Lookout News Magazine n. 15 gennaio-febbraio 2015

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REPORTAGE I La Grecia di Tsipras e l’Ucraina dei ribelli

LA ROULETTE

Shock petroliferi, califfati, stati falliti, guerre civili. Dietro ogni crisi e conflitto, c’è la sfida per le risorse energetiche di domani

www.lookoutnews.it

ROSSA

IRAQ INTERVISTA ESCLUSIVA ALL’AMBASCIATORE IN ITALIA

anno III - n. 15 gennaio-febbraio 2015 |

Guerre e petrolio


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| anno III - numero 15 - gennaio-febbraio 2015

USA, Arabia Saudita e i grandi fondi di Private Equity giocano la partita per il finanziamento dell’industria petrolifera e il futuro dell’energia. Gli avversari? Russia, Iran, Qatar e Venezuela

sicurezza 12 reportaGe

dal donbass

Casa doce casa 15 Il battaglione dei Nerd 16 russia Il vento del Nord: la nuova corsa agli armamenti nell’Artico

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Geopolitica

osservatorio sociale

20 stati uniti Guerra e petrolio

MonitoraGGio dei principali eventi e fenoMeni ribellistici ed eversivi nel nostro paese

26 alGeria - qatar

arabia saudita - iran russia - venezuela

le rubriche

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focus - iraq baGhdad, avaMposto contro lo stato islaMico

18 spy GaMes La “bomba” contro Enigma 25 borsa enerGetica La Geopolitica dell’energia 44 l’araba fenice Sajida Al Rishawi, la terrorista che intimidiva il Califfo

60 do you spread? La sfida per la leadership industriale tra Italia e Germania

Le petroeconomie 30 focus - iraq Baghdad, avamposto contro lo Stato Islamico 34 iraq L’arte e le donne in Iraq

64 osservatorio sociale L’antagonismo e il disordine pubblico

36 iraq Daesh e l’armata internazionale

66 dietro lo specchio Previsioni meteo 2015: EUROPA

40 libia Divisi e agguerriti

38 libia Mille e una Libia

econoMia 48 Grecia Atene e Roma, il possibile tandem anti austerity 52 reportaGe da salonicco

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56 Grecia La lunga strada per Itaca


la viGnetta

“ ar m a di d istr u zio ne d i m as s a ”

7 g enn aio 20 15


UNO SCENARIO CHE PREOCCUPA DI MARIO MORI

l’editoriale

erto non si può dire che sul fronte della geopolitica e della sicurezza internazionale il 2015 sia iniziato sotto i migliori auspici. A oltre quindici anni dalla crisi del Kosovo, che innescò l’ultima guerra guerreggiata nel continente europeo, le tensioni in Ucraina minacciano pericolosamente di degenerare in guerra aperta. Quella in Ucraina è una crisi abbastanza speculare a quella che portò alla secessione del Kosovo dalla Serbia. Stranamente, nel caso della ex Jugoslavia Stati Uniti ed Europa appoggiarono incondizionatamente le istanze secessioniste. Oggi, invece, appoggiano il governo di Kiev che, analogamente a quello che fece il governo di Milosevic, tenta con le armi di soffocare l’indipendentismo delle regioni dell’est. Sono le stranezze della geopolitica. Oggi il presidente Obama sostiene solennemente che le frontiere in Europa non si toccano. Eppure, quando si è trattato della Jugoslavia, le frontiere si sono toccate eccome, anche con i bombardamenti. Per l’importanza della crisi ucraina e per le sue pericolose implicazioni, troverete all’interno di questo numero un reportage dal Donbass realizzato da un nostro inviato. Proseguendo nelle analisi delle tensioni che travagliano l’Europa in questa congiuntura, da Donetsk ci siamo

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spostati a Salonicco per una verifica dell’impatto sociale che ha travolto la società ellenica schiacciata da una crisi economica della quale è difficile vedere la fine. Ma i problemi non sono solo in Europa. Gli effetti devastanti delle (finte) primavere arabe sono sotto i nostri occhi. Dalla Libia all’Iraq, dalla Siria alla Giordania, nuovi focolai di guerra e di crisi energetica rischiano di riverberarsi su tutto il Mediterraneo. Terrorismo, ondate migratorie incontrollate, taglio della produzione del petrolio sono problemi con i quali l’Europa si deve confrontare con intelligenza e fermezza. Intelligenza e fermezza che sembrano mancare completamente a New York, dove nel Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite pare non si riescano più a individuare soluzioni concrete. Due voci importanti dal Nord Africa e dal Medio Oriente ci aiutano a comprendere gli eventi che ci scorrono davanti, due interviste esclusive all’ambasciatore iracheno a Roma e al ministro del Petrolio del governo islamista di Tripoli. Si tratta di due punti di vista originali su dinamiche geopolitiche concrete. Siamo convinti che apprezzerete il nostro sforzo di estrarre dagli episodi della cronaca quotidiana le linee evolutive di uno stato di conflitto internazionale col quale saremo obbligati a confrontarci per molto tempo.


inbox Il dIRettoRe edItoRIale RIsponde

Come sConfIggeRe lo stato IslamICo? La Giordania in tre giorni ha detto di aver neutralizzato il 20% degli armamenti dell’ISIS. Perché allora Obama parla di tre anni per concludere questa guerra? Chi mente?

lIbIa, l’onU Che fa? Aspettare per vedere come si evolve la situazione in Libia potrebbe andare bene per l’ONU, ma ci sono già troppi morti soprattutto dell’Egitto, un Paese laico e moderatamente musulmano. Un’invasione di terra da parte di truppe delle Nazioni Uniti adesso è impensabile, ma non possiamo permetterci di abbassare la guardia. tommy Jones

anselmo passaRellI

La soluzione non è così semplice e in questo caso la matematica non ci aiuta. La distruzione del 20% delle infrastrutture dell’ISIS da parte dei giordani è stata compiuta con i bombardamenti aerei. Per sconfiggere l’ISIS occorre riconquistare i territori occupati dalla scorsa estate e per fare questo ci vogliono gli “stivali sul terreno”. Se l’Occidente non ha intenzione di impegnarsi direttamente nel teatro iracheno e siriano, resta comunque aperta la strada di un sostegno politico e militare significativo ai peshmerga curdi e alle truppe irachene. È una strada lunga e irta di incognite, ma va comunque percorsa se non vogliamo consegnare a poche decine di migliaia di miliziani jihadisti uno Stato che per le sue caratteristiche non potrebbe che essere uno “Stato canaglia”.

L’ONU purtroppo continua a confermare di essere diventato col passare degli anni un pachiderma burocratico capace soltanto di partorire montagne di carta. Se è impensabile che l’Italia possa intervenire militarmente in Libia da sola, il nostro governo potrebbe tuttavia sollecitare Europa e Stati Uniti ad aiutare e sostenere con decisione il governo egiziano, che ha già dimostrato di essere in grado di colpire in Libia i tagliagola dell’ISIS.

gUeRRa In medIo oRIente: QUal è Il RUolo del QataR? Nonostante gli aiuti del Qatar alle milizie jihadiste, l’Europa continua a fare affari con Doha. L’unico obiettivo è sempre il denaro. Anche in questa guerra contro lo Stato Islamico, il Vecchio Continente sta dimostrando di non avere alcuna identità. John dalto

L’Europa forse è (giustamente) distratta dalla crisi greca e dalla guerra in Ucraina, due focolai di tensione che non possono non polarizzare l’attenzione dell’UE. Per quanto riguarda il Qatar, è un discorso difficile, che però diventerà ancora più difficile se e quando si troveranno le prove del sostegno di Doha ai miliziani dell’ISIS.

emeRgenza ImmIgRazIone: Il pReCedente è l’albanIa SCRIVI A: direttore@lookoutnews.it redazione@lookoutnews.it

Mafia e politica hanno tutto da guadagnare dall’emergenza dei flussi migratori dal Nord Africa. La Commissione europea ha promesso lo stanziamento di 13,7 milioni di euro, ma di soluzioni neanche l’ombra. baRtolomeo meRIsI

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Nel nostro articolo sulla rubrica Oltrefrontiera per Panorama.it abbiamo indicato una strada per tentare di ostacolare il traffico di clandestini. Un fatto è certo: quando i migranti arrivano sulle nostre coste non abbiamo altra scelta che accoglierli. L’unica strategia è quella di non farli partire e per questo occorrerebbe intervenire sul terreno in Libia. I droni potrebbero aiutarci in questa missione.

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cuba

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Mali

Dopo lo storico disgelo tra Washington e L’Avana sono in corso accordi per stabilire connessioni telefoniche dirette tra i due Paesi. Presto dovrebbe toccare anche alla connessione wi-fi.

Continuano le proteste dopo l’omicidio di Alberto Nisman, il procuratore che indagava sul coinvolgimento argentino nell’attentato iraniano del 1994 alla comunità ebraica di Buenos Aires.

Apple sfrutta le agevolazioni fiscali dell’Irlanda e annuncia la costruzione di un data center nella contea di Galway. Dublino pone così un altro tassello per la sua ripresa. Attesa forte crescita nel 2015.

Le porte della leggendaria Timbuktu stanno per essere riaperte ai turisti. Eppure in Mali la situazione resta instabile. I separatisti del nord sfidano i lealisti di Bamako. Si temono infiltrazioni qaediste.


niGeria

libano

cina

australia

Gli islamisti di Boko Haram continuano a seminare terrore lungo le rive del Lago Ciad. Per eliminare la minaccia jihadista al governo serviranno armi, soldati e magari una mano dall’Occidente.

L’esercito dello Stato Islamico starebbe pianificando di attaccare il Libano dalla Siria. Il governo di Beirut è infatti corso ai ripari, ricevendo armi da Stati Uniti, Arabia Saudita e Francia.

Il governo cinese ha iniziato a costruire isole artificiali nell’arcipelago delle isole Spratly, situato nel Mar Cinese Meridionale. Non resta che attendere la reazione dell’avversario giapponese.

Il premier Tony Abbott annuncia un nuovo piano contro il terrorismo. Previste leggi più severe per ottenere la cittadinanza. Sono 90 gli australiani già al servizio dello Stato Islamico.


ACCADDE

OGGI

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In oltre un decennio di guerra tra Vietnam, Laos e Cambogia, morirono 58.220 americani su un totale di 1.475.000 soldati deceduti e 4 milioni di civili da ambo le parti. Solo nel 1968 trovarono la morte oltre 16mila soldati statunitensi.


vietnaM |

di Luciano Tirinnanzi

8 marzo 1965 L’America sbarca in Vietnam UNA BRILLANTE SCONFITTA on possiamo più stare in disparte, orgogliosi nell’isolamento. Terrificanti difficoltà e pericoli che una volta chiamavamo “stranieri” ora vivono costantemente in mezzo a noi”. È con queste parole, pronunciate il 20 gennaio del 1965 nel discorso inaugurale alla Nazione, che inizia il secondo mandato del presidente Lyndon B. Johnson. Due anni dopo l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy nel novembre del 1963, il vicepresidente è divenuto l’uomo più potente degli Stati Uniti. Nonostante il suo successo personale nel promuovere politiche di riforme interne, tuttavia la sua presidenza sarà segnata per sempre dal fallimento delle sue politiche nei confronti del Vietnam. Una settimana dopo questo discorso, infatti, mentre il generale Khanh prende ufficialmente il controllo del Vietnam del Sud, il segretario alla Difesa americano Robert McNamara invia una nota al presidente Johnson, affermando che il limitato coinvolgimento militare americano in Vietnam non sta funzionando, e che gli Stati Uniti sono ormai a un bivio: ritirarsi dal Vietnam o intensificare le operazioni militari.

N

Passa un’altra settimana e i guerriglieri Viet Cong, che intendono imporre un regime comunista in tutto il Vietnam, attaccano il compound militare statunitense di Pleiku negli Altopiani Centrali, uccidendo otto americani, ferendone 126 e distruggendo dieci aerei. La mattina dopo, Johnson è furioso e si sfoga con i suoi consiglieri alla Casa Bianca, gridando “ne ho abbastanza di questo”. La prima conseguenza è l’approvazione dell’Operazione Flaming Dart, che prevede il bombardamento di un campo dell’esercito nordvietnamita vicino a Dong Hoi da parte della US Navy, condotto dalla portaerei Ranger. I sondaggi forniti al presidente indicano il suo gradimento in crescita, tra il 70 e l’80%. Forti di questi dati, i suoi consiglieri militari pianificano una campagna di lunga durata nel sudest asiatico. Il 22 febbraio, il generale Westmoreland chiede due battaglioni di marines americani per proteggere la base aerea americana di Da Nang, minacciata da circa seimila Viet Cong ammassati nelle zone limitrofe. Il presidente approva la richiesta, nonostante l’allarmato dispaccio dell’ambasciatore americano in

Vietnam Maxwell D. Taylor esprima “gravi riserve” sull’escalation militare, avvertendo che gli USA rischiano di ripetere in Indocina gli stessi errori che furono commessi dei francesi. Nel secondo giorno di marzo, inizia così l’Operazione Rolling Thunder, che individua oltre un centinaio di obiettivi in Vietnam del Nord per i cacciabombardieri statunitensi. L’Operazione, che avrebbe dovuto durare solo otto settimane, proseguirà invece per i successivi tre anni della presidenza Johnson. Ma è l’8 marzo 1965 la data spartiacque dell’impegno militare americano in Vietnam. Quel giorno, le prime truppe da combattimento, il Nono Reggimento dei Marines, sbarca a Red Beach. Da allora, il numero di soldati americani in Vietnam salirà dai sedicimila del 1963, quando Lyndon Johnson aveva assunto l’incarico di presidente, agli oltre cinquecentomila del 1968, anno che segnerà il maggiorn numero di caduti tra le truppe americane.

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FACES

I volti più significativi del mese Due grandi sfide per il potere: EUROPA e LIBIA

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YANIS VAROUFAKIS Il ministro delle finanze greco è la speranza per la crisi economica di Atene. Chi lo vede già come un semidio, dimentica che Zeus oggi abita a Bruxelles.

SERGIO MATTARELLA Il dodicesimo presidente della Repubblica è l’ultima delle sorprese dell’enfant prodige della politica italiana, Matteo Renzi. Sarà il presidente della ripresa?


ABDEL FATTAH AL SISI Il generale, autore del golpe d’Egitto che ha defenestrato il presidente Morsi, oggi rappresenta la prima linea contro l’ondata islamista del Nord Africa.

OMAR AL HASSI L’altra faccia della medaglia in Libia è lui. Il governo islamista di Tripoli e Misurata risponde infatti a quest’uomo. Ma quest’uomo a chi risponde?

ABDULLAH AL-THANI Il premier indipendentista rappresenta il governo di Tobruk, ma è contestato da Tripoli, Misurata, Sirte, Derna e le aree tribali. In bocca al lupo.

KHALIFA HAFTAR Il generale in quota CIA è stato a lungo il guardiano del regime di Muammar Gheddafi. Oggi è l’amico del Cairo e del governo di Tobruk, unico argine agli islamisti.


sicurezza REPORTAGE

DAL DONBASS

CRISI UCRAINA La guerra tra l'Ucraina e ribelli filo-russi, che ha avuto inizio poco dopo l’annessione della Crimea alla Russia nel 2014, è la peggiore crisi nei rapporti tra Est e Ovest dalla Guerra Fredda.

Donetsk Slaviansk Kramatorsk

AREA CONTRALLATA DAI SEPARATISTI Febbraio 2015

Kostyantynivka

Giugno 2014 Settembre 2014

CONFINI Ribelli

Ucraina

UCRAINA

Scontri recenti*

Sotto il controllo di Kiev

Volo MH17 della Malaysia Airlines

Sospetta presenza militare russa*

(luogo dello schianto)

Kiev

Luhansk

Kharkiv

Sieverodonetsk

Stanytsia Luhanska

Lysychansk Hirske Artemivsk Slovianoserbsk Popasna

Horlivka

Avdiivka

Krasnohorivka

Krasnyi Luch

Donetsk

Marinka Novotroits’ke

Amvrosiivka

Volnovakha Starohnativka

RUSSIA

RUSSIA Rostov-on-Don

Mariupol Novoazovsk Shyrokyne Sea of Azov

Crimea

* I luoghi di scontro sono approssimati

fonte: national security and defense Council of Ukraine (nsdC)

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Luhansk

Debaltseve

UCRAINA

ROMANIA MOLDAVIA

Shchastya

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25 miles 25 km


CASA DOLCE CASA

Quel che si respira nel paese è soprattutto l’incertezza sul futuro. se il mestiere di soldato è divenuto un antidoto alla disoccupazione, l’odio ha ormai penetrato i cuori di un’intera generazione perduta nell’arte della guerra

di Joshua Evangelista

UCRAINA a piazza intorno a Sant’Andrea è gremita di anziane, bambini e giovani coppiette. Nonostante sia impossibile trovare posto nell’ampia cattedrale rinascimentale, nessuno vuole perdersi il sermone del sabato e pregare (o piangere) per mariti, fratelli, fidanzati e padri arruolatisi volontariamente per combattere nelle regioni di Donetsk e Lugansk. Dopo l’omelia, il prete invita i fedeli a lasciare beni e soldi destinati a comprare elmetti, giubbotti antiproiettili, ginocchiere, divise e tutto ciò che può servire ai combattenti che vanno incontro al freddo inverno ucraino. Nella cattolicissima Leopoli il clero e le associazioni di credenti sono punti di raccordo fondamentali per le famiglie e per chi ha deciso di difendere i confini orientali del Paese. Amici dai tempi dei boyscout, ora molti giovani della città dedicano il loro tempo libero per la causa “patriottica”, come definiscono il loro attivismo. “Ma non chiamateci nazisti, come fanno i russi” ci chiedono i volontari disposti nei punti di raccolta. “Siamo semplicemente nazionalisti, così come quei poveri ragazzi del Pravyy Sector.

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sicurezza

Sono ucraini come noi che tengono al futuro dell’Ucraina. Sono di destra? E qual è il problema? dopo decenni di occupazione sovietica è la cosa più normale”. I famigerati membri del “Settore destro” - identificati come antisemiti un po’ in tutta Europa, sebbene non considerati “predicatori d’odio” dall’Associated Press - sono argomento di dibattito anche all’interno dei gruppi più attivi nella propaganda antiseparatisti. “Alcuni di loro sono violenti e non condivido le loro idee, ma stanno facendo tantissimo per noi, più di tanti altri”, ci racconta un’accademica di orientamento progressista fuggita di recente dalla Crimea. Ci chiede di rimanere anonima, la sua fami- MINSK Putin, Hollande, glia è ancora lì e teme ripercussioni. Merkel Il proselitismo e la raccolta di beni e Poroshenko al non sono affidati solo alla chiesa. Nel- tavolo della pace l’elegantissima Rynok Square, patrimonio Unesco e orgoglio di tutti gli abitanti dell’Oblast di Leopoli, i più attivi sono i membi dell’Upa, l’Esercito insurrezionale ucraino che raccoglie l’eredità dei paramilitari che durante la Seconda guerra mondiale combatterono contro l’Armata rossa. Organizzano cori, concerti rock e folk, reading teatrali basati sui racconti dei volontari e proiezioni di foto scattate a Donetsk. In uno di questi incontri conosciamo Tatiana, una signora ucraina sposata con un siracusano di nobili origini che fa spola tra la Sicilia e Leopoli. Mentre il coro canta gli inni dell’antica resistenza ai tartari, lei si commuove pensando ai morti della guerra. “Fino a qualche mese fa eravamo una nazione. Eravamo tutti fratelli. E ora? La propaganda di Putin ci ha messo gli uni contro gli altri”. Verso il presidente russo è catalizzato l’odio di gran parte degli ucraini dell’ovest. E il mercatino vicino al quartiere armeno di Leopoli ne è la dimostrazione. La faccia di Putin è sulla carta igienica, nei tappetini per la casa insieme alla scritta “qui puoi pulirti i piedi”, ed è rappresentato con baffetti hitleriani sugli adesivi da frigorifero. Chi parla in russo è visto con sospetto e gli stessi profughi dell’est non sempre sono sopportati dalle anziane della città. “Cosa fate qui da noi, mentre i nostri figli combattono per voi?” In quasi ogni strada del centro ci sono volontari in divisa, di ritorno dal fronte o in procinto di dirigersi per la prima volta verso le aree contese. Hanno le facce stravolte, non sono pochi quelli che dopo aver combattuto nei pressi dell’aeroporto di Donetsk sono in cura da psicologi. Hanno estrazione sociale diversa, i professionisti combattono fianco a fianco a studenti e operai senza distinzione alcuna.

Dzwin (“campana”) è il nome in codice di un combattente alto e muscoloso di 53 anni, appena tornato dalla guerra e in procinto di tornare a combattere. Dove, non può dircelo: “veniamo e scompariamo per confondere i nemici, è questo il nostro obiettivo”. Per nemici s’intende indistintamente i russi, i mercenari ceceni e le spie interne di quella parte dell’esercito ancora vicina a Yanukovich, il deposto presidente contro il quale è scaturita la protesta di piazza nota come Euromaidan. E proprio dagli scontri di Kiev vengono la maggior parte dei combattenti ora sui fronti dell’Est. Dzwin si è arruolato il 12 agosto e prima di allora faceva con successo il marmista. Un giorno il suo vicino di casa, un soldato venticinquenne in procinto di diventare papà, è stato ucciso in un agguato. È stata la molla per lasciare il

FINO A QUALCHE MESE FA ERAVAMO UNA NAZIONE, FRATELLI. E ORA?

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marmo e prendere il fucile. “Ce l’ho a morte con i capi dell’esercito regolare”, ci spiega. “Sono quasi sicuro che abbiano preso accordi con i russi, così come ha fatto il presidente Poroshenko con Putin. Mandano comandanti incompetenti. Per loro, i giovani combattenti che vengono da ovest sono nient’altro che carne da macello da dare in pasto al fuoco russo”. La settimana scorsa, Dzwin ha catturato due soldati russi. “I miei compagni di battaglione volevano ucciderli sul momento, io li ho convinti ad aspettare. Meglio uno scambio di ostaggi. Questa è una guerra sporca e c’è un silenzio minaccioso. Dobbiamo prepararci a tutto”.


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Il battaglione dei Nerd di Joshua Evangelista

ltre l’elegante quartiere Pechersk e l’NSK Olimijs’kyj - lo stadio che ha ospitato la finale di Euro 2012 - in un magazzino all’interno di un piccolo complesso industriale della periferia di Kiev, c’è un viavai di ingegneri, informatici e sviluppatori. Il Battaglione dei nerd, come l’ha ribattezzato la stampa locale, lavora senza sosta per fornire supporti tecnologici all’esercito regolare e ai paramilitari nazionalisti dislocati nel Donbass. Gratuitamente. “L’esercito è in balìa della corruzione, l’educazione militare è rimasta quasi del tutto invariata rispetto agli anni ‘60 e la tecnologia è così imbarazzante che in molti casi è praticamente impossibile connettere tra loro i battaglioni e individuare i nemici nascosti nelle foreste. Per questo, noi tecnici informatici ci siamo sentiti in dovere di mettere le nostre competenze a serREPORTAGE vizio della patria”, ci racconta Max, sviluppatore a capo di questo particolare laboratorio bellico. DAL Army sos, l’organizzazione alla quale appartengono gli DONBASS uomini di Max, è uno dei principali snodi del crowdfunding per i militari, che si nutre in maniera significativa delle donazioni della diaspora, soprattutto quella canadese. “Mentre parliamo, uno dei nostri responsabili è a Montreal per sbloccare dei fondi molto consistenti”, ci dice Oleksiy BACINO DEL DONEC Savchenko, tra i leader della logistica di Army Sos, indicando Noto anche con orgoglio una grande bandiera canadese affissa sopra a come Donbass, una dozzina di pacchi diretti a Donetsk. Una macchina ormai prende il nome oliata e con obiettivi precisi: progettare e costruire accessori dall’omonimo hi tech per i veicoli blindati, tablet geolocalizzatori e droni. fiume che bagna Di giorno startupper dell’IT o dipendenti delle multina- Russia e Ucraina. È diviso in tre zionali web, la sera improvvisati ingegneri militari. “Riuoblast (regioni). sciamo a produrre nonostante l’inevitabile turnover. Dalle Donetsk grandi aziende internazionali per le quali lavoriamo, abe Luhansk fanno biamo imparato a programmarci in maniera sistematica il parte dell’oblast lavoro in team”. Così, tra cartoni di pizza e precari equilibri orientale. familiari, si fanno le prove generali per avvicinarsi alla tecnologia russa. “Qui tutti rischiamo il divorzio”, ironizza Max, “ma ne vale la pena”. Mentre due ingegneri provano un dispositivo su un elicottero telecomandato da riprodurre in scala sui droni faida-te, la nostra attenzione cade su un numero notevole di Samsung Galaxy raccolti in un angolo. “Li raccattiamo un po’ da tutta Europa. Se sono rotti li ripariamo e poi installiamo delle app che abbiamo ideato per stanare i nemici”. Sono in fase beta, ma già diversi comandanti hanno iniziato a usarle. “Il principio è quello delle mappe open source.

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Trasmettendoci informazioni sulle posizioni dei separatisti e sulla qualità delle strade riusciamo a tracciare quasi in tempo reale una panoramica del percorso verso il quale vanno incontro i mezzi pesanti dell’esercito in transito nel Donbass”. Affinché tali dispositivi abbiano efficacia, è fondamentale un training non sempre in linea con le tempistiche dell’emergenza. “L’essere aperti o meno a queste tecnologie”, spiega Savchenko, “può influire sulle vite di centinaia di combattenti”. La linea di supporto indipendente del Battaglione dei nerd è imprescindibile: si assiste chiunque è disposto a essere aiutato, che si tratti dell’esercito regolare o dei nazionalisti del Pravyy Sektor poco conta. “Vicino all’aeroporto di Donetsk, dove ci sono i peggiori combattimenti, c’è una moltitudine di combattenti: per noi è importante capire chi combatte effettivamente e chi finge, solo per tornare a casa da eroe di guerra”. I detrattori dei tecnici volontari si chiedono come persone totalmente digiune d’ingegneria bellica riescano a sviluppare tali dispositivi solo grazie a manuali trovati sul web e scaricabili in creative commons. “Sì, è vero, professionisti stranieri sono venuti qui per mettere a nostra disposizione del know how significativo”, ammette Max. Rifiutandosi però di dirci chi c’è dietro a questa formazione di qualità. Al di là della provenienza di fondi e conoscenze, gli sviluppatori fai-da-te sono entrati ormai nell’olimpo della narrazione nazionale pro-Kiev. Tra le figure più interessanti spicca Yaroslav Markevich, un imprenditore a capo di una piccola impresa digitale di Kharkov, storico hub della tecnologia aerea di sovietica memoria. Markevich ha sviluppato sia droni muniti di infrarossi per individuare attacchi notturni sia droni a lungo raggio, in grado di localizzare con precisione i target dell’artiglieria. La sua storia è diventata virale sui social network. Da lì a essere eletto deputato nelle elezioni d’ottobre il passo è stato brevissimo, giusto il tempo necessario per diventare un eroe su Facebook.

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IL VENTO DEL NORD: LA NUOVA CORSA AGLI ARMAMENTI NELL’ARTICO Nuove rotte commerciali e immense riserve di idrocarburi. Ma anche gli eserciti delle potenze mondiali. Tutti guardano al Polo Nord di A.M. Estensione mare ghiacciato Marzo 2014 CANADA Passaggio a Nord Ovest Alaska U.S.

GROENLANDIA Rotta Mare del Nord

POLO NORD

Estensione mare ghiacciato Sett. 2014 Porti Artici Russi

Mosca 500 miles 500 km

RUSSIA

LE ROTTE ARTICHE

RUSSIA iciamoci la verità. Vista da Mosca, la crisi in Ucraina può legittimimamente essere considerata come un’offensiva strategica della NATO e degli Stati Uniti per esercitare una forte pressione politico-militare sui sacri confini della Madre Russia. Non è un segreto che gli americani con la CIA e con l’uso spregiudicato dei mercenari della Blackwater appoggiarono gli insorti di Piazza Maidan che poi, nel febbraio del 2014, costrinsero alla fuga in elicottero da un cortile del palazzo del governo il presidente Viktor Yanukovich, legittimamente eletto con libere elezioni. Da quel momento, quegli stessi americani che negli anni Novanta hanno appoggiato anche militarmente le spinte secessioniste che hanno portato alla disgregazione dell’ex Jugoslavia, sono diventati i paladini della difesa dei confini

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esercitazione militare dalla caduta dell’Unione Sovietica. Migliaia di soldati di terra, mare e aria hanno “giocato alla guerra” utilizzando gli armamenti più moderni e sofisticati, missili tattici balistici compresi. Nello stesso tempo, il comando della nona flotta ha annunciato il dispiegamento della brigata di fanteria di marina nella regione dell’Artico per tutto il 2015. La spiegazione politica di questa presenza militare nelle regioni dell’Artico è contenuta nel testo della nuova dottrina militare russa, firmato dal presidente Vladimir Putin nel dicembre del 2014. Secondo la “Dottrina Putin”, l’Artico viene inserito nella lista delle zone prioritarie di influenza di Mosca. L’importanza del suo controllo viene equiparata all’importanza assegnata al Mar Nero e alla Crimea. Queste iniziative hanno sollevato i giustificati timori dell’unico Stato dell’Alleanza Atlantica presente fisicamente nella regione artica, la Norvegia. Il governo di Oslo sa di essere diventato una “bestia nera” per Mosca, dopo aver preso parte attiva al programma di sanzioni decise dai membri della NATO in risposta al sostegno russo dei separatisti ucraini. Putin, d’altronde, sa bene che l’articolo 5 della Carta della NATO prevede una risposta automatica di tutti i membri dell’Alleanza nei confronti di una possibile aggressione contro uno di loro. Per questo, difficilmente i russi supereranno il punto di non ritorno nei rapporti con i norvegesi al Polo Nord. Tuttavia, l’apertura di questo nuovo fronte introduce un ulteriore elemento di destabilizzazione nei rapporti tra Mosca e l’Occidente e può essere utilizzata da Putin per alleggerire la pressione in Ucraina. Inoltre, il Cremino sa bene che quando si tratta di acquisire territori l’azione vale più delle parole, come insegna il caso della Crimea. Per cui è presumibile che passo dopo passo l’influenza russa nei mari dell’Artico sia destinata ad aumentare, mentre NATO ed Europa sono impegnate e “distratte” dalla crisi ucraina.

IDROCARBURI NELL’ARTICO Risorse Petrolio Gas

Regioni con alta probabilità di presenza idrocarburi

Impianti Attivi Pianificati

In attesa

OCEANO PACIFICO Devil’s Paw

CANADA

ALASKA (U.S.)

Chukchi Sea

Beaufort Sea

Arc tic

East Siberian Sea

OCEANO ARTICO

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ucraini contro secessionisti che, a ben vedere, avanzano le stesse rivendicazioni di sloveni, croati e kosovari. Insomma, Belgrado ha dovuto accettare anche con i bombardamenti le spinte secessioniste, mentre Kiev si può opporre alle stesse spinte con il sostegno di chi ha contribuito alla dissoluzione di un Paese europeo come la Jugoslavia. Per Mosca, il sostegno occidentale al governo ucraino non è altro che un modo per espandere pericolosamente i confini della NATO. I politici russi sono notoriamente lungimiranti e per questo motivo hanno aperto da qualche anno un nuovo fronte del confronto Est-Ovest, che guarda al Polo Nord. Grazie al riscaldamento climatico e al parziale scioglimento dei ghiacci dell’Artico, si sono aperte in quei mari finora inaccessibili nuove vie di comunicazione che portano dritte dritte a giacimenti di gas naturale che, si stima, contengano il 30% delle riserve mondiali e il 13% delle riserve di petrolio. Lo scioglimento dei ghiacci ha inoltre aperto nuove rotte di comunicazione tra l’Asia Orientale e l’Europa attraverso i mari del Polo e questa è certo un’opportunità per la Russia per sviluppare infrastrutture logistiche nel nord del Paese. Siccome le vie del commercio e del progresso economico sin da quando esiste l’uomo sono state aperte dai militari, Mosca ha attivato un processo di militarizzazione della parte russa dell’Artico, dislocando la nona flotta - che rappresenta i due terzi di tutta la forza navale russa nell’arcipelago della Novaya Zemlya. Mentre sull’isola maggiore è stato recentemente ingrandito e ammodernato un aeroporto attrezzato per accogliere i jet e i bombardieri più moderni e sofisticati dell’ex Armata Rossa. Forse allo scopo di mandare un segnale concreto alla NATO, alla fine del 2014 il ministero della Difesa russo ha organizzato nella regione artica l’esercitazione “Vostok 2014”, la più grande

Laptev Sea

Polo Nord Baffin Bay

Kara Sea

RUSSIA

Yamal

Barents Pechora Sea GROENLANDIA (Danimarca) Norwegian Goliat Shtokman Sea Jan Mayen Island (NOR) Snovhit

OCEANO ATLANTICO

ISLANDA

Aasta Hansteen

NORVEGIA

fonte: Usgs, World atlas of oil and gas basins

IL DIZIO NARIO Negli ultimi dieci anni, il suolo artico ha attirato l’interesse di tutti i suoi Stati confinanti. La Russia possiede attualmente i diritti entro 370 chilometri dalle sue coste, e ha recentemente deciso di presidiare militarmente gli oltre 6.700 chilometri di confine, prima che la disputa per la titolarità di queste terre si faccia ancor più dura. La presenza di diverse piattaforme sottomarine in quest’area complica però la spartizione delle terre ghiacciate con gli altri competitor coinvolti nella corsa alle riserve energetiche, Canada e Stati Uniti in primis.

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spy GaMe

La “bomba” contro Enigma Secondo Winston Churchill è grazie all’Operazione Ultra, di cui Alan Turing fu il protagonista, che gli inglesi vincono la guerra el luglio del 1945 dopo aver perso incredibilmente le elezioni politiche in Inghilterra, Winston Churchill nel congedarsi da Re Giorgio VI gli rivelò il segreto meglio conservato della seconda guerra mondiale: “Maestà, è stato grazie a Ultra che abbiamo vinto la guerra”. Re Giorgio, che peraltro non ha mai brillato per particolare acume, probabilmente prese la battuta di Churchill come una delle solite sparate al quale l’ex primo ministro lo aveva abituato. In realtà, Churchill aveva semplicemente detto la verità. Questa verità ha conosciuto anche un momento di gloria cinematografica all’inizio del 2015 con un film di grande successo, The Imitation Game, la storia romanzata della più grande operazione di spionaggio del secolo scorso.

N di Alfredo Mantici Direttore editoriale di Lookout News, capo del Dipartimento analisi del Sisde fino al 2008

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La storia vera comincia negli anni Trenta, quando gli esperti criptoanalisti tedeschi sviluppano una sofisticata macchina cifrante alla quale viene dato il nome di Enigma. Lo strumento aveva l’aspetto di una grossa macchina da scrivere e il segreto della sua efficienza risiedeva nel fatto che un operatore poteva digitare sulla tastiera un messaggio in chiaro che Enigma provvedeva a cifrare automaticamente con l’uso di rotori intercambiabili, che rendevano quasi impossibile la decifrazione del messaggio se questo non veniva inviato a un’altra macchina Enigma, con i rotori sistemati nello stesso modo della trasmittente. Ovviamente, il cambio dei rotori faceva cambiare il codice e, quindi, chi il lunedì fosse stato in grado di decifrare un messaggio non avrebbe potuto riutilizzare lo stesso codice il martedì, grazie alla semplice sostituzione dei rotori. Grazie a un colpo fortunato dei suoi servizi segreti, nel 1939 la Polonia - prima di essere conquistata dai nazisti - entrò in possesso di una macchina Enigma e del relativo manuale d’uso. Dopo la caduta di Varsavia, questa macchina venne consegnata ai servizi segreti inglesi che, rendendosi conto dell’enorme potenziale che ne poteva derivare in campo spionistico, dettero avvio al progetto “Ultra”, costituendo in una ricca villa vittoriana nella campagna inglese il centro di intercettazioni e decodifica di Bletchley Park. La bella magione si trovò a essere presto popolata di una folla variopinta ed eccentrica di matematici, fisici, ingegneri meccanici, esperti di enigmistica e spie. Tra questi, spiccava la figura del giovane genio della matematica Alan Turing. Nato poco prima dell’inizio della prima guerra mondiale, Turing aveva studiato la meccanica quantistica e il calcolo delle probabilità al King’s College di Cambridge e aveva disegnato le basi teoriche della Turing Machine, che rappresenterà la base teoretica per la costruzione dei computer.


storie di spionaGGio e controspionaGGio

Grazie anche alla felice cattura di alcuni esemplari di Enigma ritrovati a bordo di U-Boot tedeschi costretti alla resa nelle acque dell’Atlantico, Turing costruì un rozzo ma efficace calcolatore elettromeccanico con il quale tutta la squadra di Bletchley Park tentò di aggredire il traffico radio delle armate di terra, di mare e dell’aria della Germania nazista. Un traffico che i tedeschi ritenevano assolutamente impenetrabile. Nel gennaio del 1940 la “bomba” di Turing riesce a decifrare per la prima volta un intero messaggio radio dell’Alto Comando tedesco. Da questo momento, con alti e bassi, i criptoanalisti di Bletchley Park riuscirono a decifrare migliaia di messaggi in codice nemici, riuscendo spesso ad anticiparne le mosse e a bloccarne le iniziative. Alla fine della guerra, il contributo di “UlUno dei successi più grandi fu conseguito tra” alla vittoria alleata era conosciuto da podurante i due anni (1941-1943) della battaglia chissime persone. Tra queste, ovviamente il dell’Atlantico. I tedeschi, nel tentativo di im- suo leader Alan Turing, per il quale tuttavia il pedire l’arrivo dei rifornimenti americani in dopoguerra significò l’ingresso in un girone Inghilterra, schierarono nelle acque del- infernale. Turing infatti era omosessuale in un l’Oceano i “branchi di lupi”, gruppi di somPaese nel quale gli echi della morale vittomergibili concentrati su alcune rotte riana facevano considerare l’omosesdi passaggio che dovevano aggredisualità un crimine. re in massa i convogli anglo-ameNel 1952 Alan Turing venne inL’INvENzIONE ricani. Grazie alle intercettazioni fatti arrestato per “condotta sesDELLA di “Ultra”, Bletchley Park era in suale inappropriata” e condanTURING MACHINE grado di conoscere in anticipo i nato a essere sottoposto a un PERMISE LA luoghi degli appuntamenti degli processo di castrazione chimica DECRIPTAzIONE DEI U-Boot, che ovviamente ricevecon l’iniezione di ormoni femmiCODICI TEDESChI vano le coordinate attraverso i nilizzanti. Nel giro di due anni, il messaggi criptati dalle macchine suo corpo e la sua mente uscirono Enigma. sconvolti da questa esperienza e nel La decriptazione era faticosa ma veniva 1954 un uomo che secondo Churchill aveva spesso facilitata dall’eccessivo senso di sicu- contribuito in modo decisivo a far vincere la rezza dei tedeschi. Per esempio, per più di un seconda guerra mondiale agli alleati, si suicimese un ufficiale tedesco comunicò dal de- dò dando un morso a una mela che aveva inserto di El Alamein lo stesso messaggio ogni tinto di cianuro. giorno: “La situazione è ancora calma”. QueSembra che in silenzioso omaggio a Turing, sto messaggio, viaggiando da un rotore all’al- Steve Jobs abbia scelto proprio la mela con il tro, consentiva ai criptoanalisti di Turing di morso come simbolo della Apple. Il 24 dicemdisporre di una piccola ma significativa chia- bre del 2013 Allan Turing ha formalmente rive per sfondare il codice giorno dopo giorno. cevuto il perdono della Regina Elisabetta II.

IMITATION GAME I film, come noto, non rendono merito alle biografie di personaggi così avvincenti. Ciò nonostante, la sceneggiatura del film sulla vita di Alan Turing è valsa una statuetta agli Oscar allo scrittore Graham Moore.

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Geopolitica la copertina

GUERRA E PETROLIO LA TEMPESTA PERFETTA di Ottorino Restelli

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Geopolitica

USA, Arabia Saudita e i grandi fondi di Private Equity giocano la partita per il finanziamento dell’industria petrolifera e il futuro dell’energia. Gli avversari? Russia, Iran, Qatar e Venezuela

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Geopolitica

STATI UNITI ell’ultimo anno il prezzo del petrolio si è ridotto del 54%, facendo sì che il prezzo di un barile di brent passasse da 110 a 48 dollari. L’inarrestabile discesa del prezzo del barile ha ricondotto le quotazioni ai livelli del 2009. Il prezzo del petrolio è il risultato del rifiuto dell’Araa seguire: bia Saudita di aderire alle richieste dei Paesi produttori di PETRO petrolio convenzioECONOMIE nale, OPEC in primis, di ridurre la I maggiori produzione-estrazioproduttori al mondo ne per bilanciare la debole domanda mondiale, conseIRAQ guenza della prolungata crisi economiIntervista ca, iniziata nel 2008 all’Ambasciatore con il fallimento delI numeri dell’ISIS la banca d’affari Lehman-Brothers. Molti analisti hanLIBIA no visto in questa decisione della moLa mappa delle narchia saudita la forze in campo volontà di contrastaParla il ministro re la crescita della del petrolio produzione di petrolio non convenzionale (sand-tar oil, shale oil, tight oil) resa sempre più accessibile ed economicamente sostenibile grazie alle nuove tecniche di estrazione (fracking, ma non solo). Ovvero, in breve, come una guerra commerciale senza quartiere tra Arabia Saudita (primo produttore di petrolio convenzionale), Stati Uniti (primo produttore di petrolio non convenzionale e primo produttore mondiale assoluto di gas) e Canada (primo produttore di petrolio da sabbie bituminose, con 1,7 milioni di barili al giorno).

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QUANDO CALA IL PREZZO DEL PETROLIO, CALA ANCHE L’OCCUPAZIONE La caduta del prezzo del petrolio nel 2008-2009 ha impattato sul mercato del lavoro petrolifero sei mesi dopo. U.S. CRUDE FUTURES - CHIUSURA MENSILE, DOLLARO PER BARILE Calo del Prezzo 70%

150

Calo del Prezzo 54%

Giugno 2008: 140

100 Giugno 2014: 105.37 50

Gennaio 2015: 48.24

Gennaio 2009: 41.68 0

2005

2006

2007

2008

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2010

OIL & GAS JOBS - IN MIGLIAIA DI DIPENDENTI

2011

2012

Estrazione di petrolio e gas

2013

2014

Attività di supporto

51,000 jobs shed

600

Settembre 2008 390,6

Ottobre 2009 339,6

400

200

0

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2013

2014

Nota: U.S. crude futures chiuse al 13 Febbraio

fonte: U.s. bureau of labor statistics

FRACKING Fratturazione idraulica del sottosuolo finalizzata ad estrarre gas e petrolio da argille in quantità superiori alla norma

La caduta del prezzo del greggio potrebbe non essere il risultato di una strategia di breve periodo, ma potrebbe continuare a lungo come ha recentemente lasciato intendere il ministro del petrolio saudita, che ha affermato: “che il prezzo del greggio scenda a 20 dollari al barile, a 40, 50 o 60 è irrilevante”. Recenti valutazioni stimano, infatti, che ai livelli correnti di spesa con un prezzo del barile a 60 dollari la monarchia saudita non avrebbe bisogno di ricorrere alle sue imponenti riserve valutarie (900 miliardi di dollari) per almeno quattro anni, mentre con un prezzo del greggio compreso tra 40 e 50 dollari al barile, dovrebbe attingere alle riserve valutarie per 10 miliardi al mese. Costi sicuramente sostenibili, anche in una prospettiva di medio periodo. A questa sorta di ordalia, la monarchia saudita avrebbe sacrificato non solo l’amicizia degli USA, ma persino la stabilità del cartello dei produttori OPEC. Come riconciliare questa visione con la vista a Riad del 27 gennaio scorso del Presidente Barack Obama, di sua moglie Michelle e di una delegazione di alto profilo di cui facevano parte il segretario di stato John Kerry, Nancy Pelosy, Joe Crowley, il direttore della CIA John Brennan, il


Geopolitica

Generale Austin, comandante della regione arabica, Condoleeza Rice, eccetera? Proviamo a raccontare una storia diversa. Il rapporto di gennaio dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) afferma che l’effetto della caduta del prezzo sulla produzione canadese (-90.000 barili al giorno) e statunitense (-80.000 barili al giorno) sarà inferiore alle

emesse da aziende attive nel settore petrolio e gas. Quindi, i fondi di Private Equity hanno deciso di supportare le banche nel finanziamento dell’industria petrolifera non convenzionale americana e rinviare così la riduzione delle perforazioni-estrazioni. Viceversa, il basso prezzo del greggio potrebbe compromettere i nuovi progetti di esplorazione e perforazione (oltre 100 miliardi d’investimenti), in particolare quelli in acque profonde e nei mari artici (quindi Russia soprattutto), che per produrre campi di coltivazione sostenibili richiedono un prezzo del petrolio ben superiore ai 100 dollari al barile. A questo punto, si può tracciare l’identikit dei bersagli del nuovo duopolio Arabia Saudita e USA che governa l’offerta mondiale del greggio e del gas naturale, il cui prezzo è indissolubilmente legato a quello del petrolio, passato in un anno da 6 a 2,8 dollari. Al primo posto troviamo la Russia, secondo produttore di gas dopo gli Usa e terzo produttore di petrolio, di fatto una oil-economy (il 50% del suo PIL proviene dal settore idrocarburi), sotto embargo per la crisi Ucraina. Al secondo posto, la repubblica sciita dell’Iran, altra oileconomy sull’orlo di una crisi umanitaria per il pluriennale embargo dovuto alla questione del nucleare e alleata della Russia e di Bashar Assad nella crisi siriana, nonché ispiratrice degli insorti sciiti che hanno conquistato Sanaa, capitale dello Yemen.

LA CADUTA DEL PREZZO DEL GREGGIO POTREBBE NON ESSERE IL RISULTATO DI UNA STRATEGIA DI BREVE PERIODO

aspettative, indicando come i produttori non convenzionali siano in grado di fronteggiare una caduta del prezzo anche di queste dimensioni. I produttori non convenzionali efficienti, cioè quelli dotati di nuove tecnologie e di estesi campi di coltivazione, hanno infatti smentito gli esperti che indicavano in 60 dollari il prezzo minimo per evitare di produrre in perdita (il prezzo minimo per i produttori più efficienti è stimato tra 35 e 40 dollari al barile). Il che testimonia che il fracking e le altre tecnologie di estrazione non convenzionale sono ormai affidabili e sostenibili. A sostenere i driller statunitensi nella loro incessante opera di perforazione di nuovi pozzi, sono segnalati i grandi fondi di Private Equity (fondi che investono GLI INVESTIMENTI USA in capitale di rischio d’imPER ESPLORAZIONI prese). Tra questi figura E PERFORAZIONI Blackstone Group, il più grande Private Equity del mondo, che il mese scorso ha finanziato con 500 milioni di dollari Linn Energy e che attraverso il gruppo L’EFFETTO DELLA CADUTA GSO sta allestendo un fonDEL PREZZO SULLA do dedicato al settore enerPRODUZIONE CANADESE getico di un miliardo di dollari. Altri grandi fondi Private, come Apollo Global Management e KKR, stanno costituendo fondi per acquisire le obbligazioni

100 MLD di dollari

-90.000 barili di greggio

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Geopolitica

Al terzo posto, si piazza il Qatar dell’emiro Tamin Bin Hamad Al Thani, grande produttore di petrolio e soprattutto di gas, storico avversario della monarchia saudita. Il Qatar, attraverso la rete mediatica di Al Jazeera, ha offerto finanziamento e protezione, quando non asilo, ai ribelli in Mali, alla Fratellanza egiziana e ad Hamas. Non solo, con gli investimenti del suo miliardario fondo sovrano cerca ora di conquistarsi un posto tra le potenze regionali a danno della monarchia wahhabita di Riad. Infine, nel mirino c’è il Venezuela del presidente NiINTESA cholas Maduro, doSTRATEGICA ve il PIL si è ridotto WAShINGTON E del 2,4%, la disoccuRIAD PUNTANO pazione ha raggiunA ISOLARE to il 5,5% e l’inflaLA RUSSIA E zione tocca il 64%. RIDIMENSIONARE Il Venezuela, Paese L’IRAN con le maggiori riserve di petrolio al mondo e che deriva oltre il 90% delle sue entrate in dollari dal petrolio, per tentare di contrastare il sempre più probabile default (stimato al 67%) si appresta a lanciare un nuovo sistema di cambio bolivar-dollaro, visto che al tasso ufficiale di 6,3 bolivar per dollaro - che verrebbe sostenuto solo per alcuni beni primari e per i farmaci - corrisponde un cambio al mercato nero di 180 bolivar per dollaro. Se le cose stanno così, la vicenda del prezzo del petrolio non segna tanto la crisi della storica alleanza USAArabia Saudita, ma l’avvio di una cooperazione strategica tesa a piegare chi si oppone al nuovo ordine disegnato da Washington e Riad. Ridimensionare la Russia e circondarla con un “cordone sanitario”, infrangere le aspirazioni nucleari della repubblica degli ayatollah, circoscrivere la minaccia sciita nel mondo musulmano riaffermando la leadership saudita nella penisola arabica, e cancellare l’eredità chavista nel Sud America sono specchio di una partita di poker in cui Washington può calare i suoi numerosi assi.

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PRINCIPALI DISTRIBUTORI DI PETROLIO E GAS Il fornitore di servizi petroliferi Baker hughes ha annunciato una possibile fusione con la rivale halliburton. Ecco le 20 principali fusioni di società di idrocarburi degli ultimi vent'anni. Target/date announced

Deal value

Acquirer

Shell Transport & Trading

Ott. 2004

$95,4 miliaridi

Mobil

Dic. 1998

85,1

Kinder Morgan Energy Partners

Ago. 2014

Elf Aquitaine

Lug. 1999

Amoco

Ago. 1998

Brazil-Oil & Gas Blocks

Set. 2010

XTO Energy

Dic. 2009

Burlington Resources

Dic. 2005

36,5

ConocoPhillips

El Paso

Ott. 2011

36,2

Kinder Morgan

TNK-BP

Ott. 2012

27,9

NK Rosneft

Mag. 2006

27,5

Knight Holdco

TNK-BP

Ott. 2012

26,1

NK Rosneft

Cenovus Energy

Nov. 2009

22,7

Shareholders

ConocoPhillips-Refining ,Mktg

April 2012

21,7

Shareholders

Lattice Group PLC(BG Group)

Mar. 2000

20,2

Shareholders

Lattice Group PLC

Apr. 2002

18,4

National Grid Group

Petro-Canada

Mar. 2009

18,3

Suncor Energy

Kerr-McGee

Giu. 2006

18.2

Anadarko Petroleum

Unocal

Apr. 2005

18,2

ChevronTexaco

Nexen

Feb. 2013

17,7

CNOOC Canada Holding

Kinder Morgan

fonte: thomson Reuters

58,6 55,3 52,7 42,9 40,7

Royal Dutch Petroleum Exxon Kinder Morgan Total Fina British Petroleum Petroleo Brasileiro Exxon Mobil


borsa enerGetica

coMe caMbia il Mercato del petrolio e del Gas

La Geopolitica dell’energia Nonostante il calo del prezzo del petrolio, l’output degli Stati Uniti continua a crescere a ritmi record l 23 gennaio 2015, all’età di 91 anni, è scomparso Abddullah bin Abdulaziz, re dell’Arabia Saudita dal 2005 e figlio del fondatore del regno Abdul Aziz bin Saud. Società di studi A succedergli il fratellastro Salam (80 aneconomici ni), che nei primi giorni di regno ha riceindipendente, vuto la visita di una delegazione bipartisan realizza attività di ricerca e consulenza dagli Stati Uniti, guidata dal Presidente Obama. economica per Obiettivo rafforzare l’asse Washington-Riad, imprese, associazioni che vede i due Paesi uniti nella lotta all’IS, ma e pubbliche anche, in maniera meno manifesta, nell’indeboamministrazioni, limento di avversari storici, quali Russia e Venea livello nazionale e internazionale zuela per gli USA, e Iran per l’Arabia Saudita. La decisione presa a fine novembre dell’Arabia Saudita, primo esportatore al mondo ARABIA SAUDITA: PRODUZIONE DI GREGGIO E % OPEC e responsabile di un terzo della produzione OPEC, di non tagliare l’output nonostante il crollo dei prezzi, per Mosca, Caracas e Teheran, che vedono nelle esportazioni petrolifere il cuore del proprio sistema economico, rappresenta un vero e proprio terremoto recessivo che, IMPIANTI DI PERFORAZIONE ATTIVI E PREZZI con le dovute diffeDEL PETROLIO (STATISTICHE SETTIMANALI) renze, lascia intravedere all’orizzonte il rischio default. Negli USA, gli effetti dell’inesorabile calo sotto i 50 dollari/bbl sono tutto sommato circoscritti, con impatti sostanzialmente relegati a società economiche o finanziarie collegate alla produzione A CURA DI NOMISMA ENERGIA

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americana. L’output statunitense, osservato speciale dall’inizio del trend ribassista, continua infatti a crescere toccando nuovi record verso i 9,2 mln.bbl/g di produzione di solo greggio. Tali valori sono collegati a investimenti di sviluppo che hanno dei timing d’implementazione pluriennali, e quindi possono essere condizionati da shock di prezzo solo nel medio termine. Al contrario, l’attività esplorativa e di perforazione è invece più price sensitve e collegata alla congiuntura, ed è qui che cominciano a vedersi le prime conseguenze del crollo dei prezzi, con una riduzione del numero di impianti di perforazione attivi sul suolo americano. Secondo il Rig Count elaborato dalla società di servizi Baker and Huges, negli Stati Uniti al 30 gennaio 2015 si contavano 1.543 trivelle attive tra onshore e offshore, 90 in meno che una settimana prima e 242 meno che a inizio 2014. E, in prospettiva, ci si attende un ulteriore spostamento nel tempo di investimenti in estrazione per i giacimenti unconventional, a causa della bassa reddittività garantita dalle quotazioni dei greggi. Malgrado il cambio alla guida dell’Arabia Saudita, la strategia di immobilismo di Riad non è destinata a cambiare: con costi di produzione che oscillano tra i 4 e i 5 dollari/bbl, e un debito pubblico che non raggiunge il 2% del PIL (quello italiano è intorno al 130% del PIL), può permettersi cali, anche nel medio termine, verso i 20 dollari/bbl. Se a ciò si associano gli annunci di diversi Paesi OPEC di non avere alcuna intenzione, nel breve e nel medio termine, di tagliare il proprio output per non perdere quote di mercato, in futuro i fondamentali del cartello, lato offerta, dovrebbero rimanere ribassisti. Ciò che intuitivamente appare positivo, segnala il Fondo Monetario Internazionale, in realtà si ripercuoterà in maniera negativa sul PIL mondiale, dove gli impatti negativi per le economie dei produttori più che compenseranno il calo della bolletta energetica per i consumatori. Quesitone di prospettive.

elaborazioni ne nomisma energia su dati doe e Iea

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Geopolitica

LE PETROECONOMIE La personalissima guerra di Algeri, la sfida Doha-Riad e la partita a scacchi di Mosca e Teheran

ALGERIA In Salah, oasi situata al centro dell’Algeria, non esistono grattacieli come nelle illuminate skyline di Doha. Le acque non sono purificate come dovrebbero, l’aria che si respira è tra le più calde e aride del Paese e gli ospedali non hanno reparti specializzati come nei ricchi Paesi del Golfo. Eppure, In Salah è il cuore degli investimenti in campo energetico del Paese, il punto nevralgico dove si affollano le più grandi compagnie internazionali che operano nell’area in partnership con Sonatrach, anche se nessun investimento è mai andato a beneficio della comunità locale. Perché In Salah non è come Doha se l’Algeria è seconda solo al Qatar, nel contesto mediorientale, quanto a esportazione di gas naturale? Partono da qui le ragioni delle proteste che infervorano questa località da oltre due mesi. La motivazione ufficiale è l’opposizione della popolazione locale e delle organizzazioni della società civile alle attività di ricerca di shale gas che Sonatrach sta conducendo da due mesi nel bacino di Ahnet, a una quarantina di chilometri da In Salah. Le tecniche utilizzate nelle operazioni di fracking (processo di fratturazione idraulica di uno strato roccioso nel sottosuolo attraverso l’impiego di agenti chimici) sono infatti ritenute deleterie per l’ambiente. Quella ufficiosa, ma ben più radicata, è invece l’avversione delle popolazioni del sud (le proteste di In Salah hanno contagiato molte altre località nelle province di Adrar e Tamanrasset) nei confronti dello Stato per l’abbandono e il disinteresse per queste aree. Algeri è accusata di ignorare ogni richiesta di investimenti e sviluppo del Grande Sud algerino (dalla sanità all’educazione, dalle infrastrutture all’impiego giovanile). Quel che preoccupa maggiormente le autorità algerine è il timore che dietro le proteste legate allo shale gas, vi sia addirittura lo zampino del Qatar. Chi altri potrebbe godere di un improvviso dietro front del grande colosso nordafricano dell’energia, si domanda infatti il governo? L’ombra del soft power qatarino - che ha già pesantemente influenzato l’andamento delle Primavere arabe - si staglia anche dietro questa ennesima sollevazione popolare, che sta mettendo a dura prova la tenuta del governo algerino. (m.p.)

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DOHA Il nome della capitale dell’emirato significa “grande albero”

IN SALAH Il nome dell’Oasi algerina significa “buon pozzo”

QATAR l 24 febbraio, l’Emiro del Qatar Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani ha incontrato il Presidente USA Barack Obama nella sua prima visita alla Casa Bianca, da quando ha assunto l’incarico succedendo al padre nel 2013. Un incontro dettato dalle urgenze politiche che discendono dai vari focolai di crisi: dallo Stato Islamico alla Libia, fino alle tensioni tra Qatar e Egitto e in seno al Consiglio di Cooperazione del Golfo. In agenda, anche colloqui sulla situazione economica che deriva dal crollo del prezzo del petrolio che sta mettendo in ginocchio le economie dei maggiori rentier state, Qatar incluso, e che di conseguenza gl’impone di puntare tutto sulla sua risorsa primaria, il gas. Non a caso, Doha attende con trepidazione la chiusura dell’accordo con il Pakistan grazie al quale cui l’Emirato fornirà 3 milioni di tonnellate di LNG per i prossimi 15 anni.

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tamim bin hamad al thani


Geopolitica

PROSPETTIVE SUI FUTURI PROGETTI DI GAS PETROLIO

ARABIA SAUDITA on il recente cambio ai vertici della dirigenza saudita, seguito alla morte di Re Abdallah e all’ascesa al trono di Re Salman, due considerazioni sono necessarie circa la direzione che la politica interna del Regno intende assumere. Innanzitutto, a fronte dell’ampio rimpasto ministeriale effettuato, spicca il mantenimento di Ali Al Naimi al posto di Ministro del Petrolio. Ormai ottantenne, in carica da due decenni e prima presidente della Saudi Aramco (la società petrolifera di Stato), Al Naimi ha già attraversato gli anni bui delle precedenti crisi energetiche e finanziarie dei primi anni Ottanta e di fine anni Novanta, oltre all’ultima recessione globale. La riconferma del suo incarico a fine gennaio indica che il colosso saudita del petrolio difficilmente rivedrà le rigide posizioni già imposte all’ultimo vertice OPEC di novembre. Quanto alle politiche sulla sicurezza interna, la dice lunga la nomina del triumvirato che Re Salman ha voluto ai vertici dei reparti per la difesa nazionale. Nominando suo figlio, Mohammed bin Salman a ministro della Difesa, riconfermando agli Interni Mohamed bin Nayef (tra l’altro, principe ereditario, secondo in linea di successione) e rimpiazzando il capo dell’intelligence con il Generale Khalid bin Ali bin Abdullah al Humaidan, il sovrano si è circondato di persone a lui molto vicine e potenti, nonché amiche delle agenzie americane CIA e FBI. Salman ha, inoltre, messo tra le sue priorità il contenimento delle frontiere: a nord con l’Iraq, dove è già attivo il programma di sensori anti-attacco (SBGDP), e a sud con lo Yemen, dove il recente colpo di Stato sciita ha peggiorato la situazione. (m.p.)

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Il futuro dei progetti di gas e petrolio nel mondo appare incerto dopo la caduta del 40% del prezzo del petrolio negli ultimi cinque mesi, intorno ai 70 dollari al barile.

Riserve stimate per ciascun anno di FID* In milioni di BOE (barrels of oil equivalent) al giorno 100,000

I *Final Investment Decisions (FID) per i grandi progetti possono determinare il profilo futuro delle maggiori compagnie petrolifere internazionali.

80,000 60,000

Progetti Onshore

40,000 20,000

Progetti Offshore

0

Anno di FID:

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

2019

Stime di produzione per i progetti con FID 2015 In milioni di BOE al giorno A SECONDA DELLA TIPOLOGIA A SECONDA DEL PREZZO BREAKEVEN DEL PETROLIO 8 8 7 7 Gas 6 6 5 5 Gas condensato 4 4 $80-100 3 3 $60-80 2 2 Oil $40-60 1 1 $20-40/BOE 0 0 2015 2020 2025 2015 2020 2025 fonte: UCube by Rystad energy

SBGDP Il Saudi Border Guard Development Program, sviluppato dal gruppo euro-francese Airbus, consiste in un sistema di monitoraggio e difesa dei 900 km di frontiera settentrionali tra Arabia Saudita e Iraq. Consta di un muro di sabbia intervallato da filo spinato e torrette di controllo dotate di veicoli-vedetta, radar a raggi infrarossi, videocamere e stazioni radio.

IRAN l vicepresidente iraniano Eshag Jahangiri lo ha definito un “complotto politico” per destabilizzare Teheran. Il calo del prezzo del petrolio, infatti, complica non poco la situazione economica dell’Iran, già costretto a drastici tagli alla spesa pubblica per far fronte all’embargo imposto da Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite per i suoi piani di riarmo nucleare. La deadline per il raggiungimento di un accordo con il gruppo dei 5+1 è slittata al 30 giugno 2015. All’ombra della partita diplomatica condotta dal ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, intanto, il governo degli Ayatollah lavora per tenere unito il fronte sciita in Medio Oriente: quel che resta del regime di Bashar Assad in Siria, Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano e i ribelli Houthi in Yemen. Gli affari collegano invece l’Iran principalmente alla Russia, alla Turchia (con cui si lavora sul gas nonostante le posizioni divergenti sul conflitto siriano), al Pakistan e a quelle grandi società energetiche europee che hanno già riposizionato le proprie succursali intorno a Teheran. Sullo sfondo resta apertissima la sfida con Israele: l’Iran prova a sfruttare le rotte clandestine del traffico di armi per sostenere i nemici di Tel Aviv, finora però il Mossad ha sempre prevenuto ogni sua mossa.

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Geopolitica

RUSSIA orte dell’alleanza sempre più consolidata con la Cina, negli ultimi mesi il presidente russo Vladimir Putin si è mosso principalmente su due fronti. La prima pista conduce ad Atene e Ankara. Sfilatasi dal progetto di realizzazione del gasdotto South Stream, al momento congelato, il colosso energetico Gazprom ha trovato con la società turca Botas l’intesa per un nuovo tracciato che dai giacimenti della Russia attraverserà il Mar Nero virando poi sulla Turchia: quattro ramificazioni lunghe oltre 900 chilometri e capaci di trasportare 63 miliardi di metri cubi di gas. In questa partita, potrebbe entrare in gioco anche la

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Grecia del nuovo premier Alexis Tsipras, che in cambio di liquidità e investimenti potrebbe garantire al Cremlino un avamposto strategico tra il Mediterraneo e l’Europa. L’altro alleato su cui punta Putin è Teheran. Anche qui vale la logica dello scambio. Mosca offre tecnologia e investimenti sul nucleare, forniture di armi e, soprattutto, una posizione morbida nel gruppo dei 5+1. In cambio, ottiene una sponda per far valere il suo peso in Medio Oriente, mirando nel medio termine ad accaparrarsi la fetta più consistente del mercato iraniano, nel momento in cui verrà allentata la morsa dell’embargo. (r.b.)

NICOLAS MADURO Sotto la sua presidenza, il PIL del Paese è sceso a -2,8% nel 2014

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VENEZUELA 5+1 Il “board” è composta da Russia, Cina, Stati Uniti, Francia, Regno Unito più la Germania

a dipendenza dal petrolio e le voragini economiche emerse dopo quindici anni di chavismo, fanno del Venezuela uno dei Paesi meno attrezzati per sopperire al calo del prezzo del greggio. A metà gennaio, il presidente Nicolas Maduro ha girato il mondo in cerca di sostegno, trovando però solo nell’Algeria un interlocutore disponibile a formare un fronte unito per la stabilizzazione del mercato petrolifero. Da allora, di fatto, poco è cambiato. Gli indici dell’inflazione e della disoccupazione altissimi, gli scontri diplomatici con gli Stati Uniti e gli arresti eccellenti degli oppositori (l’ultimo è stato il sindaco della capitale Caracas, Antonio Ledezma, accusato di tramare un colpo di Stato), trasmettono all’esterno l’immagine di un Paese sull’orlo del baratro, sempre più vicino allo spettro del default. In vista delle decisive elezioni parlamentari che dovrebbero tenersi entro l’anno, a Maduro non resta che sperare nella solidarietà dei Paesi in via di sviluppo del G7 e, soprattutto, in nuovi investimenti da parte della Cina. (r.b.)

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FARE BUSINESS ALL’ESTERO

IL SALTO DI QUALITÀ DI RIAD li immensi giacimenti di petrolio e gas e la presenza dei principali luoghi sacri dell’Islam conferiscono all’Arabia Saudita un peso geo-economico, politico e morale senza pari nel mondo musulmano. L’Arabia Saudita rappresenta, dopo gli Emirati Arabi Uniti, il secondo mercato di riferimento per l’Italia in Medio Oriente, con oltre 4,5 miliardi di euro di beni esportati nel 2013 e nei primi dieci mesi del 2014 i dati si confermano in linea con una crescita tendenziale del 3,5%. Le nostre esportazioni sono ben posizionate in settori chiave per lo sviluppo industriale come la meccanica strumentale e nel mediolungo termine potrebbero sorgere ottime opportunità. La recente scomparsa del re Abdullah non ha compromesso in modo sostanziale la stabilità del Regno e il suo successore Salman cercando di puntellare la sua situazione - sarà altrettanto riluttante a tenere a freno la spesa fiscale,

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accelerando il deterioramento delle finanze statali e costringendo il governo ad attingere alle sue ingenti riserve. Ma si sa che a Riad non mancano tasche profonde e soprattutto non esistono debiti da estinguere. Oggi è necessario però fare i conti con il cambiamento e sono proprio la staticità del sistema politico e l’elevata disoccupazione giovanile a costituire le principali sfide alla stabilità di lungo periodo del Paese, rimasto peraltro immune dai fermenti delle primavere arabe. L’Arabia Saudita sta vivendo uno straordinario momento di floridità economica e finanziaria, anche grazie a una politica fiscale espansiva, con focus su sanità, educazione e infrastrutture. Nel lungo periodo i sussidi non possono bastare ma serve generare lo sviluppo economico e i conseguenti benefici sulla popolazione: a Riad è arrivato il momento di fare un salto di qualità. Le previsioni 2015 indicano una crescita del PIL in lieve miglioramento rispetto al 2014, trainato dalla spesa pubblica in investimenti e da una robusta attività nel settore privato.

Le autorità saudite puntano su una strategia di diversificazione dell’economia. L’obiettivo è abbassare la dipendenza dal petrolio e dal gas. I progetti, e i soldi per finanziarli, non mancano Le autorità saudite stanno perseguendo una strategia di diversificazione dell’economia del Regno, cercando di abbassare la dipendenza dallo sfruttamento delle risorse energetiche non rinnovabili e i progetti non mancano. Per quanto riguarda le costruzioni è prevista la realizzazione di 6 “città economiche” per un investimento globale di oltre 100 miliardi di dollari e il potenziamento di una “Industrial Valley” dove lo scorso dicembre ha già iniziato la sua attività un grosso stabilimento della Mars, marchio di fama mondiale. Nel processo di diversificazione a valle del petrolio dal petrolchimico si è passati alla produzione di materie plastiche ed è intenzione del Regno sviluppare ulteriormente la filiera, ad esempio nel packaging. Emergono nuove sensibilità sul tema delle rinnovabili e l’obiettivo è garantire entro il 2032 una capacità da fonti energetiche rinnovabili pari a 54 GW tra solare fotovoltaico, solare termodinamico, eolico, geotermico e energia da rifiuti. Riad, dunque, guarda al futuro. Sta a noi coglierne le opportunità.

a cura di

IBS ITALIA Società di consulenza specializzata nell’offerta di servizi all’internazionalizzazione d’impresa: studi di mercato, tax planning, ricerca partner, assistenza operativa in loco, organizzazione eventi, redazione pratiche per finanziamenti agevolati

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Geopolitica

FOCUS

Baghdad, avamposto contro lo Stato Islamico L’intervista all’ambasciatore iracheno in Italia, Saywan Barzani, svela alcune sfumature di una guerra politica che ha dilaniato un Paese ma che, nonostante il sangue e l’orrore, vede crescere il proprio PIL del 6% annuo di Luciano Tirinnanzi e Rocco Bellantone

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IRAQ Qual è la situazione reale oggi in Iraq? La crisi che stiamo vivendo risale al 2003, e dunque alla caduta del regime di Saddam Hussein. Da allora, gruppi di terroristi arrivati soprattutto dalla Siria hanno iniziato ad attaccarci con il sostegno di altri Paesi del Medio Oriente e del mondo arabo. Dal giugno 2014, sempre dalla Siria c’è stata una nuova ondata di offensive militari, condotte però questa volta da un vero e proprio esercito organizzato, l’esercito dello Stato Islamico. Sinora hanno preso il controllo di Mosul, Tikrit e di molte altre città e province della parte ovest dell’Iraq. Un’armata di quindicimila combattenti che non provengono solo dalla Siria, ma da altri 87 Paesi del mondo. In Siria, in questi anni di guerra civile, sono stati addestrati e armati fin troppo bene. Per questo, ora abbiamo bisogno dell’aiuto della comunità internazionale. Quella in corso in Siria e Iraq è descritta da molti come una guerra tra sunniti e sciiti. È così? Sono gli interessi politici ed economici che spingono per questa visione. In Iraq c’è sicuramente un forte comunitarismo, ma questa non è una guerra tra sunniti e sciiti, bensì una campagna terroristica e criminale che non ha niente a che fare con l’Islam. Chi è il Califfo Al Baghdadi e che cos’è lo Stato Islamico? Dietro lo Stato Islamico c’è un’ideologia totalitaria, da malati di mente. Il 99% delle vittime dello Stato Islamico sono musulmane. Hanno distrutto le nostre città, perseguitato cristiani, yazidi e ogni altra minoranza che si è rifiutata di sottostare alle loro tasse. Al Baghdadi era un giovane iracheno che lavorava per il regime di Saddam Hussein. Dopo la sua caduta, ha radunato i soldati dell’esercito baahatista, gli ha fatto tagliare i baffi e allungare la barba, poi ha guidato i primi attacchi contro gli americani e contro il nuovo governo. Molti di quelli che sarebbero poi diventati suoi miliziani sono stati assoldati nelle prigioni americane come Camp Bucca. Lo stesso è accaduto in questi anni anche nelle carceri d’Europa.

UN SALUTO ALLA PATRIA Hadeel Azeez (2013) Collezione Ambasciata Iraq a Roma. Smalto su tela cm. 300x300


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Geopolitica

L’instaurazione del Califfato Islamico è un progetto politico che include solo i sunniti? Secondo la loro visione, il Califfo dev’essere sunnita e avere una provenienza diretta dalla famiglia del Profeta. Al Baghdadi dice di essere un Quraish, vale a dire un membro della famiglia del Profeta. Nell’Islam, come noto, i principi del Corano sono molto vicini a quelli della Bibbia e del Vangelo. Le interpretazioni, invece, sono per la maggioranza false. E proprio una di queste interpretazioni false afferma che il Califfo deve avere una linea diretta con la famiglia del Profeta, ma questo passaggio nel Corano non esiste.

Tra gli obiettivi dello Stato Islamico c’è il Kurdistan iracheno. Lei, che è di origini curde, come spiega questa cosa? Prima dell’arrivo dei terroristi, la popolazione in Kurdistan era di cinque milioni e mezzo di persone, oggi è arrivata a dieci milioni. Tutte le minoranze perseguitate nel nord dell’Iraq hanno trovato rifugio qui: cristiani, shabaq, sciiti, yazidi, duecentosettantamila siriani e più di un milione di sunniti che hanno lasciato Mosul, Tikrit e Ramadi. Al momento, in totale ci sono due milioni e trecentomila profughi, in pratica uno ogni tre abitanti. Lo Stato Islamico vuole attaccare il Kurdistan perché è la testimonianza che in Iraq possono convivere pacificamente comunità, culture e religioni diverse. È un simbolo che loro vogliono abbattere. Perché ciò non accada, c’è bisogno dell’aiuto della comunità internazionale.

FOCUS

Quindi si tratta solo di propaganda? I Califfi che si sono succeduti dopo la morte del Profeta hanno utilizzato questo e altri argomenti per governare e legittimare la propria posizione di dominio. La cosa grave è che il principio di queste successioni è stato tramandato di generazione in generazione e oggi viene studiato in molte scuole nel mondo arabo. Il problema, dunque, è anche e soprattutto culturale. Le università e i centri studi di Egitto e Tunisia, ma anche dell’Iran, devo impegnarsi insieme per porre fine a questa propaganda. Non possiamo permettere che si trasmetta un’ideologia secondo cui è giusto uccidere chiunque non sia d’accordo con questa visione. E questo discorso vale anche per l’Europa, dove la propaganda si copre dietro la libertà di espressione.

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L’ISIS ATTACCA IL KURDISTAN PERCHÉ RAPPRESENTA LA PACE TRA COMUNITÀ, CULTURE E RELIGIONI

Alla fine di questa guerra ci sarà un Kurdistan indipendente? Il popolo curdo ha subito un genocidio per settant’anni nel silenzio del mondo. Dei suoi cinquemila villaggi ne sono rimasti cinquecento e più dell’80% della popolazione è stata deportata, soprattutto durante il regime di Saddam. Dopo la sua caduta, i curdi hanno comunque deciso di collaborare con il popolo iracheno per la creazione di nuove istituzioni, che oggi assomigliano molto a quelle del Kurdistan, dal monocameralismo al sistema di voto. Il 99% dei curdi ha votato la nuova Costituzione irachena. Sono quindi parte integrante dell’Iraq. Non è facile creare un grande


Geopolitica

Kurdistan tra Siria, Turchia, Iran e Iraq. La soluzione è avere garantiti i diritti: parlare la propria lingua, e avere autonomia amministrativa ed economica. E in Iraq, i curdi godono di questi diritti. Nella guerra contro lo Stato Islamico, il governo iracheno deve tenere conto anche dei rapporti con Damasco. Si può collaborare con Bashar Assad? Noi vogliamo per la Siria un governo democratico che rispetti i diritti umani del suo popolo e la vicinanza pacifica con gli altri Paesi della regione. È ovvio che preferisco Assad a Daesh (lo Stato Islamico in arabo, ndr), perché Assad quantomeno non si è mai macchiato delle violenze compiute dallo Stato Islamico. Il problema, però, è che tra il 2003 e il 2009 il governo siriano ha mandato migliaia di terroristi in Iraq contro gli alleati occidentali. E quegli stessi terroristi sono poi tornati per combattere contro il regime di Assad. Lo stesso hanno fatto altri Paesi arabi, senza tenere conto di quello che sarebbe accaduto dopo. Si riferisce ad Arabia Saudita e Qatar? Non posso dirlo con esattezza. So però che tanti Paesi in questi anni non hanno fatto nulla per impedire che migliaia di giovani arrivassero in Siria per combattere. Il problema però è che in Siria non comanda l’Esercito Libero Siriano ma Daesh e Al Qaeda. Per far cadere il regime siriano ci sarebbe voluto un colpo di Stato oppure mettere sotto embargo Damasco. Invece, sono stati fatti arrivare terroristi da ogni parte del mondo. Quei terroristi sono poi andati in Iraq e adesso stanno già facendo ritorno in Europa e nel resto dell’Occidente. Di cosa ha bisogno Baghdad per sconfiggere lo Stato Islamico?

Basta mandare aiuti, armi, addestratori e continuare con i raid aerei. Abbiamo liberato Kobane inviando i peshmerga e grazie ai bombardamenti della coalizione. Abbiamo bisogno di questo tipo di sostegno militare, unito a un supporto logistico e d’intelligence. Non abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a instaurare una democrazia, perché in Iraq c’è già ma segue regole diverse da quelle dell’Occidente. Applicare in Iraq il sistema democratico occidentale è sbagliato? Questo tentativo ha già rovinato una volta l’Iraq. La storia dimostra che il sostegno offerto per instaurare democrazie in realtà è sempre stato mosso solo da interessi economici. L’Europa ci ha messo mille anni per creare gli Stati Nazione. Pensare di farlo in Iraq in soli dieci anni non è possibile, perché non si possono uniformare in un unico sistema così tante lingue, religioni e culture diverse. Solo i cristiani in Iraq contano quattordici comunità diverse. A Barzan, il mio Paese, c’erano già una sinagoga, una chiesa e una moschea. Il progetto di esportare il modello occidentale è perciò fallito. Noi abbiamo trovato una soluzione più adatta: una federazione basata sulla democrazia e su altri due punti fondamentali, vale a dire il mantenimento della

lingua materna e della fede religiosa. Con il nuovo premier Al Abadi abbiamo ritrovato l’unità tra le varie componenti del Paese: arabi, curdi, sunniti, sciiti, cristiani, turcomanni. Tutti partecipano al governo e tutti hanno dei rappresentanti in parlamento. L’Italia può essere decisiva per la ricostruzione dell’Iraq dopo questa guerra? Quando lo Stato Islamico è entrato in Iraq nel giugno del 2014, l’Italia presiedeva l’Unione Europa. Nel momento in cui è stata attaccata Erbil tutti i 28 Paesi membri dell’UE hanno deciso di inviare armi e aiuti umanitari al Kurdistan. Il vostro Paese si è impegnato per primo in tal senso. L’Iraq è un grande Paese. Malgrado la guerra e il calo del prezzo del petrolio, la crescita per quest’anno sarà comunque del 6%. Entro il 2018 saremo una grande potenza economica e secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia tra vent’anni su due barili di petrolio prodotti in tutto il pianeta, uno sarà iracheno. Ma non abbiamo solo petrolio e sabbia, ci sono anche gas, agricoltura, importanti risorse umane. Il nostro sistema è complementare alle vostre piccole e medie imprese. Ci sono tutte le condizioni per ricostruire un Paese stabile e ricco, ma abbiamo bisogno del sostegno del mondo libero.

SAYWAN BARZANI Nato a Erbil, nel Kurdistan iracheno, nel 1972, si è laureato in Giurisprudenza presso l'Università di Orléans e in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diplomazia presso l'Università di Parigi Panthéon-Sorbonne. Ha iniziato la carriera diplomatica nel 1992 come coordinatore dell'ufficio relazioni pubbliche di Erbil. Dal 2010, è ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Repubblica dell’Iraq in Italia e Ambasciatore non residente presso Malta.

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Geopolitica

L’arte e le donne in Iraq Intervista ad hadeel Azeez, artista irachena che nel viaggio da Baghdad a Roma ha visto cambiare lo stato sociale del suo Paese e l’interpretazione stessa dell’arte di Marta Pranzetti

Premesso che è dal 2003 che non fai ritorno nel tuo Paese, che rapporto hai con l’Iraq e quali sono i ricordi della tua vita lì oggi? L’idea di rientrare nel mio Paese è come un sogno nel cassetto. Tutti i miei sogni sono là. Come tutte le mie opere aspettano di rientrare. L’artista che sono oggi, quello che faccio, tutto è legato a Baghdad, la città nella quale sono cresciuta e dove vive tuttora la mia famiglia. A lungo ho pensato di fare ritorno ma mi ha sempre frenato il fatto di esser sposata a un occidentale, il che avrebbe messo in pericolo sia lui che me (prima per via della guerra poi per il mutato

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contesto sociale, ndr). I miei amici mi descrivono una realtà molto diversa da quella che ho lasciato. La società è diversa nei modi di fare e di pensare: da un lato c’è una profonda depressione, tanto immobilismo, dall’altro tanta voglia di cambiare. Ma anche questo cambiamento è spaccato a metà tra chi lo vuole in un verso e chi in un altro (leggasi la dicotomia tra sunniti e sciiti e tra liberali e conservatori, ndr). Per quanto riguarda i miei ricordi, sarà per il mio carattere da artista sempre “con la testa fra le nuvole”, io non ricordo niente di traumatico e soprattutto non ricordo di aver mai subito le distinzioni che

HADEEL AZEEZ Nata a Baghdad nel 1981 da padre iracheno e madre iraniana. Frequenta l'istituto di Belle Arti della capitale irachena, prima di trasferirsi a Londra, in Puglia e poi a Roma


Geopolitica

adesso invece dominano il mondo musulmano. La mia famiglia è sciita, ma mia sorella è sposata con un sunnita e questo non ha mai rappresentato un problema. Né dentro casa né fuori. Oggi invece tale differenza si sente molto.

opera nella vita e quindi anche nella sfera politica. L’arte per me si concentra sulla filosofia della vita. Forse è da questo che derivano i miei soggetti e questa visione intimista che in molti riscontrano nei miei lavori.

A proposito di religione e società: come interpreti il rapporto tra arte e religione? Nel mio caso è stato fondamentale, ma non nel senso di religione musulmana come fede e pratica, piuttosto nel senso spirituale del termine: una religione intesa come legame che unisce l’essere umano a qualcosa di trascendente. La religione, come la politica e la filosofia, sono i grandi temi con cui l’individuo si confronta e tramite cui cerca le risposte alla propria esistenza. E il mio studio dell’essere umano, nelle mie tele, passa appunto anche da qui.

Anche la ricorrenza del corpo femminile è dovuta a una ragione politica? Credo che inizialmente sia stata una scelta inconscia e naturale, dato che i miei studi all’accademia si erano concentrati su corpi umani. Essendo donna per me era più facile dipingere corpi femminili. Con il tempo, invece, ho cominciato a ragionare sul perché lo trovavo così interessante. Credo di aver avuto una scintilla durante una mia mostra a Cisternino, quando un intellettuale e poeta iracheno residente in Italia ha criticato le mie opere e l’eccessivo uso del corpo femminile, sentenziando che non si deve andare oltre il senso figurativo e che l’arte deve essere più discreta con il corpo. In particolare, il risentimento gli veniva dal fatto che era una donna a raffigurare una donna, forse se stessa, perché nella storia dell’arte figurativa islamica sono sempre stati gli uomini a dipingere. Il fatto che sia una donna a “esporsi” può essere percepito come un affronto. Da lì è nata un’attenzione più consapevole e mirata su questo tema.

Come ti poni allora, da artista e musulmana, nei confronti dell’iconoclastia, la distruzione dell’arte e delle immagini? Sinceramente, io ho un punto di vista religioso molto particolare. Potrei essere musulmana, cristiana, buddista, ebrea o induista. Per quanto mi riguarda, sono tutti modi di conoscersi. Io non credo che sia la religione di per sé a imporre il divieto di rappresentare figure umane e di certo non condivido l’avversione che certi gruppi (dai talebani allo Stato Islamico) hanno nei confronti dell’arte. Anzi, la cultura islamica ha una tradizione artistica che fa invidia. L’arte è parte della vita. Certa gente però non ha la sensibilità per comprenderlo, e non perché musulmana. L’ignoranza è disarmante. E lo è ancor di più l’egoismo di chi pensa di poter imporre la sua concezione delle cose sugli altri. L’unico modo per contrastare queste forme di pensiero anti-esistenziali, per me, è continuare a fare quello che faccio. Le tue opere esprimono una scelta politicamente motivata? Quello che faccio, ogni mio lavoro, deriva da uno studio del tutto, del mio sé, di quanto mi succede intorno. Personalmente, per quanto la mia arte si concentri su soggetti figurativi e ritratti, non riesco a non vedere il lato politico del mio lavoro, perché tutte le mie opere e i miei studi ruotano intorno all’essere umano, cosa fa, cosa desidera e come

a stoRy of lIbeRatIon (2010) Colori ad olio su tela

lost In the deep (2011) Colori ad olio su tela e acrilico su tessuto

Riscontri un’evoluzione nel tuo percorso di artista da Baghdad a Roma? Assolutamente sì. In accademia a Baghdad ho studiato ritratti, paesaggi e natura morta. Il corpo e i volti hanno però sempre destato in me un interesse particolare, e negli ultimi anni ho preso a inserire anche versi di poeti iracheni sulle mie tele. Questi dettagli sono diventati quasi il mio timbro. D’altronde, nella tradizione islamica le parole hanno un valore molto profondo anche in campo artistico.

to WheRe I WoUld esCape (2009) Colori ad olio su tela

Quali sono i tuoi modelli di riferimento? Ho sempre apprezzato molto gli studi di Caravaggio e Rembrandt, che sono maestri di luce. Un’artista contemporanea che ammiro è invece l’iraniana Shirin Neshat. Mentre a livello ideologico direi che uno dei miei maggiori modelli d’ispirazione è stato mio padre, comunista convinto e al tempo stesso atipico, che ha influenzato il mio modo di percepire le cose, dalla politica alla storia, dall’arte alla vita.

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Geopolitica

Daesh e l’armata internazionale Una milizia eterogenea e misteriosa, proveniente da oltre 80 paesi del mondo, è riuscita a instaurare un nuovo stato nel cuore della mesopotamia. ecco con quali strumenti di Marco Giaconi

IRAQ uanti sono i combattenti stranieri che operano con l’ISIS in Iraq e Siria, oggi? Molti, e questo fenomeno è un dato politico e strategico fondamentale per il nostro futuro europeo e mediterraneo. Si calcola che gli jihadisti provenienti dall’Europa, dagli USA e dalle aree islamiche periferiche siano oltre ventimila, esattamente 20.730, il maggior numero di “volontari” dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il totale dei militanti ISIS, fra stranieri e autoctoni, è di 31.000 militanti, secondo la CIA, ma i Servizi russi parlano addirittura di 38.000 elementi. Hanno ragione tutti e due: la differenza è tra i militari a tempo pieno e i collaboratori dell’armata jihadista. I Foreign Fighters vengono da 81 Paesi e quindi si tratta del primo fenomeno di statualizzazione globale

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del jihad, e questo avviene proprio nell’area-cardine di tutto il Grande Medio Oriente, non alla periferia dell’Islam, come in Afghanistan, in Sudan (la prima tappa di Bin Laden dopo il suo “lavoro” afghano) o in Yemen. Siria e Iraq sono il centro di gravità dell’Islam, sono strategicamente vicini a Israele, possono rapidamente modificare gli equilibri energetici, sociali e strategici dell’Europa e della NATO. Se quindi, come si desume dai files trovati nei computer di Osama Bin Laden, il fondatore di Al Qaeda voleva continuare a colpire il Nemico Primario, gli USA e i Paesi islamici “traditori”, e solo successivamente le aree periferiche, la “linea” di Al Baghdadi e del suo ISIS è opposta: creare un territorio statuale, non una semplice rete jihadista, e da lì partire per una massificazione del jihad soprattutto dove il Nemico, ovvero noi, è più debole e manipolabile: in Europa e nel Maghreb stupidamente destabilizzato dalle “Primavere Arabe”.

IL CALIFFO IBRAHIM Abu Bakr Al Baghdadi nasce nel 1971 a Samarra, Iraq, col nome Ibrahim Awad Ibrahim Al Badry


Geopolitica

NIENTE PIÙ CONFINI DOPO LA SIRIA E L'IRAQ, DOvE LO STATO ISLAMICO hA fATTO DI RAQQA E MOSUL LE DUE CAPITALI DEL CALIffATO, ADESSO I MILIzIANI PUNTANO SUL LIBANO, LA LIBIA E IL RESTO DEL NORD AfRICA

ARMI E MEZZI IN DOTAZIONE ALLO STATO ISLAMICO Armi leggere

Cingolati

Documentate a Nord della Siria XM-15 (U.S.)

AK-47 (Russia)

M-16 (U.S.)

PKM-M80 (Cina)

T-72 (Russia)

Elmech EM-992 (Croazia) La maggior parte dei Tank sono stati distrutti dai raid aerei della coalizione internazionale

Armi anticarro/antiaeree AT-4 (Russia) SA-7 (Russia) FIM-92 Stinger M-79 Osa (U.S.) (Ex Yugoslavia)

M1-Abrams (U.S.)

HJ-8 (Cina)

Mezzi corazzati - Sequestrati all’esercito iracheno MRAP (U.S.)

Artiglieria pesante Humvee (U.S.)

M198 (U.S.)

Note: la lista non include le pistole i mezzi per gli spostamenti veloci.

fonte: Reuters, Conflict armament Research

Una quota, quella dei quasi trentamila “volontari”, appena superiore perfino a quella dei mujaheddin che accorsero al richiamo dei pakistani (e dei loro finanziatori sauditi) in Afghanistan, durante l’invasione sovietica di quel Paese. Almeno il 25%, secondo i centri di ricerca specializzati nella “radicalizzazione” dell’islamismo, intende commettere attentati terroristici dopo il ritorno nei Paesi di provenienza; soprattutto se si tratta, come nel nostro caso, di Paesi “infedeli”. E chi ha imparato a combattere con l’ISIS, esercitando una ferocia che serve soprattutto ad

addestrare i militanti e a spaventare gli “infedeli”, continuerà certamente a farlo. L’efferatezza delle decapitazioni è un’azione di psywar (guerra psicologica) che modifica stabilmente la mente degli jihadisti e li adatta a ogni evenienza oggi ma, soprattutto, nel futuro che sarà “teleguidato” dai dirigenti jihadisti secondo le regole della autonomia massima per gli obiettivi e i tempi. Non conta l’obiettivo, contano l’atto e soprattutto il momento scelto per compierlo. Saranno gli stessi “media degli infedeli” a propagandarlo e a

massimizzarne l’effetto psicologico tra le masse europee, che resteranno bloccate nelle loro reazioni dalla paura e dal terrore. Si tenga conto che, pur essendo uno spin off di Al Qaeda, l’ISIS (e il “Fronte Al Nusra”) sono il primo caso di jihad di massa che gestisce ben più di una semplice rete coperta per gli attacchi “ai Crociati e agli Ebrei”. Si calcola che gli jihadisti di origine occidentale - di recente e spesso superficiale islamizzazione - siano 3mila, tra i pochissimi che provengono da Paesi come l’Italia e dalla Svezia. Mentre la Giordania, Paese di origine del primo fondatore dell’ISIS, Al Zarqawi, criminale comune convertitosi in carcere (un pattern comune anche in Occidente) ne ha forniti ben 315, cui si aggiungono 92 che vengono dalla Bosnia, quasi 100 dal Kosovo mentre dalla Tunisia, il paese laico del Maghreb per eccellenza, ne sono finora arrivati nell’area, tra ISIS e Al Nusra, ben 280. L’Algeria, altro bastione del laicismo maghrebino, ha esportato 200 jihadisti nell’ISIS, mentre i militanti di origine marocchina sono addirittura 1500, una cifra elevatissima che segnala la destabilizzazione infausta del Regno Alawita verso il sud e il confine sahariano e atlantico. Ci sarà un’altra fase, prevediamo, nella quale le stesse minoranze etniche e tribali dell’universo islamico, avranno modo di utilizzare il jihad globale ma territoriale dell’ISIS come strumento della loro battaglia e cassa di risonanza per le loro richieste identitarie e geo economiche. È quindi evidente un nesso tra il laicismo dei Paesi islamici di provenienza, che viene ritenuto dagli jihadisti un “asservimento all’Occidente”, e la quota di combattenti stranieri disponibili per il jihad in Siria e in Iraq. È inoltre evidente il nesso tra il “laicismo” militante di certi Paesi occidentali e la quota elevata dei loro jihadisti. È un problema geoculturale di grandissima importanza, che va affrontato con strumenti nuovi.

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Mar Mediterraneano

Geopolitica

TUNISIA Al Jurf Bouri

Tripoli Misurata

Beida

Mellitah

Derna

Sirte

T

Bengasi

Zintan TRIPOLITANIA

Ras Lanuf Es Sider

Marsa el H Zuetina

Marsa el Brega Bacino di Ghadames

El Feel o

ALGERIA

FEZZAN El Sharara oilfield

Ghad

Sabha

Bacino della Sirte

Sarir Sarir oilfield CYRENAICA

Bacino di Murzuq

Al Jawf

NIGER

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CIAD


200 km

Geopolitica

FORZE POLITICHE

GOVERNO DI TRIPOLI BERBERI-AMAZIGH

Tobruk

GOVERNO DI TOBRUK

Hariga

ANSAR AL SHARIA

GRUPPI ETNICI ARABO-BERBERI BERBERI

EGITTO

oilfield

Mille e una Libia S

STATO ISLAMICO

e l’avanzata in Libia da parte degli affiliati al Califfato non riuscirà mai ad attecchire definitivamente - così come per Baghdad, è irrealizzabile anche la conquista di Tripoli - è pur vero che la destabilizzazione nel Paese è già riuscita. Il successo politico dello Stato Islamico, supera così quello militare e ottiene lo scopo che si prefiggeva: terrorizzare il mondo occidentale (Italia in primis) e quello arabo. L’Italia ha chiesto un ruolo guida per gestire la grave crisi libica. Si vedrà. Intanto, all’ONU siamo ancora all’impasse e così l’Egitto si ritrova per il momento a lottare da solo contro quella parte di milizie che non sono sotto il controllo del governo amico di Tobruk e del suo comandante militare, generale Khalifa Haftar. Il potere di Tobruk in Libia è davvero risicato e scarsamente esteso, mentre le numerose forze islamiste proliferano nelle nuove “città-Stato”. Per dare una dimensione del problema basti sapere che dalla fine della rivoluzione, ben 236 organizzazioni militari distinte si sono registrate solo a Misurata. Piccoli battaglioni da 12 fino a 1.747 combattenti ciascuno, che, presi come collettivo, corrisponderebbero alla forza militare più coesa e potente in Libia.

TUAREG TOBBOU (TEBU) DISABITATO

RISORSE ENERGETICHE GIACIMENTI PETROLIO

GAS

OLEODOTTI RAFFINERIE PORTI BACINO DELLA SIRTE

f

PRODUZIONE DI GREGGIO IN LIBIA milioni di barili al giorno (media)

1.5 1.0 0.5 0

2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

fonte: World energy atlas; U.s. energy Information administration; thomson Reuters

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Geopolitica

Divisi e agguerriti Il ministro del petrolio libico, mashallah zwai, risponde al governo islamista di tripoli. ecco cosa pensa del “nemico” e come intende uscire dalla guerra civile di Cristiano Tinazzi

LIBIA a Libia sta vivendo una situazione di caos e divisione che è probabilmente la peggiore dalla guerra civile del 2011. Il Paese è scisso politicamente e territorialmente tra coloro che appoggiano il vecchio parlamento presieduto dal premier Omar al-Hassi, e coloro che invece sostengono il nuovo, rappresentato da Abdullah al-Thani. Nell’agosto scorso, le milizie pro-vecchio parlamento conquistano Tripoli, ricacciando le milizie avversarie di Zintan sulle montagne dello Djebel Nafusah. Sostanzialmente, gli schieramenti che si contrappongono sono due: il primo, che ha in mano Tripoli, gli uffici ministeriali e controlla la maggior parte delle entrate e delle risorse petrolifere

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è capitanato dalla città di Misurata, alleata con la minoranza berbera in Tripolitania e con i tuareg nel Fezzan, mentre in Cirenaica sono stati fatti accordi con il consiglio della Shura dei rivoluzionari di Bengasi (una coalizione di milizie) e gli jihadisti di Ansar al-Sharia. Dall’altra parte troviamo una coalizione guidata dalla città di Zintan insieme al fallito golpista generale Khalifa Haftar, alla tribù dei Wershefana e alle milizie Toubu. A livello internazionale, è stato riconosciuto come legittimo il premier al-Thani e il suo parlamento, costretti però a risiedere nell’estremo est della Libia, a Tobruk, senza nessun controllo sulle principali città della Libia e sulla capitale.

Abbiamo incontrato Mashallah Zwai, detentore del dicastero del petrolio del governo non riconosciuto, per capire meglio il punto di vista di una componente determinante della politica libica. Ministro, la situazione di confusione nel Paese è notevole. I danni economici sono ingenti e la produzione del petrolio è crollata... Nel 2010 il reddito derivante dal petrolio era di 47 miliardi di dollari. In molti credevano che prima di un decennio la produzione non potesse tornare ai valori precedenti alla guerra, ma tra il 2011 e il 2012 siamo arrivati a una produzione di 1,7 milioni di barili, che equivale a circa 60 miliardi di dollari.


Questi però sono dati vecchi. Il 2014 ha avuto un forte calo nella produzione. Nel 2013 purtroppo a causa dei blocchi nei porti petroliferi e agli stop degli impianti il reddito è calato a 40 miliardi e nel 2014 a 15 milioni di dollari. La colpa è dovuta ad attori esterni, Paesi limitrofi o concorrenti petroliferi che hanno minato la credibilità della Libia e soffiato sul conflitto interno. Hanno alimentato la guerra civile e nel prossimo futuro sapremo distinguere poi tra quelli che hanno aiutato la Libia a ricostruire le infrastrutture e a indirizzarla sulla via della democrazia e altri che invece hanno favorito la controrivoluzione. Come ministero del Petrolio abbiamo due obbiettivi: la stabilità e l’aumento della produzione.

Con una produzione ormai scesa a circa 200mila barili, quanto influisce il controllo dei vostri avversari sui pozzi di petrolio in Cirenaica? A dicembre abbiamo prodotto 362,780 barili al giorno, con un calo del 50% rispetto al mese di novembre. Il calo ulteriore è dovuto anche alla chiusura dei pozzi nel sud del Paese. Se non ci fossero problemi di stabilità la produzione tornerebbe ai livelli massimi nel giro di qualche settimana. Quanto a Ibrahim Jadran*, è solo un burattino nella mani dei separatisti e dei governi stranieri. Le tribù della Cirenaica hanno in gran parte rifiutato l’idea del federalismo e hanno fatto fallire il suo progetto di esportare petrolio a terzi in modo illegale. Come governo ufficiale della Libia a Tripoli non vogliamo combattere

ENI E LA LIBIA Eni è presente in Libia dal 1959. Le sue attività, suddivise in sei grandi aree, vengono condotte nell'offshore mediterraneo di fronte a Tripoli e nel deserto libico

*Capo dei ribelli della Cirenaica

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Geopolitica

con le armi ma attraverso il dialogo politico, sapendo che il petrolio è il pilastro della nostra economia.

QUANTO COSTA COMBATTERE LO STATO ISLAMICO La campagna in Siria e Iraq contro il Califfato costa, solo agli Stati Uniti, 8,1 miliardi di dollari al giorno, secondo il Dipartimento della Difesa COSTO DELL’OPERAZIONE

Stimato dal Center for Strategic and Budgetary Assessments Costo stimato a seconda dello scenario Miliardi di dollari l’anno

$22 $13

$3,8 miliardi $2,4 Campagna aerea a bassa intensità

$6,8 $4,2

Campagna aerea ad alta intensità

Totale Agosto-Dicembre 2014

$1,02 mld

Costo medio al giorno

$8,1 milioni

Operazioni di terra

COSTO OPERAZIONI E MUNIZIONI AEREE STANDARD

TOMAHAWK Missile da crociera subsonico a lungo raggio Costo unitario: $1,1 mln

AGM-114 HELLFIRE Missile terra-aria Costo unitario: $102,300

F-15 | F-16 | F/A-18 Caccia Costo per ora-volo: $8,972 – $20,115

MQ-1 PREDATOR Veicoli senza pilota Costo per ora-volo: $511 *Immagini non in scala.

DURATA DELLA CAMPAGNA

Operazioni condotte da USA e alleati nel recente passato TARGET

PAESE

DURATA

Forze Serbe

Ex Yugoslavia

24 Mar. - 10 Giu. 1999

Talebani/Al Qaeda

Afghanistan

7 Ott. - 18 Dic. 2001

Stato Islamico

Iraq/Siria

Dall’8 Agosto 2014

GIORNI 78 72 Fino all’11 Dicembre: 125

Scenario 1: Campagna aerea a bassa intensità = 90 missioni* al giorno, 100 obiettivi attaccati al mese. Scenario 2: Campagna aerea ad alta intensità = 120 missioni al giorno, 150 obiettivi attaccati al mese. Scenario 3: Operazioni terrestri = 150 missioni al giorno, 200 obiettivi attaccati al mese, con lo schieramento di 25.000 soldati americani sul campo. * Per missione si intendono operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione.

fonte: U.s. department of defense; air force historical studies office, U.s. air force; Center for strategic and budgetary assessments; barr group aerospace

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MASHALLAH ZWAI Ex INGEGNERE PER IL SETTORE PETROLIfERO, è STATO NOMINATO MINISTRO DA OMAR AL hASSI

Cosa chiedete ai Paesi occidentali? Chiediamo ai Paesi esteri di fermare il loro supporto esterno alle parti in lotta. Per questo motivo speriamo che il mondo si assuma le proprie responsabilità per quanto avviene in Libia, perché questo ha ripercussioni su interessi globali, non solo libici. Siamo molto delusi però quando vediamo che a livello internazionale molti stati sostengono il generale Khalifa Haftar. Ha raccontato bugie facendo passare la sua campagna armata personale come una lotta al terrorismo, ma è il primo a farlo perché sta ammazzando donne e bambini e bombarda infrastrutture e installazioni in tutto il Paese. Ha fatto colpire dalla sua aviazione una petroliera greca battente bandiera liberiana, ha bombardato la centrale elettrica di Sirte e l’impianto di Abu Kammash. Anche a Sidra, Haftar ha bombardato due depositi di greggio. È stato difficilissimo estinguere le fiamme, abbiamo anche inviato due petroliere per svuotare i serbatoi ma il generale ha minacciato di bombardarle se si fossero avvicinate. Le perdite in questo ultimo caso sono state di circa un milione di barili. Non nego che ci siano estremisti in Libia, ma nel 2012 siamo riusciti a contenere queste minoranze e a portarle alle elezioni. Le azioni di Haftar adesso stanno facendo sì che questi gruppi radicali allarghino la loro influenza. Quale soluzione per la Libia? Il miglior modo di uscire da questo problema è il dialogo e la negoziazione. Ma Haftar non è altro che un ex generale di Gheddafi; non può essere un fattore positivo per la Libia. E a Tobruk stanno costruendo un’altra Banca Centrale e un altro Ministero del Petrolio. Loro vogliono dividere il Paese. E noi non lo permetteremo.


Geopolitica

l’opinione

CRISI LIBICA, ISIS ATTACCHERÀ L’ITALIA?

MATTEO SALVINI Segretario federale Lega Nord

GIORGIA MELONI Presidente fratelli d’Italia emergenza libica può non essere considerata un’emergenza da chi sta dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. L’Italia invece ha la guerra e il terrorismo alle porte. Non possiamo fermarci di fronte all’immobilismo delle Nazioni Unite. Pertanto credo sia necessario che quantomeno intervenga l’Unione Europea. Può farlo con una missione congiunta nelle coste libiche per fermare l’avanzata dei terroristi. In attesa di una decisione da parte di Bruxelles, è necessario impedire che questi barconi con a bordo migliaia di clandestini partano dalla Libia e dal resto del Nord Africa e arrivino indisturbati sulle nostre coste. Spero che gli jihadisti dello Stato Islamico non arrivino in Italia. L’ISIS però controlla parte delle coste libiche e dunque può fare la selezione di chi deve imbarcarsi e raggiungere il nostro Paese.

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alma e sangue freddo. Non giudico perché di mestiere non faccio il generale. All’estero però siamo impegnati in missioni di pace ormai vecchie e francamente poco funzionali. Avere uomini in 30 Paesi al mondo con un’emergenza come quella libica sotto casa nostra mi sembra un controsenso. Non lo so se i terroristi riusciranno ad arrivare sulle nostre coste. Sicuramente se però continuiamo con la politica del ministro dell’Interno Angelino Alfano il rischio è alto. Il fatto che sulle rotte dei migranti si possano infiltrare degli jihadisti è una possibilità che ormai denunciano i servizi segreti di mezza Europa. Spero che non si piangano lacrime di coccodrillo troppo tardi. Bisogna agire subito interrompendo partenze e sbarchi. Se fossi al posto del premier Matteo Renzi, lo farei da domani mattina.

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l’araba fenice

Sajida Al Rishawi, la terrorista Se le donne prendono le armi. Migranti europee nei battaglioni di Al Baghdadi

di Marta Pranzetti Arabista, laureata in Scienze Politiche, si occupa di analisi strategica (geopolitica e sicurezza) con particolare attenzione ai temi dell’Islam politico, del terrorismo e delle questioni di genere

33:33 IL VERSETTO DEL CORANO SULLE MOGLI DEL PROFETA

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inizio febbraio la Giordania dava annuncio dell’impiccagione nel carcere di Swaqa (80 km a sud di Amman) di Sajida Al Rishawi, la terrorista irachena incarcerata per partecipazione all’attentato del 2005 ad Amman. La sua sentenza di morte è stata emessa in ritorsione alla barbara esecuzione del giovane pilota giordano Mouath Al Kasasbeh, arso vivo dai miliziani dello Stato Islamico. Da Raqqa, capitale siriana del Califfato, infatti, era giunta ad Amman la richiesta di uno scambio di prigionieri: Al Kasasbeh per Al Rishawi. La libertà del giovane pilota, finito nelle mani dello Stato Islamico a fine dicembre dopo un’incursione aerea su Raqqa, in cambio della scarcerazione della nota terrorista detenuta in Giordania dal 2005. Originaria di Ramadi, roccaforte della militanza sunnita della provincia irachena di Anbar, Sajida Al Rishawi era legata al ramo iracheno di Al Qaeda, in quanto moglie prima di Abu Anas al-Urdoni, un giordano membro di Al Qaeda ucciso a Fallujah dagli americani tra il 2003 e il 2004, e poi di Ali al-Shamari, uno dei kamikaze morto suicida nell’attentato al Radisson Hotel di Amman, che costò la vita a una sessantina di persone. Allo stesso attentato aveva preso parte anche Sajida, ma il suo giubbotto esplosivo non funzionò. Una volta catturata, dopo un tentativo di fuga, dichiarò di aver reagito per vendetta: anche i suoi tre fratelli, legati al gruppo militante fondato da Abu Musab Al Zarqawi, erano stati uccisi da militari americani in Iraq. In tutta questa storia di vendette e assassinii, è interessante analizzare dove trae origine la richiesta dello scambio di prigionieri avanzata dallo Stato Islamico alla Giordania. Se inizialmente si era ipotizzato un qualche grado di parentela tra Al Rishawi e membri della leadership di IS che giustificassero la richiesta, si è fatta poi strada un’altra e più accreditata tesi secondo cui l’attentatrice irachena rappresentasse piuttosto una minaccia all’autorità del Califfato. Sajida Al-Rishawi era infatti considerata, a torto o a ragione, un’icona del terrorismo di matrice islamica e avrebbe potuto attirare l’interesse delle tante donne, arabe e non, che si sono schierate a fianco del gruppo jihadista in Siria e Iraq. Inspiegabilmente (ad occhi estranei alle dinamiche veicolate negli ambienti islamisti dallo Stato Islamico) un numero crescente di donne straniere, infatti, si è unito alla causa jihadista. Vengono definite foreign fighters ma sarebbe più corretto chiamarle muhajirat

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donne, società e i tanti volti dell’islaM

che intimidiva il Califfo (dall’arabo “emigranti”) in quanto sono escluse dai combattimenti a tutti gli effetti. Secondo lo studio dell’Institute for Strategic Dialogue “Becoming Mulan. Female Western Migrants to ISIS”, una ricerca pubblicata nel febbraio 2015 che analizza la vita delle straniere che si sono unite al gruppo terroristico grazie ai social media, le donne rivestono un ruolo fondamentale all’interno del Califfato, ma esclusivamente per quanto attiene alle loro mansioni entro le mura domestiche. Come conferma anche il Manifesto delle donne dello Stato Islamico (“Women of the Islamic State”), pubblicato in arabo dalle Brigate femminili Al Khansaa e tradotto in inglese dalla Quilliam Foundation nel gennaio 2015, attenendosi all’interpretazione del versetto coranico 33:33 (sulle mogli del Profeta), una delle principali qualità delle donne dello Stato Islamico sta nella loro dimensione casalinga. Prendersi cura della casa, del marito e dei figli sono i principali incarichi che vengono conferiti a ogni donna (sia essa araba o straniera) che si unisce allo Stato Islamico e ne sposa i dettami. Al Rishawi, al confronto, appariva invece ben più autonoma nei movimenti e soprattutto era attiva sul lato operativo della jihad, che invece ISIS delega esclusivamente agli uomini. In questo senso, la sua figura attentava all’autorità stessa del Califfo. Alcuni analisti avevano addirittura ipotizzato che la ragione dietro alla richiesta di scambio potesse essere quella di volersi impossessare della terrorista per impartirle la “giusta” punizione pubblica o per farla piegare ai voleri della Sharia, così come intesa dallo Stato Islamico e scongiurare il potenziale incoraggiamento femminile a imbracciare le armi, contravvenendo a quanto finora imposto in Siria e Iraq. Se così fosse stato, anche questa mossa sarebbe stata guidata da una pura logica di propaganda, elemento su cui lo Stato Islamico ha dimostrato finora di riporre la massima attenzione.

Il legami di Al Rishawi con i prodromi dello Stato Islamico Jamaat al-Tawhid wa l-Jihad (Gruppo per il Monoteismo e la Jihad), era il nome della rete insurrezionale fondata in Iraq negli anni Novanta dal giordano Abu Musab Al Zarqawi, mentore e padre putativo dell’odierno “Califfo nero” Abu Bakr Al Baghdadi. Quest’organizzazione, fondendosi con Al Qaeda nel 2004, era divenuta “Al Qaeda in Iraq” (AQI) o meglio “Al Qaeda in Mesopotamia” (dall’arabo: Tanzim Qaidat al-Jihad fi Bilad al-Rafidayn), e rappresentava il gruppo precursore di ISIS (Stato Islamico in Iraq e Siria), venuto poi alla ribalta nel conflitto siriano e oggi meglio noto come Stato Islamico o Daesh (dall’acronimo arabo, Dawla al-Islamiya fi al-Iraq wash-Sham).

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PLACES I luoghi meno conosciuti al mondo Gennaio-febbraio 2015

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PARIGI, FRANCIA L’attentato alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo pare destinato a divenire solo un episodio che l’Europa vuole già gettarsi alle spalle.

DEBALTSEVO, UCRAINA Che ormai sia improprio chiamare “Ucraina” la regione di Donestsk lo dimostra la furia dei combattimenti e delle munizioni lasciate sul campo dall’esercito.


GAZA CITY, TERRITORI PALESTINESI Quel che rimane della casa di una famiglia palestinese dopo 50 giorni di bombardamenti israeliani nell’estate 2014, Operazione Protective Edge.

HONK KONG, CINA Passata la stagione delle proteste e degli ombrelli, l’ex colonia inglese festeggia l’anno della capra offrendo doni al tempio di Wong Tai Sin.

NEW DELHI, INDIA Ecco come viaggiano abitualmente i passeggeri indiani per raggiungere New Delhi. Il governo indiano ha promesso investimenti ferroviari per 137 miliardi di dollari.

NABATIYEH, LIBANO Il leader di Hezbollah Sayyed Hasan Nasrallah osserva e protegge il villaggio di Jbaa anche durante il rigido inverno.


Atene e Roma, il possibile tandem anti austerity

econoMia GRECIA Salonicco, il reportage Atene e il ruolo della sinistra europea oggi

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l’Italia deve appoggiare atene in questa battaglia per le politiche espansive e smarcarsi definitivamente dalla tutela tedesca, la cui ricetta austera ha sfibrato l’economia dell’eurozona di Ottorino Restelli

GRECIA n questi anni abbiamo cercato di offrire un racconto della crisi dell’eurozona diverso da quello dei principali quotidiani e media italiani. Abbiamo richiesto il Quantitative Easing (QE) da parte della Banca Centrale Europea (BCE) molto tempo fa, quando ancora molti illustri esperti volevano che ci indebitassimo con la Troika per essere costretti a manovre di austerità ancora più restrittive di quelle che hanno stritolato il Paese. Abbiamo richiesto da subito un piano straordinario d’investimenti pubblici in infrastrutture di rete, energia e innovazione nel manifatturiero, finanziato con un fondo ad hoc garantito dalla Cassa Depositi e Prestiti (CdP) e allocato presso in grandi collettori del risparmio privato: assicurazioni, fondi pensione e casse previdenziali, le cui gestioni finanziarie andrebbero sottoposte a un’indagine parlamentare. Abbiamo ritenuto, in buona compagnia, che una ristrutturazione del debito pubblico greco sarebbe stata sicuramente più sostenibile e meno costosa delle assurde politiche di austerità che hanno condotto la Grecia, dove i poveri

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sono cresciuti al 40% della popolazione totale, in una crisi umanitaria insostenibile. Abbiamo denunciato la socializzazione del rischio delle banche tedesche e francesi che avevano sottoscritto massicciamente il debito greco per gli elevati tassi d’interessi che pagava, a spese di tutti i Paesi dell’eurozona (il fondo salva-Stati) per cui ora l’Italia, le cui banche avevano praticamente un pugno di miliardi di titoli greci, si ritrova esposta verso Atene per oltre 43 miliardi. Le banche tedesche e francesi viceversa erano esposte per oltre 110 miliardi e le rispettive autorità avrebbero avuto molte difficoltà a realizzare interventi di salvataggio, in particolare la Bundesbank che aveva già impiegato 250 miliardi per salvare dal default le casse di risparmio. Abbiamo denunciato l’iniquo processo di concentrazione di ricchezza negli Stati e tra gli Stati realizzato attraverso la finanza, quel processo che ha portato a una crescita inaccettabile delle disuguaglianze sociali che lascia presagire un nuovo medioevo di pochi ricchi e moltitudini di poveri. Questa possibilità è così concreta che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha deciso di impiegare gli ultimi due anni del suo mandato nella lotta alla disuguaglianza economica e sociale, finanziata con oltre 320 miliardi di dollari in 10 anni, e nell’aumento di tasse sui paperoni a stelle e strisce, a cominciare dalla lotta all’elusione e dalla tassa sui capital gain, che si propone di elevare al 28%. Tanto è stato iniquo questo processo di trasferimento netto di ricchezza negli Stati e tra gli Stati che anche il Governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, ha auspicato per la Grecia politiche espansive per evitare all’UE un altro decennio di stagnazione. Carney ha invitato la Germania a essere più solidale, come si è fatto nel Regno Unito, perché la ricerca di un aumento della competitività attraverso la compressione dei costi di

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PADOAN VAROUFAKYS A LORO I DUE PORTAFOGLI FINANZIARI DI ROMA E ATENE

produzione e soprattutto dei salari (svalutazione interna) non produce gli effetti desiderati, come anche il caso della Lettonia dimostra (in Lettonia la svolta si è avuta dopo che il Paese aveva perso il 24% del PIL ed era passato a politiche monetarie e fiscali espansive che avevano fatto crescere la domanda interna). L’opposizione alle politiche di svalutazione interna è così generale ormai che anche il Financial Times ha pubblicato un‘intervista con il professor Michael Pettis in cui si afferma

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LA QUOTA DEI POVERI IN GRECIA

43 miliardi di euro LA QUOTA DI ESPOSIZIONE DI ROMA VERSO ATENE


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che la Germania ha avuto un tasso medio di crescita della produttività dello 0,6% annuo nel periodo 1998-2014, inferiore anche a quello della Grecia, con un prodotto orario per addetto inferiore a quello che aveva nel 2007. Il miracolo tedesco non è dovuto agli investimenti, quanto piuttosto all’alto valore dell’euro, alle produzioni delocalizzate nell’area tedesca extra UE e soprattutto alla mancata dinamica dei salari, vera anomalia dell’eurozona. Date queste premesse, appare più che ragionevole la richiesta del ministro dell’economia greco Yanis Vaurofakis di ristrutturare il debito sostituendo gli oltre 250 miliardi di debiti verso le istituzioni sovranazionali (FMI, BCE e BM), pari all’80% delle passività di Atene, con titoli legati alla crescita del paese (GDPlinked bond o growth bond). La proposta è semplice: si paga un certo interesse quando il Paese raggiunge un tasso minimo di crescita annuo, minore quando la crescita è inferiore a quell’obiettivo, maggiore quando è più elevata. Questa forma di titolo pubblico derivato è stata usata molte volte a partire dagli anni Settanta (Messico) e da altri Paesi sud americani, fino al caso più recente dell’Argentina che, dopo il default, nel 2005 emise titoli legati alla crescita a 30 anni al 5%, se la crescita avesse superato il 3% dal 2015. Le cose andavano bene fino a quando una corte di New York non ha dichiarato illegittima la ristrutturazione del debito e spinto di nuovo l’Argentina verso il default. L’Italia deve appoggiare Atene in questa battaglia e smarcarsi definitivamente dalla tutela franco-tedesca. I francesi, come anche il recente viaggio

infruttuoso a Soci dimostra, sono a rimorchio della Germania e da loro non ci si può attendere nulla di buono. L’Italia deve riconquistarsi una posizione di leader nell’UE e questo può farlo a cominciare dalla tragedia greca e dall’empasse in Ucraina. La Germania è il competitor commerciale principale dell’Italia in Europa e con la Russia i suoi interessi geoL’ITALIA economici sono conPUò ESSERE fliggenti. L’Italia ha LEADER una giovane ministro degli Esteri europeo, è IN EUROPA la seconda manifattura d’Europa, il terzo partner commerciale e quinto fornitore della Russia, inoltre vanta un legame indissolubile con Atene dai tempi della Magna Grecia. L’Italia deve trovare la forza di uscire dal coro e mostrare al mondo quell’astuzia diplomatica e quella capacità economica che l’hanno fatta grande.

SCADENZE il 28 febbraio 2015 scade il programma di aiuti della Troika

GASDOTTO PERSIANO PROPOSTO PER PORTARE IL GAS IRANIANO VERSO L'EUROPA Con la seconda più grande riserva di gas al mondo, l'Iran potrebbe diventare un'alternativa al gas russo per l'Europa. Uno dei progetti proposti, conosciuto come il Gasdotto Persiano, dovrebbe partire da Assaluyeh (Iran), passando attraverso la Turchia, la Grecia e Italia dove si diramerebbe in due direzioni. IRAN

TURCHIA

GRECIA

SVIZZERA

ITALIA

FRANCIA

AUSTRIA

GERMANIA

SPAGNA

GASDOTTI VERSO L’EUROPA IN FASE DI COSTRUZIONE SVIZZERA

AUSTRIA

UNGHERIA

South Stream ITALIA

SERBIA

Capacità: 63 miliardi di metri cubi Mar Nero

BULGARIA ALBANIA

Trans Adriatic Pipeline GRECIA Mar Mediterraneo

RUSSIA

AZERBAIDJAN TURCHIA

Trans Anatolian Pipeline

TAP/TANAP capacità: 16 miliardi di metri cubi

IRAN

fonte: Companies; World energy atlas

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o lasciato la neve di Sofia e trovato una serata quasi primaverile a Salonicco, condita con ouzo e frittura di pesce. Qui mi confermano che Tzipras andrà a Mosca il 9 maggio con il Ministro delle Finanze, avendo accettato l’invito di Putin. Nel frattempo le parti prepareranno una serie di proposte per accordi commerciali ed energetici, e anche pare di natura finanziaria. Il ministro Varoufakis ha dichiarato che non è intenzione del governo greco chiedere aiuti finanziari alla Russia. Ma il 9 maggio è lontano e nei prossimi due mesi molte cose potranno accadere. Qui si respira un’aria pessimista, e i sentimenti antitedeschi sono alle stelle. La gente, quando parla della Merkel, sputa per terra. Hanno paura di lasciare l’euro e l’Europa perché temono di essere comprati da turchi e cinesi, allora meglio i russi. Sono tutti confusi. Quando ricordo loro che hanno fatto errori enormi con insegnanti che andavano in pensione a 45 anni con 1.600 euro di pensione, fanno orecchie da mercante. Con quello che ne è seguito, oggi ogni greco, nascituri compresi, ha un debito consolidato di circa 50 mila euro solo per i prestiti ricevuti. Ma a che serve far firmare a qualcuno cambiali di un importo che non potrà mai pagare? Da Salonicco ad Atene è tutta autostrada per 500 km, percorrendo la E75. Gli amici di Salonicco mi hanno detto di non farla, perché da due giorni hanno alzato il pedaggio da 35 a 60 euro. Così, il movimento di “No pago” qualche sera fa ha attaccato e bruciato alcuni caselli autostradali, anche se non si sa bene dove. Questo movimento è sul modello dell’italiano No Tav, ma con obiettivi diversi: colpisce le strutture che attuano aumenti indiscriminati di tariffe e prezzi. Il viaggio è stato tranquillo. Poche auto, tempo buono, caselli incendiati lungo l’autostrada non se ne sono visti. Forse era qualcuno di quelli esterni di accesso. L’autostrada è in concessione a un consorzio privato spagnolo che ne ha effettuato la costruzione. È sempre una sorpresa arrivare ad Atene da Salonicco. Queste sono le uniche vere città della Grecia, ma appartengono a due mondi diversi. Salonicco è la vera capitale della Macedonia. Partendo da Sofia, voluta da Augusto e in suo onore chiamata Augusta Serdica, si arriva a Salonicco percorrendo la valle del fiume Struma, con le sue strette gole. È da questi luoghi che i pastori guerrieri accorsero al richiamo del loro re ragazzo, Alexandros, partendo alla conquista del mondo, fino alle sponde del Gange. Salonicco è frivola, popolata di giovani universitari, moltissimi fuori corso, afflitti dai costi proibitivi dello studio. È permeata da una sinistra intellettuale, ma un po’ dégagé. È borghese e indaffarata, industriale

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Tempo di raccogli di Vincenzo Perugia


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di iere GRECIA

REPORTAGE DA

SALONICCO EPICENTRO DELLA CRISI

relativamente agli standard greci, cosmopolita, defilata. Qui la crisi si vede meno, pochi i negozi chiusi, nelle strade si trovano serbi turchi bulgari russi israeliani arabi italiani, tutti che trafficano. Il sentimento generale è la paura per il futuro confuso che si appresta e che minaccia di disperdere un certo benessere che vi si respira ancora. È una città senza apparenti contrasti sociali, uniforme e dinamica. Atene è un’altra cosa. Atene è la Grecia. Tutta l’Ellade è racchiusa nel nuovo Raccordo Anulare che la circonda. Atene è popolare e padronale, qui convivono gli armatori e petrolieri evasori con i disoccupati e i manager decaduti, poveri emarginati con i ricchi struttatori. Ma tra tutti, per opposte ragioni, prevale la rabbia. Per questo ha vinto Tzipras. Se Salonicco è confusa e incerta, Atene è arrabbiata e determinata. Una rabbia più forte della paura, ma forse è proprio la rabbia che fa paura. Ovunque ti dicono: “ormai non abbiamo più nulla da perdere, peggio di così non potrà essere”. A un distributore lungo l’autostrada il benzinaio, vista la mia auto bulgara, mi ha detto in bulgaro: “voi bulgari venivate per pochi soldi a lavorare da noi per fare i lavori che nessuno di noi voleva fare, invece quest’estate sono venuto io da voi a Sunny Beach (la Rimini bulgara) a fare il cameriere, perché dovevo pagare le spese mediche di mia moglie. Mah, come tutto cambia”. Quando gli ho detto che ero italiano, mi ha sorriso triste e mi ha detto: “poi toccherà a voi”. Mentre a Salonicco trovi sempre qualcuno che ti propone un affare, ad Atene trovi sempre più persone che ti propongono di scendere in piazza con loro. A me domandano perché gli Italiani se ne stanno a guardare come se quello che succede qui non li riguardasse? Quando gli dico che vivo in Bulgaria, mi guardano incuriositi e mi dicono “i bulgari proprio non li capisco. Stavano tanto bene a fare gli amici dei russi, perché hanno cambiato bandiera, che ci hanno guadagnato a stare con gli americani? Guarda noi fedeli servitori della NATO, ci hanno affamato come cani”. Allora gli parlo della situazione generale: ISIS, terrorismo, immigrazione, crisi economica. Tutti mi rispondono facendo il segno dei soldi. Questi sono gli affari di oggi. Prima si guadagnava commerciando, ora si guadagna seminando la paura, le guerre, i traffici di uomini. Dietro tutto, ci sono i soliti della Grande Mafia. Per la gente della strada questo concetto della Grande Mafia è il luogo comune più gettonato. Racchiude banchieri, trafficanti, criminali, politici, etc. Loro stanno da una parte e il popolo dall’altra. Ma per tutti quelli con cui si parla, Tzipras è il Robin Hood che li ha sfidati. Un po’ la gente comune ha paura per lui e teme che non ce la farà, ma gli è

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grata che li rappresenti e spera che continui a farlo. Anche chi non lo ha votato, in fondo è d’accordo con quello che dice, e nella maggior parte dei casi non lo ha votato solo perché ha pensato che non ce la farà. La signora che pulisce la stanza in albergo, e che parla bene italiano, è insegnante ma arrotonda qui perché ha un figlio che studia medicina a Bologna. Dice che gli costa meno mantenerlo a Bologna che ad Atene. Se escono dall’euro, suo figlio dovrà tornare a casa, forse interrompere gli studi o emigrare. Comunque, lavora anche il marito, fa il tassista, perciò si ritengono fortunati. Mi ha confidato che ha votato Tzipras, ma è sicura che i greci saranno puniti per averlo fatto. Ecco un’altra immanenza per i greci: la Punizione. Sono stati puniti, ma non si sa bene perché. A costoro rispondo che sono stati “puniti” anche per i loro sbagli: hanno permesso corruzione, evasione fiscale, politici inetti, spese fuori controllo, privatizzazioni selvagge, egoismo sociale. Per esempio, i tassisti hanno scioperato perché non volevano gli apparecchi che emettono la ricevuta fiscale (poi mi sono accorto che c’era da mordersi le labbra, perché anche in Italia...). Dicono di noi e loro “una faccia, una razza”. Ad Atene, la tassa sulle piscine la pagano in 500, ma le piscine censite sono 5.000. Per decenni la tassa sulla casa non è stata pagata, con il trucco che non si rifinivano le facciate e si lasciavano i ferri del cemento armato fuori: così, niente abitabilità niente tasse. Ma naturalmente le case, soprattutto le seconde, erano utilizzate da sempre. Tutto vero, mi dicono. Ma in Grecia hanno comandato dieci, forse quindici persone che hanno sempre fatto e disfatto tutto per i loro interessi. Questi sono già al sicuro con tutti i loro soldi all’estero. Allora forse è stato sbagliato lasciarli fare? Esatto, mi rispondono, siamo nella democrazia che noi abbiamo inventato, per questo abbiamo votato Tzipras. Perché questa per noi è una vera rivoluzione. Tzipras non è nulla di tutto quello, non ha nulla a che vedere con il nostro passato, è uno fuori dai giochi. Questo non capite in Europa. Allora chiedo: e gli alleati di destra? Alzano le spalle e mi rispondono che non si può avere tutto, Tzipras è il tentativo pacifico di cambiare. Se fallisce, allora ci sarà da avere paura sul serio. Sorridendo dico: beh, i greci sono mercanti, dunque Tzipras va in Europa e minaccia per ottenere di più. No, mi dicono: “Tzipras non è un commerciante e racconta alla Merkel solo come stanno le cose”. Chiedo del Ministro delle Finanze Varoufakis, lo conoscono in pochi, ma dicono che è un lottatore, uno con la faccia da pugile, che non si farà calpestare dalla Troika come i venduti suoi predecessori, lui è uno pulito. C’è una certa fiducia, forse un po’ ingenua, ma

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GRECIA

REPORTAGE DA

SALONICCO EPICENTRO DELLA CRISI


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in fondo cos’altro si poteva fare? Continuare così sarebbe stato impossibile. Questo è un altro punto importante. Sembra che, rabbia a parte, gli umori siano divisi a metà tra gli ottimisti da una parte, “alla fine l’accordo si trova”, e i pessimisti dall’altra, “si andrà ai materassi”. Pare che prevalgano i pessimisti. Ma in tutti i discorsi non si trova mai rassegnazione. A Piazza Sintagma c’è un presidio permanente dei sindacati e del KKE (Partito Comunista Greco), le facce sono scure. Verso le 19 è arrivato un mio amico professore universitario fuori ruolo che fa parte del presidio, comunista. È pessimista. Dice che Alba Dorata si sta preparando, i capi sono in galera ma gli altri sono pronti, perciò occorre guardarsi le spalle, perché al momento opportuno usciranno fuori e allora le belle parole di Tzipras non basteranno. Quindi, attenti alle provocazioni e a chi semina tensione. Dice che bisogna costruire un grande fronte popolare transnazionale dal Portogallo alla Grecia per cambiare tutto in Europa. Quando chiedo alla gente di Alba Dorata, quasi tutti preferiscono non parlarne. Dicono che sono pochi, organizzati, con molti soldi e che sono solo la punta di un iceberg. Se tra la gente prevale un certo pessimismo, tra la classe politica di Syriza prevale invece un sicuro ottimismo. Sono certi che alla fine con l’Europa troveranno un ragionevole e necessario accordo. Ma la situazione è davvero drammatica. I trasportatori incontrati hanno i mezzi fermi, pagano gli stipendi a pezzi e bocconi, sono pieni di debiti e non pagano le rate dei leasing, sono scoraggiati e temono il peggio. Pare che nelle banche greche i soldi ci siano, ma devono rifinanziare i debiti dei prestiti e mutui della loro clientela, per evitare che il Paese e i suoi abitanti falliscano. Un circolo vizioso. Lo Stato greco deve pagare i propri debiti alla Troika, mentre i greci devono pagare le tasse allo Stato e i propri debiti alle banche. Ma dove prenderanno i soldi, se la crisi economica si mangia tutto? Tutto ciò era ben noto quando tre anni fa furono concessi i prestiti ponte alla Grecia. Tutti sapevano che il prelievo fiscale forzoso sui redditi non avrebbe comunque permesso allo Stato di avere valuta sufficiente per rimborsare i debiti. Allora, si chiedono i greci, perché la Troika ci ha messo in queste condizioni? È vero, abbiamo sbagliato, ma perché ci vogliono annientare? Dicono di averlo fatto per salvare l’euro. Se falliamo ora, lo salveranno?

TRA LA CLASSE POLITICA DI SYRIZA PREVALE L’OTTIMISMO

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LA LUNGA STRADA PER ITACA La sinistra radicale ai tempi di Syriza, dall’ideologia al pragmatismo di Tersite

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i insiste da più parti, nella stampa estera come in quella nazioQUELLA DI nale, nel definire il governo di SYRIZA Syriza come di “sinistra radiNON È UNA cale”, non sapendo bene coBATTAGLIA me maneggiare oggigiorno DI SINISTRA questa vetusta definizione. Forse meglio collocare Syriza nell’ambito di quella Nuova Sinistra nata - in Europa come negli States - dall’abbandono delle categorie ottocentesche della lotta di classe, per calarsi nel XXI secolo in cui è alla prova L’ALTRA SINISTRA IN GRECIA con la resistenza - variegata e trasversale, dai giovani all’intellettualità tecnica, ai membri di comunità locali, precari, disoccupati - contro le derive di un capitalismo che, reso libero da (Sinistra, Movimenti, regole e tabù, applica senza scrupoli l’eugeneEcologia) tica del darwinismo sociale. Da qui le lotte ambientaliste, animaliste, localiste, come quelle più politiche No global o (Comunisti Ecologisti) Occupy Wall Street, tutte diffusesi in virtù dello scambio comunicativo offerto dalla rete globale Internet. Siryza è un agglomerato di queste for(Internazionalisti) ze cresciute con una spinta alla socialità che superasse le strettoie minoritarie e autoreferenziali che hanno fatto della Grecia l’ultimo Paese (Scisso dal Partito europeo in cui ha operato il terrorismo comuComunista) nista con la 17 Novembre, e dove ha poi attecchito quello anarchico delle Cellule di fuoco. Messa in soffitta l’ideologia del comunismo, che forniva già pronte strategia e tattica, occor(Organizzazione reva inventarsi giorno per giorno, nell’orizzondi Manolis Glezos) te dato, la strada su cui camminare per conquistare un risultato concreto. Dove non c’è ideologia, c’è pragmatismo. Il risultato è oggi

S

che il programma di governo di questa “sinistra radicale” non è poi così tanto radicale. Non prevede nazionalizzazioni, ad esempio. Non solo quella annunciata delle banche, ma neanche della Banca Centrale. Non sono più presenti l’uscita dalla NATO, il ritiro di tutte le truppe americane, come anche il ritiro di quelle greche dall’Afghanistan e dall’Iraq. Neanche il taglio delle spese militari o l’abolizione dei privilegi della Chiesa Ortodossa.

l’attUale foRza dIRompente deglI obIettIVI eConomICI Con la vittoria elettorale, Syriza ha messo da parte il massimalismo, malattia infantile del radicalismo. Ora il suo programma è concentrato su concreti obiettivi economici, e suo punto centrale è la ridiscussione del debito. Una ridiscussione politica, non tecnica, con i “killer economici” della Troika. Tsipras ha capito che questa è la battaglia centrale, attorno alla quale potranno semmai poi ruotare tutte le altre, accantonate per non offrire sponda ad attacchi che la mettano a rischio. Una battaglia che non è poi neanche tanto di sinistra. Se lo fosse, allora Obama sarebbe un comunista picconatore: “Quando hai una economia che è in caduta libera ci deve essere una strategia di crescita, e non semplicemente il tentativo di spremere sempre di più una popolazione che è sempre più rovinata”. Dato che Obama non lo è, quella di Syriza non è una battaglia di per sé di sinistra, o destabilizzante, come alcuni hanno interessatamente avanzato. Lo scontro è tra i due diversi modi di affrontare la crisi del 2008, che ha poi messo in ginocchio i Paesi europei maggiormente esposti alla RISULTATI ELETTORALI IN GRECIA speculazione o con più alto debito (PIIGS). Da una parte, il modello tedesco basato sulla regolazione dei conti tramite tagli di spesa e salari e Sinistra Destra aumento delle tasse. Dall’altra, il modello che vede nella ripresa della Syriza Radical RIVER PASOK New Independent Golden crescita l’unico modo per ripianare i Left Coalition Democracy Greeks Dawn conti, dato che l’austerity comprime i consumi, e quindi la crescita, e 149 17 13 76 13 17 quindi le tasse, e quindi aumenta il debito, in un circolo vizioso. CosicTOTAL 300 SEATS ché, 1 euro di austerità produce solo 0,4 euro di riduzione del deficit.

SYNASPISMOS AKOA DEA

KEDA

CITTADINI ATTIVI

Communist Party

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fonte: ministry of Interior of greece

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la battaglIa polItICo-fInanzIaRIa sUll’eURopa La Germania è per l’austerity. A questa prospettiva si oppongono in prima linea l’Inghilterra (che mal digerisce ovviamente un’Europa dominata dalla Germania) e ora anche la Banca Centrale Europea. Poi si sono aggiunte, in una ristabilita alleanza anti-germanica, la Francia e l’Italia, entrambe cooptate dagli inglesi. Cioè dai banchieri della City da cui, ancora prima delle elezioni, si era recato in visita Tsipras. Chiaro l’intervento di Mark Carney, Governatore della Banca di Inghilterra nonché del Financial Stability Board del G-20, sulla necessità di rafforzare l’Europa con strumenti comuni in grado di ammortizzare le perdite, per non caricarle sul singolo Paese soggetto a una scossa localizzata. Sia Mario Draghi che Carney (ma non solo loro) sono uomini della Goldman Sachs, ovvero la più potente banca d’affari mondiale che ha dato numerosi ministri del Tesoro agli Stati Uniti, e non solo a loro, ed è cassaforte di governi, multinazionali e loro board. Anche i vertici della Goldman Sachs hanno aspramente criticato l’austerity. La complessa battaglia geopolitico-finanziaria è allora tra un pezzo d’Europa - più BCE, Wall Street e la City - contro la corazzata Germania-BundesBank. Ed è una Bismarck, non una corazzata tascabile Graf von Spee. soCIalIsmo o sfasCIsmo? La piccola Grecia è oggi determinante pedina nella battaglia sulla guida dell’Europa. La sua ribellione alla Troika, e la sua richiesta di discussione sul debito, hanno spiazzato la Germania, proponendo una configurazione politica della Comunità opposta a quella grettamente fondata sulla forza incontrovertibile dei conti. In piena coincidenza con la tradizione omerica, la Grecia è oggi un cavallo di Troia in una battaglia epocale per l’Europa. I Paesi che contrastano l’austera leadership tedesca vedono nell’appoggio a Tspiras un tassello per scardinarne la potenza, mentre Tsipras vede in questo scardinamento la possibilità di dare avvio a un’inversione politica di tendenza che favorisca una Nuova Sinistra in tutta l’Europa, per ridisegnarla in senso sociale. O socialista, che dir si voglia. Un disegno che metterebbe fuori gioco le forze delle destre anti-euro, che nulla possono proporre oltre lo sfascio che le porterebbe al potere. Ma che, se Syriza fallisse, avrebbero ulteriore slancio e giustificazione. A cominciare, per quanto concerne la Grecia, dai già forti neonazisti di Alba Dorata.

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Il gRande gIoCo geopolItICo ContInentale Ma la partita è ancora più epocale perché la posizione geografica pone la Grecia come il ponte tra Europa e Oriente. Il porto del Pireo, già per metà cinese, è hub per lo smistamento in Europa delle merci in arrivo attraverso Suez. Se nel prossimo futuro la Grecia sarà anche sbocco del gasdotto che Russia e Turchia hanno appena messo in cantiere, ne risulterà per l’UE un rilancio della partnership con l’altra metà d’Europa, rappresentato dalla Russia. Ne conseguirebbe una spinta verso una soluzione politica della crisi ucraina. Dunque, la piccola 1 EURO Grecia è in questo momento al DI AUSTERITÀ centro di un Grande Gioco geoPRODUCE 0,4 politico e geo-economico, vaDI RIDUZIONE sto e pericoloso e di certo più DEL DEFICIT grande di lei. Tsipras ha annunciato l’opposizione della Grecia alle sanzioni contro la Russia. Potrebbe essere soltanto uno strumento di pressione sulla Germania e, al momento, sarebbe meglio che altro non fosse. Mettere insieme il ridisegno politico della Comunità Europea e le sue alleanze strategiche, infatti, potrebbe segnare la fine dell’esperimento Syriza. Meglio procedere una tappa alla volta. Con la forza e l’astuzia di Ulisse.

GRECIA Prodotto Interno Lordo

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Percentuale anno per anno 0,7%

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Disoccupazione Percentuale anno per anno

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-0,3%

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-1 Q4

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NOV FEB

MAG AGO



do you spread?

La sfida per la leadership industriale tra Italia e Germania Come riposizionare il nostro Paese nel mercato internazionale, partendo dalle sue vocazioni, per ricollocare l’industria e il mercato del lavoro in settori a maggior valore aggiunto di Brian Woods

el mese di marzo prenderà l’avvio il Quantitative Easing (QE) gestito dalla Banca Centrale Europea (BCE) da 60 miliardi di euro mensili per un totale di 1.140 miliardi di euro. Visti gli obiettivi, per ora espressi da un tasso medio d’inflazione nell’UE di almeno il 2% - ma che in seguito, come accaduto per la FED, potrebbero tener conto anche del tasso di disoccupazione - non desterebbe meraviglia una crescita del QE fino a 2.000 miliardi di euro. L’annuncio dell’avvio del QE ha avuto una serie di effetti immediati: riduzione dello spread tra i titoli di stato dei Paesi più indebitati rispetto al bund tedesco, crescita della curva dell’inflazione attesa a cinque anni, riduzione dei tassi sui titoli di nuova emissione, svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, che ha avuto il risultato di posporre l’annunciato aumento dei tassi d’interesse negli USA, decisione che la governatrice della Riserva Federale degli USA (FED), Janet Yellen, ha preso per non gelare la crescita economica a stelle e strisce.

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Tuttavia, pur in questo clima di generale euforia, crescono i dubbi sulla capacità della politica monetaria espansiva adottata dalla BCE di riavviare la crescita economica nel vecchio continente. Non è solo un problema di timing: la crisi è così progredita che questa tardiva cura può rivelarsi inefficace e al più utile a generare qualche nuova bolla sul mercato finanziario. Analizzando, infatti, gli effetti delle politiche monetarie espansive attuate LA da UK e USA, si osserva MANIFATTURA che sono stati i mercati è IL CAMPO azionari, più che quelli IN CUI SI SfIDANO delle obbligazioni e dei ITALIA tassi di cambio, a generaE GERMANIA re impressionanti crescite nelle quotazioni, ma che queste imponenti rivalutazioni si sono trasformate solo in piccola parte in nuovi investimenti reali. Quindi, viene meno la certezza che le politiche monetarie espansive, non supportate da politiche fiscali di spesa pubblica, siano in grado di rompere la spirale recessione-deflazione-recessione in cui è precipitata l’eurozona.


voci dal Mercato Globale

In una recente intervista al Times, sto dell’energia, nello scarso adeguaMark Carney, Governatore della Ban- mento delle infrastrutture che ne preca d’Inghilterra (BoE) e prima ancora giudica la qualità, e infine nella buroGovernatore della banca Centrale del crazia costosa e spesso inutile. La Canada (BoC), pur lodando l’avvio scarsa produttività del lavoro e ancor del QE che risponde al mandato della più dei fattori di produzione sono il ristabilità dei prezzi affidato alla BCE, sultato di investimenti sbagliati e di ha ammonito che queste misure la- gestioni manageriali inadeguate, oltre sciate da sole “sono insufficienti a che dell’assenza di un progetto induevitare il rischio di un altro decennio striale per il Paese. perduto per l’UE”. Criticando i ferrei Questa crisi rappresenta l’opportuparadigmi dell’austerità-rigore e ci- nità per riposizionare l’Italia nel mertando l’esempio del Regno Unito, in cato internazionale, partendo dalle cui la politica fiscale ha consentito di sue vocazioni, ma ricollocandola su suddividere i rischi tra gli individui e settori a maggior valore aggiunto e ad le regioni, Mark Carney ha invitato i alta tecnologia, giacché la competizioPaesi forti e in surplus come la Ger- ne negli altri mercati è persa da temmania a sostenere i Paesi in difficoltà po. Occorre un piano d’investimenti attraverso trasferimenti del gettito di pubblici che riavvii la domanda agtassazione, cioè prestiti gregata e aiuti a ri-orienper investimenti, e a tare le aspettative degli procedere nell’armonizinvestitori e delle famizazione dei sistemi fiscaglie: un piano di investili, perché solo in questo menti pubblici nelle inmodo l’Unione può sofrastrutture di rete, nelpravvivere. l’energia e nel capitale VALORE AGGIUNTO Lo studio Fondazione umano (i tecnici la chiaNELL'INDUSTRIA Edison e Confindustria mano education). Occordi Bergamo, presa in esare un piano d’interventi me la manifattura nelche colpisca le rendite e i l’UE (gennaio 2015), privilegi, a cominciare mette inequivocabilmendalle concessioni e dalle te in evidenza come la licenze per l’uso dei beni leadership nell’industria pubblici, ma che colpisia ancora oggi una quesca anche gli stipendi stione tra l’Italia e la Germania. Nel smisurati dei public servant, sopratconfronto competitivo con i tedeschi, tutto negli enti locali dove oggi avvol’Italia sopravanza per numerosità cati, consulenti e dirigenti percepiscodelle aree a vocazione industriale no stipendi medi da 300.000 euro. (Lombardia, Veneto ed Emilia) ma è Tutto ciò ha prodotto storture ormai in netto ritardo per ciò che riguarda la insostenibili economicamente e ingiupercentuale di valore aggiunto nell’in- stificabili socialmente. dustria, 34% in Italia contro il 60% in Germania, e soprattutto per il valore TROIKA aggiunto per addetto, 60.000 euro in È formata Italia contro 140.000 in Germania. da Commissione Ormai numerosi studi mettono in Europea, Banca evidenza che il vincolo alla crescita Centrale Europea e Fondo Monetario dell’Italia è nell’inadeguatezza del Internazionale management, nella scarsa penetrazione dell’ITC nelle imprese, nell’alto co-

34% Italia 60% Germania

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Le principali manifestazioni di rabbia e dissenso Gli scontri dall’inizio dell’anno

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NAROK, KENYA Proteste Masai per cacciare il governatore Samuel Tunai di Narok County, accusato di acquisizione illegale e mala gestione dei fondi destinati alla riserva naturale.

ISTANBUL, TURCHIA Le bandiere del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) sventolano per dimostrare solidarietà al leader ribelle curdo Abdullah Ocalan, imprigionato sedici anni fa.


SAN CRISTOBAL, VENEZUELA Manifestazione contro il presidente Nicolas Maduro per ricordare l’anniversario delle proteste anti-governative del 2014, in cui morirono 43 studenti.

MANAMA, BAHRAIN A San Valentino, il quarto anniversario delle proteste per ottenere riforme democratiche e sbloccare lo stallo tra governo e opposizioni sciite.

IL CAIRO, EGITTO I violenti scontri tra ultras e forze dell’ordine durante la partita di calcio tra due club locali, Zamalek ed Enppi, avrebbero provocato venti morti, non confermati.

ROMA, ITALIA Più che rabbia, stupidità. I tifosi olandesi del Feyenoord devastano il centro storico della capitale e deturpano il monumento di Pietro Bernini a Piazza di Spagna, noto come “Barcaccia”.


osservatorio sociale Monitoraggio dei principali eventi e fenomeni ribellistici ed eversivi nel nostro Paese

L’antagonismo e il disordine pubblico l periodo intercorso tra la fine del 2014 e l’inizio del nuovo anno dimostra che il movimento antagonista e anarchico italiano è pienamente in grado di operare secondo le linee strategiche definite nella loro produzione ideologica, ma anche di saper agire con un ottimo coordinamento operativo a livello regionale e nazionale. Ne siano esempio gli attentati alle linee ferroviarie nelle giornate prenatalizie che, oltre a creare gravi problemi al traffico, hanno evidenziato una regia tra i vari “nuclei di fuoco” anarchici. Il movimento sarà ancora in grado, nel prossimo futuro, di creare problemi a livello di ordine pubblico, e di avviare ulteriori campagne sul fronte NoTAV e sugli altri fronti frutto delle loro tesi ideologiche: energia, banche, difesa dell’ambiente, lotta alla “repressione”. Gli scontri tra anarchici e neofascisti di Casapound e i risultati dell’inchiesta del ROS dei Carabinieri sulla formazione di estrema destra “Avanguardia ordinovista” dimostrano, inoltre, che la sicurezza pubblica italiana potrebbe doversi occupare presto anche di queste nuove formazioni eversive di matrice neofascista. Con il terrorismo internazionale “alle porte”, inoltre, la situazione per le Forze dell’Ordine si complica ulteriormente e gli sforzi degli operatori della sicurezza, così come oggi, potrebbero non bastare a trattare adeguatamente i numerosi dossier.

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ROMA-FEYENOORD Il monumento di Pietro Bernini a Piazza di Spagna deturpato dagli Hooligans, simbolo di una sicurezza che manca

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TIMELINE DEGLI EVENTI 18 dicembre TORINO-MILANO Tentativo NoTav d’incendio dei cunicoli postali sulla linea Torino-Milano al km 98. 21 dicembre ROVEZZANO (FI) Sulla direttissima Roma-Firenze, un ordigno incendiario ha danneggiato un pozzetto elettrico, bloccando per diverse ore il traffico. 23 dicembre BOLOGNA Alle porte della città sono stati sabotati col fuoco 4 pozzetti elettrici della linea dell’Alta velocità. 8-9 gennaio TRENTO Distrutti Bancomat e vetrate di numerose banche in solidarietà con “i compagni arrestati a Barcellona”, anarchici spagnoli. 27 gennaio TORINO Il Tribunale ha condannato a un totale di 147 anni di carcere 47 militanti dei movimenti No TAV per le violenze compiute in Val di Susa nell’estate del 2011. 29 gennaio UDINE Assaltata la sede del PD di via Joppi. L’ingresso è stato imbrattato con scritte molto esplicite: “PD = mafia”, “PD devasta e saccheggia”, “Servi infami”, “la Valle non si arresta”.


copertina DIC-GEN

2014-15 Aggiornato al 5 febbraio 2014

ATTENTATI LETTERE O PACCHI BOMBA

TRENTO UDINE

INCIDENTI DI PIAZZA RAPINE O AGGRESSIONI

MILANO

RISCHI O MINACCE

TORINO INO

ARRESTI BOLOGNA

ROVEZZANO


dietro lo specchio

Previsioni meteo 2015: EUROPA L’Ucraina è oggi, di fatto, un protettorato americano in funzione anti-russa el 1981 gli Stati Uniti erano al collasso: disoccupati +10%, crescita 1%, inflazione, debito. L’opulenza dell’american way of life avviata dalla Seconda Guerra Mondiale, si estingueva nella drastica riduzione di profittabilità degli investimenti industriali. La ricetta neoliberista del presidente Ronald Reagan - agevolazioni fiscali agli alti redditi, deregulation finanziaria, scure sulla spesa sociale - fu integrazione della scelta di fondo di non regolare il debito ma, seguendo la rottura del Gold Standard di Richard Nixon, di ingigantirlo. Da Paese esportatore a importatore. Ricattare il mondo a mantenerne la solvibilità, rimandando indietro montagne di dollari ad alimentare la nuova industria americana: la speculazione finanziaria. La disgregazione industriale e il drenaggio di ricchezza verso l’alto (la favola dei ‘ricchi’ propensi a copiosi consumi e virtuosi investimenti) avrebbero portato fatalmente all’erosione della middle class e, con essa, dell’american way of life. Veniva però a spuntarsi l’arma di propaganda sempre opposta al modello sovietico, la cui economia, benché fallimentare, era indirizzata al benessere sociale. Così nel 1982 - in tandem a Londra con la frantumatrice Margaret Thatcher - Reagan avviò l’esorcismo sull’eclisse del liberalismo, catalizzando l’attenzione sulla Russia: “Il comunismo è un altro triste, bizzarro capitolo della storia umana le cui ultime pagine si stanno scrivendo proprio ora”.

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storie di un Mondo al rovescio

un libro al Mese

PER SAPERNE DI PIÙ dIetRo lo speCChIo - WWW.LOOKOUTNEWS.IT

Pagine che vennero scritte con un sotto condizioni strategiche mutate. forte riarmo: il bombardiere strategico Se al tempo dell’attacco in Serbia non Rockwell B-1, i missili balistici MX poteva opporre resistenza, la Russia Peacekeeper, fino allo “spettro delle di oggi ha una forza e una strategia Guerre Stellari”. E, a supporto l’Arabia (tutela di interessi del Paese e conteniSaudita, con la caduta del prezzo del mento del suprematismo americano a petrolio: 92 dollari al barile nel 1981, danno dei BRICS) che ostacolano il 30 dollari nel 1986. Una doppia spal- dominio globale indispensabile agli lata ad affossare l’ansimante econo- Stati Uniti per rinviare sine die bancamia sovietica. rotta e declino. Crollata l’URSS, sparisce il rivale alL’Ucraina è oggi, di fatto, un protetl’american way of life e alla suprema- torato americano in Europa. Americazia globale degli Stati Uniti, fatto es- ni sono i ventennali finanziamenti ai senziale per imporre al mondo la partiti anti-russi, fino al neonazitassazione che regge l’impero sta Svoboda. Americano l’aldel debito. Una spesa publestimento del putsch di blica stellare (col riarmo Maidan (come involontaCROLLATA di Reagan da 700 a 3miriamente rivelato da VicL’URSS la miliardi di dollari, e toria “Fuck the EU” NuSPARISCE IL RIvALE oggi a 17mila), mentre land), e filo-americano ALL’AMERICAN gli indefessi speculatori un presidente che nei WAy Of LIfE di City e Wall Street hancablo riservati inviati alla no creato un debito vaganCasa Bianca è descritto cote per il mondo ben oltre i me “our insider Ukraine”. 600mila miliardi in derivati del Americani sono poi i due mini2008. Franata la forza economica, la stri economici e i business della famisupremazia richiede debito, e il debito glia del vicepresidente. Americani anrichiede supremazia. Chiudendo così cora l’addestramento e le ingenti forl’anello di guerra del new american niture all’esercito, e sotto il loro concentury. trollo sono le unità di contractor che L’assaggio del nuovo dominio arriva uccidono europei a pagamento. con l’Operazione NATO Allied Force, il Con la risoluzione 758 della Cameprimo attacco a uno stato sovrano eu- ra, gli Stati Uniti hanno praticamente ropeo contro un Paese, la Serbia, con dichiarato guerra alla Russia. Non saun presidente eletto ma comunista e rà il timoroso e disarmonico questuaalleato della Russia. Un attacco senza re dei sudditi europei a farli desistere. mandato ONU e senza minaccia ai Non hanno mollato l’URSS fino al suo Paesi che la NATO tutelava. crollo, non molleranno oggi l’Ucraina, Le guerre americane contro gli “Assi finché non avranno ottenuto la caduta del Male” si conoscono. E quella in di Vladimir Putin e l’accondiscendenUcraina è un ritorno in piena Europa za russa ai loro diktat strategici.

Il CalIffato del teRRoRe di Maurizio Molinari Rizzoli - 2015 pp. 160 - 18,00 euro hi è il Califfo Abu Bakr al Baghdadi e chi finanzia le sue milizie? Lo Stato Islamico rappresenta una minaccia reale per l’Italia? Il giornalista Maurizio Molinari, corrispondente da Gerusalemme per La Stampa, analizza il fenomeno Stato Islamico in un libro uscito da poco per Rizzoli, Il Califfato del terrore. “Il Califfo Abu Bakr al Baghdadi - spiega Molinari - intende creare uno Stato totalitario jihadista sul territorio occupato dall’Islam delle origini, al tempo di Maometto. Attualmente ha un patrimonio di circa 3 miliardi di dollari e un bilancio annuale in attivo di quasi 250 milioni di dollari grazie alle ingenti donazioni private in arrivo dai Paesi del Golfo e alla vendita di greggio. Il suo intento è stravolgere la mappa del Medio Oriente che conosciamo per sostituire gli Stati esistenti con un Califfato panislamico”. L’avanzata di ISIS in Libia pone degli interrogativi sulla tenuta della sicurezza anche in Italia. “Se ISIS dovesse riuscire ad espandere il controllo anche sulla Libia, ci troveremmo esposti a incursioni terroristiche e ondate di profughi come già in parte sta avvenendo. Nessun Paese è, a priori, pronto ad affrontare tali minacce ma quando iniziano a manifestarsi è bene prenderle sul serio e iniziare a ragionare sulle opportune contromisure”.

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