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A double standard

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Luca Saracho, 2F

A double standard

Secondo la Treccani, l’enciclopedia per eccellenza nel panorama italiano, l’espressione “due pesi e due misure” ha il significato di “comportarsi in modo contraddittorio in circostanze analoghe”, specialmente nel linguaggio politico e giornalistico. Un comportamento certamente deplorevole, che tuttavia viene costantemente applicato da parte di testate giornalistiche che la stragrande maggioranza delle volte possiedono un ben specifico orientamento politico. Con ciò non intendo assolutamente affermare che il doppiopesismo riguardi solamente i media di sinistra: questa attitudine si riscontra bene o male in tutte le fonti d’informazione a prescindere dal loro schieramento. Ciononostante non c’è alcuna ombra di dubbio sul fatto che ‘’President 45’’ (Donald Trump) sia una tra le principali vittime. Negare questo semplice fatto sarebbe negare un’ovvietà. Negare che emittenti televisivi come la CNN e MSNBC, o giornaloni come il Washington Post o il New York Times si lascino facilmente trasportare dalle proprie ideologie nel denigrare l’attuale presidente in carica sarebbe come negare che, ricollegandoci

a fatti di recente cronaca, la brutale morte di George Floyd a Minneapolis non sia stata in alcun modo causata da razzismo. Chi non ha mai sentito dire, almeno una volta nella sua vita, che Trump è un “razzista”, ovviamente senza ulteriori argomenti per supportare questa tesi? Ebbene nell’agosto del 2018, precisamente il 9 di quel mese, un giornalista del <<Washington Post>> di nome Jonathan Capehart pubblicò un articolo intitolato “Sì, Donald Trump, tu sei un razzista”. Si potrebbe pensare allora “Beh, non c’è da stupirsi visto il giornale per cui scrive, storicamente avverso a Trump”. Ed effettivamente si dovrebbe prendere questo titolo, a dir poco sensazionalistico, “with a pinch of salt”, come si dice là negli States: si consideri che tra le “prove” fornite siano presenti frasi notoriamente prese fuori contesto dai suoi brillanti colleghi. Tuttavia è interessante notare come, nell’affrontare l’ultima controversa uscita di Joe Biden, Capehart si sia un po’ troppo sbilanciato nel giudicarlo. Se il lettore fosse all’oscuro di quale fantomatica frase io stia parlando, sono contento di mettere in luce la situa

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zione. Al termine di una trasmissione tenuta via Skype dal conduttore radiofonico Charlamagne Tha God, con ospite appunto il front runner dei democratici, potremmo dire che Biden si sia lasciato un po’ troppo andare con la confidenza, arrivando ad affermare “Se avete problemi a scegliere se sostenere me o Trump, allora non siete neri”. Un’affermazione che di simpatico ha ben poco. Un’affermazione che rientra perfettamente nella definizione di razzismo: in base al solo criterio della pigmentazione presente nella pelle di un individuo, in base al solo presupposto di essere nero, Biden ha dettato come un individuo di carnagione scura dovrebbe comportarsi, vivere, pensare. In altre parole ha chiaramente detto come una persona afro-americana dovrebbe votare. Biden, con quella frase, ha detto: una persona di colore non può essere conservatrice. Di fronte a questo scempio Capehart non si è però assolutamente scoraggiato nel difenderlo, pubblicando il 22 Maggio un articolo dal titolo: “Su via. Il commento di Biden “you ain’t black” era chiaramente uno scherzo”. Sicuro… Ma l’ipocrisia non termina qui. Assolutamente. Per esempio, mi sapreste dire a quanti portavoce della Casa Bianca sotto il mandato Obama i giornalisti abbiano chiesto di giura

re di dire “la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità”? La risposta corretta è zero. Mentre a quanti dei portavoce di Trump è stata posta questa richiesta? Ovviamente a tutti. Da Sean Spicer, a Sarah Huckabee-Sanders fino all’odierna Kayleigh McEnany, con l’unica eccezione di Stephanie Grisham, che a differenza dei suoi colleghi non ha mai avuto l’opportunità di tenere un briefing, in quanto Trump in persona, durante quel periodo, si era assunto la responsabilità di confrontarsi con i giornalisti. I liberali potrebbero allora rispondere a questa mia osservazione dicendo che “non ci si può fidare di Trump, è un bugiardo cronico: dunque non ci si può fidare neanche dei suoi portavoce”. Sebbene si possa largamente dibattere tale considerazione, non è su questo che il mio articolo è incentrato. Ciò che mi stupisce è notare come i Dems abbiano deciso di combattere un “bugiardo”, a detta loro, con un bugiardo di dato e di fatto. Sin dalla sua prima campagna elettorale verso la Casa Bianca (ovviamente naufragata miseramente) Sleepy Joe era stato già beccato a mentire. E di tanto. In una sua celeberrima apparizione in New Hampshire in occasione delle primarie fu registrato mentre diceva che ai tempi dell’università era

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lo “studente brillante” del suo corso, che si era guadagnato una piena borsa di studio, che aveva ottenuto tre lauree e che, nella classifica dei risultati degli esami, si era posizionato nella metà superiore della sua classe. Farà piacere al lettore allora sapere che, in realtà, su una classe di ottantacinque studenti lui si fosse posizionato settantaseiesimo, che non si fosse guadagnato una piena borsa di studio ma solamente mezza e che non avesse ottenuto tre lauree bensì una sola. Ma la carrellata di false affermazioni non termina qui. Ci sono video in cui esplicitamente dice di esser stato arrestato insieme a Nelson Mandela per la sua opposizione al sistema di apartheid. Di lui che dice di essersi da subito schierato contro la guerra in Iraq, scatenatasi addietro nei primi anni Duemila. O ancora di lui che afferma che, durante l’amministrazione Obama, gli agenti dell’ICE “non chiudevano le persone in gabbia”, quando questa misura detentiva per individui che avevano tentato di attraversare illegalmente il confine statunitense aveva trovato grande impiego proprio durante il suo mandato. E pensare che questo argomento sarebbe stato cocciutamente proposto contro il Presidente Trump dai suoi avversari di sinistra, che dunque lo avrebbero

attaccato per un “crimine” messo in atto anche dal loro stesso paladino, Barack Obama ipse. E si potrebbe andare ancora avanti. Ci potremmo addentrare nel controverso dibattito sulla salute mentale dei due aspiranti alla Casa Bianca. Se nel 2017 alcuni giornalisti ritenevano che sarebbe stato necessario rimuovere Donald dall’incarico di presidente per via del suo “evidente stato di deterioramento mentale”, è altamente disdicevole sapere che gli stessi stiano proprio adesso in un silenzio tonante alla luce delle preoccupanti gaffes di Biden. Sono facilmente reperibili nella rete clip in cui quest’ultimo arriva a dimenticarsi che cosa sia la “Costituzione” (descrivendola semplicemente, dopo qualche esitazione, come “… the thing”) o addirittura il nome dello stesso Obama (avendolo chiamato “president… my boss…”). In cui Biden, intrappolatosi da solo con le proprie stesse parole, ha spinto i suoi sostenitori a supportare Trump. In cui, ad una domanda su come si comporterà durante la campagna elettorale, abbia affermato “I’m gonna beat Joe Biden” ovvero “io sconfiggerò Joe Biden”. O ancora di come, trovandosi a Keene, in New Hampshire, pensasse di essere invece in Vermont. E quanti nelle grandi testate giornalistiche si

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sono presi fino ad adesso la briga di affrontare questo preoccupante fatto? Nessuno. Nessuno. E per concludere, vorrei trattare un ultimo argomento: ovvero quello dei saccheggi, e attenzione non proteste, che stanno distruggendo le maggiori città americane. Come il lettore se n’è già potuto avvedere, la mia opinione, allineata con il comune buonsenso, è che George Floyd sia stato assassinato, e infatti il diretto responsabile della tragedia dovrà adesso far fronte all’accusa di omicidio di terzo grado, come giusto che sia. E io, come anche Trump ha espressamente detto, supporto tutte quelle proteste che, pacificamente, si oppongono a tali brutalità razziste (e in questo caso la parola è utilizzata giustamente). Ma le immagini di gente che, dopo aver depredato negozi, da Nike agli Apple stores, da Louis Vuitton a Gucci, si allontanano col il proprio bottino mi hanno fatto provare unicamente un profondo senso di ribrezzo. Come possono queste persone coscientemente lucrare e derubare, definendo i loro crimini come “proteste”, e dire di star compiendo quelle efferate azioni nel ricordo di George Floyd? Come possono queste persone coscientemente infamare il ricordo di un pover’uomo, non provando neanche rimorso

per le azioni compiute? Una persona a me molto cara diceva “Solo chi non ha dignità non potrà mai vergognarsi”. E tali selvaggi vandali mancano proprio di questo: dignità. E chi più di tutti non possiede dignità? Moltissime celebrità, che in questi ultimi giorni hanno donato al Minnesota Freedom Fund, un ente che ha l’obbiettivo di pagare la cauzione per tutti quei “manifestanti” arrestati durante le “dimostrazioni”: tra di esse il caso più eclatante è quello di Christine Teigen, che ha versato una quota di addirittura 200.000$. Ma tra quelli che hanno sostenuto la causa si distinguono anche tredici esponenti della campagna elettorale dello stesso Biden, individui che in teoria dovrebbero rappresentare i suoi ideali. Ma ovviamente piattaforme come Twitter non si sbilanceranno mai nel censurare quei commenti che inneggiano ad una “guerra razziale”, che sostengono la violenza come “unica soluzione” (letteralmente dall’inglese “violence is the only way”) o di coloro che esortano questi criminali a dare alle fiamme la Trump Tower. No. Twitter è troppo occupato a oscurare un commento del Presidente per “incitamento alla violenza” in cui in verità erano espressi i mezzi con cui lui intende restaurare l’ordine e il ri-

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17 spetto della legge se queste violenze proseguiranno. Lo stesso Twitter che pochi giorni fa ha allegato ad un post di Trump un link di “fact-check”, sostenuto dai suoi ovvi avversari: CNN & co. Lo stesso Twitter che aveva espresso mesi addietro la propria volontà di non intromettersi in questioni elettorali e di non censurare e correggere le affermazioni dei politici, non intendendo diventare “arbitri di verità” (letteralmente “arbiters of truth”). Dunque la disonestà di chi è? Di un uomo che vuole proteggere il proprio paese da quei terroristi che nella notte hanno imbrattato il Lincoln Memorial, da cui nel 1963 era partito lo stesso Martin Luther King per una delle marce più significative nella lotta per l’eguaglianza? Oppure la disonestà è quella intellettuale di chi vuole vedere questo presidente distrutto, “whatever it takes”? Di chi non si pone alcuno scrupolo nell’applicare questo “double standard”?

Sono queste le immagini di una pacifica manifestazione?

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