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La mia scuola americana
Era una scuola tutta di vetro vicino a New York. C’erano dei corridoi molto ampi e luminosissimi. Ricordo che la prima volta che mi ci portarono non riuscivo a pensare che quella fosse proprio una scuola. Le larghe vetrate molto basse davano su di un immenso prato verde. Il primo giorno che mi iscrissero, in America, mi sentivo tanto infelice. Nella solita scuoletta del mio rione, buia, vecchia, ma così simpatica, avevo lasciato i miei compagni e mi pareva di odiare i miei genitori e tutti quelli che avevano rotto l’incantesimo delle mie amicizie.
Il direttore, pelato, mi accompagnò nella mia classe attraverso i lunghi corridoi, e su ogni pannello colorato vedevo disegnati tanti cuori rossi, verdi, viola, neri e pensavo: “A casa mia i cuori sono sempre rossi”.
Ma poi c’era scritto “San Valentino”, “Il giorno di San Valentino”, “Vuoi essere il mio Valentino?”, “Vuoi essere la mia Valentina?”.
“Mi sa” pensavo “che qui son tutti scemi”. Ma mi sentivo così sperduto che avrei voluto allungare la mano e infilarla nella mano del direttore. Forse con la mia maestra l’avrei potuto fare. Ma lì, con quel signore che mi trattava con tanto garbo come se fossi stato un grande, era proprio impossibile. Mi ricordavo l’ostilità, le risatine e le gomitate con le quali avevamo, l’anno prima, accolto un bambino che, a metà
OMPITO NON NOTO C C dell’anno scolastico, aveva cambiato scuola. Gli avevamo fatto un sacco di dispetti.
Quale monumento si trova a New York?

– Lo sai che cos’è il giorno di San Valentino? – mi chiedeva intanto il direttore.

– No, Sir.
È un giorno dedicato ai ragazzi. A chi si vuol bene e per cui si ha simpatia, si regala un cuore.
– Yes, Sir.
Il direttore si fermò. Sul pannello vicino alla classe dove dovevo entrare c’erano decine di cuori incrociati, infilzati, appesi a un paracadute e su ogni cuore c’era scritto: Giorgio, vuoi essere il mio Valentino?
Ho guardato il direttore con immenso stupore e lui ha sorriso semplicemente, dicendomi: – È per te.
Sono entrato in classe: “Hip, hip, hip, hurrà!” strillavano i ragazzi. E io lì come uno scemo che piangevo senza saper che dire.
Loro non capivano che tanta amicizia potesse far piangere e io non capivo come si potesse essere così amici senza neppure conoscerci, senza essersi fatti nessun piacere e nessun dispetto.
E non capivano che piangevo non perché desiderassi la mia vecchia scuola buia, ma perché la nostalgia delle vecchie care cose di scuola era stata battuta dal loro riso semplice e stupito.
A Nalisi A
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