I Nostri Cani - gennaio 2017

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Molti poeti si ispirarono alla cinofilia per… ammaestrare la gente

Il cane e i polli di Trilussa Romano, autodidatta, fu giornalista e poeta fra i più noti. Alcuni versi delle sue composizioni fanno parte del parlare quotidiano Non si vive in un paese, si vive in una lingua. (Emile Michel Cioran) Nessuno aveva mai sentito un cane parlare in romanesco fino a quando Trilussa non gli diede la… rima. Subito imitato dal suo concorrente sul Tevere, Gioacchino Belli. Entrambi a farlo apparir sincero e stupefacente nella sua bontà come un Pinocchio senza bugie. Ed entrambi, nella morale dei semplici a fartelo amare un po’ di più rendendogli quella giustizia che gli era stata sottratta da Fedro ed Esopo propensi a vestirlo da credulone senza un destino proprio. O riscattarlo da Francesco Berni (1496-1535) ( Giace sepolto in questa oscura buca/un cagnaccio ribaldo e traditore;/era il Dispetto e fu chiamato Amore./Non ebbe altro di buon: fu can del duca).che lo aveva avvolto di cattiveria. Allora, ma erano tempi, quelli di Trilussa e Belli, dei giorni dei nostri nonni col calendario appeso al muro della cucina e la matita penzoloni dallo spago e pronta per una data da non dimenticare. I due, Trilussa e Belli vivono in un’Italia che cerca il riscatto dalla miseria e vogliono donare qualche sorriso, amaro magari ma sempre un sorriso in forma di rima. Per questo hanno avuto e continuano ad avere un posto nel cuore della gente e un ruolo in quella cinofilia fatta di buone azioni e migliori propositi. Furono amati dalla gente dell’ENCI nata dalle ceneri del nome, Kennel club, voluto in omaggio alla lingua italiana che tornava alle origini. Quei cinofili – e fra loro i grandi fra cui Giuseppe Solaro, Ulisse Bosisio e Giulio Colombo - erano ligi all’aforisma di

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Oscar Wilde “Non importa che se ne parli bene o se ne parli male. L’importante è che se ne parli”. Riscoprirli significa camminare con loro lungo la via dei semplici dove le parole hanno sempre e comunque lo stesso significato e sono lo specchio dei pensieri che riflettono l’anima. Entrambi, Trilussa e Belli, furono valorizzati tardi dai critici preceduti dal pubblico a conferma una volta ancora che gli uni dovrebbero aver per mestiere di far comprendere agli

altri le nuove culture senza immergersi in soliloqui per far capire prima se stessi. I giorni son quelli che seguono all’immenso disastro della prima Grande guerra. Un tipo bizzarro Trolussa, giornalista più per svago che mestiere sta acquistando notorietà proprio per i suoi sonetti scanzonati e non di rado soffusi da una saggezza amara. Mette in versi persino le caratteristiche del cane. E ne fa un ritratto bonario ed intrigante insieme e contribuisce ad accentuare la sensibilità della gente verso la cinofilia. È un tipo strano, signorile e popolaresco, autodidatta e scarsamente scolarizzato ma con una vivacità di pensiero ed una pron-

tezza di risposte da far invidia ai migliori oratori ed affabulatori. Racconta, da autentico giornalista conquistando lettori ogni volta, le vicende della politica e del vivere quotidiano da cui il cane non può mancare. Rifà il verso a Fedro, Esopo e ad altri “favolisti” come venivano chiamati negli anni Venti, ma di favola le sue poesia hanno ben poco. Colgono la scintilla della cronaca e diventano di valore universale. Così è Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri conosciuto come Trilussa dall’anagramma del cognome. Nasce a Roma il 26 ottobre 1871 figlio di Carlotta Poldi, sarta di Bologna e Vincenzo Salustri cameriere presso il marchese Ermenegildo De’ Cinque Quintili. Un anno dopo, alla morte del capofamiglia è ospitato con madre e sorella dal patrizio romano suo padrino di battesimo. A quindici anni abbandona gli studi e comincia uno scoordinato percorso da autodidatta: con una notevole propensione alla poesia popolare e all’improvvisazione in rima collabora al periodico “Il Rugantino” ed una sua prima “poesia” ottiene fra i lettori notevole successo: un favore che aumenta con le successive e non lo abbandonerà più. Due anni dopo pubblica sempre sul Rugantino “Stelle di Roma”: aumenta la tiratura del giornale e la fama di Trilussa. Collabora poi al Don Chisciotte ed a Il Messaggero. Notissimo in tutta la Penisola evolve la sua arte verso parabole e favole allegoriche. Nel 1908 pubblica “Ommini e bestie” poi “La gente” (1927), “Cento apologhi” (1934) e infine “Acqua e vino” (1944) sempre proseguendo la sua opera di giornalista. Il primo di-


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