Lookout News Magazine n. 19 novembre-dicembre 2015

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NUMERO SPECIALE La cronaca di una difficile sfida geopolitica

L’ANNO DEL TERRORISMO Le incognite per il 2016 e l’impegno dell’Italia nella lotta contro le minacce esterne

anno III - n. 19 novembre-dicembre 2015 |

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L’ANNO CHE STA ARRIVANDO DI MARIO MORI

ossiamo considerare il 2015 l’anno della paura, spesso gonfiata ma comunque presente. Il fenomeno ISIS, che indubbiamente merita la prima pagina immaginaria di qualsiasi giornale, è un fenomeno serio, pericoloso ma molto sopravvalutato, grazie a una strategia mediatica molto accorta che, almeno all’inizio, ci ha abbindolato tutti. In poco più di un anno l’ISIS più che porzioni di territorio strategico ha conquistato YouTube, con le sue immagini truculente e accuratamente sceneggiate di sangue e di teste tagliate. Guardando all’anno che verrà, dobbiamo provare a rimettere il fenomeno ISIS nei suoi giusti confini, religiosi, politici e geografici. L’ISIS nasce da un nucleo iracheno di ex dirigenti del regime baathista di Hussein che si sono organizzati per combattere il predominio sciita nell’Iraq del dopo Saddam e tentare di sfruttare la guerra civile siriana per conquistare consensi all’interno del grande confronto che oppone gli sciiti e i sunniti. Forse, se non avessero conquistato il web, gli schermi televisivi e le prime pagine dei giornali con le loro esibizioni di morte, i guerriglieri dello Stato Islamico non sarebbero diventati i protagonisti della geopolitica dell’anno appena conclusosi (i militanti di Jabhat Al Nusra, che da più anni dei miliziani di Al Baghdadi combattono in Siria, ad esempio, sono pressoché sconosciuti all’opinione pubblica occidentale). Il Califfato è addirittura riuscito, grazie a un fenomeno di terrorismo emulativo che si è diffuso in Europa, a dare

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L’editoriaLe

l’idea di essere un movimento globale e transnazionale. Nulla di più sbagliato. L’ISIS è un fenomeno tutto interno al mondo islamico, che si poggia su un numero di combattenti che non raggiungono le centomila unità e che potrebbe essere spazzato via in poche settimane, se solo l’Occidente volesse uscire dalle sue paralizzanti ambiguità. Un’America condotta da un nuovo “re tentenna” e un’Europa incapace di darsi una linea di geopolitica ancorata alla realtà, hanno però lasciato crescere il fenomeno ISIS e consentito così all’avversario Vladimir Putin di conquistare il ruolo di unico difensore dei nostri interessi in Siria. L’anno che verrà dovrà sciogliere tali problemi e contraddizioni. L’eliminazione dell’ISIS è certamente una priorità che va perseguita con lungimiranza politica e con adeguati mezzi militari. La lungimiranza politica è necessaria per comprendere che, per eliminare il pericolo comune occorre prendere atto del ruolo che la Russia di Putin si è conquistata sul nuovo scenario internazionale. Gli adeguati mezzi militari debbono invece essere messi in campo solo dopo che saranno chiarite le coordinate strategiche di un nuovo intervento in Medio Oriente. L’esperienza tragica dell’Iraq insegna, infatti, che gli USA e i loro alleati sono bravissimi a fare le guerre ma poi si dimostrano totalmente incapaci di gestire i dopoguerra. Se dobbiamo intervenire, pensiamo prima al dopoguerra e poi agli strumenti per raggiungerlo. Se il 2015 è stato l’anno della confusione, speriamo dunque che l’anno che verrà sia quello della razionalità.


La vignetta

“siria-iraq: la coalizione contro lo stato islamico�

tratto da: Pat B agl ey, Salt Lake T ri bune


FACES Parigi ferita al cuore

14 novembre Se avessimo dovuto mettere un volto immagine per il 2015, avremmo dovuto inserire il califfo Abu Bakr Al-Baghdadi. Il leader dello Stato Islamico per poco non è comparso sulla copertina della persona dell’anno 2015 di Time magazine, dove invece è finita Angela Merkel. Ma il Califfo è comunque al secondo posto della prestigiosa classifica del Time, mentre al terzo si è piazzato l’esponente del partito repubblicano americano, Donald Trump. Al Baghdadi ha davvero segnato in negativo il corso degli avvenimenti geopolitici di quest’anno. Uno di quelli che avremmo voluto non dover incorniciare in copertina. Per tale motivo l’unico volto possibile per questa rubrica era quello del dolore dei parigini il giorno dopo la strage.

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numero speciaLe T E R R O R I S M O

Staffan de Mistura, inviato ONU per la crisi siriana, delinea un calendario che prevede nuovi incontri al vertice per l’avvio dei primi negoziati. Intanto, sono ancora le armi a decidere

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SIRIA 2016 PROSPETTI DIPLOMAZI


6 IVE E RUOLO DELLA IA INTERNAZIONALE

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n futuro prossimo molto fosco per la Siria. È lo stesso inviato delle Nazioni Unite per la crisi siriana, Staffan de Mistura, a dichiararlo: “Ora dobbiamo aspettarci rifiuti, boicottaggi, accelerazioni del conflitto e gravi atti di violenza, per posizionarsi prima del cessate il fuoco. Ci saranno momenti nel futuro immediato in cui tutto sembrerà di nuovo perso. Bisognerà capire che ciò non rappresenta la fine del negoziato, e mantenere la pressione per sostenerlo” ha affermato in merito il diplomatico italo-svedese. Il che significa almeno un altro mese di guerra intensa e nuovi giri d’incontri internazionali a Ginevra, prima di poter affermare che esiste la possibilità effettiva di una soluzione politica per mettere fine alla guerra. Nelle parole dell’ex ministro degli Esteri italiano, tuttavia, sembra di leggere anche la volontà di mettere le mani avanti rispetto al sostanziale stallo - guai a parlare di fallimento in gergo diplomatico - dei negoziati. E ciò non è dovuto soltanto all’inconciliabilità delle posizioni tra chi sostiene a ogni costo il presidente siriano Bashar Al Assad, come la Russia e l’Iran, e chi invece pretende la sua destituzione, come gli Stati Uniti e suoi alleati. Il punto è che la guerra sta conoscendo un’evoluzione tale da non poter consentire alle rispettive parti in causa di sigillare così come sono adesso i nuovi confini ricavati manu militari dalle fazioni in lotta. La fotografia di oggi, infatti, mostra un paese dove i governativi di Assad non hanno il pieno controllo di Aleppo né della sua regione, ma solo di Damasco. Così come i loro alleati russi hanno il pieno controllo di Latakia ma non della regione di Idlib, minacciata dalle forze ribelli di Jabhat Al Nusra. Peggio ancora la situazione di Raqqa e Deir Ezzor, completamente in mano allo Stato Islamico. Mentre i curdi controllano parte dell’area di Al Hasakah e gli israeliani stanno meditando

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ALLEANZA ISLAMICA CONTRO IL TERRORISMO L’Arabia Saudita ha annunciato la formazione di una coalizione militare composta da 34 Stati per combattere il terrorismo.

Russia UK France

U.S.

Countries in U.S.-led coalitions bombing IS In Syria Australia Bahrain Canada France Jordan Saudi Arabia U.A.E. UK U. S.

In Iraq France Jordan UK U. S.

SYRIA IRAQ

Other countries targeting objectives in Syria or Iraq

Saudi-led Islamic military coalition against terrorism

In Syria Israel Russia Turkey

Bahrain Bangladesh Benin Chad Comoros Djibouti Egypt Gabon Guinea Ivory Coast Kuwait Jordan Lebanon

In Iraq Iran Turkey

Libya Malaysia Maldives Mali Mauritania Morocco Niger Nigeria Pakistan Palestinian territories Qatar Saudi Arabia

Senegal Sierra Leone Somalia Sudan Togo Tunisia Turkey U.A.E. Yemen

Fonte: Reuters; U.S. Department of State; SPA news agency

Quest’articolo è stato pubblicato il 21 DICEMBRE 2015

di mettere in sicurezza il confine naturale del Golan, e l’area di Dara e Al Quneitra, al fine di impedire milizie ostili alla frontiera. In questo complicato mosaico, dove s’inseriscono numerose altre variabili – lo scontro tra sunniti e sciiti, quello tra Turchia e Russia, il ruolo libanese e giordano, la presenza di Hezbollah e Iran, solo per citarne alcuni - la speranza delle Nazioni Unite è allora affidata a un tavolo negoziale, da apparecchiare tra gennaio e febbraio 2016, dove rappresentanti del governo siriano e dell’opposizione possano avviare i passi iniziali per una transizione politica sotto gli auspici dell’ONU. L’agenda, a detta dello stesso De Mistura, è molto ambiziosa: “Governo inclusivo e non settario, tregua, costituzione, elezioni entro 18 mesi. Faremo gli inviti per vederci a Ginevra a fine gennaio. La prima prova sarà verificare quante parti verranno davvero, e parlare di cose concrete». Sorvolando sul fatto che gli inviati delle Nazioni Unite non hanno dimostrato alcun potere per così dire taumaturgico negli ultimi tempi, ciò nondimeno vale la pena fare questo tentativo, se non altro per certificare l’impossibilità di trovare un accordo.


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Sulle iniziative del Palazzo di Vetro pesano ancora moltissimo il fallimento dell’inviato Bernardino Leon in Libia, dove un governo nazionale ancora non si riesce a riunire, ma anche la gestione dello stesso De Mistura nel caso indiano dell’Enrica Lexie e dei due marò. Se dovessimo

dimenticato che questa non si combatte solo in Siria, ma è divampata anche in altre parti del Medio Oriente (Iraq e Yemen su tutti), così come in Africa (Libia ed Egitto, Nigeria e Somalia). Non vanno sottovalutati poi elementi come la presenza crescente della NATO nel Mediterraneo, ufficialmente per tutelare la Turchia e contenere lo scontro con la Russia; il tentativo di creare una sorta di NATO islamica promossa dall’Arabia Saudita con altre trenta nazioni; la persistente difficoltà del governo iracheno di riprendere il nord del territorio e le principali città strappate al controllo di Baghdad dal Califfato; il ruolo dei curdi siriani e iracheni che, pur diversi tra loro, mirano non solo a maggiore autonomia ma alla creazione di uno vero e proprio Stato indipendente. Se l’ONU è il solo e unico argine riconosciuto al grande caos mediorientale, tutto il resto ci precipita in un 2016 dove anche le nazioni più accorte come l’Italia - che a breve sarà ufficialmente presente a nord di Mosul, nel cuore delle linee difensive dello Stato Islamico - vengono trascinate una dopo l’altra in questo grande conflitto che non sembra conoscere fine.

DOBBIAMO ASPETTARCI RIFIUTI, BOICOTTAGGI, ACCELERAZIONI DEL CONFLITTO E GRAVI ATTI DI VIOLENZA

scommettere in base a questi precedenti, perderemmo senz’altro. Il calendario delineato dall’ONU dimostra in ogni caso che la partita diplomatica è tutt’altro che conclusa. Se apparentemente i nodi principali restano la guerra alla Stato Islamico e la rimozione di Bashar Al Assad, non va però

15al potere ANNI PER IL PRESIDENTE SIRIANO BASHAR AL ASSAD

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Terrorismo, cosa fare e come proteggersi L’

Processi e metodologie per affrontare le minacce terroristiche e garantire la sicurezza dei luoghi sensibili, esposti a potenziali attacchi

approccio attraverso modelli dinamici della lotta tra terroristi e strutture di sicurezza ha trovato nei cosiddetti “giochi non cooperativi con informazioni parziali” una qualificata rappresentazione e un’ampia applicazione nel mondo degli operatori della sicurezza. Con questa metodologia, ad esempio, sono state organizzate le vigilanze di alcuni importanti aeroporti, la sicurezza armata sui voli, la difesa degli approdi costieri, la protezione dei trasporti, etc. Abbiamo deciso di offrire qui una semplice raffigurazione di come crediamo possa essere tradotto operativamente tale approccio in alcuni casi specifici che coinvolgono i trasporti strategici di cose e persone e i luoghi eletti come possibile obiettivo da colpire. Questi articoli sono stati pubblicati nel FEBBRAIO 2015

Capitolo 1: AEROPORTI n aeroporto o sistema aeroportuale è il cuore di un network dinamico che connette vettori, passeggeri, visitatori, personale, etc. Allo stesso tempo, un sistema aeroportuale è costituito da un numero finito di sottosistemi che sono in connessione con l’esterno e che si interfacciano tra loro: il sistema di controllo aereo, le piste (runway), la ground handling area, i terminali dei sistemi di trasporto di massa (stazione ferroviaria, stazioni dei pullman, stazioni dei taxi, parcheggi per sosta breve). Ciascun sottosistema è caratterizzato da criticità e

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rischi propri, ma anche da criticità e rischi prodotti dall’interfaccia con altri sotto-sistemi. La definizione di un progetto per un approccio proattivo alla gestione della sicurezza in un sistema aeroportuale inizia con l’identificazione dei rischi (hazard) che rappresentano le maggiori criticità/opportunità (prioritization), in termini di vite umane o danni alle infrastrutture. Al processo d’identificazione delle minacce segue la definizione di un percorso razionale per la minimizzazione/mitigazione dei rischi e, quindi, una valutazione delle performance delle azioni correttive.


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Escludendo le minacce alla sicurezza indotte da eventi accidentali, trasporti di materiali pericolosi, collisioni e simili, ovvero da quegli eventi che possono genericamente essere associati alla gestione strutturale della modalità di trasporto, l’analisi si dovrebbe concentrare sulla riduzione del rischio indotto da specifiche minacce, come gli attacchi terroristici. La riduzione del rischio è la conseguenza di una sua efficiente gestione (risk management) che si basa sulla corretta classificazione, identificazione e assessment del rischio stesso. Seguendo uno schema largamente consolidato, ogni piano di sicurezza deve avere come centro d’interesse la gestione del rischio, che implica:

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l’identificazione delle forme in cui una minaccia strategica può manifestarsi; la determinazione della vulnerabilità del sistema, ovvero la stima dalla probabilità che si realizzi una data conseguenza al verificarsi di un evento o di una sequenza di eventi; l’analisi delle possibili conseguenze associate al verificarsi di un evento.

Un sistema aeroportuale è un sistema facilmente accessibile, affollato e vitale per l’economia di un ogni Paese. Queste generali caratteristiche lo rendono un obiettivo privilegiato delle azioni criminose e terroristiche, che perciò risultano di difficile contrasto e prevenzione. Tuttavia, sulla base dell’analisi degli eventi accaduti e delle policy realizzate, è possibile individuare un processo attraverso cui efficientare (ridurre) il grado di esposizione di un sistema aeroportuale a minacce strategiche. Va comunque ricordato che ogni intervento volto a migliorare la sicurezza ha un trade-off (contropartita) in termini di spesa e delle libertà individuali.

Presunto I miglioramenti delinnesco la sicurezza attiva e usato dai passiva di un sistema terroristi per di trasporto aeroporfar esplodere tuale possono coinvolin volo gere: i processi di sicul’Airbus 321 russo sopra rezza, le tecnologie il Sinai per garantirla e le in(31 ottobre frastrutture. In un con2015) testo cosi definito, le soluzioni possono essere ordinate in grandi categorie sulla base del costo/efficacia:

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TERRORISMO NEI CIELI interventi con costo basso e alta efficacia;

I più grandi disastri aerei dal 1990 ad oggi.

interventi a modesto costo e media efficacia; 1990

interventi a medio costo e medio-alta efficacia; interventi ad alto costo e alta efficacia.

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Una volta caratterizzata la minaccia, si definiscono la vulnerabilità e le possibili conseguenze sul sistema e quindi si determina l’assessment qualitativo e quantitativo del rischio. Dopo aver identificato lo scenario base, si provvede a simulare l’introduzione di provvedimenti atti a eliminare o mitigare le vulnerabilità (miglioramenti introdotti nel sistema) e quindi a definire degli scenari alternativi, la cui preferibilità relativa viene stimata sulla base della combinazione dell’indice di rischio e di valutazioni di costo/efficacia. Infine, rappresentando il progetto di revisione della sicurezza come un processo a più stadi, dapprima si definiscono i caratteri delle minacce strategiche, quindi si determina e applica l’indice che misura il rischio dello scenario considerato, poi si stima il costo/efficacia degli interventi possibili (opzioni alternative) e, infine, si realizza un monitoraggio elaborando una valutazione degli interventi realizzati o programmati. SEGUE

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Oct. 2, 1990 Xiamen airlines Flight 8301 Hijacked plane collided with two aircraft in Guangzhou, China while attempting to land. 128 people were killed in the collision. Sept. 22, 1993 Orbi Georgian Airways Plane shot down by Abkhazian rebels, crashed onto the runway and caught fire. 108 people were killed. Nov. 23, 1996 Ethiopian Airlines Flight 961 Plane hijacked and crash landed in the Indian Ocean. 125 of 175 passengers were killed. Sept. 11, 2001 American Airlines Flight 11 and Flight 77, United Airlines Flight 93 and Flight 175 Al Qaeda terrorists hijacked four jetliners and flew two planes into the Twin Towers in New York, and one to the Pentagon. The fourth aircraft crashed in Pensylvannia. A total of 2,890 people were killed*. Oct. 4, 2001 Siberia Airlines Flight 1812 Plane carrying 78 people was shot down accidentally by a Ukrainian missile strike during a military exercise. July 17, 2014 Malaysia Airlines Flight 17 Plane carrying 298 people onboard is shot down over Ukrainian air space by a Russian-made Buk missile. No survivors. Mar. 24, 2015 Germanwings Flight 9525 Plane carrying 150 people was deliberately brought down into the French Alps by a co-pilot who had suicidal tendencies. No survivors. Oct. 31, 2015 Kogalymavia Flight 9268 Flight carrying 224 people crashed near North Sinai following departure from Egypt’s Sham el-Sheik airport. Britain said a suspected bomb attack likely brought down the plane.

Fonte: Aviation Safety Network

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Capitolo 2: FERROVIE gni intervento di security management in un sistema di trasporto ferroviario ha la finalità di migliorare la sicurezza e l’incolumità dei passeggeri. Entrambi gli aspetti sono determinati dalla tenuta dell’intero sistema ferroviario: rete, stazioni e treni. Escludendo le minacce alla sicurezza e all’incolumità dei passeggeri indotte dal malfunzionamento della rete, da eventi accidentali, trasporti di materiali pericolosi, collisioni, deragliamenti e altro – ovvero di quegli eventi che possono genericamente essere associati alla gestione strutturale della modalità di trasporto – la prevenzione e/o mitigazione delle conseguenze associate al verificarsi di eventi si concentra sul rischio indotto in un sistema ferroviario da attacchi terroristici. Un progetto di gestione strategica sui possibili attacchi terroristici dovrebbe realizzare un’analisi qualitativa e quantitativa del rischio e proporre la revisione del sistema di sicurezza attraverso approssimazioni/interventi la cui priorità sia giustificata anche sulla base di analisi di tipo economico (Analisi di Costo/Efficacia, Rapporto Costo/Efficacia, etc.). Un sistema di trasporto ferroviario è un sistema aperto, facilmente accessibile, affollato e vitale per l’economia di ogni Paese. Queste caratteristiche generali lo rendono obiettivo privilegiato delle azioni criminose e terroristiche, che perciò risultano di difficile contrasto e prevenzione. Tuttavia, sulla base dell’analisi degli eventi accaduti e delle policy realizzate, è possibile individuare un processo attraverso cui migliorare il grado di esposizione. I miglioramenti della sicurezza attiva e passiva di un sistema di trasporto ferroviario possono coinvolgere: i processi di sicurezza (ad esempio la routine e le forme della vigilanza), le tecnologie

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per la sicurezza (come l’uso di telecamere a circuito chiuso o di sensori anti-intrusione) e le infrastrutture (barriere o recinzioni). Al fine di meglio orientare l’analisi si costruisce un modello stilizzato di sistema di trasporto ferroviario che si sviluppa da una stazione principale a una stazione secondaria, attraverso una fermata, e ricomprende anche le aree adiacenti alle stazioni e alle fermate e l’area delle infrastrutture dedicate, sulle quali vengono poi definite e valutate le possibili location di maggiore rischio. Nel modello stilizzato, possono essere analizzate le azioni esercitate dalle minacce strategiche sul sistema di trasporto, in considerazione della natura dei più recenti e importanti attacchi subiti dai sistemi di trasporto ferroviario (Madrid, marzo 2004; Londra, luglio 2005; Mumbai, novembre 2008).

Una volta definita la caratterizzazione delle minacce terroristiche, si possono definire le vulnerabilità e le possibili conseguenze sul sistema e quindi determinare l’assessment qualitativo e quantitativo del rischio. Dopo aver definito l’assessment del rischio, si può quindi simulare l’introduzione di provvedimenti atti a eliminare o mitigare le vulnerabilità (miglioramenti introdotti nel sistema) e valutare i diversi scenari che ne risultano. Un simile progetto di revisione della sicurezza si presenta come un processo a più stadi il cui fine è la valutazione degli interventi realizzati o programmati. SEGUE

LA REVISIONE DEL SISTEMA DI SICUREZZA DEVE AVERE COME PRIORITÀ LE ANALISI DI TIPO ECONOMICO

11/9 2001 L’ATTACCO ALLE TORRI GEMELLE HA PRESO TUTTI ALLA SPROVVISTA

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La sicurezza è una condizione che scaturisce dall’interazione di numerose variabili come prevenzione, repressione, uso di sistemi, caratteristiche socio-economiche del territorio, e può essere teorizzata secondo alcuni principi

Capitolo 3: SICUREZZA a sicurezza è una condizione che scaturisce dall’interazione di numerose variabili quali prevenzione, repressione, uso di sistemi e mezzi di pagamento, localizzazione, caratteristiche socio-economiche del territorio, e altre ancora. Traducendo in un linguaggio formale quest’affermazione, si può affermare che la sicurezza è una variabile che dipende da un elevato numero di caratteristiche. La sicurezza è per sua natura una nozione dinamica, si evolve cioè nel tempo e la sua evoluzione dipende dalle modificazioni che si realizzano nel contesto socio-economico-ambientale che la delimita. Quindi, anche massimizzare la sicurezza, oltre le difficoltà di definizione, implica un’elevata complessità computazionale. Infatti, la combinazione dei diversi attributi che caratterizzano la sicurezza può dar luogo a un numero considerevole di azioni possibili e quindi la scelta del progetto di sicurezza da perseguire può non essere di facile soluzione. La massimizzazione della sicurezza appartiene a una vasta famiglia di problemi che sono caratterizzati

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13 NOVEMBRE 2015 Dopo la strage di gennaio alla redazione di Charlie Hebdo e al supermercato kosher, Parigi è stata nuovamente colpita al cuore. L’attentato ha colto tutti di sorpresa

dall’impossibilità di trovare un algoritmo efficiente che consenta di ottenere una “soluzione esatta”. Un esempio famoso di questa classe di problemi è il “Problema del Venditore Ambulante”: date le coordinate di un certo numero di città, come scegliere il percorso più breve che consenta al venditore di visitare ciascuna città una sola volta? La sicurezza è, come detto, un problema complesso, quindi anche la sua semplice descrizione richiede la raccolta di un numero elevato di dati e la ricerca di relazioni regolari che coinvolgono la combinazione delle variabili indipendenti. Inoltre, la sicurezza è una nozione dinamica e quindi il suo esame implica la capacità di aggiornarne, sulla base di nuove evidenze, la visione (contesto) e i caratteri. Tuttavia, l’esperienza ci dice che persone diverse con uno stesso insieme d’informazioni (database) possono essere colpite da regolarità diverse e quindi scegliere una soluzione piuttosto che un’altra non sulla base dei nuovi dati, ma solo sulla base di una regolarità preferita. Il problema della sicurezza coinvolge non solo difficoltà computazionali, ma anche aspetti strettamente soggettivi, come la percezione del rischio, che conducono a privilegiarne alcuni caratteri, a scapito di altri pure rilevanti. In questa condizione, le tecniche standard di soluzione possono rilevarsi


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di un certo fenomeno, il risultato ri- che possono portare a ottimi locali, ma non globali, soluzioni dipendenti dal sulterebbe tutt’altro che semplice. Tuttavia, anche considerando un sentiero iniziale, soluzioni basate sul computer capace di compiere dieci criterio di semplicità, e altre ancora. Interessanti sono anche le soluzioni milioni di regressioni al secondo, si impiegherebbero oltre ventidue anni che, rifacendosi a metodologie semplificate (regola del pollice, per trovare la soluzione a questrategie semplificate attrasto problema. Inoltre, l’idea verso l’eliminazione di di specificare un metodo NON caratteri e sostituzione che consenta di trovare SERVONO di attributi, etc.), oppula soluzione senza verire richiamandosi a una ficare tutte le possibili SOLUZIONI sorta di coerenza con combinazioni per 13 GLOBALI MA quanto fatto nel passato, delle 100 variabili risulta LOCALI possono condurre a soluinapplicabile per la natuzioni soddisfacenti, anche ra computazionale del prose non esenti da errori sisteblema. Quindi, anche la semmatici. In conclusione, la sicurezza è plice analisi attraverso l’uso di regressioni non condurrebbe a risultati sod- un problema molto delicato e comdisfacenti. In queste condizioni, non plesso che va trattato scientificamenresta quindi che ricorrere ad altre ti- te, non in modo improvvisato e sulpologie di soluzione, come ad esem- l’onda delle reazioni emotive a fatti pio: le soluzioni localmente ottime, che scuotono l’opinione pubblica.

difficilmente applicabili come descritto nel seguente esempio. Immaginiamo di voler indicare quali siano le variabili che meglio spieghino il fenomeno sicurezza. Immaginiamo di aver selezionato un numero relativamente alto, per esempio 100, di possibili determinanti rilevanti nel definire la sicurezza di un certo territorio-attività, e di dover selezionare tra queste 100 le 13 più importanti, cioè quelle che, sulla base delle rilevazioni contenute in un database e la nostra percezione, più contribuiscono a spiegare il comportamento della variabile sicurezza. Esistono diverse metodologie statistiche, caratterizzate da diverso grado di complessità, atte a rappresentare questo problema. Tuttavia anche se si utilizzasse un metodo statistico molto semplice, per esempio la regressione, che consente di verificare la rilevanza delle variabili nella spiegazione

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GLI USA ARMERANNO I DRONI DELL’ITALIA Dal Pentagono arriva l’approvazione per dotare di missili Hellfire e bombe a guida laser e gps i droni Reaper MQ-9 in servizio nell’Aeronautica Militare italiana Questo articolo è stato pubblicato il 5 NOVEMBRE 2015

opo anni di attesa il governo americano ha sbloccato la vendita all’Italia di armamenti per due droni Reaper MQ-9 in servizio nell’Aeronautica Militare italiana. L’annuncio è stato il 4 novembre dal dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. L’accordo, scrive l’agenzia Reuters citando le informazioni fornite dall’Agenzia della Difesa per la Sicurezza e la Cooperazione del Pentagono, ha un valore di 129,6 milioni di dollari e comprende la vendita di 156 missili AGM-114R2 Hellfire II prodotti dalla Lockheed Martin, 20 bombe a guida laser GBU-12 e 30 a guida gps GBU-38. I droni Reaper MQ-9 posseduti dall’Italia sono prodotti dalla società americana General Atomics, hanno un’apertura alare di oltre 20 metri, volano a una velocità superiore ai 400 km/h.

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L’Italia aveva fatto richiesta di questi armamenti agli Stati Uniti nel 2012. La svolta è arrivata nel febbraio scorso. Il Congresso americano ha deciso di venire incontro alle richieste di alcuni dei Paesi alleati, puntando però in realtà soprattutto a un aumento delle esportazioni di armi sofisticate che per anni ha impiegato in maniera quasi esclusiva per le proprie operazioni militari all’estero: in Afghanistan e Pakistan per stanare i talebani, in Yemen per neutralizzare le cellule di AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba), in Iraq e Siria contro qaedisti e Stato Islamico e nel Corno d’Africa contro Al Shabaab. Con questa mossa, gli USA mandano anche un segnale a quelle potenze (Russia, Cina, Corea e GB) pronte a fare concorrenza con loro prototipi ai droni americani. Finora a “beneficiare” delle armi per droni era solo il Regno Unito nel 2007. Adesso c’è anche l’Italia, che ha ottenuto l’approvazione del Congresso in quanto ritenuta da Washington un alleato affidabile. I prossimi clienti

potrebbero essere quegli stessi Paesi che, come l’Italia, hanno acquistato dalla General Atomics droni Reaper MQ-9: Francia, Olanda e Turchia, con quest’ultima che può fare leva sulla concessione agli Stati Uniti delle sue basi aeree al confine con la Siria per i raid aerei contro le postazioni jihadiste. I DRoNI PoSSEDUtI DALL’ItALIA L’Aeronautica Militare italiana dispone al momento di 12 droni. Di questi, 6 sono Reaper MQ-9A armabili, altri 6 Predator MQ-IC A+ non armabili. I droni attualmente decollano dalla base di Sigonella, in provincia di Catania, sistemazione temporanea in attesa che vengano completati i lavori di ristrutturazione della pista dove è operativo il 32esimo Stormo di Amendola, a Foggia. Attualmente la nostra Marina li utilizza per operazioni di intelligence, sorveglianza e acquisizioni di informazioni sensibili su obiettivi da monitorare e colpire. I fronti aperti sono tre: Iraq, dove l’Italia opera nell’ambito della coalizione internazionale guidata dagli USA contro ISIS, e il Mediterraneo, dove il nostro Paese è impegnato per fronteggiare l’emergenza migranti nelle missioni Mare sicuro (nazionale) ed EunavforMed (UE). Per ricevere la consegna delle armi l’Italia dovrà adesso attendere altri 15 giorni, nel corso dei quali i membri del Congresso potranno valutare la possibilità di bloccare l’intesa. Ma è un’eventualità che difficilmente si concretizzerà, considerato che la cooperazione militare con gli USA è consolidata tanto in Siria e Iraq quanto in Afghanistan. Con lo sblocco di questo accordo, adesso Washington potrebbe ottenere un ulteriore aiuto dall’Italia chiedendole di bombardare postazioni dello Stato Islamico dal Kuwait, dove sono pronti a decollare 4 suoi bombardieri Tornado e 2 suoi droni Reaper.

MAPPATURA DEL PERCORSO

I DRONI VOLANO SOTTO I 500 PIEDI

Exelis mini-ADS-B* ground relay stations

Non-FAA or mobile radar and surveillance systems

GLI AEREI VOLANO SOPRA I 500 PIEDI

Existing Exisiting FAA radar Exelis ADS-B* surveillance surveillance system towers

and cockpits

SYMPHONY RANGEVUE

1. I dati e i segnali sono trasmessi dal rispettivo velivolo o drone ai vari sistemi e torri di controllo (surveillance towers). 2. I dati vengono quindi mandati al sistema Symphony. I dati dall’FAA e dalle torri ADS-B vengono inviati anche alle torri di controllo del traffico aereo e alle cabine di comando (cockpits). 3. I piloti a distanza possono tracciare i movimenti e la rotta del drone da un tablet o un laptop. Nota: 500 piedi sono da considerare un’altezza approssimativa. *Automatic Dependent Surveillance-Broadcast

Fonte: Exelis

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Le missioni italiane all’estero Dal Kurdistan iracheno al Libano, dalla Libia al Kosovo: ecco dove sono impegnati i nostri soldati nel mondo

Questo articolo è stato pubblicato il 16 DICEMBRE 2015

Italia allarga il proprio impegno militare in Iraq, dopo gli appelli del governo di Baghad e soprattutto dopo l’incontro a porte chiuse tra il nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il Segretario di Stato Usa, John Kerry. Al termine della riunione romana sulla crisi libica - che ha fatto un passo in avanti ma non decisivo – il governo italiano ha concordato l’invio di altri 450 soldati italiani a difesa dei lavori sulla grande diga di Mosul, infrastruttura centrale per l’intero Iraq, i cui lavori di ristrutturazione sono stati affidati alla ditta italiana Trevi di Cesena.

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PERché LA DIGA DI MoSUL Il collasso della diga in terra, costruita nel 1984 su un letto di roccia idrosolubile e lunga poco più di tre chilometri, è segnalata a rischio di collasso già dal 2007. Definita “la diga più pericolosa al mondo” dal genio militare USA, il suo cedimento strutturale libererebbe “otto miliardi di metri cubi d’acqua del lago retrostante, provocando

un’onda gigante (circa 20 metri) che sommergerebbe Mosul – una città di 1,7 milioni di abitanti situata circa 32 chilometri a valle – e provocherebbe inondazioni lungo tutto il fiume Tigri fino alla stessa Baghdad” secondo un rapporto del US Army Corps of Engineers.

MATTEO RENZI Il Presidente del Consiglio non vuole “inseguire le bombe degli altri” ovvero approntare operazioni militari all’estero seguendo il modello di Francia e Regno Unito

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ASIA ltre alla missione tra India e Pakistan UNMOGIP (United Nations Military Observer Group in India and Pakistan), istituita nel 1949 per supervisionare il cessate-il-fuoco tra Pakistan e India nello Stato di Jammu e Kashmir, in Asia Centrale il ministero della Difesa ha dispiegato militari in Afghanistan. Qui il nostro Paese ha impiegato sinora il suo contingente più numeroso, sebbene alla fine nel 2014 sia iniziato il lento ritiro del contingente ISAF della NATO. In Afghanistan sono stati già chiusi i PRT (Provincial Reconstruction Team) e diversi avamposti FOB (Forward Operating Base), tra cui la FOB Ice in Gulistan e Dimonios a Farah. L’ultima a essere dismessa nel novembre 2013 è stata la FOB Tobruk a Bala Baluk, in uno dei distretti in cui l’intensità degli scontri con i talebani si è fatta sentire più che altrove. Anche Camp Arena, ad Herat, è in fase di smobilitazione. Qui in questo momento si trovano ancora più di 500 soldati italiani, di cui una settantina svolgono compiti di addestramento delle forze di sicurezza afghane nell’ambito della nuova missione Resolute Support, subentrata all’inizio del 2015 a ISAF (International Security Assistance Force). L’Italia ha accolto la richiesta degli Stati Uniti di mantenere ancora per alcuni mesi le proprie truppe in Afghanistan oltre il termine previsto dell’ottobre 2015, mentre gli Stati Uniti porteranno avanti la missione almeno fino a tutto il 2016.

O

AFRICA Italia è presente nel Corno d’Africa con EUCAP NESTOR (European Union Regional Maritime Capacity Building for the Horn of Africa and the Western Indian Ocean); in Somalia con la missione europea di addestramento (EUTM), assegnata lo scorso febbraio al comando italiano del Generale Massimo Mingiardi, e con quella italiana di addestramento delle forze di polizia (MIADIT); nel Darfur con UNAMID (African Union/United Nations Hybrid operation in Darfur); in Mali con MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission) e con la più recente EUTM (European Union Training Mission); in Sud Sudan con UNMISS (United Nations Mission in South Sudan); in Niger con EUCAP Sahel e in Repubblica Centrafricana con la più recente missione EUFOR. In Marocco, da 1991 l’Italia è presente invece con la missione MINURSO (United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara). Dal 2008 la nostra Marina partecipa anche alle operazioni Atalanta (UE) e Ocean Shield (NATO) per contrastare la pirateria al largo delle coste somale, in aggiunta alla EUTM Somalia, che però ha sede in Uganda. In Nord Africa, oltre alla missione in Marocco, l’Italia è presente anche in Egitto con l’MFO (Multinational Force and Observers) istituita nel 1978 nel Sinai per supervisionare il mantenimento della pace tra Egitto e Israele. Una particolarità è rappresentata poi dal contributo delle forze armate italiane per il controllo del valico di Rafah, uno dei principali e più critici punti di confine e di accesso tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, dove c’è un solo militare italiano nella missione di assistenza alle autorità palestinesi nella gestione del traffico del valico (EUBAM Rafah). I nostri militari sono inoltre operativi in Libia e in Egitto con la missione dell’Unione Europea di Assistenza alle Frontiere (EUBAM).

L’

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1.200 SOLDATI

IMPEGNATI OGGI IN IRAQ

1.100 SOLDATI IMPEGNATI OGGI IN LIBANO


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EUROPA ei Balcani sono in corso diverse missioni, risultato della riorganizzazione e ridimensionamento delle forze NATO, che a partire dal 2003 è stata sostituita dall’UE in alcuni compiti (soprattutto di polizia, monitoraggio e consulenza). In Bosnia Herzegovina opera la European Union Force ALTHEA (che succede alle missioni NATO SFOR e IFOR). In Kosovo sono presenti EULEX (European Union Rule of Law Mission in Kosovo) e KFOR – Joint Enterprise della NATO. Nei Balcani occidentali e in Georgia è attiva la Missione di Monitoraggio dell’Unione Europea (EUMM) che contribuisce alla normalizzazione dell’area. A Cipro opera dal 1964 la UNFICYP (United Nations Peacekeeping force in Cyprus), la cui missione fu modificata nel 1974 dopo il tentato di colpo di Stato da parte dei greco-ciprioti appoggiati da Atene, scatenando l’intervento della Turchia. Il nuovo mandato prevedeva la supervisione del cessateil-fuoco. Qui l’Italia svolge funzioni di polizia. A Malta le nostre forze armate sono presenti con la MICCD (Missione Italiana di Collaborazione nel Campo della Difesa) e nel Mediterraneo con la Active Endeavour con le altre forze navali della NATO.

N

PRIMA PARTHICA La missione militare più costosa all’estero, per la quale sono stati investiti complessivament e 200 milioni di euro nel 2015. Iniziata il 14 ottobre del 2014, quattro mesi dopo la presa di Mosul da parte dello Stato Islamico, ha come obiettivo fornire supporto operativo alle forze di sicurezza irachene, formare i soldati delle forze armate e gli agenti di polizia, contribuire alla messa in sicurezza dei confini nazionali.

MEDIO ORIENTE n Medio Oriente i nostri soldati portano avanti la seconda missione più grande dell’Italia all’estero: UNIFIL in Libano, attualmente sotto il comando italiano. A guidarla è il Generale Luciano Portolano (subentrato al Generale Paolo Serra nel luglio 2014). Obiettivo di UNIFIL è stabilizzare l’area sud del Libano, dove opera Hezbollah e dove il nostro contingente opera in stretto coordinamento con le forze armate libanesi. Sempre in Medio Oriente, l’Italia ha una task force aerea negli Emirati Arabi, un avamposto in Cisgiordania a Hebron (TIPH2), una task force aerea in Iraq e alcuni ufficiali negli avamposti della Middle East - UNTSO (United Nations Truce Supervision Organization). E da oggi, come sopraindicato, con oltre un migliaio di soldati in Iraq tra addestratori e dispositivi di sorveglianza armata. L’Italia guida, inoltre, l'operazione EUNAVFOR MED contro gli scafisti nelle acque del Mediterraneo centrale, con la portaerei Cavour al comando dell'ammiraglio Enrico Credendino.

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PLACES La ricetta italiana per battere il terrore

Roma 14 novembre In questa sala altamente simbolica del Campidoglio a Roma - dove nel 1957 furono firmati i primi trattati europei che diedero vita alla Comunità Economica Europea, preludio della futura UE - il premier Matteo Renzi ha deciso di tenere il suo primo discorso alla nazione dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. La sala è, come noto, decorata con affreschi che ricordano alcuni episodi della storia delle origini di Roma. In questo caso, il combattimento tra gli Orazi e i Curiazi, episodio chiave di una lunga storia che porterà Roma fino a dominare l’intero mondo antico. Nel 2016, anno del Giubileo della Misericordia, sapremo se la ricetta del Presidente del Consiglio contro il terrorismo avrà pagato.

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lmeno 2.500 miliziani stranieri nella sola roccaforte di Sirte, tra i 4 e 5mila in tutta la Libia stando a quanto riferito in una recente intervista da Mohamed Al-Dayri, ministro degli Esteri del governo di Tobruk, ovvero quello riconosciuto dalla comunità internazionale. È questo il numero di combattenti di cui lo Stato Islamico dispone oggi in Libia. La maggior parte di questi miliziani proviene dalla Tunisia, altri arrivano da Algeria, Egitto, Ciad, Niger, Sudan e Yemen, altri ancora sarebbero stati inviati dal gruppo nigeriano Boko Haram, affiliato al Califfato. Un melting pot jihadista, consolidato da centinaia di libici di ritorno dal conflitto in Siria, che sta gradualmente confluendo nelle tre Wilayat, le Province proclamate da ISIS in Libia nelle aree di Tripoli, Barqa (regione della Cirenaica) e nel Fezzan. Movimenti di truppe non casuali, bensì funzionali ad alleggerire i fronti maggiormente bersagliati nelle ultime settimane dai raid di Francia, USA e Russia in Siria e a rafforzare la presenza nelle zone libiche dove ISIS si sta radicando sempre di più, sfruttando il caos generato dai combattimenti tra le varie fazioni, attirando nelle proprie fila miliziani di altri gruppi islamisti e offrendo loro in cambio condizioni d’ingaggio più vantaggiose. Forse gli USA non sono in grado di quantificare la portata di ISIS in Libia, ma le tre parole usate da un loro ufficiale per definire la minaccia in un commento rilasciato al Washington Post sono quantomeno appropriate: “fluid, transnational, opportunistic” ossia fluida, transnazionale e opportunistica.

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LE PRoSPEttIvE E I LIMItI DI ISIS IN LIbIA L’avanzata di ISIS in Libia finora non è stata priva di ostacoli. Il gruppo non sempre è riuscito ad attecchire nei territori conquistati. A Derna, città portuale della Cirenaica che per prima nell’aprile del 2014 si è autoproclamata

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LIBIA, IL MELTING POT JIHADISTA CHE MINACCIA L’EUROPA

Questo articolo è stato pubblicato il 27 NOVEMBRE 2015

A Sirte migliaia di combattenti stranieri sono confluiti nelle milizie del Califfato. Limiti e prospettive di ISIS in Libia affiliata al Califfato con il giuramento di fedeltà del gruppo Majlis Shura Shabab al-Islam (Consiglio della Shura dei giovani islamici), l’ISIS è stato espulso da fazioni jihadiste rivali un anno dopo. La sua presenza è invece ormai consolidata in gran parte delle aree costiere orientali, così come in vaste zone al centro della Libia e in alcuni IL punti del Fezzan. L’obiettivo adesso è tentare di fare breccia a Bengasi, ginepraio islamista dove a conBACINO il potere sono però molte altre milizie. DELLA SIRTE tendersi In questo momento lo Stato Islamico è Sirte, la MINACCIATO città di circa 100mila abitanti che ha dato i natali al DAI colonnello Gheddafi, situata 500 chilometri a est di Tripoli. Questa città rappresenta simbolicamente ciò JIHADISTI che Raqqa costituisce per la Siria. Dopo ripetuti capovolgimenti di fronte nei combattimenti con le brigate di Misurata, a fine agosto nella città è stato proclamato un emirato. I LIMItI DELLo StAto ISLAMIco IN LIbIA Al netto della difficoltà di poter entrare in possesso d’informazioni attendibili sulla situazione a Sirte, dai racconti di chi è riuscito a scappare, emerge l’immagine di una città in cui lo Stato Islamico ha assunto le funzioni di uno Stato,


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imponendo l’adozione estrema della Sharia oltre che nell’ambito religioso anche in quello sociale ed economico: punizioni esemplari nei confronti dei miscredenti, tasse (la “zakat”, uno dei cinque precetti dell’Islam) per i commercianti, divieto di radersi e di fumare il narghilè nei caffè, chiusura delle banche, fine delle attività dei tribunali civili e loro sostituzione con Corti islamiche, separazione tra uomini e donne nelle classi di scuole e università ed eliminazione dai corsi di studi di materie considerate non idonee (psicologia, studi sociali, diritto). Secondo diversi analisti, in questa fase di espansione ISIS è però destinato ad andare incontro a nuove difficoltà, principalmente per due motivi di carattere antropologico e sociale ancor prima che prettamente militare. Rispetto ai contesti di Siria e Iraq, in Libia ISIS non può sfruttare a proprio favore l’odio contro gli sciiti per fare presa sulle popolazioni locali poiché i musulmani libici sono tutti di confessione

2.500

MILIZIANI ISIS NELLA ROCCAFORTE DI SIRTE

5,6 MILIONI LA POPOLAZIONE TOTALE DELLA LIBIA

sunnita. Allo stesso tempo, in Libia è molto forte la componente tribale, che finora ha dimostrato di non essere affatto incline né ad abbracciare la causa dello Stato Islamico né a lasciarsi sottomettere senza combattere. Inoltre, un altro aspetto fondamentale da cui dipenderà la capacità di ISIS di avanzare in Libia è il controllo delle risorse energetiche. In Libia la produzione di petrolio è crollata da 1,6 milioni di barili al giorno che venivano ricavati ai tempi di Gheddafi a 400.000 barili di oggi, ma continua comunque a rappresentare l’unica grande risorsa rimasta al Paese. ISIS punta a prendere il possesso della cosiddetta “Mezzaluna petrolifera” tra Sirte e Bengasi, dove i giacimenti e i terminal sono controllati dal leader ribelle Ibrahim Jadran che ha trovato un accordo con le autorità di Tobruk. Solo impossessandosi delle raffinerie, dunque con la guerra, lo Stato Islamico può sperare di espandersi in questa terra di nessuno.

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opo che il Pentagono ha dichiarato nei giorni scorsi di aver eliminato con un raid aereo Abu Ali Al Anbari – braccio destro del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi – sono seguite prima una smentita e poi la notizia secondo cui oggi il numero due dello Stato Islamico si trova in Libia, dove ha intenzione di espandere la jihad e dove stanno affluendo migliaia di combattenti da tutta l’Africa per rivitalizzare la provincia libica del Califfato. Fonti dell’intelligence USA citate dal New York Times affermano che Al Anbari è arrivato nelle ultime settimane a Sirte insieme ad altri colonnelli iracheni dello Stato Islamico: qui starebbe formando un grande esercito dopo aver imposto la Sharia a Sirte, roccaforte ISIS in Libia. Secondo l’intelligence egiziana, a Sirte sono già attivi tribunali islamici, divieti e pattugliamenti delle strade, esecuzioni pubbliche per fiaccare ogni resistenza. Al contempo, vi sarebbero distribuzioni di cibo e beni di prima necessità, secondo la prassi dell’ISIS quando conquista un territorio. Le operazioni generali sono gestite da Al Anbari stesso con il titolo di Emiro, mentre per le attività ordinarie e la gestione dell’ordine pubblico gli è stato affiancato un Wali, un governatore, di origine saudita di cui non si conosce l’identità. Ma a spaventare sono soprattutto le soldataglie di Boko Haram, i terribili jihadisti nigeriani guidati da Abubakar Shekau che, dopo aver proclamato il Califfato nel Borno (Nigeria del Nord) e seminato morte in Centrafrica, oggi sono arrivati in centinaia in Libia per gestire la sicurezza a Sirte e ingrossare le fila delle armate del Califfo.

D

chI è IL NUMERo UNo DI ISIS IN LIbIA Abu Ali Al Anbari, il cui vero nome è Kazem Rachid al-Jbouri, è un iracheno originario della provincia di Anbar, nonché influente membro della potente tribù Jbouri. Ex funzionario dei servizi iracheni ai tempi di Saddam Hussein e poi uno dei leader di Al Qaeda in Iraq, Al Anbari è stato prima nominato a capo della sicurezza personale del Califfo Al Baghdadi, quindi è stato posto al comando dei servizi segreti dello Stato Islamico, in ragione della sua grande esperienza militare, fino a divenire plenipotenziario in Siria. Veterano delle battaglie di Falluja e Ramadi contro gli americani, il suo ruolo nella grande guerra del Medio Oriente è cresciuto velocemente. L’ascesa di Al Anbari da semplice ufficiale baathista agli alti ranghi della gerarchia ISIS, lo ha catapultato velocemente in posizioni di prestigio fino ad arrivare a sedere al fianco di figure come Izzat Ibrahim al-Douri, ex braccio destro di Saddam (era il “Re di fiori” nelle carte dei militari americani) e leader del partito Baath ora

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Al Anbari, l’uomo del Califfo per espandere la jihad in Libia Il numero due del Califfato si è spostato a Sirte per espandere i possedimenti dello Stato Islamico e ripetere l’esperienza siriana. Contro l’ISIS per adesso solo il generale libico Haftar. Troppo poco Questo articolo è stato pubblicato il 30 NOVEMBRE 2015


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fuorilegge, e Abu Ahmed Al-Alwani, promosso a capo del consiglio militare di ISIS e vicinissimo al Califfo. Con il ferimento di Al Baghdadi nel marzo 2015 a seguito di un bombardamento, si vociferava di un cambio della leadership interna alla catena di comando dello Stato Islamico. Secondo queste indiscrezioni, Abu Ala Al Afri (al secolo Abdul Rahman Mustafa al-Qardashi, iracheno di Tal Afar, provincia di Ninive) era divenuto il successore stesso del Califfo dopo essere subentrato proprio ad Al Anbari quale plenipotenziario in Siria. Oggi scopriamo che invece Al Baghdadi non solo si è ripreso dal ferimento – tra l’altro episodio confermato solo parzialmente – ma controlla direttamente le operazioni di guerra. Sfumata dunque la leadership di Al Afri, anche perché dichiarato morto sotto un bombardamento in una moschea di Mosul (anche in questo caso notizia non confermata), Al Anbari è tornato in auge e ora è stato incaricato di gestire la nuova provincia del Califfato in Libia. Al Anbari deve cioè ripetere la “positiva” esperienza siriana, dove il braccio destro del Califfo è riuscito nella difficile operazione di imporre una forte presenza dello Stato Islamico in gran parte del territorio, facendo di Raqqa una seconda capitale e conquistando e congiungendo le terre sotto il loro controllo tra la Siria e l’Iraq.

A SIRTE SONO GIÀ ATTIVI TRIBUNALI “ ISLAMICI, DIVIETI E PATTUGLIAMENTI

DELLE STRADE, ESECUZIONI PUBBLICHE

LA vERSIoNE DEGLI StAtI UNItI Mentre il Califfo nelle ultime settimane ha perfezionato le proprie mire espansionistiche sulla Libia e puntato sul potenziamento dell’enclave di Sirte, il cui bacino è ricchissimo di petrolio, niente è cambiato nella strategia militare occidentale. Il Pentagono, che assicurava di aver ucciso Al Anbari con un raid lo scorso 13 novembre, ora medita un’ennesima campagna di bombardamenti dall’alto sopra le coste libiche, secondo lo stile ormai consolidato della Difesa USA per risolvere il “problema ISIS”. Ma tanto i caccia così come i droni, da soli non basteranno a

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sconfiggere un nemico come lo Stato Islamico, e la guerra in Siria lo sta dimostrando. Serve una forza alleata affidabile sul terreno, da sostenere dall’alto con offensive aree. Gli indizi per adesso rimandano tutti al generale Khalifa Haftar, figura enigmatica e divisiva nonché espressione del governo di Tobruk, considerato il solo potere legittimo in Libia dalla comunità internazionale. Haftar sinora non è stato in grado di arginare le milizie di Tripoli né i jihadisti dello Stato Islamico ed è riuscito solo a raffreddare i rapporti tra i due governi rivali di Tobruk - di cui è capo delle forze armate - e Tripoli. Ma per adesso bisogna lottare con quel che si ha. E, in Libia, per adesso è Haftar ad avere un vero esercito e a dettare la strategia diplomatica di Tobruk, comprese le ultime accuse di sconfinamenti in acque territoriali libiche rivolte alla marina italiana. Ed è sempre il generale ad avere un ruolo nei traffici di armi che da anni attraversano la Libia per arrivare in Siria e Iraq, nonostante l’embargo internazionale. L’esercito regolare libico agli ordini di Haftar è ben armato ma non molto organizzato e con poca voglia di combattere. È formato da più di 35 brigate, alcune stanziali, altre multiuso. Haftar guidò le truppe libiche nella guerra del Ciad e poi si rifiutò di obbedire all’ordine di Gheddafi di incolpare della sconfitta i suoi stessi soldati. Successivamente, emigrò negli USA, dove prese in affitto una villetta sul fiume Potomac, vicinissima sia alla CIA che al dipartimento di Stato. Il che la dice lunga sui suoi rapporti con Washington. chE FARE IN LIbIA? Se ISIS è arrivata a ramificarsi in maniera così profonda in Libia è certo per il vuoto politico e istituzionale che si è venuto a creare nella fase post-rivoluzionaria. Se i libici non sono in grado di rispondere a questa minaccia da soli, qualcun altro dovrà impedire che, dopo Sirte, in Libia sorgano altre Raqqa e che il Califfato si espanda.

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La supposta immagine di Karami

HASSAN AL KARAMI, L’OPERATIVO DI ISIS IN LIBIA L’uomo di punta per le operazioni sul campo di ISIS a Sirte è Hassan Al Karami, altrimenti noto come “Sceicco Abu Muawiya”. Trent’anni, libico, Al Karami sarebbe stato in Iraq tra il 2006 e il 2007 dove avrebbe conosciuto Abu Musab al Zarqawi, all’epoca leader di AQI (Al Qaeda in Iraq), predecessore del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi e vero ispiratore dello Stato Islamico. Vanta anche un passato in Ansar Al Sharia, come molti altri membri di ISIS in Libia e, come altri libici che si sono affiliati allo Stato Islamico, Karami ha parenti che hanno avuto ruoli di comando ai tempi di Gheddafi. Prima di arrivare a Sirte, dove ha iniziato predicare nelle moschee durante il Ramadan nel 2014 assumendo poi il ruolo di primo piano diventando il Mufti dello Stato Islamico, ha svolto e affinato la sua formazione di predicatore a Bengasi e Derna. Di lui si hanno poche informazioni certe. Pare che il Califfato abbia deciso di affidargli questo importante compito perché ha ricevuto una buona istruzione in una Kkwala, una scuola privata islamica. In un video trasmesso nel 2013 da una tv locale libica, Karami accusa le autorità di Tripoli di aver permesso alle forze speciali USA di catturare Abu Anas al-Libi, esponente di Al Qaeda accusato di aver contribuito all’organizzazione dell’attacco all’ambasciata americana a Nairobi nel 1998. A fine agosto di quest’anno, dopo la soppressione di una sommossa guidata dalla tribù Ferjani, Karami ha annunciato la decapitazione dei rivoltosi e ordinato alle famiglie di Sirte di consegnare le loro figlie per darle in sposa ai combattenti jihadisti. Rispetto a Derna, a Sirte ISIS ha avuto maggiore presa perché ha potuto fare leva sul risentimento di una città gheddafiana, sconfitta e marginalizzata dopo la rivoluzione del 2011. Gli uomini che hanno gestito il potere durante i decenni di dittatura hanno intravisto in ISIS una possibilità di riscatto sociale. Seppur con le dovute differenze, la situazione che lo Stato Islamico ha sfruttato in Libia è per certi aspetti simile a quella dell’Iraq del dopo Saddam Hussein.


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Libia: la corsa al petrolio dello Stato Islamico

Questo articolo è stato pubblicato il 30 NOVEMBRE 2015

ISIS punta a prendere il possesso della “Mezzaluna petrolifera” tra Sirte e Bengasi. Se ci riuscirà potrà continuare a espandersi in Libia

di petrolio e gas, utilizzandone i proventi ottenuto al mercato nero per autofinanziarsi, la situazione in Libia è più complessa. Quel che resta di questa enorme ricchezza, che rappresentava per il Paese il 95% delle sue esportazioni contribuendo al 60% del suo PIL, è infatti oggetto del contendere tra milizie rivali. Su questo fronte ISIS sta avendo non poche difficoltà. Nella maggior parte dei giacimenti situati nel bacino dell’entroterra di Sirte la produzione è stata sospesa e le compagnie che operavano in quest’area (compresi i rami della compagnia di Stato NOC, National Oil Corporation) sono state costrette a ritirarsi. ISIS, che in Libia controlla 250 km di costa da Abugrein a Nawfaliya, punta a prendere il possesso della cosiddetta “Mezzaluna petrolifera” tra Sirte e Bengasi, dove i giacimenti e i terminal sono controllati dal leader ribelle Ibrahim Jadran che ha trovato un accordo con le autorità di Tobruk. E l’ultimo tentativo dello Stato Islamico di prendere il controllo del terminal di greggio di Es Sider, uno dei più importanti insieme a quello di Ras Lanuf in quest’area, è fallito. Secondo il New York Times l’obiettivo è la presa di Ajdabiya, crocevia strategico per l’export di petrolio. La situazione attuale è stata sintetizzata bene da Geoff Porter, esperto di Nord Africa del Centro studi sul terrorismo dell’Accademia militare di West Point, il quale ha parlato di una “sovrabbondanza di gruppi armati” a contendersi le risorse energetiche, riferendosi a quelle decine di brigate o milizie che agiscono autonomamente oppure scelgono di agire per conto di Tripoli o Tobruk. Se ISIS non riuscirà a sfondare anche sul fronte petrolifero, non potrà fare il salto di qualità in Libia.

n aspetto fondamentale da cui dipenderà la capacità di ISIS di avanzare in Libia è il controllo delle risorse energetiche. Nel Paese nordafricano la produzione di petrolio è crollata da 1,6 milioni di barili al giorno che venivano ricavati ai tempi di Gheddafi a 400.000 barili di oggi, ma continua comunque a rappresentare l’unica grande risorsa rimasta al Paese. Rispetto a Siria e Iraq, dove ISIS ha conquistato un numero notevole di giacimenti e impianti di raffinazione

U

LA PRODUZIONE DI PETROLIO Oil/gas field

Oil pipeline

TUNISIA

Refinery

Al Jurf Bouri Zawiya

Mellitah

Misrata

Oil port

Es Sider Islamic State militants attacked the port on Oct. 1 in an escalation of their campaign in the country.

Derna

Shahat Benghazi

Tripoli

Zintan

Closed oil port

Sirte

Ras Lanuf

TRIPOLITANIA

Marsa el Hariga

Mediterranean Sea

Tobruk

Zueitina Marsa el Brega

Ghadames basin

El Feel oilfield

FEZZAN

A LG E R I A

Sirte basin El Sharara oilfield

L I BYA

E G Y PT

Sarir Sarir oilfield

100 miles

CYRENAICA

Murzuq basin

100 km

Note: Zawiya and Zueitina are open, but pipelines to oil fields have been blocked.

PRODUZIONE DI PETROLIO GREZZO LIBICO (In milioni di barili al giorno) 1.5 1.0 Sept. 0.37

0.5 0

2007

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2011

2012

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Fonte: World Energy Atlas; U.S. Energy Information Administration; thomson Reuters

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La Libia, l’ENI e la politica dei “due forni” L’Italia è davvero tornata in prima linea in Libia. La nostra diplomazia ambivalente può più di Francia e USA. Dopo la trilaterale a Roma con Egitto e Algeria, si guarda a un governo di unità nazionale. Intanto, ENI incassa e ringrazia gli islamisti Questo articolo è stato pubblicato il 10 APRILE 2015

di stamani, venerdì 10 aprile 2015, la notizia che il generale libico Khalifa Haftar, comandante in capo delle forze armate del governo di Tobruk, è rimasto ferito in un attentato dinamitardo avvenuto all’alba di mercoledì 8 aprile. La natura delle lesioni, come pure le circostanze dell’attacco, rimangono ancora sconosciute. Tuttavia, alcune fonti indicano che i colpevoli potrebbero trovarsi all’interno delle stesse forze armate. Uno dei nomi che si fanno è quello del colonnello Faraj Barasi, il quale avrebbe “serie divergenze” circa i metodi del generale Haftar. La notizia è preoccupante, dal momento che Haftar rappresenta non solo l’argine al caos jihadista, ma rappresenta anche il governo sostenuto dalla comunità internazionale e lo stesso Egitto dei militari. Una sua scomparsa di scena provocherebbe ulteriore confusione e incertezza sul futuro politico e sul tentativo di formare un governo di unità nazionale, in un momento in cui in Libia si stanno saldando le forze anti-sistema. È sempre di oggi, infatti, la notizia secondo cui Ansar al-Sharia, il principale e più forte gruppo jihadista che controlla Bengasi, avrebbe giurato fedeltà allo Stato Islamico. Il suo leader

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spirituale e militare, Abu Abdullah alLibi, avrebbe diffuso domenica scorsa un messaggio audio, dove egli teorizza la validità giuridica di giurare fedeltà all’ISIS. Tutto questo avviene mentre Italia, Egitto e Algeria lo stesso giorno dell’attentato ad Haftar hanno convenuto di “condividere informazioni” e “intensificare gli sforzi comuni”, per combattere la crescita delle forze terroristiche in Libia e sostenere la proposta delle Nazioni Unite circa la creazione di un governo di LA unità nazionale. La decisioPRODUZIONE ne è stata presa durante una trilaterale a Roma, tra il ministro degli Esteri itaNON SI È MAI liano, Paolo Gentiloni, il FERMATA suo omologo egiziano, Sameh Shoukri, e il ministro algerino per gli Affari Africani del Maghreb, Abdelkader Messahel. Gentiloni ha incontrato separatamente il presidente della Camera dei Rappresentanti libico, Ageela Saleh Gwaider, che era stato invitato a Roma dal Presidente della Camera dei deputati italiana, Laura Boldrini. Ageela Saleh Gwaider, per la cronaca, rappresenta il parlamento e il governo di Tobruk, ovvero le sole istituzioni attualmente titolate a parlare per la Libia e a essere riconosciute dalla comunità

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internazionale. Questo, nonostante la capitale Tripoli sia in mano alla coalizione “Alba Libica”, formata da fazioni islamiste che non riconoscono né il parlamento di Tobruk né il relativo governo che risiede a Beida. IL SoStEGNo EGIzIANo A tobRUK Se Roma propende per lavorare all’ipotesi politica, anche se non è dato sapere come essa si sostanzierà se gli scontri tra milizie non si fermeranno, secondo il presidente Gwaider un governo di unità nazionale che comprenda tutte le forze libiche che hanno respinto il terrorismo “esiste già” e Roma lo deve appoggiare. Il Cairo, ha sostenuto il ministro, non cambierà posizione ed è impegnato a sostenere la Camera dei Rappresentanti (HoR) di Tobruk, finché essa stessa non nominerà un nuovo governo di unità nazionale che l’Egitto accetterà senza troppe storie purché “rappresenti tutte le anime del popolo libico”. Per il ministro algerino Messahel, invece, l’urgenza di pacificare la Libia si coniuga con il pericolo imminente che la sicurezza dell’Algeria venga minacciata dalle frange più estreme del jihadismo islamico. La trilaterale romana ha avuto come esito la decisione di incontrarsi di nuovo al Cairo, in una data da destinarsi. LA SItUAzIoNE PoLItIcA IN LIbIA Dopo che il 31 marzo scorso ben 70 parlamentari del Congresso Nazionale Generale (CNG) e 14 ministri del governo islamista di Tripoli hanno votato a favore della destituzione di Omar Al Hassi dal ruolo di primo ministro, la situazione politica a Tripoli si è surriscaldata. Al Hassi rappresenta gli islamisti di Alba Libica, dunque gli oppositori di Tobruk. La giustificazione ufficiale del voto di sfiducia nei suoi confronti è relativa alle poco convincenti scelte fatte da Al Hassi nei mesi scorsi per sanare la situazione economica della Libia.

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Al rifiuto di Al Hassi di riconoscere la decisione dei parlamentari del CNG, che ha sostenuto di avere dalla sua parte “l’appoggio dei combattenti rivoluzionari”, le istituzioni che egli pur rappresenta hanno comunque affidato il potere nelle mani del vice premier nonché ministro della Difesa, Khalifa Ghwell, con un comunicato ufficiale di Alba Libica nel quale la coalizione islamista approvava l’avvicendamento. Il licenziamento di Al Hassi è stato un tentativo di alcune frange moderate del governo tripolino di avvicinarsi al governo di Tobruk attraverso la mediazione internazionale, per tentare una road map che porti la Libia a un governo di unità nazionale. Al Hassi, in questo, sarebbe stato di ostacolo poiché allineato con le frange più conservatrici e meno inclini al compromesso politico. Tuttavia, anche Khalifa Ghwell è un islamista radicale al pari del suo predecessore. Benché nel suo discorso inaugurale abbia sottolineato che il suo governo continuerà a impegnarsi nel dialogo “rifiutando violenza ed estremismo”, in un’intervista di febbraio aveva definito l’attività di Ansar Al Sharia “accettabile”, in quanto questa organizzazione jihadista combatte contro il Generale Khalifa Haftar, il nemico numero uno degli islamisti tripolini. L’ENI E LA qUEStIoNE EcoNoMIcA Nonostante i pallidi tentativi di conciliazione, il governo di Tobruk non se la passa bene e anzi attraversa una grave crisi di liquidità. Per questa ragione, come scrive Il Foglio, “il presidente del Parlamento eletto ha confermato due giorni fa di aver varato un’ordinanza per aprire un conto in una banca del Golfo (probabilmente negli Emirati Arabi Uniti) dove versare gli introiti derivanti dalla produzione petrolifera entro le prossime due settimane”. Secondo Tobruk, infatti, la Banca centrale libica che ha sede a Tripoli, stante la sua formale neutralità nel conflitto, è sotto pressione e potenzialmente suggestionabile dagli islamisti di Alba Libica che comandano in città. In questo caos, come scrive il Wall Street Journal, l’Italia è rimasto l’unico Paese a mantenere rapporti economici stabili in Libia, pur avendo chiuso l’ambasciata. L’ENI è oggi la sola compagnia petrolifera che riesce ancora a estrarre greggio e gas dal Paese, mentre le principali concorrenti – la francese Total, la spagnola Repsol e l’americana Marathon Oil – sono impossibilitate a svolgere il proprio lavoro. Da notare che la maggior parte degli stabilimenti dove è presente ENI si trovano a ovest della Libia e su piattaforme offshore. Tutte aree sotto il controllo del governo islamista di Tripoli, dove Tobruk – che l’Italia dice di voler sostenere politicamente – non può nulla. La produzione petrolifera di ENI nel 2015 non ha risentito di particolari contraccolpi, è quasi al suo massimo potenziale (quasi 300mila barili estratti ogni giorno) e gli impianti

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petroliferi e il relativo personale sinora sono stati in grado di lavorare in sicurezza. Il che si deve per lo più ad accordi stretti con le milizie locali e a una ben tessuta trama politico-diplomatica che potrebbe costituire la base per assicurare all’Italia di lavorare serenamente anche in futuro. LA ScELtA ItALIANA Dunque, schierarsi definitivamente con il governo di Tobruk potrebbe rivelarsi, sulla carta, controproducente. Al momento, però, la Farnesina e lo stesso premier Matteo Renzi sembrano aver puntato tutto sull’Egitto di Al Sisi, l’unico vero argine alla proliferazione dell’estremismo islamico in Nord Africa nonché grande sponsor di Tobruk. Tuttavia, sappiamo fin troppo bene che uno schieramento non può essere definitivo sino a che in Libia le armi non taceranno (l’attentato al generale Haftar insegna). Il che significa che il nostro governo adotta anche in Libia la politica dei “due forni” già rivelatasi vincente in politica interna. Una scelta che è anche la cifra politica dello stesso Matteo Renzi. Ma la politica estera, è bene ricordarlo, è tutta un’altra storia. E a volte a fare la storia sono le variabili impazzite.


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Gas e sicurezza: perché la Libia è importante per l’Italia ENI scopre gas e condensati a bahr Essalam Sud, a largo delle coste libiche. Intanto il generale haftar annuncia la presa di bengasi e lancia un nuovo appello al nostro Paese

Questo articolo è stato pubblicato il 19 MARZO 2015

aggravarsi della situazione in Nord Africa non ha allontanato ENI dalla Libia. La società italiana ha infatti intercettato un passaggio significativo di gas e condensati (bdp) offshore a Bahr Essalam Sud, a 82 chilometri dalle coste libiche a 22 chilometri dal campo di produzione di Bahr Essalam. In quest’area (denominata Area D) ENI opera attraverso ENI North Africa BV e controlla il 100% delle attività esplorative. La scoperta è avvenuta nel pozzo B1/16-4 a 150 metri di profondità sotto il livello del mare. Dai primi test produttivi è risultato che dal pozzo si possono estrarre al giorno circa 1 milione di metri cubi di gas e oltre 600 barili di condensati. ENI stima che a regime il pozzo sarà in grado di produrre al giorno 1,5 milioni di metri cubi di gas e 1.000 barili di condensato. La vicinanza di questo pozzo alle infrastrutture di Bahr Essalam consentirà un rapido sviluppo delle capacità produttive del pozzo. “Il successo di questa esplorazione scrive Libya Herald citando un comunicato della compagnia - conferma ulteriormente l’enorme potenziale delle risorse di gas della Libia. Il futuro sviluppo di queste risorse consentirà di sostenere la crescita del consumo

L’

BAHR ESSALAM Nell’area opera ENI North Africa

interno e l’industria di questo Paese, permettendo alla Libia di continuare a essere un fornitore strategico per l’Italia e l’Europa”. Presente in Libia dal 1959, dal 2004 ENI concentra le proprie attività nei campi di Wafa e Bahr Essalam, da dove esporta gas destinato al nostro Paese e agli altri mercati europei attraverso il gasdotto Greenstream. Il CEO di ENI, Claudio Descalzi, negli ultimi mesi ha più volte richiamato l’attenzione sul deterioramento delle condizioni di sicurezza nel Paese, ribadendo però che le operazioni sarebbero proseguite regolarmente nei limiti del possibile. Attualmente ENI produce 350.000 barili di olio equivalente al giorno in Libia. Nonostante la guerra civile scoppiata dalla caduta di Gheddafi nel 2011, dal 2009 al 2014 le forniture di gas estratto in Libia sono cresciute da circa 1 miliardo di metri cubi a 4,3 miliardi nel 2014 e a fine 2015 potrebbe toccare quota 6,2 miliardi. Numeri che dimostrano quanto sia importante per il governo italiano mantenere in cima all’agenda della propria politica estera la questione libica. Una necessità dettata dalla ricerca di una soluzione per fronteggiare l’emergenza degli sbarchi dal Nord Africa e per dare continuità a questo trend energetico positivo.

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EGITTO: ENI scopre il più grande giacimento di gas del Mediterraneo Il giacimento offshore ha una capacità di 850 miliardi di metri cubi e potrebbe soddisfare la domanda interna egiziana per i prossimi decenni Gas pipeline Proposed pipeline License blocks

Leviathan

Discovered in December 2010

Nicosia

Holds an estimated 22 trillion cubic feet of gas

Zohr Holds an estimated 30 trillion cubic feet of gas

CYPRUS

SYRIA

LEBANON

Aphrodite gas field

Damascus

IRAQ Tel Aviv Amman Port Said Damietta LNG

Ashkelon Arish

EGYPT 50 miles 50 km

Questo articolo è stato pubblicato il 31 AGOSTO 2015

E

n immenso giacimento di gas offshore situato al largo delle coste egiziane. La scoperta è stata effettuata da ENI nel prospetto esplorativo denominato Zohr. Il pozzo Zohr 1X è situato a 1.450 metri di profondità, nel blocco Shorouk. L’area si estende per 100 chilometri quadrati ed è di competenza al 100% della società

U 34

Homs

Tripoli

Mediterranean Sea Idku LNG

Baniyas

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ISRAEL JORDAN

Taba

SAUDI ARABIA

Aqaba Note: Pipelines are schematic.

energetica italiana, in base a un accordo firmato nel gennaio del 2014 con il ministero del Petrolio e delle Risorse Minerarie egiziano e con la Egyptian Natural Gas Holding Company (EGAS). ENI comunica che, stando alle prime informazioni geologiche e geofisiche raccolte, il potenziale di risorse del giacimento potrebbe arrivare fino a 850 miliardi di metri cubi di gas, corrispondenti a 5,5 miliardi di barili di greggio. Se queste stime dovessero essere confermate dalle

ZOHR La maxiscoperta potrebbe rivelarsi ancora più ingente degli 850 miliardi di metri cubi di gas annunciati: questa è infatti una cifra “conservativa”.


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prossime rilevazioni, la scoperta di gas effettuata da ENI sarebbe una delle più grandi realizzate non solo in Egitto e nel Mar Mediterraneo ma anche a livello mondiale, considerato anche il fatto che la struttura di Zohr potrebbe custodire altre risorse a profondità ancora maggiori. Nell’insieme queste risorse dovrebbe garantire all’Egitto la copertura della sua richiesta di gas naturale per decenni. Soddisfatto l’amministratore delegato di ENI, Claudio De Scalzi, il quale il 30 agosto si è recato nelle scorse ore al Cairo per un vertice con il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, con il primo ministro Ibrahim Mahlab e con il ministro del Petrolio e delle Risorse Minerarie Sherif Ismail. “La strategia che ci ha portato a insistere nella ricerca nelle aree mature di paesi che conosciamo da decenni si è dimostrata vincente – dichiara De Scalzi in una nota pubblicata sul sito di ENI - a riprova che l’Egitto presenta ancora un grande potenziale. Questa scoperta storica sarà in grado di trasformare lo scenario energetico di un intero Paese, che ci accoglie da oltre 60 anni. L’esplorazione si conferma al centro della nostra strategia di crescita: negli ultimi 7 anni abbiamo scoperto 10 miliardi di barili di risorse e 300 milioni negli ultimi sei mesi, confermando così la posizione di ENI al top dell’industria. Questa scoperta assume un valore ancora maggiore poiché fatta in Egitto, paese strategico per Eni, dove possono essere sfruttate importanti sinergie con le istallazioni esistenti permettendoci una rapida messa in produzione”. L’Egitto si conferma dunque per ENI un partner strategico nel Mediterraneo. Attraverso la

controllata IEOC Production BV, ENI opera nel Paese dal 1954. Tra i momenti salienti di questa lunga partnership, vi fu nel 1967 la scoperta di gas nel Campo di Abu Maadi. Negli ultimi tre anni è stata raddoppiata la produzione di petrolio nelle concessioni del Western Desert e di Abu Rudeis nel Golfo di Suez. Inoltre, in seguito alle scoperte effettuate nel prospetto Nidoco NW 2 (Nooros prospect), è stato dato nuovo impulso produttivo nell’onshore del Delta del Nilo. Numeri che fanno oggi di ENI il principale produttore di idrocarburi in Egitto, con una produzione equity di circa 200mila barili di olio equivalente al giorno. L’operazione di ENI è stata accolta positivamente da Matteo Renzi. Il primo ministro italiano da mesi punta con decisione sul rafforzamento delle relazioni economiche con l’Egitto e vede nel presidente Al Sisi l’unico interlocutore a cui l’Occidente può affidarsi nel tentativo di arginare l’avanzata dei gruppi jihadisti in Nord Africa.

L’EGITTO PRESENTA PER NOI “ UN GRANDE POTENZIALE ”

CLAUDIO DESCALZI AD eNI

Sorride, ovviamente, anche l’Egitto. L’enorme quantitativo di risorse scoperto è infatti in grado di coprire la domanda egiziana di gas naturale per decenni. In un Paese in cui quotidianamente si registrano attentati e attacchi terroristici e dove il turismo, per anni l’unica vera fonte di ricchezza, è fortemente limitato per ragioni di sicurezza, dopo mesi di tensione arriva finalmente una buona notizia.

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Dalla Tunisia all’intervento in Libia Il Generale Mario Mori, già comandante dei ROS ed ex direttore del Sisde, commenta i recenti atti di terrorismo, la guerra allo Stato Islamico e l’opportunità di sbarcare in Libia Questo articolo è stato pubblicato il 21 MARZO 2015

Cosa ci racconta l’assalto al museo del Bardo in Tunisia? Qual era il vero obiettivo e quale disegno politico c’è dietro? Siamo di fronte al tentativo di investire con il terrorismo tutta la fascia del Maghreb. Ormai, soltanto il Marocco è rimasto immune da un tentativo recente ascrivibile agli integralisti di destabilizzare l’area. E potrebbe essere questo il prossimo obiettivo dei terroristi. Questa è una fase di diffusione dell’estremismo, e non già un’espansione. Perché l’espansione presuppone una conquista, che non c’è stata. Si dice che gli attentatori si fossero addestrati in Libia… Direi che c’è l’imbarazzo della scelta. Le retrovie degli stati del Maghreb, la fascia desertica che va dall’Atlantico fino al Mar Rosso, è terra di nessuno, dove la possibilità per questi gruppi di creare strutture e zone di addestramento sono infinite. Salvemini

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parlava della Libia come di “uno scatolone di sabbia” e in effetti è così. La possibilità di formare gruppi di assaltatori in questa regione è facilissimo e non è da meno il reclutamento, anche per una semplice ragione. Non dobbiamo scordare che oltre un terzo della popolazione di quest’area ha meno di trent’anni e che buona parte di loro sono senza prospettive professionali, di lavoro. Non sanno come sfamarsi e sono perciò facilmente adescabili da questi gruppi che offrono loro una prospettiva e persino una giustificazione all’esistenza, che altri non sono in grado di dargli. Questo avviene anche in Tunisia, che tutto sommato si è evoluta in modo unico nella storia dei Paesi del Maghreb perché di tutte le primavere arabe è stata non solo la prima ma anche quella che ha resistito a una tornata elettorale, laddove Ennahda (il partito islamista che aveva vinto in precedenza, ndr) ha accettato la sconfitta e si è inserito nel contesto politico del Paese.

L’obiettivo dei terroristi era la Tunisia o l’Occidente? Ho una mia idea precisa su questo. Sono convinto che l’obiettivo fosse tunisino. Che cioè l’attività dello Stato Islamico, o comunque di tutte le altre formazioni integraliste che praticano il salafismo, siano fenomeni di politica interna alla comunità islamica, la Umma. Onestamente, lo Stato Islamico non può certo pensare di attaccare militarmente la Francia o l’Italia, ma può pensare di trovare un suo posizionamento molto importante all’interno del mondo musulmano. Che poi parlino di “guerra ai crociati” fa parte solo della propaganda. La loro vera idea è creare una struttura interna all’Islam, e poi dominare politicamente una parte, se non tutto, il mondo islamico. A questo punto, il pericolo per l’Italia è aumentato? Non credo, è tutto come prima. Bisogna anche precisare che l’Italia non è la Francia o il Regno Unito. Ad


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esempio, da noi non abbiamo fenomeni di radicamento di etnie provenienti dal mondo musulmano così numerose come in Francia, dove sono già alla quarta o quinta generazione e sono ormai cittadini francesi a tutti gli effetti. Siamo perciò ancora in grado, almeno come polizia e come intelligence, di fronteggiare il fenomeno, perché il radicamento del cittadino di provenienza musulmana in Italia è ancora recente. Si tratta per adesso di un corpo “estraneo” che si può dunque controllare, perché non fa parte del contesto italiano. Quando lo diventerà, come già avviene nel Regno unito, in Francia o in Germania e nei Paesi scandinavi, allora il discorso sarà diverso. Veniamo alla Libia. Come si sta muovendo il nostro governo? Il presidente del consiglio Renzi sta cercando di trovare a livello internazionale, e dunque coinvolgendo Stati Uniti, Europa ma anche la Russia, una serie di alleati per creare una coalizione che poi affronti in maniera concreta il problema libico. Che poi è più in generale un problema che riguarda le sponde meridionali del Mediterraneo. Il punto è però stabilire i presupposti dell’intervento. Noi abbiamo un esempio classico, che rappresenta l’estremo negativo al quale possiamo guardare per non ripetere lo stesso errore. Parlo ovviamente dell’attacco a Gheddafi del 2011. Era chiaro che il rais sarebbe stato abbattuto. Ma altrettanto evidente era già allora l’assenza di una strategia sul dopo. E, difatti, è stato creato un disastro assoluto.

Ma la guerra va fatta o no? Più che una guerra, andranno fatte operazioni di polizia, se saremo coinvolti. Una volta stabilito che c’è una struttura o un regime quale che sia, che noi riteniamo essere in grado di mantenere in piedi istituzioni statali, con quel governo si potranno stabilire dei patti e creare solo allora un gruppo d’intervento, ma con le idee ben precise. Cosa succederebbe dopo? Fare la guerra contro le città libiche dove si annidano gli uomini dell’ISIS sarebbe drammatico. Ci riusciremmo ovviamente, ma vanno messi in conto molti morti. La capacità di questa gente di resistere è data anche dal fatto che il nemico è irriconoscibile. Entrare a Derna con le truppe non basta, perché non sai se hai di fronte dieci miliziani dell’ISIS o di un’altra fazione. Diventerebbe uno scontro casa per casa, con perdite notevoli. Questo lo devono fare i libici stessi, non noi. Noi dovremo piuttosto assicurare il controllo dei pozzi di petrolio, le oasi delle fasce meridionali, essere punti di riferimento, stabilire dei centri di manovra da cui poi la struttura libica sostenuta dalle nostre truppe potrebbe iniziare ad agire. Ma la cosa giusta è sicuramente aiutare un esercito a prevalenza libica o comunque composto a maggioranza da truppe di Paesi musulmani. A noi europei deve spettare invece un contributo in termini di organizzazione logistica, tecnica e di collegamento. Ma non è la stessa cosa che stiamo facendo in Iraq e che sembra non funzionare? Sì, ma con la differenza che in Iraq ci siamo arrivati dopo anni di battaglie, capendo troppo tardi che non potevamo vincere la guerra sul terreno. In Libia ci arriviamo, o ci dovremo arrivare per la prima volta, partendo

da questo concetto e con questa consapevolezza. Ci possiamo fidare del generale Haftar, il comandante delle forze armate di Tobruk? Non lo so. Però ci dobbiamo fidare del generale Al Sisi (il presidente dell’Egitto, ndr) che controlla Haftar. E ci dobbiamo fidare anche dei tunisini e degli algerini che sono interessati, attraverso Haftar o chi per esso, a tranquillizzare quell’area immensa, che rappresenta un vero pericolo per le loro strutture statali. Da una Libia fuori controllo può infatti nascere qualsiasi forma di attacco, non solo terroristico, contro Algeria, Tunisia, Egitto. Strano è il silenzio del Marocco, la cui politica è molto attenta e sta gestendo bene questa fase, ma mi meraviglia un po’. Come dicevo, potrebbe essere uno dei prossimi obiettivi. Si può andare in guerra senza gli Stati Uniti? Molto difficile. Perché lo sforzo bellico ed economico è molto impegnativo. E soprattutto non dobbiamo pensare di cavarcela in pochi mesi. Si pensi che noi come Europa abbiamo ancora nei Balcani qualcosa come cinquemila uomini, da molti anni. Se si ritirano quei cinquemila, penso che nei Balcani si ricomincerebbe da capo. In ogni caso, gli Stati Uniti non mi sembrano molto intenzionati a intervenire in Libia, per il momento. Come si sconfigge lo Stato Islamico? Il Califfato va asfissiato, togliendogli gli strumenti che gli consentono di sopravvivere e di espandersi. Penso ai traffici connessi alle zone dove operano le sue strutture, che oggi gli permettono di restare in vita. Il petrolio, il contrabbando nel Sahel, il traffico di droga del Centro Africa. Se noi gli sottraiamo l’ossigeno, che poi sono i soldi, entreranno in grave difficoltà.

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L’Italia e la questione siriana La guerra in Siria dopo la strage di Parigi, gli addestratori in Iraq, i contingenti in Libano e Afghanistan, il futuro della Libia. Parla l’ex capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale vincenzo camporini essun intervento in Siria, invio di nuovi addestratori in Iraq, mantenimento dei contingenti in Libano e Afghanistan in attesa che il cambio di regia alla guida della missione ONU in Libia acceleri le trattative tra le fazioni rivali. Nel momento di massima esposizione dell’Europa nel conflitto siro-iracheno contro lo Stato Islamico dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre, l’Italia si mostra ragionevolmente prudente evitando azzardate fughe in avanti. Per decifrare le sfide militari che attendono il nostro Paese nei teatri di guerra di Nord Africa, Medio Oriente e Asia Centrale, Lookout News ha intervistato il generale Vincenzo Camporini, ex capo di Stato Maggiore della Difesa.

N

Generale Camporini, come valuta la scelta dell’Italia di non intervenire in Siria ma di aumentare gli sforzi in Iraq? La situazione in Medio Oriente è molto dinamica, quindi gli scenari potrebbero cambiare da un momento all’altro. Per ora è stato deciso che noi dobbiamo essere presenti in Iraq perché ci è stato chiesto dal governo di Baghdad e dalla coalizione internazionale di cui facciamo parte. È chiaro che il nostro deve essere un contributo

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che valorizzi le nostre capacità. Abbiamo delle ottime potenzialità nel settore addestrativo, quindi bene facciamo ad aumentare la presenza dei nostri addestratori sul terreno, perché è un aiuto molto utile per quelle forze che poi andranno a combattere contro i gruppi jihadisti. Anche dal punto di vista aeronautico abbiamo delle capacità straordinarie, che già abbiamo messo a disposizione della coalizione. Mi riferisco alle operazioni di rifornimento in volo, che non tutti i Paesi sono in grado di effettuare. Dopo anni di attesa l’Italia si appresta a ricevere armamenti per i suoi droni da parte degli USA. È il preludio a nostre missioni aeree in Iraq? In realtà si tratta di una strategia molto più complessa. Gli USA ritengono che le tecnologie per l’armamento dei droni di cui sono in possesso siano molto delicate, motivo per cui per ragioni di sicurezza nazionale finora non le avevano rilasciate praticamente a nessuno tranne che agli inglesi. Noi anni fa avevamo fatto richiesta a Washington di poter armare i nostri droni e finalmente sembra che il governo americano si sia deciso a dare il suo via libera. Dal punto di

Questo articolo è stato pubblicato il 22 NOVEMBRE 2015


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vista tecnico non vedo quale sia la differenza tra l’essere in volo per fare ricognizioni e designare target e colpirli. Dal punto di vista politico la differenza invece è sostanziale. Io dico però che, arrivati a un certo punto, se si decide di fare un’operazione militare deve essere un’operazione militare. Le cose fatte a metà e i compromessi in momenti come questo non sono utili al raggiungimento dello scopo finale. Intanto in Siria proseguono i raid aerei di Francia e Russia sulle postazioni dello Stato Islamico. È così che si vince la guerra contro ISIS? L’unica politica possibile nell’area è cercare una coesione quantomeno nel mondo occidentale. Iniziative unilaterali, nonostante possano essere giustificate da attacchi brutali come quelli di Parigi, lasciano il tempo che trovano. Bene avrebbe fatto il presidente Francois Hollande a convocare un immediato vertice per cercare di trovare una risposta comune e condivisa prima di sganciare bombe su Raqqa. Se non c’è un coordinamento strettissimo con le truppe sul terreno, tutte le operazioni che verranno portate avanti non avranno efficacia. La Russia può garantire una saldatura tra l’Occidente e le forze impegnate sul terreno in chiave anti-ISIS, compreso l’esercito di Bashar Assad? La Russia sta conducendo una propria politica in modo assolutamente efficace. Putin si sta muovendo con la saggezza e l’abilità dei giocatori di scacchi. Il problema del controllo delle milizie sul terreno deve però coinvolgere tutti, non solo Mosca. Ognuno sostiene e finanzia qualcuno, ognuno può muovere più o meno delle pedine. Ma è necessario mettere tutti d’accordo se si vuole centrare l’obiettivo. Torniamo all’Italia. Alla luce della situazione attuale, come valuta il dispiegamento dei nostri contingenti all’estero. La nostra presenza è davvero così necessaria in Libano? La nostra presenza in Libano è una presenza molto importante. UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon, ndr) con tutti i suoi limiti è riuscita comunque in questi anni a evitare che si verificassero incidenti troppo gravi nell’area. Il nostro ruolo qui è pertanto fondamentale, riconosciuto e apprezzato a livello internazionale. Siamo leader e ormai da anni i comandanti della missione internazionale sono nostri ufficiali. Motivo per cui credo che in Libano dobbiamo rimanere.

Vale lo stesso per l’Afghanistan? L’Afghanistan è un Paese che si trova costantemente sull’orlo del baratro. Ha necessità di una grande assistenza continua se non vogliamo disperdere gli sforzi a cui abbiamo contribuito per dare stabilità a questo Stato. Andarsene adesso vorrebbe dire tradire tutto ciò per cui abbiamo combattuto finora. L’Afghanistan non lo merita e ha ancora bisogno della nostra assistenza. Tra le nostre priorità, però, non dovrebbe esserci anche la Libia? L’intervento militare in Libia è una cosa di cui sento parlare con un certo brivido. Non credo che al momento ci

siano le condizioni per un’operazione militare in questo Paese. Mancano le precondizioni politiche, mancano gli obiettivi da perseguire. Finché non c’è una convergenza delle politiche delle varie fazioni libiche verso un’idea di unità nazionale, io non credo che le cosa cambieranno. Speriamo che il nuovo responsabile della missione ONU (UNSMIL, United Nations Support Mission in Libya, ndr) Martin Kobler riuscirà a ottenere dei risultati migliori del suo predecessore Bernardino Leon, che ha invece concluso il mandato facendo una figura piuttosto meschina. Il fatto che Kobler sarà affiancato con il ruolo di senior advisor dal generale Paolo Serra, un ufficiale esperto che conosco personalmente, significa che ci sarà un approccio molto più concreto e realistico rispetto a quanto è avvenuto in passato.

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RAGES Sangue e rabbia tra i manifestanti

Ankara 10 ottobre La Turchia e il suo presidente Recep Tayyip Erdogan hanno avuto non pochi grattacapi quest’anno. Molte organizzazioni, soprattutto di estrema sinistra, per quanto attive in Turchia da decenni, si sono radicalizzate a partire soprattutto dalla dura repressione delle note proteste del 2013 in Piazza Taksim e al Gezi Park. Non poche frange si sono organizzate per portare uno scontro armato contro lo Stato, che tra le altre cose è già in guerra contro i curdi del PKK, considerati terroristi. La strage di Ankara del 10 ottobre, inoltre, ha favorito l’aumento dei sentimenti antigovernativi, in un momento in cui la crisi siriana peggiora e in cui il governo ha avviato uno scontro muscolare con la Russia.

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SERVIZI E SEGRETI

Introduzione allo studio dell’Intelligence MARIO MORI G-Risk 272 pagine 15 euro

anno III - numero 19 - novembre-dicembre 2015 EDITORE G-Risk - Via Tagliamento, 25 00198 Roma Tel. +39 06 8549343 - Fax +39 06 85344635 segreteria_grisk@grisk.it - www.grisk.it

uesto saggio ripercorre i fatti e i momenti salienti attraverso cui si è venuta costituendo e si è nel tempo sviluppata l’intelligence italiana, condita da una sintetica descrizione di leggi, strutture e tecniche di carattere generale. Dall’epoca preromana, passando per la Roma di Cesare, dal Medioevo allo Stato Pontificio fino ad arrivare ai giorni nostri attraverso l’epoca fascista, il generale Mori segue la formazione dei servizi segreti italiani e

Q

DIRETTORE SCIENTIFICO Mario Mori DIRETTORE EDITORIALE Alfredo Mantici direttore@lookoutnews.it DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi @luciotirinnanzi redazione@lookoutnews.it CAPOREDATTORE Rocco Bellantone @RoccoBellantone REDAZIONE Marta Pranzetti Brian Woods Hugo Ottorino Restelli Tersite

I tempi non facili che si affacciano al nostro “orizzonte dovrebbero consigliare a tutti di rivolgere particolare attenzione e cura verso il sistema informativo e di sicurezza nazionale, perché esso sia messo in grado di tutelare sempre meglio la nostra società dai pericoli che già esistono e da quelli che, per forza di cose, seguiranno”

HANNO COLLABORATO Vincenzo Perugia Vincenzo Camporini ART DIRECTION Francesco Verduci FOTOGRAFIE Agenzia Contrasto - Reuters Pictures Archivio Lookout News Registrata presso il Tribunale di Roma n. 13/2013 del 15/01/2013 R.O.C. n. 24365 del 18/03/2014

È un prodotto

il loro intreccio con gli omologhi internazionali. In un momento storicamente così delicato, il libro di Mario Mori cerca di chiarire l’esistenza di queste strutture, la loro funzione all’interno dei governi e della politica e intende tratteggiare il loro futuro alla luce di quello che avviene al

Mario Mori

giorno d’oggi. Ricostruendo i fatti con la precisione dello storico, ma arricchendoli con la conoscenza diretta di chi li ha vissuti dall’interno, Mario Mori ci accompagna in un viaggio tra le pieghe di uno dei più misteriosi organismi dello stato italiano, che ha da sempre segnato la nostra Storia.




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