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NEVICA ANCORA SU QUELLE MACERIE

LUCA SARACHO, 5F

Erano le 4:17 del mattino. I raggi del sole erano ancora ben lontani dall’intiepidire i tetti delle case, le strade, le rade fronde degli arbusti, la terra, dura e spietata. Le città dormivano, dormivano di un sonno inquieto, disturbato da un incerto nevischio che pian piano cominciava a coprire tutto. Nulla avrebbe presagito ciò che sarebbe accaduto in seguito. Eppure nel cuore di quella notte di ghiaccio, la terra ha cominciato a tremare.

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Quello che ha colpito la Turchia e la Siria nella notte tra il 5 e il 6 febbraio è stato uno dei più violenti terremoti che si siano mai registrati nella regione. Con una devastante magnitudo di 7.9 della scala Richter, mai registrata da quasi quattro secoli a questa parte, la scossa ha devastato un’area che si estende per 450 chilometri da Adana fino a Diyarbakir. Tra le centinaia di scosse di assestamento (312 fino ad ora, momento in cui mi trovo a scrivere, di cui 125 di magnitudo 4 o addirittura superiore) si è subito iniziato a quantificare il danno in vite umane che questa tragedia ha provocato. Si parlava di 4000 vittime all’inizio, poi di 5200, poi ancora di oltre 6200, ma le cifre sono destinate drammaticamente a salire col passare delle ore. La disgrazia ha colpito, tra le due nazioni, una popolazione di quasi 23 milioni di persone, che in poche ore hanno visto crollare davanti ai propri occhi tutto ciò che possedeva- no, che conoscevano, che amavano. Davanti ad eventi del genere è difficile rimanere impassibili. Davanti alle foto di città e quartieri completamente rasi al suolo, di antiche ed imponenti fortezze ridotte irreparabilmente in un cumulo informe di macerie nel giro di pochi secondi, di fragili corpi che combattono disperatamente tra la vita e la morte sotto la polvere e i mattoni delle proprie abitazioni, si potrebbe pensare ad uno scenario di guerra, agli effetti di cui la follia ideologica umana è capace. E invece questa non è una guerra, e nemmeno una battaglia da cui l’uomo possa mai risultare pienamente vincitore. Questo è il semplice e dispotico dominio con cui la Natura ci tiene soggiogati, impotenti ed inermi. Non c’è schieramento o partito, fazione o schieramento politico che ci distingua davanti a una catastrofe di tali proporzioni. Che amara ironia. Che specie stupida che siamo. Ci rendiamo conto della nostra comune fragilità solo quando la terra inizia a tremare. Ci adoperiamo a erigere monumenti a testimonianza del genio umano e della sua capacità di plasmare il mondo, ignorando che tutto potrebbe essere spazzato via da un momento all’altro. Viviamo in un’illusione infantile di onnipotenza e la modestia ci viene insegnata nel più cruento dei modi.

In queste ore le ricerche per i sopravvissuti continuano instancabilmente, mantenendo un soffocato silenzio per udire anche il più flebile respiro. In sottofondo, la quiete è squarciata dalle urla di chi sotto i detriti ha perso una persona amata, un genitore, un coniuge, un figlio. E nevica ancora su quelle macerie martoriate.