di una web TV, fatto che ha riscontrato molto favore. Dai grandi temi della geopolitica alla storia italiana, passando per i video-editoriali e i focus attualità, ci siamo dotati di un nuovo canale di comunicazione che nel 2015 verrà ulteriormente sviluppato.

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Saremo presenti riflessioni storiche e analitiche sugli eventi più importanti della storia nazionale e della geopolitica e proporremo nuove puntate su argomenti che riteniamo attireranno l’interesse di quella consistente pattuglia di lettori che ha mostrato finora di seguirci con attenzione e spirito critico. Insomma, chiudiamo un 2014 che è stato ricco di gratificazioni e ci prepariamo a un 2015 ancora più impegnativo e, speriamo, di successo. Il mondo, intanto, continua a girare vorticosamente. Dal Nord Africa al Medio Oriente, dal Sud America all’Europa Centrale, dall’Africa all’Estremo Oriente, vecchi e nuovi focolai di tensione si sviluppano con dinamiche che noi continueremo a osservare e ad analizzare con quegli strumenti di rigore e di approfondimento che ci hanno consentito finora di condividere con voi “il mondo che nessuno racconta”.


inBOx il direttore editoriale risponde

come finirà la guerra del petrolio? Mancano politici, grandi statisti con le idee chiare che vedono lontano, moderatori che vogliono il bene comune anche per il loro stesso interesse. Il mondo può precipitare perché è nelle mani dell’alta finanza e gli Usa e Obama hanno enormi responsabilità. Il pericolo è il BRICS, formato da super potenze militari, tra cui Russia e Cina in primis, che non si faranno mai pestare i piedi dall’Occidente. Qual è il vero obiettivo della politica estera di ankara? Incredibile parlare di politica estera fortemente innovativa per il governo turco. Il suo fallimento è ormai cosa nota almeno da un paio d’anni. paolo turco

Per decenni la politica estera turca è stata un modello di pragmatismo. I rapporti con Israele, mai toccati da un approccio islamista, l’apertura verso l’Europa e tante altre manifestazioni di intelligenza geopolitica sembrano un ricordo del passato da quando Erdogan, nel tentativo di successo di fare eleggere presidente della Repubblica, ha impresso una deriva islamista sia alla politica interna che alla politica interna che alla politica estera di Ankara. I risultati finora sono fallimentari: nonostante i turchi abbiano apertamente appoggiato la rivolta anti-Assad in Siria e la nascita dello Stato Islamico, oggi si trovano costretti a fare buon viso a cattivo gioco e ad appoggiare i curdi nella lotta contro i miliziani jihadisti

pietro albertini

Prima di analizzare quale sarà la strategia dell’Occidente nel prossimo futuro, dobbiamo in modo molto critico ammettere che negli ultimi anni l’Occidente non ha avuto una strategia. Tutte le crisi internazionali che si sono succedute nell’ultimo quinquennio sono state affrontate in modo superficiale, all’insegna di slogan politicamente corretti ma sostanzialmente vacui: le primavere arabe non hanno portato alla democrazia in Medio Oriente e Nord Africa, anche se l’Occidente a rimorchio degli Stati Uniti le ha sostenute con l’ingenua speranza che la “Democrazia Jeffersoniana” fosse esportabile dalla sera alla mattina in Paesi nei quali le maggioranze politiche non potevano che riflettere le maggioranze religiose. Le sanzioni alla Russia, adottate per difendere i nazionalisti di estrema destra di Kiev, stanno danneggiando le economie europee in modo insostenibile. Nel caso del petrolio Obama ne sostiene il calo del prezzo perché anche questo è uno strumento di pressione contro Putin. Ma sembra dimenticare che lo shale gas, che al momento assicura l’autosufficienza energetica agli Stati Uniti, è competitivo nei confronti del petrolio greggio solo se questo ha una quotazione non inferiore ai 60 dollari al barile. Se incoraggia l’ulteriore discesa del greggio, Obama si darà l’ennesima zappa sui piedi.

il mistero del volo della malaysia airlines abbattuto a donestk? C’è poco da discutere: solo per un “idiota” poteva essere evidente la responsabilità dell’abbattimento da parte dei filo-russi con un missile terra-aria. pierpaolo1947

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Visto il battage pubblicitario che sui media occidentali ha accompagnato la presunta minaccia dell’“orso russo” nei confronti degli “indifesi” ucraini, è evidente che se in questi mesi fosse stata trovata non dico una prova ma almeno un indizio sostanziale di responsabilità dei filorussi, ne avremmo viste delle belle. Ricordate nei primi giorni dopo il disastro? Sembrava che la National Security Agency e i satelliti americani ci avrebbero fornito anche la targa del furgone che avrebbe trasportato il missile omicida. Risposte? Nulla. Il silenzio più totale. L’abbattimento al momento resta un mistero, ma proprio l’assenza di certezze sulla sua paternità autorizza sospetti su Kiev. Così come lo studio del MIT (Massachusetts Institute of Technology) che abbiamo pubblicato sul nostro sito ha scientificamente dimostrato che la responsabilità del bombardamento chimico dell’agosto 2013 in Siria era dei ribelli e che era animato dalla volontà di provocare l’intervento occidentale contro Assad, così l’assenza di qualsiasi “prova” sulla responsabilità dei separatisti o dei loro alleati russi e l’imbarazzato silenzio che copre ormai da mesi quell’evento sconvolgente autorizza il sospetto che dietro l’abbattimento non ci sia una “manina” separatista.

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I volti pi첫 significativi del 2014 1. CHRIS CHRISTIE 2. NADEZHDA TOLOKONNIKOVA 3. BILL GATES 4. ED MILIBAND 5. JIMMIE AKESSON 6. PETRO POROSHENKO 7. PAPA FRANCESCO 8. JEHANE NOUJAIM 9. SERGEI LAVROV 10. CHRISTY WALTON 11. AGATHA SANGMA 12. MARINE LE PEN 13. KHALIFA HAFTAR 14. ALEKSANDR ZAKHARCHENKO 15. JANET YELLEN 16. JOHN KERRY 17. WARREN BUFFETT 18. AXEL KICILLOF 19. BERND LUCKE 20. PRAYUTH CHAN-OCHA 21. VLADIMIR PUTIN 22. CRISTINA DI BORBONE 23. VICTORIA NULAND 24. CARLOS SLIM 25. FEDERICA MOGHERINI 26. GEERT WILDERS 27. VIKTOR YANUKOVICH 28. IGOR PLOTNITSKY 29. HELLE THORNING SCHMID 30. WALID AL-MOUALEM 31. JAN KOUM 32. SEBASTIAN KURZ 33. HEINZ-CHRISTIAN STRACHE 34. AHMED MAITEEQ 35. ARSENY YATSENIUK 36. ARIEL SHARON 37. HAITHAM AL-MALEH 38. INGVAR KAMPRAD 39. KIM JONG UN 40. NIGEL FARAGE 41. NICOLAS SARKOZY 42. BARACK OBAMA

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Le sfide del 2015 nel segno di Vlad e Barack Ancora due anni di mandato per entrambi sono sufficienti a cambiare gli equilibri geopolitici. USA e RUSSIA anche nel 2015 restano intrappolate nel ruolo di superpotenze antitetiche che giocano a spartirsi il mondo di Luciano Tirinnanzi anno che stiamo per lasciarci alle spalle è stato caratterizzato a livello geopolitico da una serie di crisi internazionali ad alto rischio che, solo sommariamente e dimenticandone inevitabilmente alcune, possiamo individuare soprattutto in due aree geografiche, ovvero le regioni nordafricana-mediorientale e quella dell’est europeo. Nel primo caso, dovremo parlare della fine della parabola delle Primavere Arabe, segnata principalmente dal voto democratico in Tunisia (unico evento segnatamente positivo) ma anche della presa del potere da parte dei militari in Egitto e della contestuale disintegrazione della società libica, le cui fughe verso l’ignoto e la guerra preoccupano non poco. Alla moderazione delle popolazioni musulmane che hanno scelto di emanciparsi dal radicalismo religioso, si è però sostituito in Medio Oriente un fenomeno ben più pericoloso, rappresentato dalle milizie dello Stato Islamico in Siria e Iraq. L’organizzazione jihadista sunnita da giugno a oggi ha colmato un vuoto politico (Iraq) e si è inserito in una guerra civile (Siria), non solo imponendosi militarmente in larga parte della Mesopotamia, ma ricreando anche una for-

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ma di Stato che risale alle origini della società araba musulmana, il Califfato. Una mossa che rischia di oscurare i successi delle borghesie arabe che sono riuscite ad emanciparsi dall’involuzione religiosa radicale, perché ISIS si è rivelato capace di attrarre verso sé nuove generazioni di musulmani provenienti da tutto il mondo e pronti a immolarsi per la causa del Califfo. Causa che però appare vana, visto che la forza propulsiva dimostrata dalle truppe dello Stato Islamico si è arrestata e nel 2015 non potrà che conoscere ulteriori battute d’arresto, fino al radicamento nelle sole aree sunnite dell’Iraq o fino alla sua definitiva scomparsa. Molto dipenderà dalle sorti, ancora sospese, della guerra civile in Siria (che ormai ha superato il quarto anno) dove, oltre alla presenza delle milizie dello Stato Islamico, s’intrecciano gli interessi di Mosca e Washington, che combattono una partita di ben più ampio respiro. Di Israele e Palestina, invece, non molto conviene dire neanche per il 2015, poiché si rischia di cadere in un esercizio retorico dove all’analisi politica dell’esistente si sostituiscono solo speranze e buoni propositi, e mai fatti decisivi o innovativi per la futura creazione di due Stati. L’acuirsi della virulenta crisi in

RUSSIA IL 2015 DI MOSCA pOTREbbE ApRIRSI nEL SEGnO DELLA MODERAzIOnE

Ucraina nel 2014 è invece lo specchio dei pessimi rapporti cui sono giunte le attuali amministrazioni di Washington e Mosca, dopo anni di tiepido riavvicinamento. L’involuzione del dialogo tra Russia e Stati Uniti ha così riavvolto il nastro delle relazioni tra i due Paesi, riportandolo ai tempi in cui il muro di Berlino era ancora in piedi. Ci si è messa di mezzo persino Cuba - che col nuovo anno godrà di relazioni diplomatiche con Washington - nel braccio di ferro tra Vladimir Putin e Barack Obama, con un punto messo a segno da quest’ultimo, nonostante il 2014 sia stato caratterizzato dalle azioni del presidente russo. Putin può a ragione essere definito l’uomo dell’anno 2014, perché è stato capace di tutto: riavvicinare la Siria di Assad all’Occidente, facendosi consegnare l’arsenale chimico; ammansire l’Iran per avviare la strada dei colloqui


sul nucleare con le potenze mondiali; annettere la Crimea, togliendola all’Ucraina e difendendo l’Est ucraino dal governo legittimo di Kiev. Ma l’ultimo trimestre ha rivelato anche le molte fragilità del Cremlino: l’economia energetica e di conseguenza quella nazionale al momento non viaggiano più ai livelli sperati, il Paese si è avvitato nella ricerca di partner strategici alternativi ai mercati abituali, mentre le sanzioni economiche comminate dall’Occidente in risposta alla difesa dell’Est ucraino e il crollo del prezzo del petrolio hanno fatto il resto, scatenando una spirale discendente del rublo e dell’economia nazionale, per risollevare la quale occorreranno almeno un paio d’anni. Da ciò se ne può dedurre che la scelta di Vladimir Putin nel 2015 potrebbe essere di moderazione e basso profilo. Mentre Barack Obama farebbe davvero bene a non provocare il risveglio dell’orso.

PROSPETTIVE PER IL NUOVO ANNO

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l 2014, tutto sommato, è stato un anno di passaggio e la soluzione a molte delle vicende sin qui enucleate potrà trovare risposta più avanti. Lo Stato Islamico in Siria e Iraq, ad esempio, potrebbe essere definitivamente sconfitto nel corso del 2015, mentre a giugno potrebbero aprirsi spiragli concreti per un accordo sul nucleare in Iran. Più difficile prevedere una pacificazione in Siria che, in ogni caso, resta all’ordine del giorno una volta risolto il dilemma del mantenimento al potere o meno di Bashar Assad, cosa per la quale servirà l’assenso di Mosca.

Gli Stati Uniti, in piena ripresa economica e con un presidente libero di agire negli ultimi due anni al potere (nonostante la minoranza al Congresso), saranno il vero ago della bilancia geopolitica, per quanto questo sia anche un fatto molto pericoloso. La Casa Bianca, infatti, al momento lavora dietro le quinte per trovare una sponda politica interna alla Russia che li aiuti a defenestrare il presidente Putin. Un ennesimo tentativo di destabilizzazione volto ad accrescere il potere della NATO in Europa, che potrebbe minare una soluzione pacifica della guerra in Ucraina. Se Putin si rivelerà prudente, il presidente più amato di Russia riuscirà a disinnescare la bomba piazzata sotto la sua poltrona e potrà impedire che gli USA proseguano nella strategia di una riedizione della Guerra Fredda, riconoscendo la necessità di un maggior dialogo e stemperando quella voglia di supremazia di cui gli Stati Uniti sono afflitti da sempre. Parimenti, nel 2015 la crisi in Europa potrebbe allentarsi e anche la nostra economia ripartire. I segni indelebili che l’anno 2014 lascia in eredità all’Italia sono riscontrabili principalmente nella contrazione economica che abbiamo scoperto mordere ancora. Al nuovo presidente della Repubblica il compito di contribuire a fare del nostro Paese una penisola di stabilità e progresso, senza cedere alle sirene del disfattismo e di quel compromesso gattopardesco che ha annichilito la politica italiana, rendendola nauseante e impotente a incidere positivamente sul futuro, certo migliore, che questo Paese merita.

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2014 Il 2013 è stato l’anno di Vladimir Putin e del ritorno della Russia nello scenario internazionale. Il presidente, grazie anche al suo abile ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha posto le basi per la nuova e aggressiva politica estera di Mosca. In Europa già ci si chiede: che fare?

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Zitti e MOSCA RUSSIA | di Giorgio R. Fanara*

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o trovato intellettualmente curiosa e piuttosto stimolante l’ottima recente iniziativa editoriale (targata Radio 24) di raccontare la storia del tentativo italiano di regime change condotto e ritirato nel 1970 da Valerio Borghese. Ottima, curiosa e stimolante deludenti, scaturiti dai regime change perché la lettura della Storia e dei suoi arabi tentati quarant’anni dopo. Per quanto riguarda Mosca, la stagioerrori è sempre utile, anche se a volte istruttiva e altre deprimente. Riascol- ne era addirittura invernale, imperava tare alla radio con voce fuori campo un altro ossimoro (correva il tempo dell’intervista di Giampaolo Pansa al la Guerra Fredda) e cortine, muri e patti principe, pubblicata dal quotidiano non consentivano cambi di stagione. La Stampa il 9 dicembre 1970, è stato Eppure, come spesso si constata, nella follia si nasconde un presagio di futuro. esercizio fecondo di riflessioni. Fin dal primo mandato di Putin alla Una in particolare: il principe, con la stizza e la supponenza di chi, non presidenza della Federazione Russa si raccogliendo sufficiente consenso sul- assiste a una traiettoria geopolitica che le proprie idee, risolve e giustifica il gli analisti hanno definito “post-zarista” o “neo-imperialista”. Il Cremlino ha proprio insuccesso addebitando condotto nell’alternarsi delle agli altri l’incapacità a comstagioni politiche un’uniprendere. Egli sentenzia, voca grande strategia: il a proposito della supmantenimento del posta resa della allora Putin: il suo controllo dell’Hearclasse dirigente: tland e l’intransigenza “...si è già arresa!”, e nel garantire la sicupiù avanti incalza: rezza delle proprie “...allora si arriverà a è nel segno della frontiere. una decisione del popoIl nuovo mandato di continuità lo italiano. Fra breve si Putin, l’attuale, è segnato porrà di nuovo il dilemdalla continuità strategica ma: o Roma o Mosca!”. con il primo, ma affinato atEra quella l’epoca in cui ai traverso l’elaborazione di una scienfenomeni socio-politici era attribuita la qualificazione meteorologica del- za di politica internazionale che lo ha l’autunno e s’impressionava l’opinio- reso molto più lucido, incisivo e conne pubblica con il paradosso dell’ossi- cludente degli intenti perseguiti. Conmoro (l’autunno caldo). L’aspettativa cedendomi un’ardita interpretazione positiva riposta nell’accezione stagio- comparata, della quale devo chiedere nale della primavera avrebbe poi sug- venia agli analisti di mestiere, possiagestionato i nostri tempi, ma non era sta- mo definire Putin un “leader neota ancora smentita dai risultati, invero monroviano”.

TERZO MANDATO

Nella foto: la navicella Soyuz TMA-11M, decorata con il logo di Sochi 2014. Il cosmonauta russo Mikhail Tyurin ha passeggiato nello spazio con la fiaccola che accenderà le Olimpiadi invernali (7-23 febbraio 2014)

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FOCUS

Vladimir Putin l’essenziale

La Dottrina Monroe nasce per creare un Nuovo Ordine repubblicano a guida americana in contrapposizione a un Vecchio Ordine monarchico restaurato dal Congresso di Vienna. Essa utilizzava la frontiera continentale e l’equilibrio strategico negoziato con l’allora potenza navale inglese, per impedire una colonizzazione delle monarchie europee non solo sul territorio della nuova nazione, ma anche delle regioni latino-americane, acquisendo enormi vantaggi geo-economici per gli Stati Uniti (a nulla valse il tentativo di inserimento francese in Messico). Mentre Monroe non aveva una “geo-storia” da difendere, ma un futuro da conquistare e una naturale proiezione di difesa-offesa rappresentata dall’Oceano, Putin ha invece una grande “geo-storia”, un futuro da riconquistare e una proiezione di difesa-offesa a banda larga: dall’uso politico del gas e del petrolio alla dislocazione di batterie di missili alle frontiere con l’Unione Europea (nell’enclave russa di Kaliningrad e lungo la frontiera con i Paesi baltici), in risposta al progetto europeo di scudo missilistico adottato dalla Nato e basato sulla tecnologia americana. La garanzia di sicurezza e integrità territoriale, la capacità di leadership e influenza regionale, accomunano il Monroe di allora e il Putin di oggi. Per gli epigoni di Monroe, quella dottrina

riverbera ancora oggi, eco malinconica di un ormai impossibile isolazionismo e mortificata con astruse “alleanze dei volenterosi”, contorte geometrie variabili, per lo più contingenti contro avversari regionali, in conflitti asimmetrici, tra complicati slogan (“guerra al terrore”, “soft power bellico”, “counterinsurgency”, etc.) su cui impostare le scelte strategiche con enormi costi. La questione siriana docet. Due esempi sono sotto gli occhi di tutti. Primo, l’attuale vincente linea energetica di Mosca nei confronti dell’Unione Europea, che è alla disperata ricerca di un mercato comune e, nel frattempo, cerca di massimizzare la diversificazione dei volumi e delle rotte per non dipendere da Mosca. Secondo, lo scudo missilistico della NATO, sulla carta strumento geostrategico per la difesa degli Stati europei da potenziali attacchi missilistici di Paesi “nemici” (Iran e Corea del Nord su tutti), mentre Mosca lo considera una minaccia alla propria sicurezza e non digerisce il concetto di “nemico”, ma preferisce quello di “avversario”. Infatti, chi oggi è un “avversario” domani potrà essere un “alleato”. Un “nemico”, invece, allunga il fattore tempo in modo ultra-generazionale. Da un lato, la Dottrina Putin cerca di annullare la minaccia esterna alla pace e alla prosperità domestica e limitrofa piena di problemi (uno per

Nome Vladimir Vladimirovich Putin Nato il 7 Ottobre 1952 Luogo Leningrado (San Pietroburgo) Studi Leningrad State University, Legge, 1975; Red Banner Institute of Intelligence, 1984; Mining Institute of St. Petersburg, 1997 Matrimonio Lyudmila Shkrebneva (28 Luglio 1983) separato, due figli Religione Cristiano-ortodossa Carriera Ha servito come agente del KGB in Germania Est (1985-90) Altre curiosità parla fluentemente tedesco, discretamente l’inglese, è cintura nera di judo. Al CREMlINO 2000 Eletto presidente al primo turno (tragedia del sottomarino Kursk) 2003 Elezione generale dà agli alleati di Putin il controllo sul parlamento 2004 Putin rieletto (attacchi ceceni culminano nella strage di Beslan) 2005 Mikhail Khodorkovsky arrestato per evasione fiscale 2006 Russia taglia le forniture di gas all’Ucraina (gennaio); San Pietroburgo ospita il G8 2007 Braccio di ferro con gli USA sullo scudo anti-missili in Europa 2008 Putin premier e Medvedev presidente (guerra in Georgia)

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2014 La Banca centrale russa ha ridisegnato il rublo, lasciando al pubblico la possibilità di esprimere la propria opinione sulla scelta definitiva del nuovo logo che, nelle intenzioni del Cremlino, servirà per rilanciarne l’immagine e bilanciare le riserve internazionali, alla pari con il dollaro e l’euro. Al sondaggio online hanno partecipato 280mila persone e il simbolo prescelto ha ottenuto il 61% delle preferenze. L’artista che ha disegnato la lettera “P” con il trattino è Artemy Lebedev

tutti, Tiblisi); dall’altro lato, sposta gli equilibri regionali e globali a proprio vantaggio, sfruttando geo-economicamente le proprie risorse. Il Moscow Consensus non tende a fare di Mosca un “padrone” e “protettore” degli equilibri geopolitici, ma mira a riconquistare il ruolo di grande potenza economica, egemone nel proprio Heartland e influente nelle scelte degli Stati (es. dalla Turchia all’Iran nel Medio Oriente Allargato; da Singapore alla Cina nel Sudest Asiatico; dal Venezuela al Brasile nel Sud America; in Africa e così via). Esso non interferisce in prima battuta negli affari politici, ma impone gli interessi economici della Russia per poi esercitare un’influenza politica determinante. D’altronde, Putin stesso ha manifestato chiaramente il suo pensiero considerando che se il collasso dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe del XX secolo, la sua ricostruzione sarebbe il più grande disastro del XXI. L’unione doganale tra Russia, Kazakhistan e Bielorussia, la proiezione con la Nuova Zelanda, la collaborazione con la Norvegia, l’attenzione verso l’organizzazione dei Paesi EFTA e il negoziato con la Svizzera, sono testimonianze della tessitura esocentrica di Putin in materia d’influenza dispiegata per il preliminare e prioritario raggiungimento dei suoi interessi economici. E l’Italia? Fedele agli impegni assunti con le alleanze strategiche di cui fa parte, immersa in una perdurante crisi economica e un crescente disagio sociale - fattori che acuiscono il malessere di essere la più piccola tra le grandi potenze e la più grande tra le potenze minori del mondo - l’Italia potrebbe, con un colpo d’ala creativo, cimentarsi su come trasformare 14

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in una straordinaria occasione di sviluppo, la minaccia incombente di collassare (se non arresta la caduta del tasso di disoccupazione) nella classifica economica mondiale. Basterebbe evitare d’intendere quelle alleanze come puro asservimento su decisioni per essa assunte altrove. Sempre per la suscettibilità degli analisti di mestiere, absit iniura verbis, il Sabatini Coletti così definisce “asservimento”: “collegamento tra due elementi di un sistema, tale che l’azione di uno segua obbligatoriamente l’azione dell’altro”. Sostituiamo l’avverbio “obbligatoriamente” con “opportunamente”. Non siamo nemici e neanche avversari della Russia. Coniamo noi creativamente: siamo amici. Se l’Italia provasse a valorizzare la sua caratteristica di grande potenza industriale che, pure se versa in una contingente difficoltà economica, mantiene eccellenze invidiabili e desiderabili in ogni settore, potrebbe acquisire una sua autonoma agibilità in termini di deterrenza e dissuasione nel negoziare in proprio favore interessi economici nazionali e condurre una politica internazionale di scambio economico, da utilizzare per neutralizzare la principale minaccia all’elemento su cui costituzionalmente si fonda: il lavoro. Mosca, a mio giudizio, sarebbe contenta di un’alleanza con un’Italia dotata di una siffatta connotazione internazionale. Forse che non sarebbe più attraente della Norvegia, della Svizzera o della Nuova Zelanda? Sono certo che intuitivamente il lettore concorderà. Altrettanto sono convinto che bisognerebbe approfondirne i motivi. Ma per questo bisogna chiedere al direttore una seconda puntata. In conclusione, tornando all’esordio “o Roma o Mosca”, un siffatto manicheismo non è accettabile, specie per i motivi che ispiravano il principe Borghese. Quattro decadi dopo, potremmo dire: “Roma e Mosca”.

Dall’Impero alla Federazione

Dimitri dove sei?

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al maggio 2012 è primo ministro della Federazione Russa ma non se n’è accorto nessuno. Soprattutto negli ultimi mesi, la scena politica infatti è stata interamente dominata dal presidente Putin che opera sullo scenario interno e su quello internazionale come se la figura del suo capo di governo non esistesse, accentrando su di sé qualunque iniziativa di rilevanza politica, dalla liberazione di alcune figure politiche incarcerate con accuse varie ai negoziati sulla Siria. Ed è nella linea politica tradizionale del leader russo non lasciare spazi di manovra ad altre personalità che possano ricoprire un ruolo di primo piano, anche se appartenenti all’entourage del potere. Sentiremo ancora parlare di Medvedev, ma probabilmente solo per riaffermare delle linee di governo già tracciate da una non troppo velata “eminenza grigia”. (C.E.)

* Ceo di FANARA - SPEI, Studio di Politica Economica Internazionale

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Un documento unico nel suo genere. Le voci pro e contro della Costituente tunisina. Un reportage esclusivo per raccontare la parabola dell’unico Paese arabo che ha superato indenne le Primavere Arabe e ne è uscito rafforzato. numerO

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ttraversando Avenue Mohammed V, la grande arteria cittadina che spinge il traffico fuori e dentro il centro di Tunisi fino a piazza dell’Orologio e Avenue Bourguiba - cuore pulsante della capitale e luogo simbolo della Rivoluzione - si è come costretti a osservare il grande e imponente palazzo di vetro che si staglia sullo skyline cittadino e che, con la sua presenza, incombe sul via vai ininterrotto del traffico che dalle cinque di sera intasa regolarmente questa e altre vie. Non è un edificio qualsiasi, il palazzo di vetro. Niente a che fare con l’ONU e i diritti umani, anzi. Quello che oggi è un edificio spoglio e sinistro, era il quartier generale di Zine El-Abidine Ben Ali, il dittatore che ha torreggiato su questo Paese per oltre vent’anni e che ha fatto imprigionare (e torturare) anche alcune tra le persone che intervisteremo durante questo viaggio. Oggi il palazzo di Ben Ali è vuoto, spogliato delle cupe trame e dai diktat del Raggruppamento Costituzionale Democratico - RCD, il partito del presidente di cui questo edificio era sede - che da qui imponeva la propria volontà sul popolo tunisino. Ma ormai tutto ciò è storia passata e presto qui sorgerà una più incoraggiante dimora, quella del commercio internazionale. È un punto di osservazione privilegiato, come se il dittatore da quelle finestre avesse potuto controllare e giudicare i tunisini in ogni momento. Ma la sua vista s’interrompe alla fine di Avenue Bourguiba, a Port du France, nel punto in cui comincia la città vecchia. Lì Ben Ali, che si era illuso di poter vedere tutto, non è riuscito mai ad arrivare. È arrivata invece la Rivoluzione. Arriviamo a destinazione e attendiamo. Quando sono passati dieci minuti dall’orario stabilito per l’intervista, la tensione è ormai alta. Non sappiamo ancora se arriveranno, e ho il timore crescente che abbiano cambiato idea all’ultimo momento. Ci sono volute settimane, anzi mesi per combinare l’appuntamento e, visto che non rilasciano

mai interviste agli occidentali, il dubbio è lecito. Mentre scruto nervosamente il via vai di volti che affollano il luogo dell’incontro, chi mi accompagna ostenta serenità e mi ripete che “in Africa bisogna saper aspettare”, perché, prima o poi, qui tutto magicamente accade. Un po’ come per la costituzione tunisina, che ormai sta per essere firmata a poche centinaia di metri da qui, al Palazzo della Costituente ovvero il Parlamento. Infatti, non c’è neanche il tempo di finire il caffè che scorgo nella sala grande due volti carichi d’espressività. Un cenno d’intesa e ci avviciniamo. Sono loro. Ci rechiamo in un luogo appartato, dove abbiamo già sistemato il registratore e la telecamera. Niente francese, per esprimere compiutamente certi concetti serve l’arabo. Pensano che io conosca bene la loro lingua, ma non è così. Concordiamo allora che le domande saranno in francese, le risposte in arabo. Lascio tre delle nuove monete in dinari appena coniate dalla Banca Centrale, ma il barista non si fida, così sono costretto a lasciargli una banconota da venti. Ho fretta e, del resto, quel caffè le meritava. Saliamo in ascensore in un silenzio surreale ma a poco a poco mi rendo conto che sono l’unico ad esser teso. Gli altri sono ben felici di esser qui e si vede che hanno voglia di comunicare, di farsi conoscere meglio da noialtri europei, che tendiamo sempre a generalizzare e semplificare quando parliamo di Islam. Ci accomodiamo nella camera, accendo il registratore, e finalmente possiamo iniziare. Sono Abdelmajid Habibi e Abdelhafidh El Gaied, rispettivamente portavoce e presidente della Commissione del partito Ettahrir. Sarà il portavoce a rispondere a quasi ogni domanda, ma lo sguardo penetrante di El Gaied sottolinea sufficientemente bene ogni passaggio dell’intervista.

di Luciano Tirinnanzi

L’Islam che non vuole confini C’è anche chi dice no alla Costituzione. L’intervista esclusiva ai vertici del partito internazionale islamico Hizb ut-Tahrir

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2014 Tra qualche ora la Costituzione sarà infine approvata. Che ne pensate? Il problema non è la Costituzione in sé, ma la rinascita spirituale della nostra società. Questa presunta rivoluzione urta i sentimenti del popolo, dato che non siamo un Paese culturalmente omogeneo come può esserlo l’Italia, perciò riteniamo che non sarà possibile applicarla. I costituenti, anche se eletti, stanno scrivendo una Carta che non va bene per i tunisini, i quali sono profondamente musulmani all’origine, anche se non tutti sono praticanti.

Qui a fianco: il quartier generale di Ben Ali, ex sede del partito del presidente deposto, l’RCD

Eppure il popolo è sceso in piazza A destra: La moschea perché voleva un regime change e di Zitouna migliori condizioni economiche (VIII secolo), Qui, come in altri Paesi, le rivolte conuno dei principali tro i regimi dittatoriali sono state spinte centri mondiali di per protestare contro qualcosa che non cultura islamica. va più bene. Tali movimenti, che mettoFu chiusa da Bourguiba no in gioco la vita senza pensare al dopo, nel 1964 per non portano in sé le risposte per il fututentare di frenare ro né hanno già chiaro il domani. Ma è l'influenza proprio dopo il crollo di un certo regidella religione me che viene il compito dei leader, delle in Tunisia élite e degli intellettuali, che devono guidare il popolo verso nuove soluzioni. ci sia un dittatore a governare, ma nel In Tunisia, la via di chi ha preso adesso fatto ch’egli faccia le leggi. È questo a in mano la situazione per guidare il popo- determinare una dittatura di per sé. lo verso una strada nuova, è poco diffe- Qui sta il problema. rente rispetto al passato: dal nostro punto di vista, ci sono ancora le stesse perQual è allora il vostro compito sone, sistema, leggi e infrae come si concilia strutture del tempo di Ben con la democrazia Ali, a gestire il Paese. Non e l’Occidente? “Questa vediamo differenze tra Il problema è la mapRESUNTA la nuova Costituzione e niera in cui gli occidenquella del 1959: essa RIvOlUZIONE tali vedono l’Islam, non ha niente a che cioè senza conoscerlo urta vedere con l’Islam e la profondamente. Ani sentimenti Sharia. Va anzi verso che se questo in realtà è un’altra strada. un nostro problema, del popolo” spetta a noi far conosceDunque, è una re il vero Islam. L’Islam è Costituzione laica? una responsabilità che ci ha Evidentemente. dato Dio, un messaggio da spiegare e far arrivare a tutti gli esseri umani. Ma è o no un passo avanti? Chiunque pretenda di essere musulLa dittatura, del resto, non c’è più… mano, sa che egli è un messaggero e Tout le monde vie la dictature. La ditta- ha il compito di far conoscere l’Islam tura per noi non consiste nel fatto che e farlo comprendere a tutto il mondo,

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per salvarlo dalla malvagità e dalla corruzione e da tutto ciò di cui soffrono i popoli della terra. Noi abbiamo la responsabilità di chiamare la gente all’Islam, ma senza coercizione. Il nostro compito, del resto, è arrivare il più lontano possibile: il Corano dice che Dio ha creato l’umanità in vari popoli e cittadinanze, che dovranno conoscersi reciprocamente. Noi musulmani dobbiamo chiamare gli altri a un’unica parola comune, a riconoscere un unico Dio. Ma se non avete convinto Ennahda e il popolo tunisino, come farete a convincere l’Occidente? Anzitutto, vorrei dire che noi non abbiamo mai parlato di relazioni internazionali e rapporti con i governi, noi non siamo un governo né siamo al governo. Bisogna lavorare per obiettivi e per fini. L’obiettivo principale è applicare l’Islam per come lo vuole Dio. Il modo più corretto è parlare con la


Abdelhafidh El Gaied

Abdelmajid Habibi

Presidente della Commissione del partito

Portavoce del partito

Noi dobbiamo fare in modo che sia il popolo a chiedere di vivere sotto una legge divina, mandata da Dio, e dia il potere a quegli eletti di instaurare la Sharia. Gli altri metodi non si sono rivelati validi. Come pensate che venga giudicato questo in Occidente? Il primo problema degli occidentali è il modo in cui guardano all’Islam. Ma se oggi in Francia o in Italia venisse deciso di chiudere le moschee o di

tutti si esprimano liberamente in Tunisia. Presenteremo i nostri progetti e vedremo se il popolo preferirà vivere sotto l’Islam o meno. Bisogna lasciar decidere il popolo: se vuole l’Islam, che lo si lasci fare, senza manipolarlo. Un esempio è l’Egitto: il popolo aveva scelto la Sharia, ma altre forze esterne hanno appoggiato un colpo di Stato e tutto è cambiato. Questo non è giusto, è un’ingerenza negli affari musulmani, bisogna lasciare il popolo decidere della propria sorte. Dov’è la democrazia se poi un risultato elettorale che non piace, viene rovesciato? Viene da pensare che la democrazia sia solo un concetto immaginario. Perché non avete partecipato alla fase costituente? È una nostra scelta. La questione non è andare a cercare il potere. Andare al potere oggi significa imporre le proprie idee al popolo, mentre per noi è indispensabile prima di tutto persuadere. Il concetto di arrivare al potere per sistemare le cose non ci appartiene, noi vogliamo coltivare il rapporto con la gente affinché siano loro a chiederci di applicare la Sharia. È la collettività a cambiare le cose.

gente, e poi sarà la gente a voler vivere sotto l’Islam. Se non lo farà, vorrà dire che non siamo stati capaci di comunicare bene. In ogni caso, è il popolo ad avere il potere e coloro che guidano il popolo devono esprimere la sua volontà. Nel parlamento, i deputati sono eletti per esprimere il volere del popolo ma questo non sempre avviene. Più spesso sono solo un gruppo di persone che decide per conto del popolo.

impedire di portare il hijab, noi non protesteremmo. Perché è il vostro Paese e potete fare ciò che volete. Ma qua in Tunisia, e nel mondo arabo, al momento si cerca di manipolare la volontà del popolo. La Costituzione ne è un esempio: è volontà dei partiti politici, fatta per loro e non per il popolo. Secondo voi che si dovrebbe fare? La nostra soluzione è lasciare che

D’accordo, ma come si può fare, concretamente? Lo stiamo facendo anche in questo momento, parlando con dei giornalisti occidentali. In ogni caso, oggi ci sono due sole vie: o continuiamo nel sistema capitalista che ha condotto il mondo verso la malvagità e la corruzione o scegliamo l’Islam. È questo che noi diciamo al popolo, il quale deve avere l’ultima parola. Noi lavoriamo a questo. Ma se il popolo chiede soltanto il benessere economico? Il benessere economico minimo dev’essere garantito a tutti e dev’essere lo Stato a garantirlo. Chi vuole raggiungere obiettivi anche economici molto più alti e accumulare denaro ne ha il pieno diritto. Ma se ci può essere chi ha un intero grattacielo, invece non ci

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NOVEMBRE

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Chi è Hizb ut-Tahrir Il “Partito della Liberazione” è un’organizzazione islamista internazionale, la cui finalità è la restaurazione del Califfato Islamico in unione con la Umma (comunità) dei fedeli musulmani. In concreto, ciò significa ricondurre i musulmani ai principi della religione nell’ambito di un’entità sovranazionale dominata da un califfo, che esercita i suoi poteri proprio come garante della Sharia, la legge religiosa islamica. Formalmente, Hizb ut-Tahrir fu fondato nel 1953 a Gerusalemme, da Taqiuddin al-Nabhani, studioso e giurista islamico. Da allora, l’organizzazione ha fondato filiali locali in oltre quaranta Paesi e può contare su circa un milione di affiliati. Hizb ut-Tahrir è ben radicato anche in Occidente e, come spiega il sito australiano, “accetta musulmani e musulmane come membri, a prescindere che siano arabi o no, bianchi o di colore, perché è un partito per tutti i musulmani”. Nonostante la denominazione di “partito”, Hizb ut-Tahrir ha raramente presentato propri candidati alle elezioni dei Paesi in cui è presente, in alcuni dei quali è messo al bando. Ciò avvenne in Giordania, negli anni ’50, prima che il partito fosse bandito, e più recentemente in Kirghizistan, però senza successo. Nelle parole dell’analista kazako Dosym Satpayev, la strategia di Hizb ut-Tahrir si basa sui seguenti tre passaggi: • fondare una comunità di affiliati che lavorino insieme sul modello dei Compagni del Profeta, in spirito di totale obbedienza ai principi ispiratori del partito; • influenzare l’opinione pubblica, soprattutto nell’ambito delle comunità musulmane, a favore del progetto del califfato e del ritorno alle origini dell’Islam; • ottenere il supporto di vertici politici e militari per procedere a un cambio di regime in senso autoritario; e così, di Paese in Paese, auspicabilmente in tutto il mondo. L’anima del “partito” può essere definita salafita in quanto si rifà agli “antenati” dell’Islam (Salaf). In quanto tale, rifiuta la modernità e i sistemi politici moderni, quali ad esempio la democrazia intesa nel senso occidentale e il sistema elettorale.

Fonti: OGMO, Hizbuttahrir.org

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Fonte: OGMO

Ar-Raya al-Islamiyya, la bandiera islamica Contrariamente al luogo comune, la bandiera in campo nero con scritte bianche in arabo mostrata in numerose occasioni in relazione alla jihad, non è affatto un “marchio esclusivo” di Al Qaeda. In essa è scritto: “Non vi è altro Dio all’infuori di Allah e Muhammad è il Suo Messaggero”, ed è la frase che si trova sulla storica bandiera islamica (Ar-Raya alIslamiyya), bianca su sfondo nero o viceversa. Ma è anche la stessa dell’Arabia Saudita, che ha aggiunto sotto l’espressione una spada e utilizzato il colore verde dell’Islam, che rappresenta la janna (il paradiso). Si tratta dell’espressione religiosa e dottrinale più importante per tutto l’Islam, in quanto rappresenta il primo pilastro della fede musulmana, la shahada, la testimonianza di fede. È stata la prima bandiera del Califfato islamico, ed è sempre stata utilizzata nel corso della storia dell’Islam come bandiera della Umma, la comunità globale dei fedeli musulmani.

Allo stesso modo, la bandiera è l’espressione del concetto di unità all’interno dell’Islam e dunque contrasta con le ideologie nazionaliste, che nel secolo scorso, e dopo lo smembramento dell’Impero Ottomano - l’ultimo Califfato dell’Islam - hanno prodotto la nascita dei vari Paesi arabi come li conosciamo oggi. Essendo portatrice di un messaggio che si rifà, dal punto di vista geopolitico, all’idea di Califfato, questa bandiera è stata ed è utilizzata da diversi movimenti islamici, in particolare sunniti, che si richiamano a questa ideologia: a partire da movimenti politici come Hizb-ut-Tahrir fino ad arrivare ad Al Qaeda. Essendo quella salafita un’ideologia che non riconosce gli attuali confini tra i Paesi arabi e rimanda direttamente al primo secolo dell’Islam, l’unica bandiera che è in grado di rappresentare graficamente questa ideologia e accomunare le diverse popolazioni musulmane, è la bandiera storica del Califfato, che con il primo pilastro dell’Islam rappresenta l’unione e la comunione della Umma intesa come grande nazione musulmana. Simbolo escatologico dell’Islam che rappresenta l’avvento del Mahdi, in origine non riportava la professione di fede Questa variante, usata da ISIS e al-Shabaab, sottolinea attraverso il cerchio la supremazia di Allah sul Profeta

può essere chi non ha nemmeno un tetto sopra la testa. A questo deve provvedere lo Stato. Per voi servirebbe allora un’altra rivoluzione? Chiaramente. Noi incitiamo le persone a fare una rivoluzione e non soltanto a protestare, ma nel modo concepito dalla religione islamica. Dunque, non bruciando le strutture dello Stato o con la violenza in strada, come abbiamo visto durante questa rivolta. Tu puoi anche essere Stato ma non avere il potere. Anzi, è proprio questo che ti spinge a usare la violenza. Il vero potere è la forza emanata dal popolo. Ma il popolo ha già deciso. Non è vero. Il popolo non sapeva neanche cosa significava “costituzione” quando è cominciato questo processo. In Occidente spesso si associa la Sharia con il terrorismo. È così? Il concetto che il terrorismo sia legato all’Islam è un concetto creato dall’Occidente. Il messaggio dell’Islam è un messaggio di pace. Il miglior esempio è Al Qaeda: se si pensa che il mondo islamico dia finanziamenti o armi ad Al Qaeda, questo è del tutto sbagliato. Chi ha creato Al Qaeda? Chi strumentalizza questi “terroristi”? Chi li arma? Noi? E chi allora? Certamente, non siamo noi... A quali altri partiti vi sentite più vicini? Siamo vicini a tutti i musulmani, e la cosa è reciproca. Però non siete al potere in nessun Paese… Non possiamo accettare il compromesso di stare al potere nei sistemi politici attuali. Governare un Paese o partecipare al sistema non è un fatto condivisibile per noi. Noi non siamo al potere perché tutti i regimi sono corrotti. Il nostro partito si chiama “Partito della Liberazione”, ma liberazione non come la intendete voi, ma come liberazione dell’essere umano: questo è il messaggio dell’Islam. Come spiegare all’Occidente la forma di Stato e di governo che voi avete in mente? La forma di Stato è quella che conoscete anche voi, il concetto è il medesimo. Per la forma di governo, noi crediamo in un’elezione differente dalla vostra. Non si applicano le leggi scritte ma le leggi divine. Tutta la differenza sta nel fatto che nello Stato islamico il potere è e resta in mano al popolo e non alle lobby o a chi detiene i soldi. Secondo voi, gli attuali confini statuali in Nord Africa e Medio Oriente andrebbero modificati? Certamente, andrebbero cancellati.

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2014 Mentre il mondo vede crescere il mercato delle armi e conosce sbilanciamenti economici gravi, l’Uruguay di Pepe Mujica ha trovato una ricetta socio-politica originale grazie al suo eccentrico presidente.

SICUREZZA

Los pres

“Guerri 22

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marzO 2014

Il Paese sudamericano e il suo bizzarro presidente sono il volto del nuovo corso politico che attraversa il continente, dove ai vertici dello Stato siedono oggi molti di quelli che ieri combattevano le istituzioni. I casi di Brasile, Ecuador, El Salvador

sidentes

illeros”

URUgUAy | di Mariana Diaz

J

osè Pepe Mujica è il presidente di un Paese, l’Uruguay, dove ci sono più mucche che persone, ben 13 milioni di bestie contro 3,2 milioni di abitanti. È stato lui stesso ad affermarlo nel corso di un summit delle Nazioni Unite in Brasile, dimostrando il suo carattere informale e il suo singolare modo d’esprimersi. Nel 2010, poco prima di diventare presidente, aveva affermato: “L’Uruguay è un grande Paese, peccato che sia pieno di uruguayani”. Questo è Pepe Mujica, un capo di Stato che non indossa cravatte, ama la terra e parla da contadino. “Uno dei vantaggi di essere vecchio è che si può dire ciò che si vuole”, ripete spesso. Guida ancora un Maggiolino Volkswagen del 1987 (costato appena 1.900 dollari), non ha conti in banca né debiti e spesso si presenta agli incontri formali in ciabatte. Ma Mujica ha anche un passato da guerrigliero e oggi questa pesante eredità deve coesistere con la necessità di dare sicurezza agli uruguayani e al mondo. Perciò deve dimostrare che, nonostante i quattordici anni trascorsi in prigione, ha ancora la testa salda e che l’esperienza della galera non gli ha fatto perdere la ragione. Ma Pepe è uomo forte e, non a caso, il suo discorso alle Nazioni Unite del 2012 è già diventato un classico ed è persino stato nominato dagli internauti come il “più bello del mondo”. Settantotto anni e un po’ di sangue italiano - i nonni materni erano emigrati dalla Liguria, da un paese in provincia di Genova - dopo il ciclismo, si appassiona alla politica e negli anni Sessanta, a 24 anni, entra a far parte dell’appena nato Movimiento de Liberacion Nacional - Tupamaros (MLN-T), divenendone in poco tempo il leader. Non erano tempi facili: l’Uruguay allora era sommerso dalla crisi finanziaria e dalla scarsa capacità di azione del sistema politico, ma più in generale

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2014 Salvate El Salvador! L’Uruguay di Mujica e il Brasile della Rousseff non sono gli unici esempi in America Latina dove ex guerrilleros sono diventati presidenti. Nel Salvador, la campagna elettorale ha visto lo scontro fra l’esponente della destra ARENA, Norman Quijano, e Salvador Sanchez Cerén del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (FMLN), ex gruppo di guerriglieri diventato poi partito politico e che già nel 2009 vinse le presidenziali con Mauricio Funes. Con la vittoria di Salvador Sanchez Cerén (al momento in cui scriviamo i due leader sono ancora al ballottaggio), El Salvador sarà il terzo Paese ad avere un ex guerrigliero come presidente. Nel 1980, mentre Mujica scontava gli ultimi cinque anni in carcere, nasceva il FMLN. Il contesto geopolitico internazionale diviso in due dalla Guerra Fredda, fece sì che El Salvador divenisse terreno fertile per la lotta sociale contro le oligarchie che detenevano la ricchezza del Paese (il FMLN era in guerra contro le Forze Armate, sostenute dagli USA). Sanchez è stato uno dei principali comandanti di una guerriglia durata dodici anni - una lotta armata conclusasi con un saldo di 75mila morti - ma è stato anche uno dei firmatari degli accordi di pace promossi dall’ONU nel 1992, che permisero il passaggio del Frente Farabundo Martí da gruppo rivoluzionario a partito politico. La visita di Barack Obama nel 2011 e l’incontro con l'allora presidente Funes, primo esponente di sinistra al potere (FMLN), è stata catalogata come un segnale storico per la riconciliazione tra i due Paesi. Così come storico è stato l’abbraccio tra Sanchez Cerén e Jose Mujica nel 2012, in occasione della visita ufficiale in Uruguay del salvadoregno. Quell’abbraccio è diventato il simbolo di due nazioni che si riconoscono nel passato dei propri leader.

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Norman Quijano leader del Partito della destra Arena

Salvador Sanchez Cerén il nuovo presidente ed esponente dell’FMLN (sotto, il simbolo) ha un passato da guerrigliero


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Dilma schedata dalla polizia brasiliana

era tutto il Latino America a risentire del peso di appartenere al “cortile di casa degli Stati Uniti” e, a fine anni Sessanta, i partiti socialisti e i movimenti estremisti erano ormai spuntati in quasi ogni Paese. Come in Brasile, dove una giovane Dilma Rousseff entrava a formar parte della POLOP (Organizazione Dilma Rousseff, classe 1947 e figlia di un Politica Operaria) e in El Salvador, dove erano in corso una seemigrato bulgaro (il vero cognome è infatti Rusev), rie di rivolte popolari che portarono il Paese alla guerra civile. si trovò a dover fare una scelta di vita, poco più che ventenne: abbracciare la rivoluzione sociale I Tupamaros, in quel contesto, ebbero molto spazio per organizattraverso il dialogo o attraverso la lotta armata? zare, attraverso la lotta armata, la loro idea di sviluppo sociale. Dilma scelse la seconda. Fu così che entrò a far Ma il tempo passa per tutti e molti dei giovani leader di allora parte del Comando de Libertação Nacional (Colina) oggi sono arrivati al potere, hanno sostituito ai fucili le parole, e e della Vanguarda Armada Revolucionária Palmares si sono dati un aplomb istituzionale. Eppure, non tutti sono di(VAR-Palmares). ventati presidenti del “Paese dell’anno”, come il settimanale britannico The Economist ha recentemente definito l’Uruguay. Poi arrivò il colpo di Stato in Brasile. Il regime militare Nel caso di Mujica, la lotta armata è stata parte della sua vita durò dal 1964 al 1985 e nei documenti della dittatura - mantenuti sotto segreto di Stato per quarant’anni e causa di ripetuti arresti. Come la prigionia nel carcere di si parlava anche del ruolo della “Giovanna D’Arco dei Punta Carretas, a Montevideo, dove fu rinchiuso nel 1970. rivoluzionari”, ovvero proprio la Rousseff. Dilma fu Chissà che penserà oggi il “presidente più povero del mondo” rinchiusa per tre anni nel carcere Tiradentes (1970) a del fatto che al posto del carcere (dove visse anche un paio San Paolo, con l’accusa di partecipazione nelle attività d’anni in isolamento dentro a un pozzo) adesso qui sorge un svolte dai gruppi guerriglieri (anche se lei ha sempre lussuoso centro commerciale, dove il marmo dei corridoi è ilnegato il coinvolgimento nelle azioni armate, luminato dallo scintillio delle vetrine dei negozi. Eppure, 43 ha ammesso di essere stata alla testa del gruppo). anni fa a Punta Carretas, Mujica e altri 111 uomini attraversarono quegli stessi passaggi - che allora non erano altro che un L’esperienza nella lotta armata, il carcere e le torture, forgiarono nell’acciaio il carattere di questa buco fra muri marci e fatiscenti - e fuggirono dal cardonna, che decise di restare in politica cere, compiendo un’impresa che tuttora viene ridiventando, nei Duemila, ministro cordata come “straordinaria”. dell’Energia dell’ex presidente Lula da Nel 1973, dopo il golpe che diede inizio Molti dei Silva, quindi capo di gabinetto, per alla dittatura uruguayana, Mujica venne proseguire l’ascesa fino all’attuale nuovamente arrestato. Ma questa volta presidenza. dietro le sbarre ci rimase fino al 1985 quando, con il ritorno della democrazia, il di allora sono presidente conservatore del Partito ColoBandiera rado, Julio Maria Sanguinetti, promosse oggi al potere Tupamaros l’amnistia che liberò Mujica e altri prigionieri politici. Di quell’esperienza, Mujica ricorda oggi: “Ero in totale isolamento e non parlavo con nessuno. C’era talmente tanto silenzio che ho sentito le formiche urlare”. In ogni caso, il passato da guerrigliero e la loquacità dell’ex tupamaro, sono serviti non poco al presidente. È grazie a quelAdios? l’esperienza, ad esempio, che le FARC (Forze Armate RivoluPepe Mujca zionarie della Colombia) si sono progressivamente fidate di lui e hanno infine accettato una sua mediazione - anche se non Secondo la Costituzione uruguayana formalmente - nel delicatissimo processo di pace con il goverun presidente può candidarsi una volta soltanto e deve attendere altri cinque no colombiano di Juan Manuel Santos, attualmente in corso a anni prima di ripresentarsi (art.152). Cuba. Mujica stesso aveva espresso il desiderio di contribuire al Alle prossime elezioni del 26 ottobre, processo di pace “più importante dell’America Latina”. Dopodunque, al posto di Pepe si presenterà tutto, è stato proprio il dialogo e l’abbandono delle armi ciò l’ex presidente Tabarè Vasquez che alla fine degli anni Ottanta permise ai Tupamaros di en(contro i candidati del partido Nacional trare a far parte della politica “ufficiale”, all’interno della coay Partido Colorado). lizione di sinistra Frente Amplio, che nel 2005 arrivò alla preÈ la conclusione di un governo sidenza dell’Uruguay con Tabarè Vasquez. emblematico per l’America Latina.

Presidente e pasionaria

gIOvANI lEADER

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Un mondo di armi Solo nel 2010, le cento piĂš grandi aziende produttrici di armi al mondo, escluse quelle cinesi, incassavano qualcosa come 410 miliardi di dollari grazie alla vendita di materiale bellico e relativi servizi, segnando una flessione di 7 punti rispetto al +8% del 2009 (ma ottenendo uno straordinario +60% rispetto al 2002). Oggi la cifra si attesta intorno ai 400 miliardi. Senza la Cina, i primi dieci produttori al mondo di armamenti sono, in ordine di grandezza: Lockheed Martin (USA, 36 miliardi di dollari); Boeing (USA, 27,6 mld); BAE Systems (Regno Unito, 26,8 mld); Rayeton (22,5 mld); General Dynamics (USA, 21 mld); Northrop Grumman (USA, 19,4 mld); Airbus Group (UE 15,4 mld - ex EADS); United Technologies (USA, 13,4 mld); Finmeccanica (Italia, 12,5 mld); L-3 Communications (USA, 10,8 mld).

Spese per la difesa dalla crisi finanziaria del 2008 150 140

Cina

130

Russia

120 Brasile Giappone India

110 100

Francia USA *

90

Germania UK

80 Italia 70 60 50 2008

2009

2010

2011

Le grandi nel Pacifico CINA

2.285.000

1.903

1.190.000

1.430

247.450

USA

2.338 (Tank)

23.866 CINA

7.430+ (Tank)

gIAppONE gIAppONE

Fonte: The Military Balance 2014

(Veicoli Corazzati) USA

USA

552

2.900

(Veicoli Corazzati) gIAppONE

777 (Tank)

817

(Veicoli Corazzati)

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Per ogni Paese, i livelli di spesa per la difesa (secondo le valute correnti) sono state aggiustate per l’inflazione e ricalcolate con indice 100, fatto 100 il livello del 2008. *Budget base

CINA

2012

CINA

12.367+ USA

6.477 gIAppONE

1.776


marzO 2014

I primi 15 Paesi per spesa militare Budget 2013 in miliardi di dollari

Percentuale rispetto al PIL nazionale Cina

112.2

USA $ 600.4

Arabia Saudita

8.0%

Australia

7.2%

Israele

6.0%

Iran

4.1%

USA

3.7%

Russia

3.1%

Corea del Sud

2.5%

68.2

Russia

59.6

Arabia Saudita

57.0

Regno Unito

52.4

Francia

Regno Unito

2.4%

51.0

Giappone

Francia

1.9%

44.2

Germania

India

1.8%

36.3

India

Brasile

1.4%

34.7

Brasile

Cina

1.2%

31.8

Corea del Sud

Germania

1.2%

26.0 25.2

Australia Italia

Italia

1.2%

18.2 17.7

Israele Iran

Giappone

1.0%

Fonte: The Military Balance 2014

USA CINA

112

77

(TOTALE)

11

1

22 62

0

17

14

(Cacciatorpedinieri)

(Fregate)

700

(Portaerei non operative)

(SAM - Air Defence)

2

(Incrociatori)

62

gIAppONE

2

CINA

(Incrociatori)

(Cacciatorpedinieri)

(Fregate)

(SAM - Air Defence)

(TOTALE)

(Portaerei non operativa)

(Incrociatori)

1.281+

47

(TOTALE)

(Portaerei)

USA

gIAppONE

302

30

(Cacciatorpedinieri)

(SAM - Air Defence)

13

CINA

65

(combattimento)

211+

(pattugliamento) USA

72

(combattimento)

41

(pattugliamento)

(Fregate)

gIAppONE

18

(combattimento)

6

TESTATE NUCLEARI

(pattugliamento)

USA

7.650 (di cui 2.150 attive)

CINA

240

gIAppONE

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Voci da un mondo pressoché sconosciuto. L’Iran sotto l’embargo e lo Yemen dilaniato dalle forze islamiche, centrifughe e dissidenti.

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Con gli occhi dell’Oriente

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Senza un accordo con USA e Unione Europea, il destino del Paese è segnato: le crescenti difficoltà economiche non consentono più neanche l’accesso alle cure sanitarie IRAN | di Ottorino Restelli

L’

elezione di Hassan Rouhani a settimo presidente dell’Iran nel giugno 2013 ha coinciso con un’evoluzione della strategia della Repubblica Islamica. Da una parte, sono proseguite le esecuzioni degli oppositori (come nel caso del poeta pacifista Hashem Sabaani, arabo-iraniano di Ahwaz e veterano della guerra contro l’Iraq), la condanna degli intellettuali e riformisti (come l’attrice e blogger Pegah Ahangarani, condannata a 18 mesi di reclusione), gli arresti domiciliari (come per Hussein Moussavi e Mehdi Kharroubi) e la chiusura di giornali (come il Bahar daily). Dall’altra, si è avviato un rilancio dei negoziati sul nucleare (Joint Plan Act, novembre 2013), culminati nell’accordo quadro annunciato a Vienna lo scorso febbraio tra il gruppo P5+1 - dove siedono Cina, Gran Bretagna, Francia, Russia, Stati Uniti e Germania - e il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, che prevede controlli in cambio di allentamento e revoca delle sanzioni. I commentatori attribuiscono questo cambio di strategia all’azione delle sanzioni economiche che stanno stritolando l’economia di Teheran. Ma quali sono state le conseguenze economiche

RIAl La moneta iraniana ha perso il 50% del proprio valore solo nel 2013

dell’embargo sull’economia iraniana? Nel 2013 l’allora ministro dell’Economia, Shamseddin Hussein, affermava che le entrate petrolifere della Repubblica Islamica erano diminuite del 50%, portando a 77 miliardi di dollari tale quota per il 2012. In una energy-economy dove il petrolio costituisce l’80% delle esportazioni e il 60% delle entrate statali, la caduta delle esportazioni scese a 1 milione di barili al giorno, soprattutto verso Cina e India - ha avuto effetti devastanti sull’occupazione e sui prezzi. Così, il rial nel 2013 ha perso il 50% del proprio valore (37% il tasso d’inflazione ufficiale), mentre la disoccupazione generale ha superato il 12% e quella giovanile il 26%. A ciò si aggiunga che, durante le due presidenze Ahmadinejiad, il valore delle aree urbane era cresciuto di oltre l’80%, mentre quello delle abitazioni

nelle aree medesime si era più che raddoppiato (+220%) e ancor di più era cresciuto il costo degli affitti (+250%), provocando nel settore delle costruzioni una vera e propria bolla dei prezzi, che si è poi tradotta in una scarsità di abitazioni accessibili. Nel 2007, il presidente stesso aveva lanciato il “Mehr Housing Plan”: un piano di edilizia popolare rivolto ai ceti meno abbienti, tradizionale serbatoio di consensi per la teocrazia sciita, che puntava alla costruzione di 1,5 milioni di abitazioni in 17 città iraniane e che aveva lo scopo di calmierare i prezzi e risolvere le tensioni abitative (per inciso, il governo voluto dal presidente Rouhani ha poi bloccato il conferimento di appartamenti a pasdaran e amministratori vicini ad Ahmadinejiad). In realtà, secondo il nuovo ministro dell’economia Ali Tayebnia, il “Mehr Housing Plan” è responsabile di aver alimentato le tensioni inflazionistiche e i gravi problemi di bilancio per la Repubblica. Secondo il rapporto Iran Sanctions pubblicato a gennaio 2014 dal Congressional Research Service degli Stati Uniti, le sanzioni hanno ridotto del 60% le vendite di petrolio, facendo scendere a 35 miliardi di dollari i ricavi da esportazioni di greggio nell’ultimo anno, rispetto ai 100 miliardi del 2011. Il PIL si è così ridotto del 5% nel 2013. La produzione auto, tanto per fare un esempio, si è ridotta del 40% rispetto al 2011: le imprese manifatturiere, quando non chiudono, hanno una larga sottoutilizzazione degli impianti e sono costrette a impiegare prodotti cinesi, spesso di mediocre qualità (come freni per le auto in amianto e vernici

Il dizionario Nonostante le buone prospettive circa il dialogo avviato dalla Repubblica Islamica con gli USA e l’Occidente, Teheran non resiste alla tentazione di provocare il “Grande

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Satana”. Il presidente Rouhani ha infatti scelto come rappresentante iraniano al Palazzo di Vetro dell’ONU Hamid Aboutalebi, accusato di aver partecipato

all’assalto del 4 novembre 1979 all’ambasciata Usa a Teheran, durante il quale furono tenuti prigionieri 52 diplomatici e funzionari americani per ben 444 giorni.


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tossiche), in base all’accordo del 2011 tale per cui il 40% del petrolio esportato in Cina viene pagato in yuan e speso in gran parte per l’acquisto di questi prodotti provenienti da Pechino. Inoltre, la crescente difficolta di assicurare i pagamenti cash degli stipendi ai dipendenti dello Stato e l’esplosione dell’inflazione (stimata tra il 50% e il 70%) hanno indotto il nuovo governo a rivedere il sistema di sussidi definito da Ahmadinejiad e a distribuire direttamente beni alimentari ai cittadini. Il programma di aiuti alimentari ha dapprima riguardato i cittadini con un reddito inferiore a 5 milioni di rial al mese (pari a 170 dollari), che ha interessato 4 milioni di persone su una popolazione di 77. Quindi, è stato esteso a oltre 17 milioni di iraniani. Per ricostituire le riserve della Banca Centrale dissanguate dall’embargo, l’Iran ha iniziato a rastrellare oro sui mercati e a esigere in oro anche il pagamento delle esportazioni, come nel caso del gas alla Turchia. Infine, per quanto riguarda il sistema sanitario nazionale, il rapporto pubblicato dal Global Research del Centre for Research Globalization (ottobre 2013) testimonia il verificarsi di un vero e proprio

disastro sanitario. Non solo l’accesso ai più diffusi sistemi diagnostici - come radiografie, TAC, RM - risulta spesso compromesso, ma anche l’uso di esami di laboratorio e di anestetici si rivela quasi impossibile: basti pensare che l’assenza di kit di laboratorio costringe a inviare i campioni di sangue o urine in Turchia. La situazione è ancora peggiore per quanto riguarda i farmaci per la cura di patologie più complesse, come le malattie cardiovascolari e il cancro (ogni anno 85mila nuovi casi di cui 30mila mortali, in crescita per l’impossibilità di accedere a medicine e trattamenti adeguati e con un’età d’incidenza inferiore ai 30 anni). Il 20 marzo scorso, gli iraniani hanno festeggiato Nowruz (capodanno) in un clima di ristrettezze e disagio, quando non di vera e propria emergenza economica, con bazar semivuoti e vacanze rigorosamente in casa, nella speranza però che il nuovo corso delle relazioni internazionali, testimoniate dalla recenti visite a Teheran di parlamentari e ministri dell’Unione Europea, ripristini al più presto le condizioni di normalità e riavvii la crescita economica del Paese, stimata nelle attuali condizioni dalla Banca Mondiale in un insufficiente +1% nel 2014, +1,8% nel 2015 e +2% nel 2016.

L’opinione degli americani Le relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e l’Iran sono migliorate. Qual’è il suo giudizio? Gli USA fanno bene a promuovere le relazioni diplomatiche con l’Iran Gli USA dovrebbero essere più duri e aumentare le sanzioni

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A proposito del programma nucleare iraniano, pensa che lo scopo sia... 6

Pacifico (energetico) Militare (bombe nucleari)

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Per impedire all’Iran di sviluppare la bomba atomica, gli USA dovrebbero.... 32

Usare i canali diplomatici

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Usare la forza militare

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Gli USA e altre potenze mondiali hanno raggiunto un accordo di massima con l’Iran per congelare il programma nazionale sul nucleare in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni. È favorevole? Favorevole

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Se l’accordo fallisce, gli USA dovrebbero... Continuare la via diplomatica

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Usare la forza militare

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Sondaggio realizzato tra il 24 e il 26 novembre 2013 su un campione di 591 soggetti. Intervallo di credibilità 4,9 punti percentuale. Fonte: Reuters/Ipsos

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Traffico d’armi nel Mar Rosso inizio marzo al largo delle coste sudanesi la marina israeliana ha sequestrato la nave “Klos-C” battente bandiera panamense, che nascondeva nelle stive 40 missili M-302, 181 colpi di mortaio e 400 mila proiettili per armi automatiche. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha subito puntato il dito contro Teheran, definendo la spedizione nel Mar Rosso un’operazione clandestina organizzata dal governo iraniano per armare Gaza e colpire così Tel Aviv. Arrivato da Damasco al porto meridionale iraniano di Bandar Abbas, il carico ha sostato inizialmente nel porto iracheno di Umm Qasr, dove sarebbe stato mimetizzato tra sacchi di cemento. Da qui ha ripreso il mare circumnavigando la penisola arabica, fino al fermo avvenuto al confine marittimo tra Eritrea e Sudan.

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Divide et impera Nel Paese sconvolto dalla recessione e diviso dalle spinte separatiste, l’appello all’unità regge solo grazie alla promessa di una nuova Costituzione

yEMEN | dalla corrispondente Laura Silvia Battaglia

un governo regolarmente eletto; economiche, che riducano una crisi salita alle stelle; strategiche, per dare un segnale di stabilità nel Golfo di Aden ohammad A. Qubaty, membro della agli osservatori internazionali. Di fatConferenza per il Dialogo Nazionale, to, la fine della Conferenza ha sancito ritiene che la crisi potrà essere supeil prolungamento a un anno della prerata appena ci saranno le condizioni: sidenza formale di Mansour Hadi. In “Bisogna affrontare con priorità il questo lasso di tempo, il presidente ad problema delle amnistie per i vecchi leader politici e interim si impegnerà a redigere la l’annosa questione separatista. Prima si risolve, prima il nuova costituzione per poi, eventualPaese si rimette al passo”. Così ci diceva due mesi fa. mente, uscire di scena aprendo la staOggi non è più così fiducioso, nonostante il 28 gennagione delle elezioni. io, dopo 10 mesi di lavori, la Conferenza si sia chiusa Le misure più urgenti sono però lecon parole di speranza da parte del presidente ad integate all’economia e alla sicurezza. Dalrim Abdu Rabu Mansour Hadi: “Questo giorno è una la fine della rivoluzione nel febbraio pietra miliare dopo decenni di oppressione”. Il giorno 2011 - che si è conclusa con la destituche sarebbe dovuto diventare “la pietra miliare”, Ahzione del presidente storico Ali Abd med Sharaf al-Deen rappresentante della tribù Houti Allah Saleh, al potere da 33 anni in Conferenza, è stato freddato da un killer. L’attentato è l’economia è in caduta libera. Nel stato rivendicato dai leader tribali della sua stessa rapPaese, già prima delle presentanza: Saraf al-Deen sarebbe staproteste che hanno cauto accusato di tradimento per avere sato circa duemila morti scelto in Conferenza una linea di concie 10mila feriti tra civili e liazione e dialogo, tradizionalmente militari, la povertà era contraria alle spinte separatiste del dilagante: il 40% degli Nord e delle tribù sciite di Saada. yemeniti vive con due Lo Yemen si prepara a trovare le convive con meno dollari al giorno o andizioni migliori per andare a future eledi due dollari che meno e un terzo zioni ma deve prendere delle decisioni. deve fare i conti con la Politiche, che traghettino il Paese verso al giorno

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Il 40% degli yemeniti

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fame cronica. Oggi il valore del rial yemenita è sempre più fluttuante. Per Faisal A. Darem, economista per il quotidiano Yemen Observer, “lo Yemen è un Paese che rischia di diventare sempre più povero: il deficit di bilancio attuale è di 600 miliardi di Yer, pari a 2,6 miliardi di dollari, circa il 50% in più di quel che i funzionari del ministero delle Finanze si aspettavano alla fine del marzo scorso”. Per arginare questa deriva economica e occupazionale e non arenare i risultati della Conferenza per il dialogo nazionale, il presidente ad interim Mansour Hadi ha appena incontrato gli ambasciatori dei Paesi del Golfo, per chiedere di tenere alto l’interesse sugli investimenti nel Paese. Ma è la questione sicurezza, quella che si impone con urgenza: il ministero della Difesa, con l’attacco dei miliziani di Al Qaeda, attuato in grande stile il 5 dicembre del 2013 (53 persone morte e 162 ferite) e reiterato con le due esplosioni successive dell’1 febbraio, è diventato un simbolo governativo da abbattere. Nonostante il dispiegamento di forze e i checkpoint a presidio di ministeri e ambasciate, l’organizzazione terroristica mira e colpisce. Sono sempre più frequenti, tra l’altro, gli attacchi alle reti informatiche e ai

servizi di erogazione dell’elettricità intorno alla capitale, rivendicati da hacker qaedisti. Forti delle spinte separatiste, i jihadisti di Ansar al-Sharia e AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba) hanno mantenuto il controllo parziale nelle aree di Abyan, alBayda, nel Ma’rib, e nei governatorati di Shabwah e Lahij, con casi limite come quello di Jaar e Azzan, due città totalmente sotto il controllo dell’ala più intransigente degli jihadisti, un “governatorato qaedista”, simile a quello di Raqqa in Siria. Ad aumentare la rabbia dei separatisti verso il governo e l’adesione, soprattutto nel Sud, ad Al Qaeda, contribuiscono gli attacchi dei droni USA sulle aree tribali, soprattutto desertiche, confinanti con l’Arabia Saudita. Lo scorso 20 gennaio miliziani armati hanno attaccato i checkpoint governativi di Rada’a, un distretto del governatorato di al-Beida’a. Sono morti sei miliziani e sei soldati, e un ufficiale è stato rapito. Motivo della protesta: un drone americano, in un attacco dei primi di dicembre 2013 avrebbe ucciso 12 civili, vicino al villaggio di Qaifa. Il governatorato di al-Beida avrebbe chiesto il cessate il fuoco nell’area al governo centrale, ma sembra non sia stato ascoltato.

Le regioni del nuovo Stato federativo Il presidente dello Yemen ha approvato il passaggio del Paese a una confederazione di 6 regioni, e concesso maggiore autonomia al sud Azal ARABIA SAUDITA

Saba

OMAN

Tahama Janad Hadramout

YEMEN

Sanaa

100 miglia

Aden

100 km

ETIOPIA Fonte: Reuters

Aden

Golfo di Aden

Socotra

La questione meridionale In Yemen la cosiddetta “questione meridionale” assume sempre più peso per il futuro del Golfo di Aden. Il leader del consiglio supremo del Movimento dei Separatisti del Sud, Hassan Baoum, nell’ottobre 2013 è stato chiaro: “Gli yemeniti del Sud non hanno scelta e chiedono libertà e indipendenza: rifiutiamo totalmente una soluzione parziale”. La spinta separatista del Sud è infatti la vera patata bollente nelle mani della Conferenza per il Dialogo Nazionale. Una questione annosa, che risale al 1994, appena quattro anni dopo l’unificazione del Nord e del Sud in un unico Stato e che, fino a qualche mese fa, sembrava aprirsi alla conciliazione, grazie ai dialoghi di Sanaa. Adesso, dopo gli attacchi bomba nella capitale, che si aggiungono ai continui scontri a Sud con le truppe governative, non sembrano esserci molti dubbi. L’unico che permane è quanto sia intensa la pressione di Al Qaeda sui leader tribali che aderiscono al movimento separatista del Sud. Da sempre, i separatisti prendono formalmente le distanze dall’organizzazione terroristica e accusano il governo centrale e l’ex presidente, l’autocrate Ali Abdullah Saleh, di farsi scudo con il pericolo qaedista per combatterli e ottenere appoggi internazionali.

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I luoghi meno conosciuti al mondo 1. KRASNOYARSK, RUSSIA 2. NIAMEY, NIGER 3. RIAD, ARABIA SAUDITA 4. ABLAIN-SAINT-NAZAIRE, FRANCIA 5. DJOUBISSI, REP. CENTRAFRICANA 6. AHMEDABAD, INDIA 7. JERICO, CISGIORDANIA 8. JUBA, SUD SUDAN 9. DARWIN, AUSTRALIA 10. KOLKATA, INDIA 11. BRASILIA, BRASILE 12. GUANGZHOU, CINA 13. PARAÑAQUE, FILIPPINE 14. KOBANE, SIRIA 15. HOMESTEAD, STATI UNITI 16. RIO DE JANEIRO, BRASILE 17. GORENICHY, UCRAINA 18. HANOI, VIETNAM 19. PANJSHIR, AFGHANISTAN 20. SIALKOT, PAKISTAN 21. KABUL, AFGHANISTAN 22. PHOENIX, STATI UNITI 23. SINGAPORE 24. CHANGDE, CINA 25. CHARLESTOWN, STATI UNITI 26. CAPPY, FRANCIA 27. BEIRUT, LIBANO 28. MELILLA, SPAGNA 29. KARO, INDONESIA 30. DEIR AL ZOR, SIRIA 31. STATI UNITI 32. ODISHA, INDIA 33. RIO DE JANEIRO, BRASILE 34. GERUSALEMME, ISRAELE 35. CANTIL, CALIFORNIA 36. PECHINO, CHINA 37. ALLAHABAD, INDIA 38. LONDRA, REGNO UNITO 39. CARACAS, VENEZUELA 40. BANGKOK, THAILANDIA 41. TOKYO, GIAPPONE 42. HAMILTON, CANADA

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2014 Uno dei peggiori fenomeni sociali con cui l’Occidenti deve fare i conti è l’immigrazione africana verso l’Europa. Mentre milioni di migranti cercano una speranza, il Medio Oriente perde la propria arte e umanità.

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SOCIETà

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andat


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Con l’approssimarsi della stagione estiva, torna purtroppo di moda raccontare il dramma dell’immigrazione verso l’Europa. Proviamo almeno a tracciare le rotte e identificare chi gestisce questo esodo inarrestabile

lIbIA | di Cristiano Tinazzi

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ue sono le principali rotte che portano i migranti dall’Africa subsahariana verso Libia e Tunisia. La prima è quella Agadez-Dirkou-Sebha. Una rotta migratoria che attraverso il Niger congiunge Africa Occidentale e Centrale e si snoda lungo l’antica via carovaniera per entrare nel Paese nordafricano dal posto di frontiera di Toumu. Dirkou, a circa 550 chilometri a sud del confine con la Libia e a 650 da Agadez, è il punto di raccolta dei migranti che si apprestano a dirigersi a nord e, viceversa, per tutti coloro che sono stati respinti alla frontiera. Con una esigua popolazione che si attesta sulle 14mila unità, la cittadina ha avuto enormi flussi di passaggio negli anni passati, con picchi di transiti che nel 2011 hanno oltrepassato 60mila unità (la quasi totalità in fuga dalla Libia in guerra). A partire dal 2012, i flussi hanno ripreso la normale direzione sud-nord. Nella cittadina è presente dal 2009 l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), che gestisce un centro di transito con una capienza massima di 250 persone.

le dispute tribali La rete di trafficanti che gestisce sin dagli anni Novanta il passaggio di migranti verso Libia e Algeria è gestita da una decina di “agenzie di viaggi” semiclandestine, con ramificazioni e uffici ad Agadez. Dirkou ha una popolazione mista, composta da Toubu, Tuareg e Kanuru, ma sono le prime due etnie a gestire il traffico dei migranti. Come popolazioni seminomadi e transfrontaliere risiedono, infatti, in una vasta area che si estende su diversi Stati. La maggioranza dei Toubou vive tra le montagne del Tibesti sul confine libico-ciadiano. I trafficanti, chiamati “Tchagga”, organizzano il viaggio con l’assenso della polizia nigerina e in

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2014 Le rotte delle migrazioni afro-mediterranee Malaga Ceuta

Rotte principali Casablanca

Tunisi

TUNISIA Lampedusa

Melilla Magniyya Rabat Wagda

Sfax

MAURITANIA

Il Cairo

Ghamades

LIBIA EGITTO

NIGER BURKINA FASO Ouagadougou

Conakry Freetown

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Asmara Khartum

N’Djamena

Kano

SUDAN ETIOPIA

NIGERIA

Addis Abeba

Lagos

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cambio di soldi, per chiudere un oc- controllare un’area vasta quanto Texas chio su documenti e certificazioni fal- e Oklahoma e soggetta a scontri armase. Da Dirkou, lungo la strada si rag- ti tra l’etnia Toubu e la tribù araba degiunge Madama, un ex avamposto mi- gli Awlad Suleiman. Scontro dovuto litare francese e da lì si arriva al posto non solo a rivendicazioni etnico-politidi frontiera libico di Toumu. Da Tou- che, ma anche e soprattutto alla gestione del controllo della frontiera mu il secondo punto di raccolta sud. La città di Sebha è svidei migranti è l’oasi di Seluppata su tre oasi (Jebha, nel Fezzan, punto La Libia did, Quatar e Hejer) e dal quale poi si arriva ha soltanto rappresenta la città dopo un lungo viagmadre degli Awlad gio sulla costa libica. Suleiman e della sua famiglia più imporIl Fezzan uomini per un’area tante, quella del clan Da sempre crocevia di traffici umani, vasta quanto Texas Saif al Nasr, alleata armi e droga, il Fezzan con gli Abu Saif. Uno e Oklahoma è la regione semidesertidei quartieri della città, ca nel sud della Libia. DalTajuri, è principalmente l’inizio del conflitto del 2011, abitato da Toubu e Tuareg. che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi e alle prime libere elezioni Dal Corno d’Africa all’Italia nella storia del Paese, il Fezzan contiLa seconda rotta è quella dei flussi nua a vivere un’emergenza (collegata e migratori originari del consequenziale agli innumerevoli pro- Corno d’Africa che blemi di stabilità statuale) relativa ai parte dallo snodo di flussi migratori verso l’Italia e l’Europa. Khartoum, in Sudan, e Qui circa 6mila uomini del Comando segue la strada per militare della Libia del sud devono l’oasi libica di Kufra,

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ERITREA

CIAD

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Alessandria

Sebha Tamanrasset

SIERRA LEONE

Bengasi Adjabiya

ALGERIA

El Ajum

Dakar

Tripoli

MAROCCO Wargla

SENEGAL

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Fonte: Frontex, Reuters, Limes

Fonte: Reuters; i-Map; International Organization for Migration

Agadir

Almaria

Le vittime del 2013 Numero di migranti morti in mare o mentre attraversavano il deserto Caraibi Nord Africa Pacifico del Sud Stati Uniti/ Confine messicano

99 129 214 444

Mediterraneo

707

Golfo del Bengala

785

Africa/ Medio Oriente

2.000-5.000 (stime)


Il dizionario La rivolta contro il regime libico del 2011, porta a una guerra civile che oppone le forze fedeli a Gheddafi agli insorti del Consiglio Nazionale Libico. A seguito della risoluzione 1973, la NATO interviene militarmente. Rovesciato il regime, il potere va alla nuova Assemblea Congressuale. Tuttavia la crisi politica non accenna a risolversi. Dopo il difficile premierato di Ali Zeidan, e di Al Thinni, oggi il Paese è in mano al giovane imprenditore Ahmed Maetiq.

fino ad arrivare ad Ajdabiya-Bengasi. La rotta è praticata in particolare da profughi sudanesi, somali, etiopi ed eritrei. L’entrata in Libia spesso avviene dal deserto egiziano. Anche a Kufra si scontrano i Toubu con la tribù araba dominante, gli Sway, per il controllo del potere. Il leader Toubu, Issa Abdul Majid Mansour, nel 2011 è stato designato dal Consiglio Nazionale di Transizione - ovvero l’organo che controlla la fase transitoria delle nuove istituzioni libiche - come supervisore per la frontiera meridionale. Nel febbraio 2012, però, la cooperazione tra Sway e Toubu, rafforzatasi con la comune avversione al Colonnello Gheddafi, cessa e i susseguenti combattimenti tra i due gruppi causano centinaia di morti da ambo le parti. In ogni caso, questo non ha impedito il traffico di esseri umani, né di armi (o altro) e il punto d’arrivo finale sulla costa è ancora Tripoli, da dove poi altri trafficanti organizzano i ben noti viaggi in mare verso l’Italia.

Terrorismo e traffici illegali in Nord Africa Il vuoto di potere che è andato creandosi in Nord Africa nel post-rivoluzioni - complice l’assenza di una risposta forte da parte dei governi centrali, se non il crollo stesso dell’apparato statuale - ha permesso il consolidarsi di un sostrato jihadista sahelo-sahariano che sfrutta la porosità delle frontiere per i suoi traffici e per la sua stessa sopravvivenza e organizzazione logistica. L’incapacità dei governi centrali di controllare porzioni sconfinate di aree desertiche ha concesso ai gruppi militanti emergenti di trovare terreno fertile per radicarsi e portare avanti azioni congiunte su base regionale, pur mantenendo basi distinte e direttive separate per ogni Paese. Restando fermi i legami con Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), che detiene tuttora la leadership qaedista in questa parte di Africa, i vari gruppi si sono organizzati più o meno su base nazionale, ognuno “specializzandosi” in un determinato tipo di traffico illecito o azione armata. ALGERIA La Brigata “Firmatari col sangue”, di Mokhtar Belmokhtar, responsabile della strage di Tiguentourine-In Amenas, nasce alla fine del 2012 dalla scissione diretta di AQIM guidato da Abdelmalek Droukdel. Secondo fonti di intelligence, dal gennaio 2014, avrebbe unito le forze con le organizzazioni di Ansar al-Sharia in Libia e Tunisia. Più di recente, inoltre, ha preso posizione nel nord del Mali e si starebbe specializzando nel sequestro di personale occidentale. Il gruppo di Belmokhtar, tra l’altro avrebbe legami con i “Figli del Sahara per la giustizia islamica” il cui ex leader, Liamine Boucheneb, contrabbandiere e saharawi arruolato nella milizia armata del Polisario, è stato ucciso durante l’attacco a In Amenas. Il jihadismo algerino, benché tenuto a bada dalle forze di sicurezza centrali, si alimenta dei commerci illeciti con la Libia, in particolare armi e droga. LIBIA Il gruppo islamista militante di Ansar al-Sharia (di cui esistono rami separati almeno a Bengasi e Derna) compare ufficialmente sulla lista delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato americano. Ma l’azione armata e i traffici di contrabbando (in particolare, armi e esseri umani) sono gestiti altrettanto fruttuosamente dalle migliaia di milizie armate presenti sul territorio. Alcune di queste, come la “Brigata dei Martiri di Abu Salim” diretta da Salem Derbi, un veterano dell’Afghanistan, sposano il connubio militanza-islamismo. Si è diffusa di recente l’esistenza (non confermata) di un gruppo radicale libico-tunisino, Shabab Al-Tawhid, specializzato nel rapimento di ostaggi in Libia e con apparenti legami con il gruppo jihadista dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, attivo in Siria (ISIL). TUNISIA Il governo tunisino ha ufficialmente dichiarato Ansar al-Sharia organizzazione terroristica nell’agosto 2013. Dopo una prima fase di azioni armate e attentati che hanno colpito turisti e obiettivi politici, destabilizzando il Paese, l’attività dei terroristi tunisini è stata circoscritta all’area del Monte Chaambi (sopra Kasserine, al confine con l’Algeria) che rimane altamente pericolosa nonostante la crescente risposta militare. L’area è fortemente soggetta al contrabbando di droga e armi. EGITTO Il jihadismo egiziano è diretta espressione dei Fratelli Musulmani, il cui movimento è stato dichiarato organizzazione terroristica dal governo del Cairo nel dicembre 2013. Dopo la destituzione del presidente islamista, Mohammed Morsi, la situazione è particolarmente degenerata nel Sinai, dove il gruppo di Ansar Beyt al-Maqdis, affiliato di AQIM, ha raccolto decine di migliaia di beduini fondamentalisti prendendo di mira militari e turisti. Ulteriori gruppi jihadisti (“Ansar al-Shari’a nella Terra di Kinana” e Ajnad Misr), emersi più di recente, hanno esteso la loro attività anche ai centri abitati, colpendo sia università sia sedi e personale della polizia.

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L’arte della guerra I colpi di stato e le guerre civili che negli ultimi anni hanno interessato le coste meridionali del Mediterraneo hanno danneggiato gravemente i patrimoni archeologici dell’intera area. L’intervista al critico d’arte philippe Daverio

AFGHANISTAN Nel 2001 distrutti dai talebani i Buddha di Bamiyan III secolo d.C.

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MEDITERRANEO | di Rocco Bellantone

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ra le rovine dei governi caduti in Nord Africa e Medio Oriente non giace solo il tradimento delle velleità di democrazia alla base delle prime rivolte del 2011. Oltre ai rais e ai dittatori, spodestati dopo decenni di potere, le vittime eccellenti di queste guerre sono le centinaia di beni archeologici e artistici devastati da bombardamenti e saccheggi o, nel migliore dei casi, alla mercé di trafficanti d’arte. A lanciare l’ultimo appello è stata pochi mesi fa l’UNESCO, che per tamponare quest’emorragia sempre più profonda (soprattutto in Egitto, Siria e Libia), ha proposto interventi di vigilanza coordinati tra le organizzazioni internazionali specializzate nella conservazione dei siti e dei reperti storici. “Il problema però - spiega il critico d’arte Philippe Daverio - è che questi gridi d’allarme serviranno a ben poco fino a quando i conflitti in corso non permetteranno di accedere a queste aree”. Qual è l’entità dei danni nel Mediterraneo? È una crisi trasversale che interessa un’area estesissima, che va dall’Algeria all’Iraq alla Siria, passando anche per l’Africa subsahariana. Qui il disordine politico e sociale ha ormai preso il sopravvento, i patrimoni artistici sono rimasti incustoditi subendo inevitabilmente danni e perdite gravissime. I reperti archeologici in

ALGERIA TUNISIA

Siria sono stati massacrati, soprattutto gli scavi di Ebla. Aleppo, un tempo la città più bella del Mediterraneo dove era rappresentata tutta l’era della prima cristianità, di fatto oggi non esiste più. Per non parlare dei bellissimi edifici storici di Baghdad, o di quella meraviglia di Timbuctù in Mali, dove gli estremisti islamici hanno fatto saltare in aria tombe antichissime. Anche se il caso più emblematico rimane certamente la distruzione dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, distrutti dai talebani nel 2001. Guai però a credere che si tratti solo di un fenomeno che riguarda i Paesi arabi. Vale anche per l’Occidente? In passato gli europei non sono stati di certo meno “criminali”. In epoca calvinista e luterana, gran parte dell’iconografia religiosa è stata data alle fiamme. Nella rivoluzione francese la stessa sorte è toccata dai decori delle chiese gotiche, mentre gli unici ritratti di pregio di Napoleone Bonaparte sono stati confinati al Museo del Risorgimento di Milano. Nelle fasi conclusive della seconda guerra mondiale gli americani potevano evitare di bombardare Montecassino o radere al suo la cattedrale di Brandeburgo, ma non lo hanno fatto. L’umanità è fatta così. Le società si riconoscono sempre in grandi immagini, e se ci sono conflitti sono queste a essere distrutte per prime. Dietro saccheggi e razzie opera una rete internazionale del mercato nero?

Contesa sulla Maschera della Gorgone

Quello a cui abbiamo assistito di recente ha poco a che fare con i trafficanti d’arte. Una cosa è derubare un sito archeologico, un’altra è devastarlo. Chi è entrato in azione a Baghdad, in Afghanistan o in Siria non ha avuto nessuna sensibilità per ciò si è trovato di fronte. C’è poi da tenere conto delle eccentricità dei dittatori. In Tunisia, Ben Ali considerava ogni cosa di sua proprietà, basti pensare al furto della Maschera della Gorgone che appartiene all’Algeria. I Paesi del Golfo più ricchi, come il Qatar ad esempio, stanno investendo per la conservazione di alcuni patrimoni come è accaduto per le piramidi in Sudan. Ma da altre parti, come a Gerico in Cisgiordania, la situazione è preoccupante. Per non parlare del Tibet, altra questione tabù per via degli interessi della Cina. L’Italia può avere un ruolo nella tutela di questi beni? L’Italia ha sempre avuto più che altro un ruolo diplomatico. Ha mai sentito parlare di una proposta di intervento da parte del nostro ministero degli Esteri o dell’organizzazione di missioni congiunte con i ministeri della Difesa e della Cultura in queste aree di crisi? Eppure abbiamo le conoscenze e le competenze per essere in prima linea. D’altronde, in queste aree di conflitto a contare sono altri aspetti, quello umanitario in primis ma anche quello commerciale ed energetico. E mettere il bene dell’archeologia sullo stesso piano di questi interessi allo stato attuale è praticamente impossibile.

SIRIA AFGHANISTAN

Rubata nel 1996

MALI

Distrutti i mausolei di Timbuctù XIV secolo d.C.

A rischio gli scavi archeologici di Ebla 3.000 a.C. LOOKOUT 14 - dicembre 2014

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2014 La guerra non è solo Jihad. Vista con gli occhi dell’Occidente è soprattutto una questione economica fatta di numeri e di commesse commerciali, come insegna la storia degli aerei F-35.

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ITAlIA | di Marco Giaconi

S

ul tema dell’acquisto degli F-35 JSF (Joint Strike Fighter) si intersecano tre questioni: cosa farne della Difesa Aerea italiana e della strategia nazionale futura; come impostare il rapporto con gli USA dopo la crisi siriana e le “primavere” del Maghreb; infine, come rimodulare il rapporto tra Italia e UE, che è di stampo politico-monetario ma anche strategico-militare. Comprare novanta F-35 (e il progetto JSF ci è già costato, dal suo inizio nel 1993, ben 2,5 miliardi di euro) malgrado la “pausa di riflessione” indotta dal futuro Libro Bianco e il “dimezzamento delle spese di acquisto” richiesto dalla Commissione Difesa il 7 maggio scorso, risponderà simultaneamente a tutte le tre domande.

F-35

Difesa aerea Il costo annuale dell’F-35 per l’Italia era 500,3 milioni di euro nel 2013, divenuto 535,4 mln nel 2014 e arriverà a 657,2 mln nel 2015

colpito o affondato? Se si comprano gli F-35 avremo ancora una Difesa aerea credibile, se rimaniamo “tra color che son sospesi” l’Italia manifesterà invece, anche sul piano militare, quel declino attuale che la sta portando al suo stadio prerisorgimentale: le botteghe senza lo Stato, il sogno dei nostri concorrenti e l’incubo dal quale voleva sfuggire Machiavelli nel suo Principe. I dati: i Tornado, gli AMX e gli AV-8B dell’Areonautica e della Marina Militare termineranno la loro vita operativa tra il 2018 e il 2025. Se le nostre Forze Armate radieranno 250 aerei - considerando che il tasso di sostituzione dell’F-35 è di uno a due - allora ci basterà avere negli hangar della Difesa 131 aerei, proprio

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quelli richiesti all’inizio dell’ingresso italiano nel progetto JSF. Lockheed Martin La flotta italiana è costituita ancora Il 16 agosto 1912, Glenn L. Martin oggi dai “Tornado” Panavia fondò la Glenn L. Martin (prodotto fin dal 1979), Company a Los Angeles, Il declino dall’Harrier AV-8B California, costruendo il suo primo aereo in una attuale della (sempre degli anni chiesa presa in affitto. ’70) e dall’EurofiQuattro mesi più tardi, gher (costruito fin Allan e Malcolm dalla metà degli anni Lockheed fondarono la Novanta), ovvero tutAlco Hydro-Aeroplane ti modelli da “Guerra ci sta portando Company, poi Fredda”. Mentre l’Fribattezzata Lockheed a uno stadio pre35 è un aereo per attacAircraft Company, in un risorgimentale co al suolo stealth che garage. Oggi il colosso dell’ingegneria aerospaziale opera in contesti da networkè il maggior contraente militare centric warfare, per azioni antiteral mondo con un fatturato da 45 mld rorismo e in aree isolate. Del resto, aldi dollari (2013). ternative per il rinnovamento della

DIFESA ITAlIANA


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flotta aerea non ve ne erano: il Rafale francese avrebbe distrutto la nostra industria sensoristica e sarebbe costato più dell’F-35, gli altri velivoli non sono in configurazione navale, mentre l’HornetSuper americano è già datato. I famosi costi finali per il programma F-35, saranno di 10 miliardi di euro per 90 aerei, che non è affatto una cifra irrazionale. L’Italia ha poi Cameri (Novara), ovvero l’unica struttura permessa fuori dagli USA che può assemblare sia gli F-35, sia i prossimi caccia di Quinta Generazione. E ci sono oltre 90 contratti per circa 30 aziende italiane legati al JSF, che valgono 667 milioni di dollari. Si dice che ci siano stati, e ci siano ancora oggi difetti nella progettazione/configurazione del JSF. Ma questa è la norma per un caccia evoluto: gli “errori” per l’AMX o per l’F-16 furono ancora più gravi. Pura controinformazione. Certo, nelle (rosee) prospettive - oggi irrealizzate - dei nostri programmatori, delle alternative ci sarebbero, anche se tutto il progetto della FACO di Cameri è già costato 795 milioni di euro e dovrebbe creare un indotto per 10mila lavoratori. Si tratterebbe magari di reimpostare il progetto Eurofighter dove, diversamente da quello che accade con il JSF, avremmo pieno possesso della tecnologia informatica che invece gli USA terranno “coperta” anche agli alleati più stretti (come Israele e Singapore, che partecipano al JSF) e di iniziare una grande progettazione di droni unmanned (senza equipaggio) con il resto degli alleati UE. Ma riprodurre gli Eurofighter costerebbe più o meno tanto quanto

Gli ordini degli F-35 Paese per Paese Aeronautica

STATI UNITI

1,763 340

Velocità

Marines

80

Larghezza

Max. g-rating

F-35A

Marina

260

REGNO UNITO

138

TURCHIA

100

AUSTRALIA

100 85

PAESI BASSI CANADA

Lunghezza Altezza

65 60

Decollo e atterraggio convenzionali

Mach 1.6

51.4 ft / 14.4 ft / 35 ft / 15.7 m 4.38 m 10.7 m

9.0

F-35B Decollo e atterraggio verticali

Ascensione verticale

Spinta posteriore

ITALIA

30 Mach 1.6

NERVEGIA

52

GIAPPONE

42

F-35C

40 (Variabili)

Struttura modificata

COREA DEL SUD DANIMARCA

30

ISRAELE

19

SINGAPORE

12

51.2 ft / 14.3 ft / 35 ft / 15.6 m 4.36 m 10.7 m

7.0

Superficie alare maggiore

Ali pieghevoli

Mach 1.6

51.5 ft / 14.7 ft / 43 ft / 15.7 m 4.48 m 13.1 m

7.5

Fonte: Reuters, Lockheed Martin Corp.

produrre l’F-35. E poi, sono veri alleati gli europei?* Avremmo il pieno disvelamento delle tecnologie per i droni? Infine, ci sarà un progetto strategico comune con il resto dell’Europa, ormai destinata alla provincializzazione strategica come e più dell’Italia? Sembra improbabile. Allora meglio seguire la linea dell’F-35, cercando di ricontrattare con gli USA sia la questione tecnologica (la copertura stealth delle superfici) sia il tema delle “librerie” informatiche, che dovrebbero essere agibili e modificabili anche dai tecnici italiani. Altrimenti, come qualche analista ha detto, avremo un aereo per il quale dovremo chiedere agli USA anche il permesso di accensione del motore.

*Scrive in proposito Gianluca Di Feo sul settimanale l’Espresso: “La Gran Bretagna si sta muovendo per convincere i governi europei ad affidare la manutenzione dei loro F-35 a uno stabilimento britannico, tradendo l’impegno a svolgere questa attività nell’impianto di Cameri (Novara), costruito proprio puntando a questo affare. Londra avrebbe già convinto la Norvegia a dirottare i contratti dall’impianto piemontese alla base inglese di Marham, nei dintorni di Nolfolk”.

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Uno dei dossier in mano all’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, è certamente l’ascesa del Califfato in Siria e Iraq. Ma che cos’è lo Stato Islamico e come si foraggia?

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Come si finanzia lo Stato Islamico


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l’ascesa del gruppo è stata possibile anche grazie alle enormi disponibilità economiche, calcolate oggi intorno ai due miliardi di dollari. estorsioni, contrabbando, riscatti di ostaggi, ma soprattutto vendita del petrolio al mercato nero, finanziamenti esteri e razzie nelle banche. ma quanto pesano queste voci nel bilancio dei jihadisti sunniti? di Luciano Tirinnanzi

IRAQ uando a giugno le armate di Abu Bakr Al Baghdadi conquistano Mosul, nella Iraq’s United Bank for Investment trovano un tesoro di 500 miliardi di dinari - oltre 450 milioni di dollari, un quarto del patrimonio totale - che permette loro di fare il salto di qualità. Ma, in parte, questa notizia è propaganda. Athil al-Nujaifi, governatore della provincia di Ninive (dove si trova Mosul), ha confermato come i jihadisti sunniti abbiano razziato numerosi milioni da questa e da altre banche nell’area. Ma la grande banca finanziaria irachena fino a poche settimane fa sosteneva che quel mezzo miliardo di dollari ghermito dai miliziani dalla filiale di Mosul “non è mai stato rubato” e che la banca continua a operare normalmente. Eppure, è un fatto che Mosul sia stata ampiamente saccheggiata di soldi, armi e mezzi prima di divenire la capitale irachena del Califfato, controllata direttamente dalle milizie del Califfo, che ha scelto proprio questa città per fare la sua prima e unica apparizione in pubblico.

Q

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LA CADUTA DI MOSUL

Base militare di Al Kindi Tigris

Mosul Baghdad

Musherfa 6 Avanzata dei combattenti IS Haramut 6 Tamoz 17 6 Mosul Hotel 8 9 Hay al-Islah al-Ziraie 6 Hay Tanak 6

Hay Uraibi

IRAQ

10 Gharawi cade in un’imboscata

Iraqi Operation 7 Command Aeroporto di Mosul 2 miglia 2 km

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Intorno alle 03:20, i combattenti dello Stato Islamico entrano a Mosul attraverso cinque distretti lungo il bordo occidentale della città.

I miliziani di IS fanno strage della polizia irachena nella parte settentrionale del quartiere Tamoz 17. La Terza divisione dell’esercito iracheno abbandona il bordo occidentale della città e anche tra la polizia iniziano le defezioni.

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Qanbar, vice capo del personale del ministero della Difesa, e Ghaidan, comandante delle forze di terra irachene, arriva a Mosul e assume il controllo da Gharawi, capo dei federali.

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Arrivano altre truppe IS che assaltano una stazione di polizia nel quartiere Hay Urabi e poi si dirigono all’Hotel Mosul. Continuano le diserzioni e le fughe di poliziotti e federali.

Un’autocisterna riempita con esplosivo esplode di fronte all’Hotel Mosul, mettendo in fuga gli ultimi federali e poliziotti rimasti. IS raggiunge il lato occidentale del fiume Tigri. Esercito e ufficiali locali si riuniscono al Comando Operazioni intorno all’aeroporto. Qanbar e Ghaidan si dirigono verso la base militare di Al Kindi, che poi abbandonano nella notte.

10 Gharawi lascia il Comando Operazioni e attraversa il Tigri, dove cade in un’imboscata, ma riesce a fuggire dalla città a bordo di un veicolo corazzato.

fonte: reuters

il caso della banca di mosul I soldi spariti dalle casse della United Bank facevano parte delle riserve liquide e auree dell’istituto di credito. Vanno esclusi invece i titoli quotati in borsa, i quali sono facili da controllare e da bloccare. Il bilancio dell’istituto bancario iracheno al 31 marzo di quest’anno mostrava che la banca centrale (di cui Mosul è solo una delle 21 filiali) aveva in pancia 227 miliardi di dinari investiti, 371 mld di depositi,

nella pen-drive di un corriere dello Stato Islamico, intercettato dai servizi segreti iracheni. Dunque, mancherebbe all’appello un altro miliardo di dollari. Se ne deduce che il grosso dei finanziamenti allo Stato Islamico giunga da altre fonti. Quali? il finanziamento internazionale Come noto, uno dei cinque pilastri dell’Islam su cui si basa la professione di fede di ogni buon musulmano, è la Zakat, traducibile come “elemosina” nel suo senso più nobile: è fatto obbligo per ogni musulmano dimostrare la propria benevolenza e misericordia verso i propri fratelli attraverso la donazione spontanea di una parte delle proprie ricchezze. Un sistema che può travalicare la fede e può servire da finanziamento occulto per attività niente affatto connesse con le pratiche religiose o sociali, come ad esempio la jihad. Arabia Saudita e Qatar sono direttamente coinvolte in questo senso. Non si tratta solo di accuse, ma di considerazioni che provengono da numerose istituzioni, a cominciare dalla Casa Bianca. Già nel 2001 gli Stati Uniti avevano creato unità specializzate nello screening dei flussi finanziari esteri, concentrando le indagini proprio sulla Penisola Araba, e facendo conseguentemente pressione sui governi di Arabia Saudita, Kuwait e Qatar per reprimere il finanziamento di gruppi estremisti. Che tuttavia non si è mai interrotto.

QATAR E ARABIA SAUDITA SONO COINVOLTE NEL FINANZIAMENTO 61,5 mld di provvigioni e solo 38 mld di riserve. Se i dati della United Bank sono corretti, la cifra reale di cui i miliziani hanno potuto usufruire realmente si aggira allora intorno ai 120 miliardi di dinari, pari a circa 85 milioni di dollari. Forse ancor meno. Sempre che le riserve si trovassero tutte a Mosul. In ogni caso, si tratta di una cifra ben lontana dai 450 milioni di dollari denunciati. Prima della caduta di Mosul, sappiamo per certo che la reale disponibilità economica del Califfato era pari a 875 milioni di dollari. La notizia è giunta a noi attraverso i dati contabili scoperti 48

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nelle casse del Califfato quotidianamente una cifra compresa tra i 200 e i 400 mila dollari, attraverso la vendita del greggio al mercato nero, al governo turco e allo stesso regime siriano. Controllare le strade da Jarabulus a Kobane in Siria e l’autostrada che corre lungo la provincia di Anbar in Iraq, consentirà a IS di incrementare tali commerci, che avvengono per lo più su gomma, attraverso autocisterne. Anche le razzie perpetrate a danno delle aree archeologiche garantiscono una straordiMARZO 2014 Il documento del naria fonte di finanziamento (la Siria, afferma bilancio ufficiale l’UNESCO, possiede oltre 10mila siti greci, rodella United Bank mani, ottomani e di altre civiltà). Secondo l’inof Iraq telligence britannica, solo i saccheggi presso il sito archeologico intorno ad Al Nabuk, tra le montagne Qalamoun a ovest di Damasco, hanno portato allo Stato Islamico guadagni per 36 milioni di dollari. Inoltre, le immagini satellitari della città greco-romana di Apamea mostrano distintamente scavi e dissotterramenti incontrollati con i bulldozer, a riprova di quanto spaventoso sia il livello di razzie raggiunto da parte dei predoni che operano per conto dei jihadisti sunniti, e di quanto remunerativo sia questo business.

Questi tre governi hanno anzi affermato che parte delle donazioni, emerse come chiara fonte di finanziamento diretta ai combattenti in Siria dal 2011 in poi, sono giustificate dalla necessità di sostenere le forze ribelli in Siria contro il regime di Bashar Al Assad. Enti di beneficenza e singoli uomini facoltosi del Golfo hanno dunque effettivamente donato, sia pur indirettamente, cifre enormi a enti o soggetti collegati tanto all’esercito Siriano Libero quanto a Jabhat al-Nusra, sia attraverso bonifici sia per tramite di emissari con valigette piene di contanti. Secondo una nota informativa del Brookings Doha Center (ente di ricerca politico-economico del Qatar, con sede anche a Washington), a maggio scorso la gran parte della raccolta fondi privati e di beneficenza per l’insurrezione in Siria era concentra nelle sole aree dove operano i jihadisti. Fino alla fine dello scorso anno, dicono fonti inglesi ben informate, è stato possibile rintracciare i dettagli dei depositi bancari internazionali per le donazioni. Oggi questo metodo è stato sostituito da comunicazioni cellulari, contatti telefonici e account WhatsApp utilizzati per coordinare le donazioni e trasmettere indirizzi stradali dove raccogliere fisicamente il denaro. petrolio e archeologia Per capire come funziona l’economia dello Stato Islamico, non vanno dimenticati i profitti dei giacimenti petroliferi che ancora controllano in Siria orientale e nel Nord dell’Iraq. IS esporta circa 9mila barili di petrolio al giorno a prezzi che vanno dai 25 ai 45 dollari al barile. Il che porta

le tasse Infine, lo Stato Islamico ha creato anche un vero e proprio sistema di tassazione, tanto in Siria quanto in Iraq, che colpisce sia le piccole e medie imprese sia i cittadini musulmani e non, con relativi distinguo. Nella loro capitale irachena Mosul, ad esempio, oltre agli esercizi commerciali, le tasse vengono imposte anche alle compagnie telefoniche che dispongono di ripetitori nelle zone controllate da IS. Nella capitale siriana Raqqa, invece, agli imprenditori si richiedono 20 dollari ogni due mesi in cambio di energia elettrica, acqua e sicurezza per la propria azienda. Un tributo che, in maniera lungimirante, è inferiore alle tasse (e alle tangenti) che prima erano dovute al governo di Assad. Ai cristiani, inoltre, è stata imposta la Jizya, la stessa tassa che il profeta Maometto richiedeva alle comunità non musulmane in cambio di protezione. Tutti i tributi vengono riscossi attraverso rappresentanti politici locali e gestiti dalla Banca di Credito di Raqqa, che oggi funziona come autorità fiscale almeno per la Siria e le cui ricevute portano il timbro con il logo dello Stato Islamico. Discorso simile vale per gli stipendi ai funzionari pubblici e ai soldati, che si aggirano intorno ai 500 dollari al mese, per un totale di circa 60mila uomini. Fa 360 milioni l’anno che possono uscire dalle casse dello Stato Islamico, meno di un quarto delle ricchezze totali, il cui resto può dunque essere investito ancora a lungo nella loro “Guerra Santa”. Il Califfato, dunque, si sta comportando esattamente come uno Stato sovrano e ha dato vita a un sistema tradizionale di economia di guerra che, ahimè, funziona fin troppo bene. Se non si capisce questo, non si comprende appieno la sua forza e la sua pericolosità.

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LA CATENA DI COMANDO DELLO STATO ISLAMICO CONSIGLIO DELLA SHURA* (CONSIGLIERI MILITARI E RELIGIOSI)

MEMBRI ANZIANI (CONSIGLIERI)

ABU MUSAB AL ZARQAWI LEADER DI AL QAEDA IN IRAQ E IDEATORE DEL PROGETTO PRIMORDIALE DELLO “STATO ISLAMICO” ASSASSINATO NEL 2006 DAGLI USA

ABU SHEMA RESPONSABILE ARMAMENTI

ABU MOHAMMAD AL-ADNANI PORTAVOCE DELLO STATO ISLAMICO

ABU KIFAH RESPONSABILE GUERRIGLIA E ATTENTATI

ABU OMAR AL-SHISHANI COMANDANTE DELLE FORZE ARMATE IN SIRIA ALIAS “IL CECENO”

ABU SUJA CONSIGLIERE AFFARI CONNESSI CON LA RELIGIONE

ABU BAKR AL-BAGHDADI FONDATORE E DEL CALIFFATO E LEADER ASSOLUTO DELLO STATO ISLAMICO IS CONOSCIUTO COME CALIFFO IBRAHIM

*Sono indicate solo le figure chiave

CAPO DI STATO E DI GOVERNO ATTUALMENTE AL POTERE

GABINETTO DI GUERRA BRACCIO ESECUTIVO

?

LUOGOTENENTI

ABU MUSLIM AL-TURKMANI

ABU ARI AL ANBARI

VICE DI AL BAGHDADI E COMANDANTE IN IRAQ

VICE DI AL BAGHDADI E COMANDANTE IN SIRIA

GOVERNATORI DELLE PROVINCE IRACHENE

50

GOVERNATORI-EMIRI DELLE PROVINCE SIRIANE

FINANCE COUNCIL

MILITARY COUNCIL

SECURITY COUNCIL

MEDIA COUNCIL

ARMI, PETROLIO, ECONOMIA

DIFESA E DOGANE

POLIZIA INTERNA E GIUDIZIARIA

MASS MEDIA E SOCIAL NETWORK

LEADERSHIP COUNCIL

FIGHTERS ASSISTANCE COUNCIL

INTELLIGENCE COUNCIL

LEGGI E KEY POLICIES

GESTIONE COMBATTENTI STRANIERI

SERVIZI SEGRETI

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Figure chiave di IS ABU MUSLIM AL-TURKMANI “NUMERO DUE” DEL CALIFFATO Forse la figura più importante dopo il Califfo stesso, Al Turkmani è un esperto militare iracheno, proveniente dai ranghi dei baathisti. Ha servito Saddam Hussein come generale dell’esercito, come membro della guardia repubblicana (nelle forze speciali del palazzo presidenziale) e ha militato anche nella disciolta Istikhbarat, l’intelligence militare di Baghdad, sino al 2003. Come Al Baghdadi, anche Al Turkmani è stato imprigionato a Camp Bucca, le discusse carceri irachene sotto il controllo americano durante l’invasione che ha deposto il regime. Oggi governa le province irachene ed è a capo delle operazioni militari in Iraq. Potrebbe essere morto durante il raid americano dell’8 novembre 2014 su Qaim (Iraq) in cui sarebbe stato ferito lo stesso Califfo. ABU OMAR AL-SHISHANI ALTO COMANDANTE IN SIRIA Nome di battaglia “Al Shishani”, conosciuto anche come “il ceceno”, è nato in Georgia nel 1986. Ha combattuto nelle fila dei ribelli siriani contro il regime siriano di Assad, prima di prestare giuramento al Califfato nel 2012. Figura chiave dell’alto comando militare, Shishani è a capo delle operazioni in Siria e ha condotto anche la vittoriosa campagna militare che ha portato lo Stato Islamico ad avere il controllo dell’Iraq del nord. Ormai leggendario tra i miliziani, il suo volto caucasico e in particolare la sua barba rossiccia sono ormai divenuti un’icona: la sua immagine compare in numerosi video realizzati dalla propaganda jihadista mentre la sua faccia viene riprodotta su auto, carri armati, muri e persino t-shirt. Per tale ragione, i giornalisti lo chiamano anche “ginger jihadist”. Attualmente, si ritiene stia conducendo la campagna contro i curdi al confine turco-siriano. ABU MOHAMMAD AL-ADNANI PORTAVOCE E “IDEOLOGO DI IS” Nato nel 1977 a Idlib, in Siria, Al Adnani è indicato come un combattente jihadista sin dai tempi della guerra in Iraq del 2003, anche se gli americani lo hanno inserito nell’elenco dei “terroristi internazionali” soltanto nel 2013. Descritto come appassionato lettore e assiduo frequentatore di moschee, sotto il Califfato Al Adnani è divenuto una sorta di Ministro per la Propaganda. È lui che sovrintende a tutte le comunicazioni ufficiali e ai messaggi veicolati ai media da IS. Si ritiene anche che abbia personalmente curato la dichiarazione ufficiale multilingue del 29 giugno 2014 (foto in alto), che annunciava al mondo la creazione dello Stato Islamico.

Proclama dello Stato Islamico robabilmente, lo Stato Islamico è un parto dello Stato maggiore della difesa irachena, promosso da quella parte di sunniti che si sono rifiutati di subire discriminazioni etnico-religiose. In ogni caso, il gruppo è cresciuto oltre ogni aspettativa e oggi ha debordato in una forma arcaica di teocrazia, dove vige principalmente la legge della spada. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, può essere utile leggere la proclamazione della nascita dello Stato, “La promessa di Allah”.

P

Lo Stato islamico - rappresentato da Ahl-Halli-wal -’aqd (l’autorità del proprio popolo), composto da personalità di alto livello, dirigenti e dal Consiglio della Shura - ha deliberato di annunciare l’istituzione del Califfato Islamico, la nomina di un khalifah (Califfo) per i musulmani, e il pegno di fedeltà allo shaykh (Sceicco), il Mujahid, lo studioso che pratica ciò che predica, il fedele, il leader, il guerriero, il rinnovatore, discendente dalla famiglia del Profeta, lo schiavo di Allah Ibrahim, Ibn ‘Awwad Ibn Ibrãhim Ibn’ Ali Ibn Muhammad al-Badri al-Hashimi Husayni al-Qurashi per lignaggio, as-Sãmurrã’i per nascita ed educazione, al-Baghdadi per dimora e studio. E lui ha accettato la bay’ah (pegno di fedeltà). Così, egli è l’imam e khalifah per i musulNASCITA DEL CALIFFATO mani in tutto il mondo. Di conseguenza, in nome dello Stato islamico l’Iraq e Sham (ISIS) è d’ora in poi rimosso da tutte le deliberazioni e le comunicazioni ufficiali, e il nome ufficiale dalla data della presente dichiarazione è Stato islamico. Chiariamo ai musulmani che con questa dichiarazione del Khilafah (Califfato) spetta a tutti i musulmani di giurare fedeltà al khalifah Ibrahim e sostenerlo (che Allah lo preservi). La legittimità di tutti gli Emirati, i gruppi, gli stati e le organizzazioni, diventa nulla per l’espansione dell’autorità del Khilafah e l’arrivo delle sue truppe nei loro territori. Imam Ahmad (che Allah abbia misericordia di lui) ha detto, come riportato da ‘Abdus Ibn Malik al-’Attãr: “Non è permesso a nessuno che crede in Allah di dormire senza contemplare come proprio capo chiunque li conquisti con la spada fino a che non diventa Khalifah e si chiama Amirul-Mu’minin (il capo dei credenti), sia che queSTIME CIA sto leader sia un giusto o un peccatore”.

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31.500 miliziani ISIS

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Le principali manifestazioni di rabbia e dissenso nel 2014 1. BANGKOK, THAILANDIA 2. BRUXELLES, BELGIO 3. TRIPOLI, LIBIA 4. CARACAS, VENEZUELA 5. BAGHDAD, IRAQ 6. AMRITSAR, INDIA 7. OUAGADOUGOU, BURKINA FAS 8. IL CAIRO, EGITTO 9. JOHANNESBURG, SUDAFRICA 10. RIO DELLE AMAZZIONI, BRASILE 11. TAIPEI, TAIWAN 12. ODESSA, UCRAINA 13. MADRID, SPAGNA 14. LONDRA, REGNO UNITO 15. PHNOM PENH, CAMBOGIA 16. BANGUI, REPUBBLICA CENTRAFRICANA 17. GERUSALEMME, ISRAELE 18. SANAA, YEMEN 19. HOMS, SIRIA 20. DIYALA, IRAQ 21. KIEV, UCRAINA 22. RAJSHAHI, BANGLADESH 23. ATENE, GRECIA 24. HONG KONG, CINA 25. BRUXELLES, BELGIO 26. COLOMBO, SRI LANKA 27. SANAA, YEMEN 28. BRUXELLES, BELGIO 29. ISTANBUL, TURCHIA 30. GERUSALEMME, ISRAELE 31. SAN CRISTOBAL, VENEZUELA 32. MAOMING, CINA 33. BOGOTÀ, COLOMBIA 34. GERUSALEMME, ISRAELE 35. SANAA, YEMEN 36. KATHMANDU, NEPAL 37. JALAZOUN, TERRITORI PALESTINESI 38. LONDRA, REGNO UNITO 39. MELILLA, SPAGNA 40. ATENE, GRECIA 41. MPEKETONI, KENYA 42. GERUSALEMME, ISRAELE

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2015, come superare la tempesta perfetta analisi comparata dell’andamento e delle prospettive per le economie mondiali. dall’italia al resto del mondo, l’anno che verrà stabilirà il ruolo e il peso di ciascun paese per il prossimo decennio di Ottorino Restelli

on cambia niente, non c’è niente di nuovo. È la stessa vecchia, tetra atmosfera di crisi, la sensazione che non possa peggiorare ancora molto senza che qualcosa ceda. Ma non cede niente. Si moltiplicano soltanto i luoghi comuni: la rovina, il crollo, la nave dello stato che affonda, il punto di non ritorno, l’equilibrio precario, l’edificio pericolante, il tempo che scorre inesorabile...” Questo non è un editoriale dell’anno in corso pronunciato da un economista o un intellettuale, ma un testo scritto nel 1788 estratto da La storia segreta della rivoluzione (Hilary Mantel, Fazi 2014), che racconta il periodo della Rivoluzione Francese. La fine del 2014 è stata caratterizzata da due eventi di segno opposto.

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“Todos somos americanos” ha affermato il Presidente Barack Obama annunciando la storica richiesta al Congresso di mettere fine all’embargo (el bloqueo) verso Cuba, in vigore da oltre cinquantacinque anni. “Il muro di Berlino è crollato, ma si costruiscono nuovi muri nonostante i nostri tentativi di collaborare. L’espansione della NATO non è forse un muro, un muro virtuale?” ha affermato il Presidente Vladimir Putin nella conferenza di fine anno a proposito delle sanzioni imposte dagli USA e dall’UE alla Russia dopo la crisi Ucraina. La profonda incertezza che caratterizza gli scenari internazionali, nell’era della globalizzazione, rischia di condizionare in modo importante le possibilità di ripresa economica dell’Italia nel 2015.

I dati macroeconomici dell’eurozona sono desolanti e descrivono un continente in stagnazione, in cui l’eventualità della deflazione è sempre più vicina. Nel terzo trimestre il PIL medio è cresciuto del +0,2%, era stato del +0,1% nel secondo trimestre, mentre la formazione di capitale si è ridotta del -0,1%. La produzione industriale a ottobre è cresciuta rispetto a settembre mediamente del +0,1%, l’occupazione nel terzo trimestre è cresciuta in media del +0,2%, era cresciuta del +0,3% nel secondo trimestre, e il tasso medio di disoccupazione è all’11,5%. Il reddito medio in agricoltura si è ridotto con picchi del -15% in Belgio, il costo del lavoro medio, misurato su base annuale, è sceso del -1,3% e l’inflazione


813 media si è attestata al +0,3% annuo. Infine, la bilancia degli scambi dei beni con il resto del mondo ha registrato in ottobre un saldo positivo di +24 miliardi, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. In Italia il quadro macroeconomico è più grave. Il Documento di Economia e Finanza approvato dal Parlamento prima della pausa natalizia ha confermato la strategia del governo del Premier Matteo Renzi di voler riavviare la crescita attraverso un sostegno diretto e indiretto alla domanda privata (consumi e investimenti), ma la profondità della crisi rende difficile il realizzarsi di una significativa inversione della congiuntura recessionedeflazione. I consumi in Italia sono crollati ai livelli del 1999 (813 miliardi),

MILIARDI DI EURO I COnSUMI ITALIAnI 2014

con una riduzione di 66,5 miliardi rispetto al 2007, mentre gli investimenti hanno fatto segnare un ulteriore calo del 2,3% nel 2014, principalmente nella spesa in macchinari e attrezzature e quella nei beni della proprietà intellettuale, cioè nei principali fattori di accumulazione del capitale. La ricchezza finanziaria netta delle famiglie ha raggiunto i 4.000 miliardi, a testimonianza di generali aspettative negative sul ciclo economico. Ipotecano la ripresa, infatti, gli antichi e ben noti mali dell’economia italiana. Scarsa capitalizzazione delle imprese, scarsa qualità del management, scarsa innovazione tecnologica di qualità, scarsa penetrazione dell’IT nelle imprese, scarsa produttività dei fattori,

scarsa attenzione al capitale immateriale, scarsa lotta contro la rendita che si appropria di gran parte della ricchezza prodotta dal Paese e, infine, scarsa capacità di immaginare una qualsiasi forma di politica industriale. Questa l’eredità di decenni di svalutazioni competitive che si somma alla più profonda crisi economica e finanziaria dal dopoguerra (la crescita dell’economia mondiale è attesa del +3,3% nel 2014, ben lontana dal +5,2% di prima della crisi dei mutui subprime). Anche il repentino dimezzamento del prezzo del petrolio che ha raggiunto i 59 dollari al barile - e che in tempi normali sarebbe salutato come un evento favorevole soprattutto per le economie di trasformazione

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eCOnOmia

ed energivore come quella italiana rischia di rappresentare un ulteriore freno alla ripresa per le conseguenze sulla bilancia dei pagamenti di gran parte dei Paesi produttori che, come la Russia, sono anche partner commerciali dell’Italia (-16% le esportazioni verso Mosca su base annua a ottobre). Le economie avanzate mostrano gradi diversi di ripresa e le stime danno una crescita media del +1,8%, dovuta in massima parte all’ottima performance dell’economia statunitense e del Regno Unito, che contano per il 12% dei flussi di scambio mondiali dell’Italia come la sola Francia. Le economie asiatiche e pacifiche sono attese a una crescita del +5,5%, come lo scorso anno, ma il loro peso nelle esportazioni globali italiane è molto basso (1,5% per il Giappone, 0,8% per l’India e 2,5% per la Cina). Inoltre, pesano sulle loro prospettive economiche la crisi dell’Abenomics e il ri-orientamento verso una crescita della domanda interna dell’economia cinese. In America Latina è attesa una crescita decimale (0,7%), quando non una vera recessione come in Argentina e Venezuela. Il Nord Africa e il Medio Oriente, condizionati dalla caduta dei prezzi del petrolio e del gas e dalle guerre, sono attesi a una crescita attorno al 2%. Troppo poco per sperare in un’esplosione delle esportazioni, capace di rivitalizzare l’economia italiana. Le dense nubi che avvolgono il Bel Paese prefigurano allora l’eventualità di una tempesta perfetta dagli esiti economici e sociali imprevedibili. Il problema della crescita economica mondiale è l’eurozona, ma senza un deciso cambio di prospettiva e di politiche economiche nell’UE non si ha nessuna ripresa economica. Il 2015 sarà l’anno della verità per l’Italia, ma anche per l’euro e la stessa Unione Europea. Incrociamo le dita e speriamo che prevalga il buon senso sulla rigidità delle regole arbitrarie e dei trattati.

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PIL IL 2015 pOTREbbE ESSERE L’AnnO DELLA SvOLTA (pIER CARLO pADOAn, MInISTRO DELL’ECOnOMIA

EUROZONA PIL

ITALIA PIL PERCENTUALE QUADRIMESTRALE

L’ITALIA AL DICEMBRE 2014 Il PIL si è ridotto nel terzo trimestre del -0,5% ed è previsto un sostanziale prolungamento al quarto trimestre della stagnazione (variazione del PIL compresa tra -0,2% e +0,2%), il che porta la stima della variazione del PIL nell’anno a -0,3%. Quindi, siamo nel terzo anno consecutivo di recessione: -2,4% (2012), -1,9% (2013) e -0,3% (stimato 2014). La produzione industriale si è ridotta del -3% su base annua, segnalando la sostanziale debolezza del settore manifatturiero, mentre nell’industria delle costruzioni, considerata il volano della ripresa economica, si è registrato un calo della produzione del -4,3%. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il record del 13,2% (43,3% tasso di disoccupazione giovanile), con un calo di oltre -50.000 occupati tra settembre e ottobre. Il tasso d’inflazione mensile a novembre è stato del 0,2%, il che porta la stima annuale del tasso d’inflazione al +0,2%. Il saldo attivo commerciale nei primi 10 mesi dell’anno è stato di +33,6 miliardi (+70,4 miliardi al netto 0,5 della bolletta energetica), con un aumento del +2,9% delle esportazioni, 0,0 in particolare per la crescita delle vendite verso i mercati dell’UE (+4,7%); ma nel mese -0,5 di ottobre si è evidenziata una dinamica divergente nelle vendite estere, +1,8% -1,0 quelle diretto verso i paesi dell’UE, -1,2% quelle dirette verso i paesi extra-UE.


FARE BUSINESS ALL’ESTERO

L’IMPORTANTE È GUARDARE LONTANO ercare nuovi mercati di approvvigionamento e di sbocco per i prodotti italiani è fondamentale. Per avere successo è necessario un approccio integrato, in grado di mettere sulla bilancia anche la nostra sensibilità nel creare relazioni in grado di generare valore. Quest’azione in passato ha fatto grande l’Italia sui mercati internazionali. Vogliamo chiudere l’anno insieme a voi con un invito ad approfondire due regioni del mondo vicine all’Italia ma al contempo lontane: il Mediterraneo e l’America Latina. Nell’area mediterranea l’Italia, ha molto da sviluppare sul piano politico e commerciale con tutti i Paesi rivieraschi a Nord, a Sud, a Est e a Ovest del “Mare Nostrum”. È importante per il nostro Paese rinsaldare i legami con l’area mediterranea e mediorientale per poter saper cogliere le opportunità di un contesto in continua evoluzione. Sicuramente tra i Paesi da tenere d’occhio il prossimo anno, possiamo annoverare il Marocco, una delle poche

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nazioni non interessate dagli stravolgimenti che hanno destabilizzato la regione del Nord Africa negli ultimi anni. Il Fondo Monetario Internazionale stima per il 2015 un tasso di crescita (+4,7%) che va oltre le aspettative governative proprio perché considera i risultati attesi dalle riforme strutturali messe in campo negli ultimi anni nel regno di Hassan VI. Il Marocco si configura pertanto sempre di più come una porta d’accesso all’intero continente africano, un hub logistico, commerciale e finanziario credibile per le nostre imprese. Guardando ancora più a est sono immense le possibilità che potrebbero dischiudersi da un rilancio concreto del partenariato con l’Egitto. Sotto la nuova guida del presidente Abdel Fattah Al Sisi il Paese ha in programma ambiziosi piani di investimento e offre un potenziale commerciale enorme dal momento che non si parla unicamente dei 90 milioni di consumatori egiziani, ma di una platea di 1,5 miliardi di persone, grazie agli accordi di libero scambio con gli Stati arabi, africani, dell’UE e del MercoSur (Mercato Comune dell’America Meridionale).

Mediterraneo e America Latina: sono queste le due regioni del mondo che nel 2015 offriranno maggiori opportunità di investimento alle imprese italiane Per chi invece sa guardare lontano il nostro invito è quello di tenere sotto osservazione l’andamento e le opportunità che offrono i grandi mercati del Sud America. Sarà interessante, ad esempio, osservare da vicino le evoluzioni dell’economia brasiliana che nel 2014 ha registrato un modestissimo incremento del PIL pari allo 0,4%, ben lontano dai tassi di crescita degli ultimi anni. Il Paese, tuttavia, può contare su una folta classe media emergente pronta a consumi emozionali e di qualità che naturalmente, come tutto il mondo, subisce il fascino del Made in Italy. Ne sono da meno le opportunità in Messico e Colombia, due mercanti emergenti che negli ultimi anni sono stati protagonisti di una crescita costante e continua. Da non tralasciare, come sempre, che l’andamento di buona parte delle economie emergenti e dei Paesi in via di sviluppo nel 2015 sarà maggiormente condizionato dall’altalena dei prezzi delle materie prime, in primis il prezzo al barile del petrolio sceso, dopo anni, al di sotto dei 60 dollari. Comunque vada le opportunità non mancheranno e

nuovi mercati e consumatori potranno essere conquistati con strategie vincenti, lungimiranza ed un pizzico di coraggio in più. Il nostro invito, come sempre, è saper guardare lontano.

TOP INDONESIA COLOMBIA USA POLONIA

FLOP RUSSIA GIAPPONE ARGENTINA LIBIA

a cura di

IBS ITALIA Società di consulenza specializzata nell’offerta di servizi all’internazionalizzazione d’impresa: studi di mercato, tax planning, ricerca partner, assistenza operativa in loco, organizzazione eventi, redazione pratiche per finanziamenti agevolati

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OSSerVatOriO SOCiale Monitoraggio dei principali eventi e fenomeni ribellistici ed eversivi nel nostro Paese

Fine anno col botto e azioni e le violenze di cui si sono resi protagonisti gli antagonisti italiani nell’ultimo mese dimostrano che l’area anarchica dispone ancora di solide capacità operative ed è in grado di operare a livello nazionale evidenziando un’eccellente capacità di coordinamento e di infiltrazione nei molteplici luoghi della protesta, anche quella legittima sindacale. Alla luce degli episodi e delle strategie decritti nella cronologia, sembra lecito sottolineare che la minaccia eversiva nel nostro Paese, anche alla luce delle diffuse difficoltà economiche e sociali, sia destinata a manifestarsi anche nel prossimo futuro.

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Nel frattempo, i quattro anarchici No-Tav arrestati il 9 dicembre 2013 sono stati assolti dall’accusa di attentato con finalità di terrorismo dalla Corte d’assise di Torino, ma sono stati condannati per danneggiamento, dal trasporto di armi e dalla resistenza a pubblico ufficiale. Oltre ai presumibili, ulteriori, tentativi d’inserimento e infiltrazione dei gruppi anarco-insurrezionalisti all’interno dei movimenti di protesta sindacale o sociale che sembrano destinati a ripetersi, occorre sottolineare che per tradizione, durante le festività natalizie, gli anarchici italiani sono soliti inviare lettere esplosive ai loro “nemici di classe”, approfittando dell’aumentato numero di messaggi che tendono a sovraccaricare il sistema postale rendendo più difficili i controlli preventivi. Una curiosità: alcune lettere bomba degli scorsi anni avevano come mittente: “Quintino Sella, piazzale Vaticano n. 1”. Buon Natale.

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TIMELINE DEGLI EVENTI 10 novembre MILANO Gli anarchici hanno dato il via alla mobilitazione violenta, irrompendo nella sede PD di via Mompiani, Corvetto. 12 novembre MILANO Scontri con la polizia che stava eseguendo lo sfratto di due famiglie di extracomunitari e danneggiamento bancomat e auto di lusso. 14 novembre ROMA Nella capitale, ma anche a Palermo e Milano, manifestazioni contro il “Jobs act. Gli anarchici infiltrati all’interno dei cortei dei sindacati danno luogo a scontri. 17 novembre NAPOLI All’ingresso degli uffici della Deutsche Bank di via Mascagni al Vomero viene rinvenuto un ordigno esplosivo. 18 novembre MILANO Nella notte un gruppo di anarchici devasta e dà alle fiamme la sede dell’ente case popolari ALER, inneggiando alla “lotta per la casa”. 20/21 novembre TRENTO Gli anarchici locali hanno attaccano sede del PD. Stesso caso si verifica a Verona (18 nov) e Torino (24 nov). 17 dicembre TORINO Inflitte 4 condanne per "fabbricazione di armi da guerra, danneggiamento e violenza a pubblico ufficiale". Caduta l'accusa di terrorismo.


COPertina NOVEMBRE

2014 Aggiornato al 19 dicembre 2014

ATTENTATI LETTERE O PACCHI BOMBA INCIDENTI DI PIAZZA TRENTO

RAPINE O AGGRESSIONI MILANO

VERONA

RISCHI O MINACCE

TORINO

ARRESTI

ROMA

NAPOLI

PALERMO





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