Premiata Salumeria Italiana 6-2014

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXVI N. 6 Novembre-Dicembre 2014

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Scegliamo la qualità, aspettiamo l’eccellenza.

12 mesi

72 mesi

24 mesi

60 mesi

36 mesi

48 mesi

Raggiunti i 12 mesi di stagionatura si può chiamare Parmigiano Reggiano: il formaggio DOP con la stagionatura minima più lunga. Da 24 mesi, raggiunge l’equilibrio di sapori e aromi, poi la stagionatura può continuare e arrivare anche fino a 100 mesi. Sono le scelte di qualità che facciamo ogni giorno a permettere tempi così lunghi: nessun conservante, solo alimenti naturali con prevalenza di fieni ed erbe per le nostre vacche, solo latte di qualità superiore per il Parmigiano Reggiano.

Parmigiano Reggiano. La scelta di qualità.

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Auguri d’Autore

Auguri da

• Giovanni Ballarini • Josette Baverez Blanco • Elena Benedetti • Raffaele Bertolini • Gaia Borghi • Michele Bracieri • Fabio Butturi • Carlo Cantoni • Federica Cornia • Sebastiano Corona • Marco Credi • Maurizio Dell’Agnello • Giorgia Fieni • Laura Franchini • Leonardo Giacobazzi • Guido Guidi • Riccardo Lagorio • Antonella Malaguti • Nunzia Manicardi • Giorgio Montanari • Anna Mossini • Massimiliano Rella • Chiara Russotto • Clara Scaglioni • Luciana Squadrilli • Angelo Valentini • Roberto Villa • Gemma Zubiani •

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Dall’Alto Adige. Garantito. Speck Alto Adige IGP: qualità e origine certificate. Ha un gusto delicatamente affumicato, origini genuine e viene prodotto secondo antiche tradizioni locali: è lo Speck dell’Alto Adige, unico e inconfondibile. Per questo merita il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) attribuito dall’Unione Europea. Perché tutti possano riconoscere la sua qualità. Autentica e garantita.

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Campagna finanziata con il contributo dell’Unione Europea e dell’Italia.


N. 6 Anno XXVI Novembre-Dicembre 2014

€ 6,70 EUROCARNI – PREMIATA SALUMERIA ITALIANA – IL PESCE – EURO ANNUARIO CARNE – EURO GENUINE FOOD ANNUARIO DEL PESCE E DELLA PESCA – US ANNUARIO DEI FORNITORI DELLA SANITÀ IN ITALIA Stampa

Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Renato Bergonzini – Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni – Alessandra Rotondi P.O. Box 569, New York, NY 10101-0569 Tel./Fax +1 212 956 8566 E-mail: stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5.5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.1.

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Auguri

di

Buone Feste

OCCELLI AGRINATURA Regione Scarrone, 2 - 12060 Farigliano Cn, Italy - Tel. 0173 74.64.11 info@occelli.it www.occelli.it Seguici su:


N. 6

In questo numero: Immagini

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Legislazione

Etichettatura: al via le norme europee

Sebastiano Corona

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Il food in rete

Social food

Elena Benedetti

18

Comunichiamo

Signore e Signori, Instagram!

Chiara Russotto

20

Aziende

Uniti dalle Alpi

Elena Benedetti

28

Pancette coppate Valtidone più unite, più buone

36

Marketing

Alto Adige: la qualità europea è garantita

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Prodotti tipici

Il gammune di Belmonte perla della norcineria calabrese

Massimiliano Rella 42

I budellucci o viarelli, detti anche beverelli o budellini

Nunzia Manicardi

Le eccellenze piacentine verso Expo 2015

46 50

Bologna vuol dire mortadella

Giovanni Ballarini

52

Salumi in tavola

Oh cotichin, null’altro a te somiglia…

Clara Scaglioni

59

Sapori mediterranei

Le pizze di Pepe in Grani: cartoline dall’Alto Casertano

Luciana Squadrilli

63

Del kulen di Slavonia e di altre tipicità

Riccardo Lagorio

73

Mangiare italiano all’estero

Sebastiano Corona

78

Casa Carboni, a scuola di gusto italiano in Australia

Massimiliano Rella 82

Busti, dal caseificio alla tavola

Elena Benedetti

84

I Natali d’Italia

Giorgio Montanari

88

Il panettone gastronomico

Clara Scaglioni

94

Locali di gusto

Giorni di festa

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Fiere

SIAL, i suoi primi cinquant’anni

Elena Benedetti

Salone del Gusto 2014: questione di nomi e cognomi

Gaia Borghi

Tutela, valorizzazione e gusto, i temi vincenti del Parmigiano Reggiano

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Week-end

La lumaca borgarina

Riccardo Lagorio

114

Vino

Un brindisi che migliora il Natale

Riccardo Lagorio

119

Merano WineFestival: annata di successi e di conferme

Laura Franchini

124

È nato il Lambrusco di Modena Spumante Doc “Trentasei”

Laura Franchini

126

I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: vini da Panettone

Laura Franchini

128

Olio

Il sacro ulivo e il generoso maiale

Angelo Valentini

130

Formaggio

Rivoluzione all’americana

132

Tecnologie

Partner e CSB-System accomunati da uno stesso obiettivo: innovazione e qualità

136

Libri

La repubblica del maiale, come siamo, da dove veniamo

140

I panettoni del sole

142

Panettone a due voci

142

Fat and furious burger

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Spollo kitchen

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In copertina: Buon Natale dalla Redazione con il Cotechino Modena Igp (photo © Massimiliano Rella).

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Immagini

Vent’anni fa il numero di formaggi americani che si potessero definire “originali” si contava sulle dita di una mano. Oggi la situazione è ben diversa e i formaggi made in USA originali, ovvero quei prodotti che non rientrano in una categoria ben precisa, stanno acquisendo la centralità del palcoscenico sulla scena casearia mondiale. Ne parliamo approfonditamente a pagina 132 (in alto, crostini di ricotta, Humboldt Fog e fichi; photo © sonomamag.com).

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PECORINO PASCOLI DI PIENZA. LA QUALITA’ LASCIA TRACCIA.

Questo pecorino è prodotto con latte di pecora proveniente da greggi che pascolano all’interno del territorio del comune di Pienza e ha aderito al progetto “Latte di pecora della nostra terra” promosso dalla Regione Toscana e dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni del Lazio e della Toscana che ha visto l’implementazione di un Sistema di Rintracciabilità di Filiera conforme alla norma ISO 22005:2008. L’etichetta recante il Codice QR permette al consumatore di risalire all’origine dei formaggi attraverso l’ausilio di uno smartphone o collegandosi al portale www.toscopecora.it

info@caseificiobusti.it



Legislazione

Etichettatura: al via le norme europee Non c’è più tanto tempo per la modifica di packaging e materiale informativo dei prodotti alimentari. A fine anno entrerà infatti in vigore il regolamento destinato ad armonizzare e rivedere la disciplina in materia da parte degli Stati Membri di Sebastiano Corona

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l Ministero dello Sviluppo economico ha recentemente pubblicato una circolare in merito al Reg. UE 1169/2011 che entrerà in vigore a partire dal 13 dicembre 2014 e che riguarda la fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori. La norma riscrive completamente le regole sull’etichettatura dei prodotti alimentari e si sovrappone, abrogandolo e integrandolo in parte,

al Decreto Legislativo n. 109 del 27 gennaio 1992 che in Italia ha rappresentato sinora la principale norma in materia. La circolare fa esplicito riferimento ai provvedimenti che il nuovo regolamento europeo di fatto abroga, ma soprattutto si sofferma sulle norme che esso modifica parzialmente. Norme che resteranno in vigore con una lunga serie di distinguo. La circolare viene incontro

a tutti coloro che, con sempre maggiore difficoltà, si devono districare in un ginepraio legislativo in cui le disposizioni nazionali si intrecciano con quelle europee dando così luogo a situazioni ambigue e a rischio per la responsabilità degli operatori. Inoltre — manco a dirlo — il MISE fa sapere che il Governo sta altresì lavorando allo schema sanzionatorio per la violazione delle disposizioni in

Il prossimo 13 dicembre entrerà in vigore il Reg. UE 1169 che riordina la normativa comunitaria in materia di etichettatura (photo © www.cibimbo.com).

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merito alle quali più soggetti sono titolati a vigilare. “In generale — sostiene il MISE — il riordino della normativa comunitaria in materia di etichettatura, effettuato dal Reg. UE 1169, avrà l’effetto di rendere inefficaci tutte quelle disposizioni nazionali che risultano assorbite o superate dallo stesso”. D’altronde, il Regolamento è chiaro laddove recita che “gli Stati Membri non possono adottare né mantenere disposizioni nazionali salvo se il diritto dell’Unione lo autorizza”. Vediamo quali sono le norme che, a decorrere dal 13 dicembre 2014, perderanno efficacia a causa del Regolamento europeo, con la rassicurazione che, appena conclusosi il confronto tra Governo italiano e DG SANCO sulle questioni ancora in sospeso, verrà emanato un provvedimento che aggiornerà il DLgs 109/1992 sulla base dei nuovi indirizzi. Le numerose modifiche Si parte dalle finalità del decreto, che, con l’entrata in vigore del Regolamento, devono considerarsi completamente mutate. Allo stesso modo cambia il concetto di alimento preconfezionato e preimballato e, alla luce di questa lettura, i prodotti alimentari non avvolti da alcun involucro e i prodotti di grossa pezzatura anche se posti in involucro protettivo, generalmente venduti previo frazionamento, destinati alla vendita al consumatore finale, saranno regolamentati dagli Stati Membri come alimenti non preimballati. Nell’elenco delle indicazioni dei prodotti preconfezionati le novità sono diverse e riguardano principalmente l’introduzione dell’obbligo di indicazione degli allergeni e la responsabilità dell’operatore del settore alimentare anche in relazione al marchio e all’indirizzo del responsabile. Pertanto, in etichetta andrà riportato l’indirizzo fisico completo dell’operatore. Non saranno considerati validi la casella postale, gli indirizzi internet, gli indirizzi di posta elettronica, il numero di telefono o il numero di registrazione alla Camera di Commercio. Per operatore responsabile si intende però colui che ha la mera responsabilità delle

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Le novità in estrema sintesi: diventerà obbligatorio segnalare la presenza di allergeni; nome o ragione sociale o marchio e sede del fabbricante o del confezionatore o del venditore stabilito nell’UE sono sostituiti dall’unico obbligo di indicare nome o ragione sociale e indirizzo del responsabile delle informazioni in etichettata. Pertanto nome o ragione sociale o marchio e sede o del fabbricante o del confezionatore o del venditore stabilito nell’UE non sono più obbligatori e rimangono come indicazioni volontarie, con tutte le prescrizioni del caso; • non sarà più obbligatorio indicare la sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento del prodotto; • è fatto obbligo di fornire la dichiarazione nutrizionale, che dovrà essere prodotta secondo i criteri previsti dal Regolamento; • l’indicazione del lotto rimane obbligatoria. Non è più obbligatorio che scadenza o termine minimo di conservazione compaiano nello stesso campo visivo insieme alla denominazione, alla quantità netta e al titolo alcolometrico; • le disposizioni nazionali sull’etichettatura dei distributori automatici, degli alimenti sfusi e degli alimenti non destinati al consumatore finale rimangono vigenti. Tutti gli articoli del Decreto nazionale vengono assorbiti dalla norma comunitaria che li sostituisce, appunto, ma per completa chiarezza sarà necessario attendere il provvedimento che modifica ufficialmente il Decreto 109/1992 e quello che determinerà il regime sanzionatorio corrispondente. • •

informazioni sugli alimenti, non tutte le responsabilità, in generale. Da quest’ambito per esempio sono escluse le responsabilità sulla produzione, che tra l’altro fanno capo alla normativa in materia di igiene e sicurezza. Il termine commercializzare in questo contesto è inteso con riferi-

mento alla destinazione al consumatore finale del prodotto. Pertanto, nel caso di un alimento proposto in private label, per esempio, la DG SANCO precisa che l’operatore responsabile debba considerarsi il soggetto titolare del marchio e, quindi, la catena di GDO che lo propone.

In etichetta sono riportati il nome del prodotto, gli ingredienti, il peso, la modalità di conservazione e di confezionamento, la data di scadenza, il produttore e lo stabilimento di produzione (photo © piadinari.blogspot.com).

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Poiché l’indicazione dello stabilimento di produzione non è più obbligatoria, chi intende apporla ugualmente tenga conto del fatto che essa verrà considerata come un’informazione volontaria che, come tale, non potrà occupare lo spazio disponibile per le informazioni obbligatorie. Quindi la scelta va ponderata. L’altra prescrizione importante, che in precedenza non esisteva in Italia, è la dichiarazione nutrizionale. Quest’ultima entrerà in vigore ufficialmente nel dicembre 2016, ma chi intende portarsi avanti col lavoro non potrà più presentare un’etichetta con contenuti liberi ma secondo le prescrizioni del Regolamento. La nuova norma comunitaria non parla dell’indicazione del lotto, pertanto essa rimane obbligatoria secondo quanto disposto dal Decreto 109. Allo stesso modo rimangono in vigore le indicazioni linguistiche che impongono che i prodotti commercializzati in Italia siano dotati di informazioni in italiano. Il Regolamento lascia comunque ampia libertà agli Stati Membri nei quali è commercializzato un prodotto di imporre che le indicazioni siano fornite in una o più lingue ufficiali dell’Unione. Il cambio di terminologia da denominazione dell’alimento a denominazione di vendita, che può sembrare irrilevante, in realtà ha una sua valenza pratica. Quest’ultima infatti afferisce al prodotto finito, mentre la prima si riferisce sia al prodotto finito, sia alla denominazione dell’ingrediente. Poiché compatibile con la nuova norma, rimane in vigore il dettato del Decreto 109 per ciò che concerne la conservazione dei prodotti dolciari alle basse temperature. Tutta la parte relativa agli ingredienti è superata dal Regolamento UE 1169, pertanto è necessario prendere come riferimento unicamente le disposizioni comunitarie. Stesso dicasi per la designazione degli aromi. Il Regolamento è meno restrittivo del Decreto 109 in fatto di bevande alcoliche, ma lo è di più per ciò che concerne gli aceti, quindi chi tratta questi prodotti dovrà fare attenzione a mantenere sia le indicazioni nazionali sia quelle comunitarie, ma con la rassicurazione che anche in questo

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Più restrittivo in materia di aceto il Reg. UE 1169: chi tratta questo prodotto dovrà fare attenzione a mantenere sia le indicazioni nazionali sia quelle comunitarie (photo © chefs4passion.files.wordpress.com). caso la DG SANCO si esprimerà a breve per chiarire alcuni aspetti della nuova norma. La prescrizione nazionale sull’evidenza dell’ingrediente caratterizzante perde efficacia, ma la Commissione sta lavorando in merito alle Linee guida sul quid, pertanto l’argomento sarà di certo oggetto di precisazioni nei prossimi tempi. Allo stesso modo, poiché anche il concetto di quantità viene completamente assorbito dal concetto di quantità netta, è bene attendere le ulteriori specifiche. Le prescrizioni europee sul termine minimo di conservazione si sostituiscono al Decreto 109, sebbene ci sia da risolvere un problema relativo ai prodotti di confetteria. È altresì completamente abrogato l’articolo 10 bis del Decreto 109 che tratta della data di scadenza del prodotto. In merito alle modalità di indicazione delle menzioni obbligatorie dei prodotti preconfezionati, il Regolamento assorbe la disciplina nazionale. Pertanto la denominazione, la quantità netta e il titolo alcolometrico volumico effettivo dovranno apparire nello stesso campo visivo. Non è obbligatorio invece che la regola valga anche per il termine minimo di conservazione o la data di scadenza. Si è in attesa di maggiori precisazioni in merito al mantenimento in vigore di quanto indicato dal Decreto 109 sugli imballaggi destinati al

consumatore finale che contengono prodotti preconfezionati. Resteranno certamente in essere invece le disposizioni della normativa nazionale sui distributori automatici diversi dagli impianti di spillatura, così come le indicazioni per la vendita di prodotti sfusi, sebbene questa parte necessiti di un aggiornamento già in corso con le associazioni. Per ciò che concerne i prodotti non destinati al consumatore e i rapporti business to business, resta in vigore il decreto nazionale, ma anche in questo caso l’articolo di riferimento verrà aggiornato tenendo conto delle prescrizioni comunitarie sugli allergeni. Insomma, l’adeguamento va fatto immediatamente, nonostante i punti oscuri della nuova regolamentazione siano ancora tanti. Sebastiano Corona

Errata corrige Segnaliamo ai lettori che nel box a pagina 28 di Premiata Salumeria Italiana n. 5 di Settembre-Ottobre 2014 abbiamo erroneamente pubblicato il marchio che identifica i Prodotti a Denominazione di Origine Protetta nei colori giallo e blu mentre i colori esatti sono il giallo e il rosso.

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Il food in rete

Social di Elena

1. Focus nutrizione sulla Bresaola IGP Sito rinnovato nella grafica e nei testi per il CONSORZIO DI TUTELA BRESAOLA DELLA VALTELLINA IGP. Di più facile lettura, ora il portale www.bresaoladellavaltellina.it si apre agli utenti in modo semplice ed efficace, mettendo in evidenza le sezioni fondamentali: Consorzio, Prodotto, Ricette, Il nutrizionista risponde. In quest’ultima area l’utente può rivolgere una domanda direttamente al professionista, che risponderà in forma privata. A “Il nutrizionista risponde” si può accedere anche dalle pagine Facebook e Twitter del Consorzio di Tutela Bresaola della Valtellina IGP, dove si trova direttamente il link che riporta al sito (in basso, una piada con bresaola della Valtellina, rucola e scaglie di Grana Padano, photo © piadineriagoosta.it).

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2. Alto Adige, storie raccontate nel web Cosa hanno in comune un architetto, l’albicocca e una ditta che produce impianti di risalita? All’apparenza ben poco. Se non che sono i protagonisti della nuova edizione del sito www.storiedavivere.it. La destinazione ALTO ADIGE/SÜDTIROL si presenta ogni tre mesi con un nuovo tema attraverso personaggi, luoghi e prodotti. Ad accomunare protagonisti “speciali” il fatto che dietro ad ognuno di essi c’è una storia non solo da raccontare, ma anche da rivivere in modo virtuale o direttamente in loco. Attraverso documentari, foto, interviste e reportage l’intento è di svegliare la curiosità e la voglia di incontrare, conoscere, sapere di più e magari anche di… emozionarsi!

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food Benedetti

4. L’Arca del Gusto e Google

3. Formaggi d’Italia

L’annuncio ufficiale è stato dato durante l’ultima edizione del SALONE DEL GUSTO E TERRA MADRE da Eric Schmidt, amministratore delegato di Google, e da Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Da poche settimane nella sezione “Cultural Institute” del portale anche il cibo dell’Arca del Gusto è raccontato in quanto parte del patrimonio dell’umanità. Ecco il link: google.com/culturalinstitute/ collection/slow-food (in basso, i Kulen, salumi tipici della Croazia e della Serbia; photo © google.com).

Vi piacciono i FORMAGGI? Volete saperne di più? Ecco un sito da inserire allora tra i preferiti. È www.formaggi.it, un portale all’interno del quale è possibile fare ricerche utilizzando le certificazioni (DOP, IGP, STG o PAT), il tipo di latte, di stagionatura, trattamento o regione geografica (in basso, alcune forme di Bitto in stagionatura; photo © formaggiobitto.com).

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Comunichiamo

Signore e Signori, Instagram! di Chiara Russotto

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o recentemente colto l’occasione di un appuntamento a Mantova per passare da Modena e prendere un caffè insieme a Gaia (Borghi). «Quale argomento vorresti approfondire?» le ho chiesto. «Instagram! Mi sembra bellissimo… vorrei conoscerlo di più». E così sia. Signore e Signori, vi presento Instagram.

Condividere foto normali, rendendole eccezionali INSTAGRAM è un’applicazione gratuita che permette agli utenti di scattare foto, applicare filtri, girare brevi video e condividerli su numerosi social

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network, tra cui Facebook, Twitter e Foursquare. L’applicazione ha 4 anni di vita, ad aprile 2012 è stata venduta a Facebook e a settembre 2013 ha toccato il picco di 150.000.000 di utenti attivi*. Ma perché 150.000.000 di persone utilizzano appassionatamente questa applicazione? Perché Instagram permette di condividere foto normali, rendendole eccezionali. Il segreto, infatti, sta nei 20 differenti tipi di filtri (alcuni esempi in Immagine 1) che l’applicazione mette a disposizione degli utenti. Effetti aumentati dall’utilizzo in combinazione con gli strumenti LUX (l’aggiunta di contrasto e

saturazione), SFOCATURA (rotonda o quadrata) e CORNICE (specifica per ogni tipo di filtro). Ecco, Instagram vi dà gli strumenti per valorizzare ciò che per voi è significativo — un attimo da ricordare, un oggetto, un prodotto o una persona — senza utilizzare troppe parole. Essere liberi Per farvi capire meglio ho scattato delle fotografie a tre profili Instagram** che possono essere per voi più significativi: APRIL BLOOMFIELD (Immagine 2), KENT SCHOBERLE (Immagine 3) e THE MEAT HOOK (Immagine 4). Instagram è, secondo la mia

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opinione — e al contrario di Facebook per esempio — un social molto sicuro. Se parlando di Facebook, vi ho sempre consigliato di fare molta attenzione nel postare le immagini più ruvide del vostro lavoro (sangue, corpi di animali morti e coltelli), con Instagram avete la possibilità di essere liberi. Le immagini contribuiscono a creare il vostro brand, a far capire la qualità dei prodotti che utilizzate e, in più, vi danno la possibilità di fare conoscere il “dietro le quinte” delle persone con le quali lavorate. Impostiamo il Profilo È venuta anche a voi, come a Gaia, una curiosità incontenibile e volete aprire il profilo della vostra macelleria/ ristorante/azienda? Bene, vediamo insieme come impostare il vostro Profilo! Prendiamo come esempio l’Immagine 4: • immagine del Profilo: utilizzate sempre il logo della vostra attività; • nome del Profilo: il nome della vostra azienda (senza Srl, Snc ecc… non siamo in Camera di Commercio e avete a disposizione solo 29 caratteri); • descrizione del Profilo: spiegate chi siete, e in cosa credete; • URL: inserite l’indirizzo del vostro sito web. Tra le fotografie scattate, caricate immagini del vostro logo, quella più rappresentativa del titolare della ditta e, se vi fa piacere, dei dipendenti: in questo modo, tra le immagini che ruoteranno nella head line, sarete sempre presenti. Non chiudete il vostro profilo! Date la possibilità a chiunque di potere vedere le vostre immagini! Ricordatevi che — come in Facebook — il profilo privato serve solo per condividere le vostre foto con i vostri amici, ma avendo aperto un profilo Instagram per promuovere la vostra azienda… date la possibilità a tutti di vederne i contenuti. Se posterete foto di dipendenti, clienti e fornitori in “possesso” di profili

Immagine 1. Instagram, taggateli (Immagine 6), così da aumentare la visibilità del vostro profilo. Se uno o più followers commenteranno le vostre foto, rispondetegli (Immagine 7). Questo vi permetterà di instaurare un rapporto proficuo. Per capire di più rispetto a questo social vi consiglio di studiare i profili che ho preso in considerazione per voi e di proseguire confrontandone altri. Ogni tipo di comunicazione è vincente quando segue un preciso filo logico. Mi piace molto il profilo di The Meat Hook perché mi fa capire qualità proposta e mi persuade in maniera divertente ad acquistare i loro prodotti e conoscerli. Peccato che siano a NY! Mi piace il profilo di April Bloomfield perché ha un’agenzia che lavora per promuovere lei come personaggio e brand, riuscendoci: conosciamo una parte della sua vita,

i prodotti che sceglie, le carni che utilizza, le persone che stima e i piatti che prepara, o più semplicemente a volte guardiamo con i suoi occhi. Il motivo per cui questo social è molto amato — da utenti, aziende (anche la Redazione di questa casa editrice ha un profilo Instagram, instagram.com/ redazioneepi, Immagine 5) e grandi brand — si basa probabilmente su diversi fattori: a. la piacevolezza che ci dà il guardare fotografie; b. il poco impegno, in termini di concentrazione, che ci richiede capire una bella immagine; c. i miracoli operati da Instagram sui soggetti… (io vengo meravigliosa con un tocco di LUX e uno di SFOCATURA); d. la televisione e i giornali, prima ancora dei social, ci hanno abituato ad entrare dentro le cose,

Chiara Russotto ha 37 anni, è consulente di comunicazione e titolare insieme a Federico Roveda di Smarti Editrice. Si occupa prevalentemente di food, adora i suoi clienti, cede al cibo per amore, lotta con la dieta, ride, ha due cani ed una passione per i libri che trattano argomenti dei quali, lei, non capisce assolutamente nulla.

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Immagine 2.

Immagine 3.

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Domandateci, chiedeteci, contattateci: ogni mese, attraverso questa rubrica, risponderemo alle mail che ci sembreranno più utili ad approfondire gli argomenti trattati. Vi preghiamo di darci più informazioni possibili, così da rendere i nostri consigli efficaci o nel caso siate interessati ad argomenti specifici, di comunicarcelo a info@pubblicitaitalia.com

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Fiera del Marrone di CUNEO

SSalone l del d l Gusto G t di TO TTORINO ORI RINO NO

Fiera Internazionale del tartufo di ALBA

Il Crudo di Cuneo Golosaria di MILANO

PROTAGONISTA del GUSTO!

Consorzio di Tutela e Promozione del Crudo di Cuneo Corso orso Dante A. 51 - 12100 Cuneo - Tel. 0171/94.20.08 Eccellenza cellenza Piemont Piemontese

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ed avere la possibilità di entrare in un’azienda scoprendone qualità e curiosità, ci permette di memorizzarne bene il nome, per utilizzarlo quando ne avremo più bisogno in seguito. Per questo mese è tutto. Cominciate a fare un po’ di pratica, il prossimo mese approfondiremo su # (hashtag), video, contenuti e condivisione. Chiara Russotto

Immagine 6.

Nota * L’8 settembre 2013 Instagram raggiunge i 150 milioni di utenti attivi ogni mese (MARTA SERAFINI, Boom per Instagram che tocca quota 150 milioni di utenti, CORRIERE DELLA SERA, 9 settembre 2013). ** Gli indirizzi segnalati: • The Meat Hook: instagram.com/ themeathook; • April Bloomfield: instagram.com/

Immagine 7.

aprilbloomfield; Kent Schoberle: instagram.com/ primalfare.

L’Istituto Salumi Italiani tutelati premia il vincitore del contest “Food blogger: la miglior ricetta a base di salumi Dop e Igp” L’Istituto Salumi Italiani Tutelati (ISIT) ha premiato a Brusaporto, lo scorso 14 ottobre, in occasione di Reporter del Gusto, Giovanna Hoang, vincitrice del contest “Food blogger: la miglior ricetta a base di salumi Dop/Igp”, con il suo blog likeeat.it. Le sue ricette, un Panino Ramingo con Prosciutto Toscano Dop ed un Couscous stir-fry & my summertime con Salame Brianza Dop, si sono distinte per creatività e per qualità della presentazione. Un plauso anche ai post informativi, ben curati ed in grado di trasmettere il valore dei salumi italiani Dop e Igp. Il contest “Food blogger: la miglior ricetta a base di salumi Dop/Igp” nasce dal comune interesse di ISIT e dei food blogger verso la buona cucina abbinata ad una sana alimentazione. L’istituto, grazie alla collaborazione dei blogger, ha divulgato concetti molto importanti per il consumatore quali l’importanza di un prodotto Dop e Igp, il ruolo di un Consorzio di tutela, le proprietà nutrizionali dei salumi e il ruolo che essi rivestono in una dieta varia ed equilibrata.

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Torna MAFOOD, il Master in Food Management Mettere in contatto l’aspetto tecnico-specialistico del settore food con quello manageriale ed economico, per formare i nuovi professionisti di cui il comparto ha bisogno: si rinnova alla LIUC — Università Cattaneo (www.liuc.it) la proposta del Master Food Management (MAFOOD), che da quest’anno diventa un corso universitario (è riservato quindi a laureati e permette di acquisire Crediti Formativi Universitari), di I e II livello. Il rapporto diretto con la realtà imprenditoriale è il punto di partenza di tutta l’attività della LIUC ed è proprio grazie a questo continuo dialogo con le imprese che il Master si rinnova: 450 ore d’aula, corsi propedeutici, study trip, stage remunerato di 500 ore per il master di I livello e di 600 ore per il master di II livello, partecipazione a fiere nazionali e internazionali, visite e lezioni in azienda e non ultima la partecipazione ad Expo 2015. Novità di questa edizione, inoltre, è la modalità di partnership intrapresa con le aziende che sosterranno il Master attraverso l’offerta di stage curriculari remunerati. Ampio il network delle aziende che hanno aderito: Whirlpool, Birra Peroni, Gruppo Pregis, Fjord, Ambrosoli, Fileni, Noberasco, Apertamente ricerche, Lindt, F.lli Beretta Salumi, Piatti Freschi. I partner istituzionali si confermano AITA, Consiglio Nazionale dei Tecnologi Alimentari, AIDEPI. Il Master è rivolto a chi ha conseguito una laurea tecnico-specialistica (agronomi, chimici, biologi, ingegneri) e desidera acquisire competenze gestionali (di marketing, strategia, costing, pricing), ma anche a chi ha conseguito una laurea non tecnico-specialistica (Economia, Scienze politiche) e desidera acquisire le conoscenze elementari di food science e consolidare le competenze gestionali. Non saranno trascurati neanche i professionisti per i quali saranno previsti dei momenti formativi di approfondimento e di confronto durante tutto l’anno. Il master durerà circa 9 mesi da febbraio a ottobre 2015. Al termine dell’attività d’aula sono previsti il periodo di tirocinio e le attività extra-didattiche. Iscrizioni entro il 23 gennaio 2015. È possibile iscriversi anche a singoli moduli del percorso. Per informazioni: eferrari@liuc.it

Master in Food Design: si inizia a marzo 2015 In un mondo in cui il cibo appare sempre più svincolato dalle sue funzioni nutritive per assumere anche valenze estetiche, simboliche e comunicative si parla spesso di food design e si assiste al proliferare di mostre, concorsi e conferenze sul tema. Ma a questo non corrisponde ancora una ricerca sistematica e un percorso formativo in grado di sviluppare in modo efficace il binomio cibo-design con ricadute positive all’interno del comparto alimentare. In tale contesto si pone il Master in Food Design organizzato dalla Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM e da SPD Scuola Politecnica di Design, con l’obiettivo di formare una nuova generazione di professionisti, designer e manager che sappiano unire le competenze di marketing e comunicazione con la metodologia progettuale e la sensibilità del design. Il master, che prenderà il via il 30 marzo 2015, è riservato a laureati italiani e internazionali; si svolgerà in lingua inglese e vedrà la partecipazione come docenti di designer, professori universitari, giornalisti, chef, manager e imprenditori protagonisti nei propri ambiti di competenza (in foto, un contenitore disegnato da Kostantia Manthou che fa parte della linea “KIRA and the edible tower of containers”). >> Link: www.masterfoodesign.com

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SAN DAN PROSCIUTTI Srl Località Aonedis, 11/2 33038 San Daniele del Friuli (UD) tel: 0432 956767 – fax: 0432 953676 E-mail: info@sandanprosciutti.it ordini@sandanprosciutti.it Web: www.sandanprosciutti.com


Aziende

Uniti dalle Alpi Questa è la storia di una famiglia che dal Piemonte è arrivata in Friuli Venezia Giulia e, innamorata del San Daniele, ha fatto un capolavoro di prosciuttificio e di prosciutto. I numeri sono grandi ma il prodotto resta artigianale. E oggi è pronto anche per i mercati esteri di Elena Benedetti

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I

n una mite giornata d’autunno partiamo di buon ora diretti in Piemonte, e più precisamente a Villafranca, un piccolo comune a sud di Torino, da cui dista una quarantina di chilometri. Percorrendo la strada scorgiamo cascine rurali e piccole aziende agricole, paesi ordinati con i loro bei campanili che fanno pensare ad un mozzicone di matita con la punta rivolta al cielo. Il tutto incorniciato dal profilo di alte montagne, una presenza costante che ci accompagna lungo il viaggio e che nelle giornate di sole rende il paesaggio di una bellezza intensa e intima. L’incipit Due sono gli elementi che caratterizzano questa regione e chi la abita: il primo è sicuramente la tradizione industriale (nomi come Olivetti e Agnelli hanno fatto la storia) mentre l’altro è la spiccata vocazione alle attività agricole, con produzioni di ec-

cellenza nel vino, nei formaggi, nella carne e nei salumi. Entrambi questi aspetti, tecnologia e terra, li ritroviamo nell’incontro che ci attende con una famiglia, quella degli Aimaretti, che nella loro azienda di Villafranca Piemonte da tre generazioni abitano e lavorano operosamente, raccogliendo un mai ostentato successo. E già, perché qui, ai piedi del Monviso, ciò che più conta è lavorare bene e con ponderata misura. Ogni passo fatto, ogni investimento, ogni nuovo assunto, sono decisioni prese dalla famiglia con prudenza e attenzione. Ma anche con tanto coraggio, come quello che ebbe Giuseppe Aimaretti nei primi anni ‘40, quando da semplice operaio macellatore divenne imprenditore con un piccolo macello di suini e un’attività di produzione artigianale dei salumi. L’attrattiva di San Daniele E ancora tanto coraggio ci volle per assecondare quella forte attrazione

che esercitava un altro territorio incastonato dai monti, il Friuli Venezia Giulia, e in esso un prodotto già allora straordinario, il prosciutto di San Daniele. Un’eccellenza che in quegli anni non aveva ancora un consorzio di tutela e figuriamoci una denominazione di origine europea. Così, passo dopo passo, arrivano gli anni ‘70 e il consolidarsi di un rapporto di amicizia speciale e stima profonda, quello con Bruno Brendolan, uomo con grandi competenze su questo prosciutto crudo, la vera passione di Giuseppe. Nel frattempo la famiglia Aimaretti si era allargata e la passione per le cose buone e fatte bene si tramandava anno dopo anno ai figli Claudio e Roberto, ben presto protagonisti dello sviluppo dell’azienda. A&B, Aimaretti & Brendolan Nel 1985 e 1986 si abbozzarono le prime idee che, dopo qualche anno, si concretizzarono con la costituzione

Lo stabilimento di stagionatura A&B Prosciutti di San Daniele del Friuli, in provincia di Udine, è autorizzato all’esportazione verso Sud America, Canada, Europa, Estremo Oriente e Australia.

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San Dan Prosciutti in sintesi La San Dan Prosciutti (controllata al 100% dalla famiglia Aimaretti) svolge l’attività di commercializzazione di prosciutto crudo stagionato a marchio DOP San Daniele (conforme ai disciplinari di specificità di prodotto redatti ed applicati dal Consorzio di tutela del prosciutto di San Daniele). Attualmente la produzione totale del sito corrisponde a circa 3.900 tonnellate di carne fresca salata, pari a circa 270.000 prosciutti Dop l’anno.

di una nuova azienda di produzione e stagionatura in quel di San Daniele del Friuli. Nel 1991 apriva infatti i battenti l’A&B Prosciutti, anagramma di AIMARETTI & BRENDOLAN e, nell’anno successivo, la sua grande inaugurazione con i primi prosciutti stagionati. Da allora sono trascorsi più di vent’anni e A&B, oltre ad essere oggi controllata interamente dagli

Aimaretti, è il primo produttore di Prosciutto di San Daniele marchiato, con una capacità produttiva di 375.000 prosciutti all’anno, tra DOP e prodotto nazionale, commercializzato quest’ultimo con il marchio “Oro delle Venezie”. «Questo stabilimento è funzionale, moderno e altamente produttivo» ci tiene a precisare Claudio Aimaretti, sottolineando che dieci

anni fa la struttura è stata oggetto di un importante ampliamento che ha consentito di raddoppiare la capacità produttiva, con nuovi ambienti di stagionatura dedicati ed ora con un modernissimo centro di disosso rigorosamente interno all’azienda. Qualità di filiera Ma se la produzione è a San Daniele, la strategia e la cultura aziendale restano negli anni quelle vere e autentiche dei piemontesi. «Sempre qui, da Villafranca, è partita la volontà forte di puntare tutto sulla qualità, selezionando direttamente dal nostro macello le carcasse migliori e più conformi alla produzione del San Daniele» mi spiega Claudio. «Si è a lungo ragionato in famiglia per arrivare a mettere a punto un prodotto di qualità a 360° e questo passaggio, interno e graduale, è stato maturato coinvolgendo tutta la nostra filiera» aggiunge il fratello Roberto. Perché qui si parla di filiera di proprietà, considerando che gli Ai-

Lo stabilimento A&B Prosciutti, il più grande in tutto il comparto per la produzione di prosciutto di San Daniele Dop, è un impianto all’avanguardia per tecnologia, impiantistica e certificazioni ma con un’anima sempre artigianale, data la cura del dettaglio e del prodotto su misura per il cliente. Qui una veduta aerea.

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Lo scorso 14 ottobre Claudio e Roberto Aimaretti hanno consegnato al padre Giuseppe il prosciutto crudo “Del Fondatore” San Dan N. 0001 con l’etichetta contenente la sua firma stampata in oro a caldo. Il prosciutto di San Daniele Dop era stagionato 20 mesi e pesava 12 kg. Alla consegna era presente anche la moglie Giovanna Aimaretti.

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Foto di gruppo per la famiglia Aimaretti davanti allo stabilimento di macellazione e lavorazione a Villafranca Piemonte. Da sinistra Roberto e Paola Aimaretti insieme al figlio Luca. Segue Stefano Aimaretti con la madre Ivana, il fratello Andrea e il padre Claudio Aimaretti. maretti hanno 6 allevamenti, per un totale di 75.000 capi. Nel macello di Villafranca Piemonte ogni settimana si lavorano 5-6.000 maiali. Qui c’è una cura maniacale per il benessere degli animali. Nonostante gli allevamenti di famiglia distino solo qualche chilometro dall’impianto e quelli dei conferitori al massimo una trentina, tutti i capi riposano una notte in stalla, con acqua e spazi ampi ed aerati. In allevamento l’alimentazione si basa su un criterio selettivo, con attenzione alla genetica e ad una dieta bilanciata tra siero di latte e una miscela di orzo, soia, crusca e mais. Al raggiungimento del peso medio di 175 kg, tipico del suino pesante, l’animale è destinato al macello.

San Dan: la selezione Premium per i migliori DOP Arriviamo così alle ultime novità del Gruppo. Il processo di selezione delle cosce, allevate nel circuito e lavorate a Villafranca, è oggi destinato ad approvvigionare San Dan Prosciutti, costituita nel 2011, l’ultima nata nella rete d’aziende di proprietà degli Aimaretti. «Negli ultimi anni abbiamo iniziato a selezionare i capi sia nostri sia dei conferitori in modo più oculato, per ricercare quelle caratteristiche ottimali di massa magra e grassa e forma ideali per la produzione dei prosciutti migliori» sottolinea Claudio. Quindi, qual è l’obiettivo di San Dan Prosciutti? «La nostra preroga-

“La nostra prerogativa è far conoscere un prodotto di alta qualità in un momento di crisi nel quale imperano la corsa al prezzo e la tendenza a banalizzare tutto” 32

tiva è far conoscere un prodotto di alta qualità in un momento di crisi nel quale imperano la corsa al prezzo e la tendenza a banalizzare tutto» mi racconta Claudio Aimaretti. «Ecco, in questa fase la famiglia Aimaretti ha sviluppato l’eccellenza delle proprie produzioni con una propria etichetta commerciale che si chiama San Dan Prosciutti». La ragione sociale parla chiaro, perché di San Daniele qua si tratta, non solo per l’ubicazione del prosciuttificio ma anche e soprattutto perché con San Dan si commercializzano esclusivamente prosciutti di San Daniele DOP. A capo della direzione commerciale di San Dan c’è Maurizio Manfrè, una solida esperienza alle spalle e una conoscenza profonda del mercato e delle sue dinamiche. «Abbiamo sviluppato una rete commerciale dedicata di alto livello professionale, per controllare la filiera produttiva fino al dettaglio specializzato e ca-

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Il comune di San Daniele, arroccato sulla sommità di un colle, è al centro del Friuli e domina la pianura circostante; fa parte delle Città Slow e il suo territorio gode di un’aria particolare che dona ai prosciutti un sapore unico e inconfondibile conosciuto in tutto il mondo. pillare, data la copertura dell’intero territorio nazionale» precisa Manfrè, aggiungendo che c’è la volontà di far conoscere il prodotto anche fuori dai confini nazionali. Il futuro Chiedo alla proprietà: quali saranno i prossimi passi di questi imprenditori piemontesi? Sicuramente a breve, ci sarà il completamento di un bellissimo progetto a San Daniele del Friuli, la “Cittadella del Prosciutto”, un luogo aperto a tutta la clientela che vorrà approfondire la conoscenza del San Daniele DOP, con ambienti di stagionatura dedicati, un modernissimo centro di disosso ed affettamento. C’è poi un lavoro da impostare sull’ampliamento del canale export di San Dan Prosciutti, già comunque attivo per A&B data l’abilitazione del macello di Villafranca Piemonte a esportare in Giappone, Russia, Canada e Australia. Ma prima c’è

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una cosa importante da fare, una sorpresa! Consegnare il primo prosciutto crudo di San Daniele San Dan di 12 kg, stagionato 20 mesi con la nuova etichetta “Del Fondatore”, che contiene la firma stampata in oro a caldo di Giuseppe Aimaretti. Il fondatore, 91 anni, e la moglie Giovanna, ci accolgono nella loro casa a pochi passi dallo stabilimento e in prossimità di alcuni locali dai quali 50 anni fa tutto ebbe inizio. La commozione è per tutti tanto forte quanto discreta, come si conviene da queste parti. La famiglia è tutto e lo si comprende dalla quantità di immagini di bimbi piccoli, matrimoni e nipoti che danno calore e affetto al soggiorno. Dopo gli scatti di rito con Claudio e Roberto si guarda già avanti e si torna giù, davanti al nuovo impianto di macellazione che oggi dà lavoro a oltre 100 dipendenti. Qui per l’occasione si uniscono anche gli altri famigliari, con le consorti e i figli. È una famiglia felice e serena quella

degli Aimaretti. C’è la cultura del lavoro, ben fatto e senza vanto, tipica degli artigiani di un tempo. C’è la forza di chi guarda avanti, l’attenzione alla tecnologia, alleata preziosa per dare risultati tangibili e facilitare il lavoro. C’è insomma quell’Italia che ci rende grandi e ci fa credere ancora nel domani. Elena Benedetti Nota A pagina 28 la famiglia Aimaretti al completo. Da sinistra Roberto e Paola Aimaretti insieme al figlio Luca. Segue Stefano Aimaretti con la madre Ivana, il fratello Andrea e il padre Claudio Aimaretti. San Dan Prosciutti Srl Località Aonedis 11/2 33038 San Daniele del Friuli (UD) Telefono: 0432 956767 E-mail: info@sandanprosciutti.it ordini@sandanprosciutti.it Web: www.sandanprosciutti.com

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La lunga tradizione emiliana della mortadella ha raggiunto, con Favola®, un livello di eccellenza senza precedenti. Unica mortadella al mondo ad essere insaccata e cotta nella cotenna naturale, Favola® è il frutto di una lavorazione artigianale di sole carni italiane e di una lenta cottura in forni di pietra. Tutto ciò rende questa mortadella inconfondibile nell’aspetto e in ogni fetta, donando morbidezza e fragranza. Una mortadella davvero unica e inimitabile, adatta anche ai consumatori con intolleranze alimentari.

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Un abbraccio goloso di sapori

Pancette coppate Valtidone più unite, più buone

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iamo sulle colline dell’Oltrepo pavese, a Rovescala. È qui che Valtidone Salumi produce dagli anni ‘50 la sua pancetta coppata, prodotto che ha permesso all’azienda, insieme a coppe e pancette, di affermare il suo brand negli anni, sia in Italia che all’estero. Che cos’è veramente la pancetta coppata? La definizione del vocabolario riporta: “salume realizzato con carni suine, pancetta e coppa, da consumare crudo, tagliato a fette sottili”. Ma per Valtidone Salumi una pancetta coppata rappresenta in verità una fusione di antichi sapori tipici della tradizione contadina. «Da sessant’anni produciamo questo salume e con orgoglio possiamo dire di avere raggiunto un livello di prodotto che ben soddisfa tutte le nostre ricerche e studi, eseguiti per ottenere una fetta compatta in fase di affettamento, non

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rinunciando al gusto tradizionale» ci dice il Responsabile Qualità di Valtidone Salumi. Più facile a dirsi che a farsi! Il plus di Valtidone Salumi, azienda leader italiana nella produzione di pancette e coppe, sta veramente nella fetta. Al taglio, infatti, coppa e pancetta sono unite, legate tra loro alla perfezione, sino a dare l’idea a chi affetta questo salume che si tratti di un unico taglio di carne, stagionato. «Il segreto? La continua ricerca di tecnologie all’avanguardia, che ben sposino le metodiche tradizionali che utilizziamo nella produzione della nostra pancetta coppata, le stesse di sessant’anni fa» continua il Responsabile Qualità. Negli anni Valtidone Salumi ha saputo soddisfare le esigenze di tutta la clientela, creando quattro differenti “pancette coppate”: • pancetta Supercoppata “garanti-

ta” Oro, calibro mm 140; pancetta coppata “Conca d’Oro”, calibro mm 130; • pancetta coppata “Bercop”, calibro mm 140; • pancetta coppata doppia per affettamento calibro mm 140. La pancetta Supercoppata “garantita” Oro e la “Conca d’Oro” differiscono soltanto nel calibro: entrambe, infatti, vengono prodotte con pancetta magra totalmente sgrassata e coppa all’interno, avvolte in carta e legate. Per la pancetta coppata “Bercop”, invece, la coppa è avvolta da una pancetta magra parzialmente sgrassata. Anche in questo caso il prodotto è legato in carta. L’ultima nata in casa Valtidone, ma presente sul mercato già da diversi anni, è la pancetta coppata doppia per affettamento, studiata per rispondere alle esigenze degli affettatori. •

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In alto: Supercoppata “garantita” Oro. Al centro: pancetta coppata Conca d’Oro. In basso: pancetta coppata Bercop.

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Valtidone Salumi Srl Via Frascati 27 27040 Rovescala (PV) Telefono: 0385 756275 E-mail: info@valtidonesalumi.com Web: www.valtidonesalumi.com

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Marketing

Alto Adige: la qualità europea è garantita Il Formaggio Stelvio Dop, la Mela Alto Adige Igp e lo Speck Alto Adige Igp testimonial di un territorio unico e di una qualità eccellente, grazie all’impegno quotidiano di contadini, allevatori e casari che rispettano le norme e gli alti standard dei prodotti con le denominazioni di origine europee

L’

Alto Adige è un territorio unico, una gemma verde incastonata nell’arco alpino, dove ai pascoli si alternano i boschi, dove le città sono a misura d’uomo e anche il più piccolo villaggio

conserva con orgoglio la propria storia ed identità. Il clima è ideale, il sole splende con generosità per gran parte dell’anno e l’alternanza delle stagioni permette alla terra di rigenerarsi e dare nuovi frutti. Dalla migliore tradizione

custodita e tramandata da generazioni, dall’indissolubile legame con una terra coltivata con impegno e rispetto per la natura e per i suoi tempi, dalla continua ricerca ed innovazione sul fronte della qualità nascono veri e

Tre fra le più note delle specialità dell’Alto Adige: il Formaggio Stelvio DOP, la Mela Alto Adige IGP e lo Speck Alto Adige IGP.

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propri tesori del gusto, dall’origine e dalla provenienza garantita. Questi prodotti d’eccellenza vengono coltivati e lavorati come una volta fra le valli dell’Alto Adige. Ogni fase è seguita con competenza personalmente dagli stessi produttori, passo dopo passo, spesso nella medesima famiglia o azienda. Questa attenzione alla tradizione, all’origine e alla genuinità viene riconosciuta dall’Unione Europea e premiata con i marchi DOP (Denominazione di Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografica Protetta). Le eccellenze dell’Alto Adige I prodotti tipici dell’Alto Adige diventano pertanto le eccellenze che “esportano” il nome di questo territorio, ma anche la politica di qualità europea in tutto il mondo e fanno conoscere al grande pubblico l’autentico significato delle denominazioni di origine europea DOP e IGP. Il compito è affidato a tre fra le più note delle specialità dell’Alto Adige: • il Formaggio Stelvio DOP; • la Mela Alto Adige IGP; • lo Speck Alto Adige IGP. Sono questi i protagonisti della nuova campagna triennale “Dall’Alto Adige. Garantito. – Qualità e origine certificate” rivolta a quattro Paesi europei — Italia, Germania, Austria e Repubblica Ceca — e realizzata dal Consorzio di Tutela Formaggio Stelvio insieme al Consorzio di Tutela Mela Alto Adige ed al Consorzio di Tutela Speck Alto Adige, con il sostegno dell’Unione Europea e dello Stato italiano. Prodotti di qualità garantita, testimonial dei rispettivi marchi di origine, perché esempi di eccellenza, all’insegna dell’origine, della tracciabilità e della sicurezza. Il Formaggio Stelvio DOP Per il Formaggio Stelvio DOP viene usato solo il latte delle mucche che pascolano in Alto Adige, il quale deve essere lavorato entro e non oltre le 48 ore dalla raccolta secondo i metodi fissati dal severo disciplinare di produzione. I regolari controlli di qualità rappresentano una parte essenziale del processo di produzione.

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La Mela Alto Adige IGP La Mela Alto Adige IGP è sottoposta a regolari e severi test da parte di un organismo indipendente, a garanzia della naturalezza della sua origine e qualità. Succosa ed aromatica, dal gusto inconfondibile, viene coltivata da più di 7.000 piccole aziende familiari nel più grande frutteto d’Europa. Lo Speck Alto Adige IGP Lo Speck Alto Adige IGP è il punto d’incontro fra la tradizione mediterranea della stagionatura all’aria fresca e quella nordica dell’affumicatura con legna poco resinosa. Viene prodotto esclusivamente da cosce di suino magre e ogni fase della lavorazione è sottoposta a continui controlli. Le persone dietro i prodotti A narrare ed illustrare il percorso che dalla tradizione conduce alla qualità sono le persone “vere” che ogni giorno lavorano sul territorio. Uomini e donne con il loro nome e la loro storia, che raccontano come nascono i prodotti dell’Alto Adige, perché sono così buoni e genuini e come si possono impiegare in cucina. Tutte queste informazioni vengono trasmesse con un linguaggio semplice e diretto, attraverso esempi di vita quotidiana e con ricette proposte per esaltare al meglio le qualità dei prodotti tipici. I piatti, che sono nati nella cucina di casa e dall’esperienza familiare quotidiana, sono facili da realizzare, illustrati passo passo e rispondenti a diverse esigenze, dal pranzo veloce alla cena con gli amici, dalle ricette per i più piccoli a quelle per gli sportivi. Soluzioni alla portata di tutti, come lo sono anche i prodotti testimonial dell’iniziativa. La semplicità, quindi, è la chiave anche per parlare direttamente al consumatore. I marchi DOP e IGP diventano simbolo di un percorso di filiera produttiva fatta di origine e qualità, un’indicazione chiara e immediata di certificazione garantita che porta il consumatore verso la strada della consapevolezza nell’acquisto. >> Link: www.altoadigegarantito.eu


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Prodotti tipici

Il gammune di Belmonte perla della norcineria calabrese È una vera rarità questo salume ottenuto dalle cosce di suini di razza Nero di Calabria. Dal 2011 è presidio Slow Food di Massimiliano Rella

È

probabile che non vi sia mai capitato di intravederlo nei banchi di salumeria tra i più noti prosciutti ed insaccati, né di sentirne ordinare qualche fetta nei supermercati e in quei negozi che vendono prodotti di largo consumo. Ma non siete voi ad essere distratti: il Gammune di Belmonte Calabro è un vero prodotto di nicchia, una piccola produzione recuperata e, sol-

tanto dal 2011, presidio Slow Food. Il nome ricorda lo spagnolo jamón, che significa appunto “prosciutto”; ma l’origine potrebbe derivare dal termine dialettale gamma, cioè gamba in calabrese. Quel che è certo è che si tratta di un’altra prelibatezza della norcineria calabrese, terra ricca di produzioni golose, dai salumi alla soppressata, dal capocollo a vari tipi di salsiccia.

Il gammune è fatto soltanto a Belmonte Calabro, piccolo borgo medievale ben conservato in provincia di Cosenza, sulle pendici del monte Cocuzzo, a 262 metri sul livello del mare, tra il Tirreno e la vallata del fiume Verre. Da qui, con una fetta di “culatello calabro” e un bicchiere di vino rosso, possiamo goderci una vista panoramica con le isole Eolie in lontananza.

Il gammune del produttore Mario Arlìa.

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Lavorazione del gammune.

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Belmonte Calabro (CS). Un territorio che, vuoi per la composizione del terreno vuoi per il clima, offre tipicità sorprendenti come il pomodoro di Belmonte Calabro, un grande “cuore di bue” senza semi a pasta compatta, di colore rosa intenso e sapore dolciastro e non acido, che può pesare più di un chilo, non a caso detto anche “gigante”, una DE.CO. (Denominazione Comunale d’Origine) ottima per insalate e non solo. Il gammune viene ottenuto dalle cosce del maiale, lavorato come un prosciutto disossato e arrotolato. È fatto esclusivamente con carni di suini di razza Nero di Calabria, maiale di taglia medio-piccola con il muso lungo e sottile, orecchie grandi e pendenti, setole scure, più lunghe e irsute sul dorso. Per salvaguardare la razza, discendente dal Nero Casertano ma da secoli allevata nelle campagne calabresi, è nato il Consorzio Nero di Calabria, sono stati censiti 16 allevatori, per lo più concentrati in provincia di Cosenza, ed è stata avviata una selezione che conta oggi 4.800 capi. I suini vengono allevati allo stato brado e lasciati pascolare in boschi di faggi, castagni e querce,

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la sera radunati in piccoli recinti. Si nutrono di ghiande, tuberi, castagne che trovano razzolando all’aperto, con un’integrazione di cereali locali e ortaggi. Lavorazione e caratteristiche La produzione del gammune comincia a dicembre fino a febbraio, nel periodo più freddo, quando, secondo la consuetudine contadina, venivano macellati i maiali. Per il gammune gli animali devono aver raggiunto i 16 mesi d’età e il peso di almeno 150 chilogrammi. La lavorazione richiede precisione ed esperienza per evitare di intaccare la carne e i nervi e lasciare non più di due dita di grasso intorno alla coscia. La carne, una volta salata, è aromatizzata con salsa di peperone dolce, altra specialità calabrese, un tempo fatta in casa, spalmata sulla polpa. Quindi viene insaccata nella vescica del suino o nelle pleure distaccate dal grasso, o, in alternativa, in sacche formate da pezzi di pleura e vescica cuciti insieme. Ciascun gammune pesa dai 2 ai 3 chili e mezzo. Un altro aspetto importante per la qualità e il sapore è la stagionatura del salume stretto tra una serie di canne

e appeso per almeno 16 mesi nelle cantine dei laboratori artigianali, in condizioni climatiche favorevoli e salutari grazie alla brezza marina del Tirreno. Oggi ci sono solo tre produttori. MARIO ARLÌA, uno dei protagonisti del recupero, è stato il primo a riprendere la vecchia tradizione della norcineria locale risalente all’800, a rischio di estinzione, ed è responsabile del presidio Slow Food. Utilizza in parte propri maiali e in parte li acquista da allevatori associati al Consorzio del Nero di Calabria. Vende il prodotto al prezzo di 90,00 €/kg nel negozio dell’azienda Colavolpe di Belmonte Calabro: aperto dal lunedì al sabato con orario 9.00-13.00 e 16.00-20.00 e la domenica mattina 9.30-13.00. Massimiliano Rella Nota Photo © Massimiliano Rella. Associazione Produttori del Gammune Loc. Santa Barbara 98 87033 Belmonte Calabro (CS) Telefono: 328 4620955 Web: www.gammunedibelmonte.it

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Specialità della Tuscia, nella lista dei PAT italiani

I budellucci o viarelli, detti anche beverelli o budellini di Nunzia Manicardi

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l nome, o meglio, i tanti nomi con i quali possono essere identificati suscitano già di per sé una sana allegria, rimandandoci l’immagine di simpatiche tavole conviviali o di rustici spuntini conditi con risate e spontaneità. Budellucci, viarelli, beverelli o budellini che dir si voglia, stiamo parlando in ogni caso di prodotti derivati dalla

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lavorazione degli intestini (budella) del maiale. Sono tutti salumi conditi, ricavati dalle pareti interne dell’intestino tenue. Quando invece si impiega l’intestino crasso vengono chiamati budelloni. La pezzatura varia dai 200 ai 300 grammi, il colore è giallo chiaro, il sapore sapido. Il consumo di budella di maiale è noto sin dal tempo dei Romani. In

molte parti d’Italia è sopravvissuto fino ad oggi, entrando a far parte della tradizione più genuina, tipica ed apprezzata soprattutto da parte di chi segue il “precetto” che del maiale non si butta via niente. Gran parte dell’Italia centrale (Lazio, Umbria, Toscana, Marche) li considera tuttora un elemento di base della gastronomia più “verace”.

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Nella Tuscia sono un vero e proprio prodotto storico. Nella città di Viterbo vengono chiamati viarelli, come probabile derivazione da beverelli, nome che prendono in alcuni paesi della provincia (zona dei Monti Cimini) perché, essendo piccanti e abbastanza salati, fanno venire sete. Favoriscono quindi il bere in compagnia, cosa anche questa a molti gradita. A nord del lago di Bolsena sono noti come busicchi e, risalendo nella Maremma ormai toscana, come budelluzzi. Non sono però considerati un cibo esclusivamente da osteria, si consumano infatti anche in famiglia, cotti alla brace; durante la cottura, schiacciandoli in mezzo a due fette di pane casereccio, se ne può ricavare il tradizionale pan’unto oppure, in una versione leggermente più elaborata, si possono tagliare le fette di pane (naturalmente casereccio) a grandi dadi e distribuirli sul fondo di una teglia; ci si appoggiano sopra i budellucci e si cuoce in forno caldo a 200°, girandoli due o tre volte in modo che il grasso goccioli sul pane. Si ritirano quando il pane è dorato e si servono subito. La storia di un prodotto che va scomparendo La lavorazione del maiale per i budellucci risale almeno al Medioevo. Su di essi, come per molti prodotti artigianali, esistono solo testimonianze orali tramandate da una generazione all’altra. La produzione avviene esclusivamente nei laboratori artigianali di norcineria sparsi su tutto il territorio viterbese. Il prodotto, con il nome generico di budellucci o viarelli, è stato incluso nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani pubblicati nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 136 del 1406-2001 in base al DL n. 350 dell’8 settembre 1999. Con il nome di beverelli o budellini troviamo descritto lo stesso prodotto nel volume dei “Salumi” pubblicato a cura dell’INSOR nell’edizione del 2001. Si tratta comunque di una tipologia di produzione classificata come a rischio. Per preparare i budellucci viene utilizzato il maiale locale, alimentato

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Essendo piccanti ed abbastanza salati, i budellucci venivano utilizzati nelle tipiche osterie del viterbese per stimolare il desiderio di bere qualche bicchiere in più. Mangiati così, al naturale, oggi vengono per lo più cotti alla brace. a secco con prevalenza di cereali. Inoltre, l’asciugatura avviene a camino con impiego di legno di quercia, olivo e faggio (procedura per cui è stata accordata la deroga alle norme igieniche generali). La produzione è esclusivamente invernale. La caratteristica principale di questo prodotto è che, a differenza del suo similare ricavato dall’intestino crasso (budellone), che va mangiato sempre cotto, il budelluccio o viarello, una volta eliminato lo strato fibroso interno, condito ed essiccato, risulta tenero a tal punto che può essere mangiato anche crudo. La preparazione artigianale è rimasta quella antica tradizionale. Si preleva tutto il tratto dell’intestino del maiale, lo si rivolta come una calza in modo da portare all’esterno lo strato interno che deve essere lavato accuratamente dal momento che si trova a contatto con le deiezioni e, subito dopo, si preleva lo strato fibroso cilindrico interno, che si mette da parte per insaccarvi le salsicce; quello che resta viene poi sezionato in più parti, di lunghezza variabile (circa un metro). Questi spezzoni, che sono composti da un sottile strato fibroso di sierosa addominale alla quale rimangono attaccati piccoli globuli di grasso e linfonodi, vengono sottoposti a una nuova e più accurata pulizia; in seguito sono conditi con sale, pepe

e fiori di finocchio selvatico, senza aggiunta di alcun conservante, e messi a seccare, appesi su un bastone, per alcuni giorni fino al momento del consumo. Una volta per la fase di maturazione (essiccazione) si utilizzava il camino di casa, dove si lasciavano a maturare per 5-6 giorni o anche più. Attualmente la preparazione avviene in locali idonei, rispondenti alle leggi in vigore, nei mesi che vanno da ottobre ad aprile, ma in alcuni casi anche dopo. I budellucci, quando sono maturi, si conservano per brevi periodi, preferibilmente appesi in un ambiente asciutto e aerato. La produzione, come già detto, ancora oggi è esclusivamente artigianale, per cui l’acquisto avviene direttamente dal produttore al consumatore, nell’ambito del territorio locale, senza la possibilità di commercializzazione a distanza. Ecco perché va ormai scomparendo, non soltanto per la diminuzione dei laboratori artigianali di norcineria, ma anche in seguito al cambiamento dei gusti da parte delle nuove generazioni. Ed è un vero peccato. Sicuramente non bisogna eccedere: sono sì poco digeribili, ma un budelluccio ogni tanto… Le ricette della Tuscia Abbiamo trovato una ricetta tradizionale pubblicata sul web da ITALO ARIETI: viarelli in graticola*. Avvisia-

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Coppiette, salamini, salsicce di fegato e budellucci de Il Norcino Bernabei di Marino, Roma (photo © Elena Benedetti). mo subito che con la preparazione i semplici budellucci acquistano in “pesantezza”, in quanto gli ingredienti da utilizzare sono tutti molto corposi: pancetta e fegatelli di maiale, olio, sale, pepe, finocchio. Si tagliano a pezzi i budellucci e si mettono a cuocere sulla graticola nel camino, dove si sarà acceso un bel fuoco a legna. Di solito, fa notare l’autore, insieme ai budellucci, si cuociono contemporaneamente, per arricchire un poco il piatto, delle fette di ventresca (la parte più pregiata del tonno rosso), cosparse di sale e pepe, e dei fegatelli di maiale avvolti nella rete e conditi con olio, sale, pepe e finocchio. Durante la cottura si usa fare il classico pan’unto. Da provare sono anche i budellucci in umido. I budellucci possono essere anche d’agnello (l’animale deve essersi nutrito solo del latte materno) e in tal caso, sempre nella Tuscia, prendono il nome di capomazzi*. Vanno preparati senza essere lavati internamente ma legati a treccine dopo essere stati privati del grasso esterno e di alcune parti fibrose. Sempre Italo Arieti ci

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suggerisce di gustarli in graticola, avendo cura di bagnarli di tanto in tanto durante la cottura con limone e olio, al tegame con cipolla o in padella con patate. Altra ricetta interessante tipica della Tuscia è rappresentata dalle scannature in padella*, i cui ingredienti sono: 4 o 5 scannature di agnello, 3 cipolle grandi, aglio, olio, sale, pepe, vino bianco, pomodoro. Le scannature di agnello non sono altro che il sangue rappreso ricavato dall’uccisione dell’agnello, che una volta veniva scannato, ossia sbacchiato, infiggendogli un coltello nel collo (dove i vasi sanguigni sono più grossi). Per questo motivo il sangue che ne usciva era detto scannatura. Nella ricetta di cui stiamo parlando si era soliti, per dare maggiore consistenza e sapore, aggiungervi anche i budellucci dell’agnello. La ricetta prevede che si prendano 4 o 5 scannature di agnello e le si taglino a pezzi, unendo poi i budellucci d’agnello anch’essi tagliati a pezzi e privati della pelle esterna. Si mettono a cuocere in una padella in cui si sono

fatti soffriggere, nell’olio d’oliva, 2 o 3 spicchi d’aglio mondati ma interi, da gettar via non appena prendono colore. Prima di immettere in questo soffritto le scannature e i budellucci, bisogna aggiungere le cipolle tagliate a fettine con sale e pepe, lasciarle imbiondire un poco e poi aggiungere tutto il resto con mezzo bicchiere di vino bianco. Quando questo sarà evaporato, completare con qualche cucchiaio di passata di pomodoro e cuocere per un quarto d’ora (o più se necessario) a padella coperta, aggiungendo eventualmente dell’acqua calda per ottenere una certa quantità di sugo, indispensabile per la buona riuscita del piatto. Nunzia Manicardi Note A pagina 46 Civita di Bagnoregio, ad una ventina di chilometri da Viterbo; è famosa per essere denominata “la città che muore” a causa dell’erosione del terreno che lentamente ne minaccia l’esistenza; le ricette contrassegnate da * sono tutte tratte dal sito web www.intuscia.it

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Coppa, Pancetta e Salame Piacentino Dop

Le eccellenze piacentine verso Expo 2015

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siste un territorio dove da sempre si producono salumi di altissima qualità. Questo posto è la provincia di Piacenza. Più componenti concorrono a questo risultato: il territorio è infatti adagiato, da un lato, lungo le rive del fiume Po e, dall’altro, contornato dagli Appennini. Imponenti elementi naturali che creano quel microclima unico che concorre in modo esclusivo alla stagionatura dei salumi. Quindici salumifici riuniti in un Consorzio di Tutela preservano antiche tecniche produttive dove la mano dell’uomo fa ancora la differenza, nel rispetto di ferrei disciplinari di produzione avvallati dalla Comunità europea e dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Questo in breve l’identikit di eccellenze alimentari che da secoli deliziano il palato di chi sa apprezzare il meglio della salumeria Italiana: Coppa Piacentina, Pancetta Piacentina e Salame Piacentino, ecco il trio che rende Piacenza l’unica provincia europea a vantare tre salumi Dop nel vasto scenario delle eccellenze made in Italy. Sapori delicatissimi caratterizzano la Pancetta piacentina, il profumo e la dolcezza sono propri della Coppa piacentina, mentre il Salame si propone con un carattere nello stesso tempo deciso e morbido. Ed è questa la sequenza degli assaggi che gli intenditori suggeriscono per catturare quelle sensazioni che nel tempo hanno reso noti in Europa questi salumi. Expo 2015 è sicuramente un appuntamento che il Consorzio di Tutela Salumi Dop Piacentini persegue da tempo, consapevole delle opportunità uniche che si verranno a creare. Per questo una serie di iniziative, pro-

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Roberto Belli, presidente del Consorzio Salumi Tipici Piacentini. gettualità e collaborazioni che nel semestre dell’esposizione universale saranno attivate per meglio rendere internazionali prodotti di altissima gamma quali sono le tre DOP. Tra queste azioni l’installazione su tutto

il territorio della provincia di Piacenza di una curata cartellonistica stradale attraverso la quale turisti e visitatori saranno informati che stanno percorrendo un territorio in cui i salumi sono la bandiera enogastronomica.

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Le Denominazioni di Origine Protetta Coppa Piacentina Dop, Salame Piacentino Dop e Pancetta Piacentina Dop sono riservate a prodotti di salumeria che rispondono alle condizioni ed ai requisiti stabiliti dai “Disciplinari di Produzione” del Consorzio di Tutela Salumi Dop Piacentini, registrati dall’Unione Europea di Bruxelles a norma del Regolamento UE 1151/2012 e riconosciuti con Regolamento CE 1263/96. I tre golosissimi Dop piacentini sono immessi al consumo numerati e dotati di particolare contrassegno a garanzia dell’origine e dei controlli effettuati allo scopo di accertarne la qualità, nonché l’identificazione. Oltre a ciò è obbligatorio che sull’etichetta, insieme alla ragione sociale del salumificio piacentino produttore, sia impressa la dicitura a caratteri chiari ed indelebili di: Coppa Piacentina o Salame Piacentino o Pancetta Piacentina a Denominazione di Origine Protetta insieme alla sigla Dop e il riferimento al controllo da parte del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. I Salumifici sono dislocati nelle quattro valli piacentine Arda, Nure, Tidone e Trebbia che prendono i nomi dai fiumi che li percorrono. Castelli assai ben conservati, artistiche chiese, scenografici ambienti naturali, sono tutti ottimi motivi per far visita a ciascuna di esse; non da meno, comunque, è la presenza di numerosi salumifici che, se pure non dà risposta diretta a richiami puramente intellettuali, dà invece una grande soddisfazione a chi ha voglia di scoprire la cultura dei luoghi attraverso le sue migliori specialità alimentari, godendosi al tempo stesso quello che è un irrinunciabile piacere della vita. >> Link: www.piacenzafoodvalley.it www.consorziosalumidoppiacentini.com

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LA PORCHETTA ARTIGIANALE TOSCANA DAL 1975


Bologna vuol dire mortadella di Giovanni Ballarini

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ologna con iniziale maiuscola o minuscola? La città o il salume? Questo è un dilemma che sembra interessare soltanto la mortadella, il tipico salume del capoluogo emiliano, conosciuto massimamente al di fuori della regione di appartenenza e all’estero con il nome della città d’origine (e quindi la lettera maiuscola). Entrambi, a buon titolo, dotti, rossi e in una certa misura anche giustamente grassi, una dote segno di ricchezza. Cibo dei costruttori Un tempo anche a Bologna ogni corporazione aveva il suo linguaggio gergale e i suoi cibi. Così, se il corpulento cittadino borghese felsineo sulla tavola di tutti i giorni aveva le tagliatelle con

il classico ragù, il muratore, la domenica, aveva le staffilose, perché così chiamava le tagliatelle che dovevano avere la forma e la soda consistenza dello staffile e come questo colpire il gusto, ma si saziava quotidianamente con pane e mortadella. Un popolo di costruttori sapiente quello bolognese, tanto da dare al suo secchio di lavoro il nome di calzaider, che richiama il nome greco del nobile metallo del rame. Mentre i grandi delle diverse arti, come il compositore GIOACHINO ROSSINI, fecero conoscere la mortadella nei salotti eleganti e mondani, furono proprio i muratori emigranti bolognesi a diffonderla come cibo popolare in Europa e in America, dove il salume è tuttora noto con il nome di Bologna.

Rossa come le torri Molte cattedrali antiche della pianura padana erano bianche, come il lardo che nutriva chi le aveva costruite. Le chiese di Bologna e le sue famose torri, invece, non sono bianche e così la tanto amata Basilica di San Petronio, che ha la facciata incompiuta di mattoni rossi, tra i quali s’intravede il bianco della calce a fare da legante. Rosso e bianco, proprio i colori del panino con la mortadella. Solo un’ardita analogia o qualcosa di più? Nel mondo dei falsari «Bolognese: quello della mortadella?» è la domanda che molte volte si sentono rivolgere i bolognesi che viaggiano in Italia e all’estero. Una domanda che permette di risponde-

Chi può resistere ad un invitante panino con la mortadella? Con il suo profumo fragrante e il suo gustoso aroma, la mortadella è capace di evocare in chi, per vari motivi, è lontano da casa, memorie e suggestioni della propria città (photo © Francesco83 – Fotolia mangiarebuono.it).

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re ricordando una serie di caratteri speciali di questo dotto salume e di sfatare una altrettanto numerosa serie di equivoci. “Oro di Bologna che diviene rosso dalla vergogna” si diceva fin dal Medioevo, perché vi era fama che Bologna, città dei commerci, ospitasse molti falsari delle cose più preziose, come l’oro. Ma la falsificazione sembra interessare anche il nostro prezioso salume, perché si racconta che la mortadella cosiddetta di “puro suino” venisse spesso realizzata con le carni dell’animale più “ignobile” per gli scolari dello Studio Bolognese, vale a dire l’asino o il somaro. A questo punto, però, la storia si complica perché bisogna far ri-

ferimento al significato simbolico degli animali. “Somari” a Bologna erano detti gli studenti svogliati e incapaci: dare del somaro o dell’asino ad uno studente comportava, per contrasto, nobilitare lo studente bravo e volonteroso. Lo stesso avveniva per la mortadella. Anche se, a dire il vero, era solo un modo di dire perché la carne di asino era una rarità e, quindi, ben più costosa di quella di maiale. Oggi i falsari della mortadella non sono nella città emiliana, ma sono sparsi in altre parti del mondo dove, con il nome di “Bologna” o altri appellativi più o meno storpiati, vengono spacciate le più ignobili preparazioni salumiere, con carni di maiale finemente tritate, inserite

sempre più spesso in involucri plastici rapidamente trattati con il calore. Mortadelle che non sono mortadelle La mortadella, quella vera, come la mortadella Bologna IGP, è frutto di un raffinata tecnologia, che non parte da un semplice trito di carni, ma da una finissima mousse, che viene poi insaccata in un involucro impermeabile all’aria (vescica di maiale), il tutto trattato a calore secco di basso livello e per lungo tempo. Un procedimento inventato molti secoli fa. Il risultato è un salume eccellente, ben diverso da quegli anonimi insaccati presentati all’estero come squallide bologne! Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

MortadellaBò: oltre l’evento, un volano economico per la città Oltre 6.000 kg di mortadella venduti, 130.000 persone presenti, più di 2.000 partecipanti a laboratori e degustazioni, 57.000 le visualizzazioni sulla pagina Facebook durante i 4 giorni dell’evento, 20.000 i panini sfornati e preparati live con Mortadella Bologna Igp in collaborazione con l’Associazione dei Panificatori Bolognesi e la Federcarni di Bologna. MortadellaBò, la manifestazione firmata dal Consorzio Mortadella Bologna, dal 9 al 12 ottobre ha fatto del capoluogo felsineo un’autentica Capitale del Gusto. Ma il vero successo della manifestazione sta nell’essere riuscita ad andare oltre il concetto di spettacolo alternando eventi di grande appeal mediatico a momenti di approfondimento. «Il mercato della Mortadella Bologna Igp, nonostante la flessione dei consumi del mercato della salumeria, sta tenendo anche di più rispetto al prodotto generico non a marchio Igp» spiega Corradino Marconi, presidente del Consorzio Mortadella Bologna. «I dati del primo semestre confermano questo trend positivo. I fatti dimostrano che il consumatore è oggi sempre più attento ai prodotti ad origine certificata e la partecipazione di pubblico a MortadellaBò decisamente più numerosa rispetto alla scorsa edizione non fa che confermarlo: c’è curiosità ma anche ricerca e maggiore consapevolezza e i risultati ottenuti quest’anno non possono che stimolarci spingendoci a fare ancora meglio. Il Consorzio vuole che MortadellaBò diventi un momento strategico per la promozione del prodotto ma anche del “Marchio Bologna”, un volano economico e culturale per l’intero territorio». Sono insomma molteplici i fattori che hanno concorso al successo di MortadellaBò 2014: un ricco calendario di appuntamenti dedicati a degustazione e conoscenza del prodotto, grande attenzione all’intrattenimento come in occasione del “Twitter Awards”, senza dimenticare la cultura e la formazione, grazie alla collaborazione con l’Informagiovani Multitasking del Progetto Politiche per i Giovani del Comune di Bologna. «Al secondo anno possiamo dire di aver creato i presupposti per far diventare nel giro di breve questa manifestazione un importante volano economico per la città grazie al coinvolgimento trasversale di moltissimi soggetti del tessuto economico e sociale cittadino» sottolinea Gianluigi Ligasacchi, Direttore del Consorzio Mortadella Bologna (in foto a lato insieme alla showgirl Michela Coppa). «Siamo orgogliosi di essere riusciti a fare squadra con la città, con enti, istituzioni e associazioni che hanno voluto condividere con noi questa nuova sfida». La lista dei partner è veramente consistente: MiPAAF, Regione Emilia-Romagna, APT Emilia-Romagna, Provincia e Comune di Bologna, Camera di Commercio di

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Bologna; Ascom Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato, CNA, CIA, Coldiretti, Confagricoltura e Agriturist. E ancora: Slow Food Emilia-Romagna, Associazione Panificatori Bologna e Provincia, Federcarni di Bologna, Comitato per le Manifestazioni Petroniane, Mutua Salsamentari 1876, Consorzio della Piadina Romagnola, Enoteca Regionale dell’Emilia-Romagna, Consorzio dei Vini dei Colli Bolognesi, Consorzio Pignoletto Emilia Romagna, Consorzio Marchio Storico dei Vini Reggiani, Consorzio Marchio Storico dei Lambruschi Modenesi, le Sfogline di Bologna e Provincia, gli Sfoglini associati CNA, le Cesarine, l’Associazione TOur-tlen, le Scuole primarie della città. «Prossimo obiettivo — continua Ligasacchi —internazionalizzazione, estendere il “campo di gioco” in maniera trasversale ai tanti settori strategici che fanno parte del tessuto cittadino per continuare ad alimentare il motore dell’economia locale, l’immagine di Bologna e del suo patrimonio gastronomico, artistico e culturale». Un alimento a misura di dieta Grande spazio all’attualità con il tema legato alla corretta alimentazione protagonista di un incontro in cui la dott.ssa Evelina Flachi, fra le massime esperte nazionali in Scienza dell’alimentazione, ha “ridisegnato” la dimensione di questo prodotto, sfatando molti falsi miti e dimostrandone l’utilizzo anche in una dieta equilibrata. «A differenza di quanto in genere si crede, la Mortadella Bologna Igp è oggi più che mai in grado di soddisfare le esigenze di chi presta attenzione alla propria alimentazione» ha affermato la dottoressa Flachi. «Un etto di prodotto contiene circa 285 calorie, lo stesso valore — a parità di quantitativi — della carne di pollo o di un pesce come ad esempio la spigola. Gli stessi grassi presenti sono monoinsaturi, simili a quelli dell’olio extra vergine di oliva e il basso livello salino va incontro a chi soffre di diverse problematiche. Parliamo insomma di un salume che, grazie ad un apporto di grassi e sale ormai estremamente contenuto, risulta perfettamente inseribile in regimi alimentari equilibrati». Diffidare dalle imitazioni Un salume che trova nel marchio Igp una garanzia assoluta del rispetto di tutti i passaggi imposti dal disciplinare di produzione — fra cui origine delle materie prime e processo di lavorazione — e, soprattutto, in termini di controllo da parte del Consorzio Mortadella Bologna. «Come Consorzio ci poniamo a garanzia del consumatore sulla qualità del prodotto Igp — dice Corradino Marconi — attraverso una fitta rete di controlli che prevede anche due ispezioni settimanali in ciascuna delle 31 aziende consorziate, per tutto l’anno». Il tutto “testabile” nel piatto, con un prodotto dall’aspetto visivo e dalle caratteristiche gustative uniche, che si differenzia anni luce dai tanti “surrogati” che si trovano sul mercato. «I problemi riguardano soprattutto l’estero — aggiunge Marconi — quando uno trova prodotti di colore “mattonato”, con nomi che ricordano vagamente l’italianità, allora c’è da preoccuparsi. In Italia le cose sono più semplici: basta verificare la presenza del logo blu del Consorzio, è questa la migliore garanzia per il consumatore”. Ricordiamo che la Mortadella Bologna è l’unica mortadella sul mercato che può fregiarsi del marchio Igp ottenuto nel 1998. Bologna nel DNA A partire dal tardo periodo rinascimentale sono numerose le tracce di questo prodotto in testimonianze letterarie e storiche delle varie epoche. Per esempio, nel 1661 il cardinale Farnese emise un bando che codificava la produzione della mortadella fornendo uno dei primi esempi di disciplinare simile a quelli attuali di Dop e Igp. La fabbricazione e l’applicazione dei previsti sigilli di garanzia erano di competenza della Corporazione dei Salaroli, che già nel 1376 aveva per stemma un mortaio con relativo pestello. Stufatura e docciatura: caratteristiche produttive di unicità La tecnica produttiva della mortadella è assolutamente unica: base di partenza sono carni attentamente selezionate (trattate secondo un disciplinare europeo) che vengono triturate e ridotte ad un’emulsione cremosa attraverso tre diversi passaggi in apposite macchine tritacarne. Vengono poi preparati i cubetti di grasso, ricavati principalmente dal grasso di gola, il più duro e, di conseguenza, il più pregiato tra i grassi. L’impasto ottenuto viene insaccato nella misura voluta (esistono mortadelle da pochi grammi fino a oltre 20 quintali) e sottoposto a cottura: è la fase più delicata, che dona al salume l’aroma e la morbidezza; per il procedimento si usano stufe ad aria secca, con tempi di cottura che vanno da poche ore a diversi giorni. Segue una docciatura con acqua fredda e una sosta in cella di raffreddamento che consente al prodotto di “stabilizzarsi”. L’aggiunta di polifosfati, sostanze ad azione colorante e proteine del latte è vietata.

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Igp alla piadina romagnola Storico riconoscimento per la piadina romagnola che ha ottenuto la registrazione come Indicazione Geografica Protetta (IGP). D’ora in poi si potrà chiamare Piadina Romagnola/Piada Romagnola — anche nella variante alla Riminese — solo quella prodotta e confezionata esclusivamente nel suo luogo d’origine, la Romagna. Solo i produttori che la produrranno secondo il Disciplinare approvato potranno commercializzare la Piadina Romagnola IGP. Nessun altro potrà farlo. Soddisfatto il Consorzio di Promozione della Piadina Romagnola, che ha promosso e sostenuto il lungo e difficile percorso per ottenere questo storico riconoscimento. «L’IGP non è la vittoria del Consorzio ma di tutta la Romagna: della sua storia, delle sue tradizioni, dei suoi prodotti tipici» ha dichiarato, soddisfatto, il presidente ELIO SIMONI. «Da tanto, troppo tempo abbiamo assistito a tentativi di imitazione al di fuori dei nostri confini, senza poter far nulla in merito. Oggi abbiamo uno strumento normativo per intervenire. Solo la vera Piadina Romagnola IGP sarà contraddistinta dal simbolo dell’Unione Europea e dal proprio speciale contrassegno, e i consumatori saranno certi di acquistare un prodotto controllato, garantito e di qualità. Ringrazio tutte le istituzioni che ci hanno sostenuto in questa battaglia: la Regione Emilia-Romagna in primis, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, le associazioni Confartigianato e CNA della Romagna che hanno creduto fin da subito in questo progetto e ci hanno affiancato e supportato e tuttora svolgono un ruolo fondamentale per la realizzazione dello stesso». Così, quello che è stato chiamato il “cibo di strada” della Romagna, celebre in tutto il mondo per la semplicità degli ingredienti e la versatilità negli abbinamenti, da oggi ha una marcia in più. Ingredienti e lavorazione Farina di grano tenero; acqua (quanto basta per ottenere un impasto omogeneo); sale (pari o inferiore a 25 grammi); grassi (strutto e/o olio d’oliva e/o olio d’oliva extravergine fino a 250 grammi). Il Disciplinare contempla anche materie prime opzionali come gli agenti lievitanti (carbonato acido di sodio, difosfato disodico, amido di mais o frumento, fino a 20 grammi), con il divieto assoluto di aggiungere conservanti, aromi e/o altri additivi. Dopo l’impasto e la porzionatura in pani o palline, il passo successivo è la laminatura attraverso matterello manuale oppure laminatrice meccanica. Infine, la cottura su un piano cottura che varia da 200 a 250°C con un massimo di 4 minuti. Per potersi fregiare dell’IGP la piadina deve essere confezionata nelle sole zone di produzione stabilite. Il Disciplinare presenta la piadina al consumo in due tipologie: quella con un diametro minore (15-25 cm) ma più spessa (4-8 mm); quella alla Riminese con un diametro maggiore (23-30 cm) e più sottile (fino a 3 mm).

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I salumi in tavola Il cotechino in galera o cotechino fasciato

Oh cotichin, null’altro a te somiglia… di Clara Scaglioni

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l cotechino è un insaccato da cuocere realizzato con una miscela di carne di maiale, lardo, cotenna (chiamata in passato cotica, da cui deriva il nome) e spezie, che viene poi introdotta nel budello di maiale. Ne esistono vari tipi che differiscono leggermente nell’impasto: c’è quello veneto-friulano detto musetto, il ferrarese, quello marchigiano di San Leo, quello alla vaniglia di Cremona. La presenza al suo interno della cotenna, in percentuale più o meno elevata, lo qualifica come il parente povero, anche se eccellente, dello zampone. Infatti, pur esigendo lo stesso tipo di impasto, non ha mai raggiunto la fama dello zampone il cui pregio è l’essere insaccato nel caratteristico zampetto del maiale. Il cotechino pesa in media tra i 500 grammi e il chilo e il tempo di cottura varia a seconda della grandezza. Il procedimento corretto prevede innanzitutto di tenerlo a bagno in acqua fredda per almeno un’ora. Facendo molta attenzione, va poi bucato in tutte le sue parti con un ago grosso, e non con i rebbi della forchetta che potrebbero rompere la pelle. Lo si fascia con una garza o una tela bianca, che non abbia profumi di detersivo, si mette in una pentola con acqua fredda e si porta ad ebollizione, ma solo accennata, per non rompere l’involucro (il che renderebbe il sapore acquoso e insipido). Se si seguono queste poche, semplici regole, si porterà in tavola un cotechino perfetto, i cui contorni ideali saranno purea di patate, spinaci al burro, fagioli e lenticchie in umido. Cotechino e zampone, da anni, vengono messi in vendita anche precotti; entrambi subiscono lo stesso

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trattamento e la loro cottura, in questo modo, è molto facilitata. Basta mettere la confezione in una pentola con acqua calda, farla bollire il tempo necessario, per avere il piacere di portare in tavola un prodotto ottimo,

profumato, senza doversi preoccupare di espletare le tante operazioni previste quando si parte dall’insaccato crudo. Grazie al prodotto in vendita precotto, inoltre, si semplifica di molto la preparazione del cotechino

Tagliatelle verdi con cotechino (photo © www.italianfoodexcellence.com).

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Ode al cotechino: due cotechini comparsi “a perfetto illustramento della copiosa imbandigione” in un pranzo dato in Modena dalla nobil casa Marchisio risvegliarono l’estro poetico di uno di quei commensali, il segretario di Casa Rangoni, abate Giuseppe Ferrari, il quale scrisse Gli elogi del Porco (1761) in due capitoli berneschi che pubblicò sotto il nome arcadico di TIGRINTO BISTONIO P.A. e Accademico Ducale de’ dissonanti di Modena. Riportiamo parte del primo componimento (da RICCARDO DE CORATO, Le delizie del divin porcello).

Oh Cotichin, null’altro a Te somiglia In fragranza e in sapor vivanda eletta! Quando tu giungi inarca ognun le ciglia. I grati effluvi ad assorbir in fretta Si spalancano i tubi ambi nasali. Ed un OH comune il godimento affretta E tosto in bocca e giù per li canali Delle gole bramose l’acquolina Si sentono venire i commensali E fossevi ancor latte di Gallina Ed il piatto real vergin Fagiano A te la preminenza si destina So che è un error da far sparar la mano Dir che non hai, Geometria sicura, Un cilindro più bel dentro il tuo piano; Ma se tornar potesse all’aria pura, E se pappasse una sol volta ancora Euclide lo faria prima figura Quindi a ragion l’Oltremontan l’onora e lo manda al Paese ov’è in concetto E il lombardo terreno ivi si adora

in galera. Il cotechino in galera è un piatto tipico dell’Emilia-Romagna, dove è apprezzato soprattutto in occasione delle festività natalizie. È una ricetta presente anche nel libro dell’ARTUSI La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. A tal proposito, è interessante rileggere il suo commento su questa preparazione che egli chiama cotechino fasciato: “Non ve lo do per un piatto fine, ma come piatto di famiglia può benissimo andare, anzi potrete imbandirlo anche agli amici di confidenza”. Piatto molto gustoso, richiede una preparazione mediamente elaborata e, quindi, una certa abilità in cucina. A grandi linee (la ricetta precisa la trovate nel box in basso), è necessario portare il cotechino a metà cottura, privarlo della pelle e avvolgerlo, o meglio “imprigionarlo”, dentro a una fetta molto sottile di carne di vitello coperta di prosciutto; questo involto viene poi cucinato in umido con le verdure e poco pomodoro. Si porta in tavola affettato come un polpettone, dopo avere umettato leggermente le fette con il sugo di cottura. Clara Scaglioni

Cotechino in galera (arrosto a sorpresa) Ingredienti • g 400 di vitello in un’unica fetta • un cotechino precotto da g 600 • g 100 di prosciutto crudo a fette • ½ bicchiere di vino bianco fermo • sedano, carota e cipolla • passata di pomodoro • burro e brodo q.b. Esecuzione Lessate il cotechino per 20 minuti, lasciatelo raffreddare e poi toglietegli la pelle. Prendete la fetta di carne di vitello e, dopo averla ben aperta con il batticarne, adagiatevi prima le fette di prosciutto crudo, poi il cotechino; avvolgete il tutto e legatelo con spago da cucina. Tritate grossolanamente le verdure, mettetele in un tegame a bordi alti e fatele appassire nel burro. Adagiatevi l’involto, fatelo rosolare da tutte le parti, salatelo e sfumatelo con mezzo bicchiere di vino bianco fermo. Aggiungete qualche cucchiaio di passata di pomodoro, coprite con del brodo e portate a cottura rigirando ogni tanto. Cotto che sia, lo servirete, dopo averlo affettato e umettato con il condimento formatosi, accompagnato dal contorno che preferite (photo © scrivilatuaricetta.it).

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Sapori mediterranei

Le pizze di Pepe in Grani: cartoline dall’Alto Casertano Franco Pepe ha trasformato le sue pizze in cartoline che raccontano i grandi prodotti di un angolo bellissimo e incontaminato della Campania. Dalla cronaca nera alle cronache golose grazie a lui e ad un network di “agricoltori custodi” e “contadini 2.0” di Luciana Squadrilli

U

na volta, prima del dominio assoluto di smartphone e tablet, c’era l’abitudine di mandare cartoline-ricordo dai luoghi di vacanza, o magari anche da quelli di residenza, a persone lontane. Un modo per dire “ti sto pensando anche da qui”, ma pure per condividere paesaggi ed emozioni. Oggi, appunto, ci sono MMS e post su Facebook, e quasi sempre ritraggono — anche — cibo: perché, al di là del “mezzo”, i sapori, profumi e colori di quello che si mangia sono un modo forte e coinvolgente per raccontare i luoghi e le loro specificità, e ci aiutano a ricordarli anche una volta che li abbiamo lasciati. E se fosse una pizza a descrivere un territorio? Sempre più spesso, oltre agli chef, sono i pizzaioli a farsi interpreti delle eccellenze della propria regione, collaborando talvolta in maniera diretta con chi le produce. Ed essendo la pizza un cibo popolare e accessibile per eccellenza, in questo modo il “messaggio” può raggiungere davvero tantissime persone. F RANCO P EPE , bravissimo pizzaiolo di Caiazzo, in provincia di Caserta, ha fatto di ciò il fulcro della propria attività. Da quando, circa due anni fa, ha lasciato la pizzeria di famiglia nella piazza del paese per aprire il suo Pepe in Grani, un locale moderno e accogliente ricavato dal restauro di un antico palazzetto del centro storico, ha potuto portare

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Tutti i sapori dell’Alto Casertano su un disco di pasta: è il progetto che promuove Franco Pepe col suo locale Pepe in Grani a Caiazzo, in provincia di Caserta (photo © Luciano Furia).

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Franco Pepe, terzo da destra, insieme ai protagonisti di “Pizza del Territorio”, il progetto a cui ha dato vita in collaborazione con produttori dell’Alto Casertano, in occasione della presentazione lo scorso 4 luglio. fino in fondo il suo progetto di “pizze del territorio”. Grande maestro dell’impasto — lavorato interamente a mano nella madia di legno come faceva il padre e ottenuto da un mix di farine selezionate messo a punto con la collaborazione del Molino Piantoni di Brescia, per la massima digeribilità — Franco sceglie infatti per condire i suoi deliziosi dischi di pasta le migliori materie prime provenienti da piccoli agricoltori e artigiani della zona, quella bellissima e incontaminata (lontana diversi chilometri fisici, e anni luce figurati dalla famigerata Terra dei Fuochi) dell’Alto Casertano. Dapprima è partito con le pizze classiche — dalla Margherita alla pizza fritta con ricotta e salame, fino allo storico calzone al forno con scarola cruda e olive che era da sempre una specialità di famiglia — a base

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appunto di grandi prodotti di tutta la Campania come la squisita Mozzarella (e ricotta) di Bufala Campana DOP del vicino caseificio Il Casolare di Mimmo La Vecchia, i pomodori del Vesuvio, le olive Caiazzane che crescono in zona, le alici di Cetara… Poi, ha stretto sempre più il cerchio, dedicando diverse pizze del suo menu ai sapori e ai prodotti tipici del territorio e creando una vera e propria “rete di eccellenze” dell’Alto Casertano i cui artefici collaborano fattivamente alla promozione del territorio attraverso i suoi sapori. Insieme, si prodigano per dare al resto del mondo un’immagine veritiera e positiva di un territorio che troppo spesso viene considerato inospitale facendo di tutta l’erba un fascio. Nascono così alcune pizze indimenticabili, come la “Alifana” (che ha come protagoniste le squisite

cipolle di Alife accanto a fior di latte e ricotta de Il Casolare, pancetta e origano) o la “Ceci” delle Colline Caiatine, che riprende un antico piatto povero dei contadini della zona — la pasta e ceci — arricchendo la pizza con fior di latte e scamorza affumicata de Il Casolare, ceci locali, aglio e olio extravergine di Caiazzana. Mano a mano, la collaborazione e la sinergia con altri fornitori e produttori della zona si è andata sempre più rinsaldando, tanto da creare una sorta di vera e propria rete e un “percorso guidato” che, snodandosi tra le verdi colline della zona coltivate a vite, olivo e ortaggi, tocca le diverse realtà. Franco Pepe (come anche Manuel Lombardi, giovane casaro che nell’azienda agricola e agriturismo di famiglia Le Campestre porta avanti l’antichissima tradizione

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Agricoltori custodi in territorio caiatino La Mozzarella di Bufala Campana Dop Anche la zona dell’Alto Casertano ricade nell’area della Dop e, nonostante le molte polemiche alimentate da cattiva informazione, qui ci sono produttori attenti e scrupolosi e prodotti eccellenti. Per esempio a Il Casolare di Alvignano, il caseificio di famiglia oggi gestito da Mimmo La Vecchia, troverete una delle mozzarelle più buone della regione, con la salatura tipica di questa parte di Campania e una “croccantezza” particolare al morso. La lavorazione è quella tradizionale, con la filatura a mano di pezzature grosse e scenografiche trecce, e il latte bufalino proviene da allevamenti della zona scrupolosamente selezionati e controllati con grande attenzione. Proprio a questo latte saporito, oltre che alla bravura dei casari, si deve la bontà delle mozzarelle, realizzate anche in versione affumicata, e della squisita ricotta di bufala. Caseificio Il Casolare Via Olivella 12 — 81012 Alvignano (CE) Telefono: 0823 610906 Web: www.caseificioilcasolare.it Il Conciato romano Nella bellissima campagna intorno a Castel di Sasso, paesino situato ai piedi del Monte Friento, l’agriturismo Le Campestre è un’oasi di pace e silenzio, interrotto solo dai versi degli animali della fattoria didattica. La famiglia Lombardi al completo — tornata a queste terre dopo essere emigrata in Belgio per diversi anni — accoglie gli ospiti con calore, servendo nella saletta interna o nel bel terrazzo abbondanti porzioni di robusti piatti della tradizione e il vino ottenuto dalle vigne circostanti. Ma il vero protagonista qui è il Conciato romano, un formaggio antichissimo e sorprendente citato già dal poeta latino Marziale e oggi presidio Slow Food. La cagliata viene rotta con le mani, poi modellata e salata a secco; il formaggio ottenuto viene “conciato” con l’acqua di cottura delle pettole, la pasta fatta in casa tipica di queste zone, che lo ricopre di un sottile strato di amido. Le forme vengono trattate con una miscela di olio d’oliva, aceto di vino locale, piperna (un’erba aromatica) e peperoncino e poi messe a stagionare in anfore di terracotta. Con la stagionatura, il formaggio acquista un sapore davvero incredibile senza però perdere equilibrio e fragranza. Agriturismo Le Campestre Via Buonomini, 3 — 81040 Castel di Sasso (CE) Telefono: 0823 878277 Web: www.lecampestre.it Il pomodoro Riccio In un campo semi-nascosto da alberi di olivo, lungo la strada per Piana di Monte Verna, c’è un altro campo sperimentale. È quello seguito dai fratelli Lino e Mimmo Barbiero (entrambi tornati ai campi di famiglia dopo aver lavorato in città), creatori dell’azienda agricola La Sbecciatrice, che prende il nome dalla storpiatura dialettale della svecciatrice, strumento usato anticamente dal nonno mugnaio per ripulire i semi che arrivavano al mulino. I fratelli — con la collaborazione di Vincenzo Coppola — hanno ripiantato gli antichi semi di legumi e pomodori custoditi dai nonni e da altri contadini della zona. Tra questi, il pomodoro Riccio: altra varietà ormai quasi scomparsa, dà frutti piccoli e saporitissimi, dall’inconfondibile forma costoluta e dalla pelle molto sottile che ne impedisce il trasporto lontano da questi luoghi. Nonostante ciò, questo pomodoro si rivela estremamente resistente alle malattie, ha bisogno di poca acqua ed è ricchissimo di polifenoli, come hanno dimostrato le analisi della Facoltà di Agraria di Napoli. Nel campo sperimentale dei fratelli Barbiero ne crescono adesso 8 sotto-cloni, sempre per testarne resistenza e risultati, accanto ai “normali” pomodori vernini genuini. La prima produzione di passata di pomodoro riccio è stata acquistata interamente da Franco Pepe, per condire le ottime pizze di Pepe in Grani. La Sbecciatrice Via Villa Santa Croce 139 — 81013 Piana di Monte Verna (CE) Web: www.lasbecciatrice.it

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Il maiale Nero casertano Quella Nera casertana è una delle razze suine autoctone più antiche d’Italia e certamente tra le più saporite. Dal colore nero, come indica il nome, e privi di setole — da cui deriva il nome popolare di Pelatiello — gli animali di questa particolare razza si riconoscono soprattutto per le sciacquaglie, i bargelli ai due lati del muso il cui nome in dialetto (deriva dallo spagnolo chocallos) indica dei vistosi orecchini da donna che pendono ai lati del viso. Le carni di Nero casertano — dalla evidente marezzatura che le rende morbide e saporite, e dai particolari aromi derivanti da un’alimentazione a base di ghiande e castagne — si prestano tanto ad essere cucinate che alla realizzazione di gustosissimi salumi dal sapore intenso. Salsiccia, capocollo (in foto), pancetta, soppressata, lonzarda e lardo di Nero casertano sono spesso presenti sulle pizze di Pepe; il pizzaiolo sceglie quelli di Mastro Enrico, allevatore e artigiano di Caiazzo, ottenuti da maiali allevati in proprio e da lavorazioni tradizionali. Salumi Mastro Enrico Via Caduti Sul Lavoro 42 – 81013 Caiazzo (CE) Telefono: 0823 615907 Web: www.salumimastroenrico.it

del Conciato romano) se ne è fatto testimonial d’eccezione, portando attraverso — e sulle — sue pizze i grandi prodotti locali in giro per l’Italia e non solo. Lo scorso anno, alla giornata dedicata alla pizza del congresso di alta cucina Identità Golose a Milano, si è presentato sul palco con una speciale “valigia” di plexiglass in cui aveva raccolto appunto i prodotti dell’Alto Casertano, mentre alla manifestazione Le Strade della Mozzarella, che si è svolta lo scorso maggio a Paestum, ha portato la giovane coltivatrice casertana Imma Migliaccio e le sue fantastiche verdure biologiche. In questo suo percorso di ricerca e valorizzazione del territorio, Franco ha incontrato un altro personaggio chiave: VINCENZO COPPOLA, giovane agronomo di Ruviano che da anni sta portando avanti un progetto di recupero di antiche varietà e coltivazioni autoctone abbandonate. Pepe lo definisce “la parte che mi mancava”, in grado di dare certezza scientifica al suo lavoro “sensoriale”. Grazie alla stretta collaborazione con Vincenzo, infatti, il pizzaiolo ha potuto compiere il passo definitivo dall’essere un semplice artigiano che aveva a cuore il suo territorio, a diventarne un vero e proprio testimonial a tutti gli effetti, e a tutti i livelli. Con un paziente lavoro “sul campo”, andando a trovare uno per uno gli “agricoltori custodi”, spesso ultranovantenni, rimasti a presidiare

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queste terre che in molti avevano abbandonato in cerca di fortuna nelle grandi città o all’estero, Vincenzo è riuscito a rintracciare i semi di pomodori, grani e legumi un tempo molto diffusi in zona ma che erano stati progressivamente abbandonati. Tra di essi, lo squisito pomodoro Riccio — una varietà particolare che prende il nome dalla forma costoluta dei piccoli pomi, e che si è rivelata ricca di sostanze nutritive oltre che di sapore — e il grano Autonomia. Si tratta anche in questo caso di una

tipologia di grano un tempo molto diffusa in zona, battezzata così durante il Fascismo perché doveva servire a sfamare la popolazione in modo autarchico. Non essendo frutto di selezione e caratterizzato da piante una diversa dall’altra, dalle spighe piccole e alte, quindi difficili da coltivare e con rese inferiori, era stata mano a mano abbandonata a favore di grani più produttivi e se ne erano perse le tracce. Grazie al lavoro di Coppola e alla collaborazione dei contadini locali

Il grano Autonomia. Ribattezzato Grano nostrum, insieme al pomodoro riccio è il risultato del recupero di semi locali da parte di Vincenzo Coppola, giovane agronomo di Ruviano che ora collabora con Franco Pepe. Ripiantato in un campo sperimentale, la prima mietitura è avvenuta lo scorso luglio.

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anziani e giovani, in una sorta di passaggio di testimone generazionale, l’Autonomia — ribattezzato Grano nostrum — è stato ripiantato nel campo sperimentale di Contrada Spinosa, immerso nella quiete delle colline tra Caiazzo e Piana di Monte Verna. Appena un ettaro diviso in tre fasce con concimazione diversa per vedere quale dia le spighe migliori, le ultime delle quali sono state trebbiate il 4 luglio scorso in occasione di un bell’evento organizzato per presentare il progetto. Una vera e propria festa, con canti e balli, per celebrare tutti insieme il momento conclusivo della mietitrebbiatura, come era uso un tempo nei campi. Per l’occasione, l’appezzamen-

to di terra è stato allestito con grandi “pizze” che decoravano le balle di fieno e parte dello spazio già trebbiato, a fianco dei piccoli banchi rustici dove tutti i produttori coinvolti offrivano assaggi dei propri prodotti, gli stessi che si ritrovano sulle pizze di Pepe in Grani. La disponibilità — per ora in misura ridottissima, ma grazie anche alla collaborazione amichevole del Molino Piantoni e dei coltivatori locali si spera di riuscire a coprire almeno il 10% delle pizze sfornate in un prossimo futuro — della farina ottenuta da questo grano dal sapore antico e rustico permette infatti a Franco e Vincenzo di chiudere il cerchio del progetto della “pizza del territorio”.

Adesso Pepe può sfornare le prime pizze realmente a “km 0”, dove oltre ai condimenti anche l’impasto è frutto del territorio caiatino. Ora la “cartolina” può essere completa. Ma, proprio come per un monumento o un paesaggio, vale sempre la stessa regola: venire sul posto, lasciarsi accogliere dal verde e dal silenzio di questi luoghi e affondare un morso nel morbido e fragrante impasto di Franco Pepe è tutta un’altra cosa. Luciana Squadrilli Pepe in Grani Vico S. Giovanni Battista 3 81013 Caiazzo (CE) Telefono: 0823 862718 E-mail: info@pepeingrani.it Web: www.pepeingrani.it

Il fotografo ufficiale della pizza napoletana Se c’è un evento dedicato alla pizza — o al cibo in generale — in Campania, lo trovate lì, sempre tra i primi ad arrivare, a scattare foto con la sua macchina super-accessoriata. Luciano Furia, napoletano Doc con un passato professionale molto variegato alle spalle (ingegnere elettronico, bioingegnere, ricercatore negli USA, funzionario di banca e oggi titolare di una società di traduzioni on-line), dal 2006 è tornato pure a dedicarsi all’antica passione per la fotografia che aveva lasciato in epoca pre-digitale. Essendo anche un grande amante della cucina, che approccia al tempo stesso con la passione del gourmet e la precisione del tecnico (applica le sue conoscenze scientifiche anche alla cottura del roast beef) ha unito le cose diventando fotografo di fiducia di chef e pizzaioli, a cominciare da Franco Pepe. Le sue foto potete ammirarle su www.lucianofuria.com (photo © Luciano Furia).

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Come si fa pizza ovvero la pizza protagonista di una tovaglietta di Yocci Il pizzaiolo Bizzio ha raccontato a Yocci l’Arte della pizza ed ecco che ha preso forma la sua quarta tovaglietta gastronomica, nella quale l’artista giapponese illustra passo passo, disegno dopo disegno, la ricetta della pizza perfetta. Yoshiko Noda, in arte Yocci, è nata a Osaka, nel 1980. Laureata in pittura presso l’Università di Belle Arti di Osaka e diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Yocci ha collaborato con il Festivaletteratura di Mantova e con il settimanale Internazionale, dove pubblicava regolarmente “Il diario di Yocci”. La tovaglietta Come si fa pizza è in vendita sul portale di Corraini Edizioni a € 10,00 più le spese di spedizione. >> Link: yoccilog.blogspot.it corraini.com

Oliviero Toscani firma la vera pizza napoletana Al Salone del Gusto l’azienda vitivinicola Contadi Castaldi ha presentato “Tu vuò fa’ il Napoletano”, tabloid dal gusto internazionale firmato dal fotografo Oliviero Toscani. Un’idea patrocinata da Terra Moretti per sposare pizze e bollicine, ma anche un progetto concepito per divenire una mostra fotografica che sarà itinerante tra i più importanti festival della pizza di tutto il mondo, da Tokyo a Las Vegas, insieme all’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN, www.pizzanapoletana.org). Unico sponsor dell’iniziativa il Gruppo Agugiaro & Figna Molini, con Le 5 Stagioni, famoso brand di farine tradizionali per pizza. «La pizza rappresenta innanzitutto l’Italia, ma anche l’amicizia, perché in pizzeria andiamo con le persone con le quali ci sentiamo più a nostro agio» dice Francesca Moretti, AD di Contadi Castaldi. «Eppure la pizza rappresenta anche il possibile incontro tra l’impasto e la farcitura, fra la tradizione napoletana e quella dei luoghi in cui si è diffusa. Noi abbiamo aggiunto un incontro in più: quello con le bollicine Contadi Castaldi, che per noi sono i vini dell’amicizia e della condivisione. Pizza e bollicine hanno in comune i lieviti selezionati, che sono la formula magica tramite la quale il prodotto si trasforma chimicamente e sensorialmente. Infine, e forse prima di tutto, abbiamo sposato l’idea della tutela della Vera Pizza Napoletana, così come noi rispettiamo da sempre un severo disciplinare Docg per realizzare un autentico Franciacorta». Alla conferenza stampa di presentazione del progetto (in foto a lato) durante il Salone del Gusto, un insolito Oliviero Toscani si è esibito dietro il bancone della pizza e ha “messo le mani in pasta” sotto l’occhio vigile dei pizzaioli per dare libero sfogo al suo estro. «La pizza — ha dichiarato il fotografo toscano — non solamente racchiude in sé la perfetta forma estetica e i colori della nostra Italia, ma ha il valore aggiunto del sapore creato da ingredienti primari che solo noi abbiamo. La pizza, con la sua essenzialità, ha la capacità di nutrire democraticamente tutti, con allegria! Una delle ragioni per essere fieri di essere Italiani è perché abbiamo inventato la pizza: non c’è niente di più completo e perfetto. Anzi, i napoletani hanno inventato la pizza. E allora, grazie Napoli!».

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Viaggio nella Croazia orientale

Del kulen di Slavonia e di altre tipicità di Riccardo Lagorio

A

molti lettori il termine Slavonia suggerisce certo l’origine di botti di rovere, che anche in Italia hanno un certo seguito per la resistenza del legno al trascorrere del tempo e per il fatto che esso non cede particolari tannini ed aromi al contenuto. La sua sostanziale neutralità ne ha di fatto favorito l’utilizzo. Ma forse non tutti sanno che la Slavonia fa parte della Croazia: ne è la parte più orientale ed è costituita da contee. Quella di Vukovar e della Sirmia si trova nell’estremo Sud-est ed è caratterizzata da territori pianeggianti delimitati dal Danubio e dalla Sava, ma bagnati da altri cinque corsi d’acqua tra cui il Bosut. Il particolare clima della regione, con inverni rigidi ed estati torride dall’alto tasso di umidità, si è prestato bene a sedimentare la tradizione salumiera. Non esiste infatti pranzo o cena che non abbia inizio con i salumi locali, accompagnati dai vini provenienti in particolare da Ilok, capitale della Strada del Vino regionale, caratterizzata da intere colline ricoperte da viti, specie di Riesling italico, Traminer e Franconia. L’arte della conservazione della carne sotto forma di salume trova la maggiore espressione nel kulen, un particolare insaccato la cui fattura varia da villaggio a villaggio, ma di cui si possono stabilire alcune precise componenti comuni. Il termine “kulen” deriva con buona probabilità dal protoindoeuropeo kwel, traducibile con “attorcigliare a spirale, avvolgere”. Ragioni di una così lontana discendenza risiedono forse anche nell’origine della più antica città europea tuttora abitata, Vinkovci (la

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romana Aurelia Cibalia), con 8.000 anni di storia. Questo triangolo tra Vukovar, Vinkovci e Otok è unanimemente considerato il luogo dove si produce il miglior kulen. Ovviamente lo abbiamo cercato elaborato a livello familiare o in piccole quantità per poterne illustrare meglio gli aspetti tradizionali.

A LIJA K ARIN Č I Ć rappresenta la terza generazione di macellai ed ha negli ultimi anni aperto anche un ristorante dove vi lavorano i tre figli, cucinando in prevalenza piatti locali con il contributo della carne scelta nella macelleria. «Esistono alcuni elementi che rendono unico il kulen. Innanzitutto

Il kulen di Slavonia. Questa regione ha assorbito la cultura gastronomica dell’Ungheria, con conseguente largo uso di aglio e paprica, cosa che rende i piatti della zona molto speziati e piccanti, salumi compresi (photo © Damir Fabijanić; press.croatia.hr).

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La zona tra Vukovar, Vinkovci e Otok in Slavonia, regione a Sud-est della Croazia, è quella in cui si produce il miglior kulen a livello nazionale. In Croazia la sua realizzazione è considerata un’arte, tanto che si hanno maestri che si sfidano in competizioni nazionali, le kuleniadi. il clima di questa parte della Slavonia, poi il peso e la genetica degli animali macellati ed infine il cibo con cui vengono allevati negli ultimi 6 o 12 mesi di vita» afferma. Elementi che vengono confermati anche da MARIJAN RUPČIĆ. «I suini utilizzati per la produzione di kulen hanno un peso variabile tra 160 e 240 kg ed hanno un’età variabile tra 18 e 24 mesi. La razza che viene utilizzata è in prevalenza il Landrace, mentre per il grasso è assai utile potere contare su quello intramuscolare del Nero di Slavonia, che spesso si ritrova incrociato con la razza Yorkshire, Duroc o Large White. Il grasso del Nero di Slavonia è più sodo e consente che la carne si compatti meglio. La nostra piccola azienda familiare macella circa 200 suini nel

periodo da novembre a febbraio e si approvvigiona presso allevatori di Budrovci, ad una cinquantina di chilometri da Vukovar, che crescono i suini in maniera estensiva. I tagli che meglio si prestano alla produzione di kulen sono la coscia, il carré e la coppa». Un salume per elaborare il quale si impiegano i pezzi più pregiati, quindi. Trascorrono poi mediamente quattro giorni dal macello alla preparazione del kulen: il riposo della carne è necessario per dare alla stessa tonicità. I Karinčić macinano la carne con piastre da 6 mm di diametro mentre i Rupčić preferiscono il diametro 8. Alla carne si aggiunge il sale in proporzione di circa l’1,8% e la paprica, che caratterizza l’aspetto del salume una

“La tipologia dell’insacco è uno degli elementi più tipici del kulen: avviene infatti nell’intestino cieco suino ed ha come caratteristica quella di farlo apparire, a stagionatura avvenuta, quindi dopo almeno otto mesi, un salume avvizzito” 74

volta affettato, in quantità variabile tra lo 0,7% e l’1% in funzione della varietà della paprica stessa. La paprica in polvere viene reperita da contadini locali, che coltivano la materia prima, la essiccano e la frantumano. Ma la differenza sostanziale è che il gusto dei consumatori di Vukovar non richiede nell’impasto la presenza di aglio, che viene aggiunto (in ragione dell’1% del peso della carne) a Vinkovci, che dista 20 km scarsi. L’aglio è bianco, locale, dal profumo non penetrante ma speziato, che si combina con la paprica. La tipologia dell’insacco è uno degli elementi più tipici del kulen: avviene infatti nell’intestino cieco suino ed ha come caratteristica quella di farlo apparire, a stagionatura avvenuta, un salume avvizzito. Il peso al momento dell’insacco varia tra 2 e 3 kg, ma trascorsi gli (almeno) 8 mesi di stagionatura necessari affinché la carne maturi, il kulen avrà perso circa il 30% del peso originario. «Il processo di stagionatura inizia subito dopo l’insacco portando il kulen ad una temperatura di 15°C ed il

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1) Marijan Rupčić. 2) Kulen conciato con aglio e paprica. 3) Alija Karinčić. 4) Il salame bianco di Marijan Rupčić. secondo giorno si porta nella stanza di affumicatura dove rimane anche per qualche mese», confida Marijan Rupčić. Il fumo freddo provocato dalla lenta combustione di carpino o specie simili conferisce al prodotto finale un piacevole aroma che bene si sposa con quello della paprica. Dopo il periodo di affumicatura segue un altro periodo di stagionatura in senso stretto. Durante la stagionatura è del tutto naturale che possano comparire delle muffe sulla parte esterna dell’insaccato. Al taglio la fetta dal diametro di circa 20 cm deve essere compatta e soda, le parti

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di grasso equamente distribuite ed il colore essere rosso intenso. Il profumo è di carne matura, mentre nella versione di Vinkovci al gusto si percepisce la presenza dell’aglio che conferisce un elegante tocco speziato al salume. Più soave e meno invasiva quella di Vukovar. Per sopperire alle necessità di potere consumare un salume di pregio in tempi non troppo distanti dalla mattanza, la cultura locale ha sperimentato nei secoli la produzione del kulenova seka, letteralmente “sorella del kulen”.

L’impasto è il medesimo del kulen, ma l’intestino utilizzato per l’insacco ha un diametro di 10 cm circa e una lunghezza di 50, con tempi pressoché dimezzati di affumicatura e stagionatura, pronto quindi già a partire dalla primavera successiva. A Vinkovci, accanto al kulen, Alija Karinčić ha tramandato la cultura di un prodotto da salumeria pressoché scomparso altrove, lo juneći ramstek dimljeni, ovvero lombo di scottona affumicata. Per la sua produzione si utilizza carne di femmine di razza Simmental del peso di circa 650 kg, che garantiscono una carne marezzata

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grazie all’alimentazione a base di granoturco e trifoglio. Si mantiene il lombo disossato per 3 settimane sotto sale, poi si lava e si affumica per circa un mese. Il risultato è una carne soffice e profumata, rigogliosamente segnata da piacevoli infiltrazioni di grasso. Marijan Rupčić dalla sua produce tra l’altro il cosiddetto salame bianco: le stesse carni del kulen macinate con

diametro di 15 mm sono mescolate a sale e pepe, con aggiunta di vino bianco Riesling italico in proporzione del 3% e insaccate in budello dal diametro di 10 cm. Un’affumicatura leggera conferisce al prodotto finale un gustoso aroma. Esempi di un’arte salumiera poco conosciuta da noi, ma di tutto rispetto nel panorama europeo. Riccardo Lagorio

Azienda agricola familiare Rupčić Matice Hrvatske 32 32000 Vukovar (Croazia) Telefono: +385 (0) 32430373 Macelleria Karinčić Glagoljaška 45 32100 Vinkovci (Croazia) Telefono: +385 (0) 32 332269 Cell: +385 (0) 92 2736074 www.facebook.com/san.vinkovci

Vini di Croazia: tradizione antica da riscoprire Quando si parla di produzione vitivinicola della Croazia si pensa subito alla Malvasia istriana, il piacevole vino bianco aromatico ottenuto dall’omonimo vitigno. Ma la nostra dirimpettaia oltre l’Adriatico ha molto di più da offrire tra vini ed enogastronomia di qualità. La tradizione vinicola croata nasce ai tempi degli antichi Greci e oggi è in pieno sviluppo e fermento. Ne ha dato un’interessante dimostrazione il seminario con banco d’assaggio organizzato all’inizio di ottobre a Roma dalla Fondazione Italiana Sommelier e dall’Ambasciata croata in Italia per presentare le ricchezze e le diversità della produzione enologica con una selezione di 11 vini considerati più rappresentativi. La viticoltura croata è caratterizzata dalla presenza di numerosi vitigni autoctoni, come il Crljenak Kaštelanski, clone meno conosciuto dei più fortunati Primitivo e Zinfandel. La regione più rinomata è la Dalmazia, per la molteplicità dei suoli e delle caratteristiche dei vitigni, il più noto dei quali è oggi il Plavac Mali, a bacca rossa, che in particolare sulla penisola di Pelješac dà vini potenti, fruttati e di notevole tenore alcolico, ormai lanciati anche sui mercati internazionali. Ottimo anche il Babic, coltivato specialmente intorno a Primosten. Tra i vitigni a bacca bianca, i più conosciuti sono il Pošip, la Marastina, della famiglia delle Malvasie, e il Debit. L’Istria è il regno della Malvasia istriana, mentre in Slavonia si coltivano principalmente varietà tipiche di Austria e Ungheria. Con l’occasione è stato possibile apprezzare anche l’olio d’oliva, un’altra eccellenza agroalimentare locale.

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Locali di gusto

Mangiare italiano all’estero Molti nomi noti dell’agroalimentare nostrano, che vantano importanti quote di mercato all’estero, stanno aprendo catene di ristoranti di assoluto successo. La parola d’ordine rimane quella della qualità e fedeltà al prodotto, il valore aggiunto è dato da una proposta che consente, anche ai meno capaci ai fornelli, di notare come un prodotto vada cucinato. E la promozione è assicurata di Sebastiano Corona

D

a Giovanni Rana a Barilla, da Eataly a Parmacotto, l’esercito di nomi importanti della produzione agroalimentare italiana decisi a conquistare i Paesi stranieri combattendo sul fronte della ristorazione sono ogni giorno di più. Li accomuna una lunga

esperienza in ambito produttivo e il desiderio di confermare la propria presenza all’estero, anche attraverso il canale della somministrazione e non solo della vendita. Se non fosse che i nomi citati sono nati nell’industria alimentare prima che nella ristorazione, si potrebbe

paragonare questa azione così decisa ad un cavallo di Troia, impiegato per avere più facile ingresso in nuovi mercati. Non c’è modo più efficace di far apprezzare un prodotto, infatti, di quello di servirlo cucinato nella maniera migliore e presentato con i giusti accostamenti.

Il ristorante Giovanni Rana Pastificio & Cucina al Chelsea Market di New York.

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Giovanni Rana, per esempio, leader nella produzione della pasta fresca, in quattro anni ha aperto 28 ristoranti in Italia, 5 in Svizzera, e poi a Madrid, Londra e Lussemburgo. Nel 2012 ha avviato la produzione di pasta e sughi freschi nel nuovo stabilimento di Chicago e, a seguire, ha avviato dentro il Chelsea Market, il più famoso mercato di New York, un pastificio e un ristorante con 140 posti a sedere. Anche Barilla ha deciso di aprire a New York, in Madison Avenue, sebbene fosse già presente nella Grande Mela sia con un ristorante, sia con una quota nella vendita della pasta, pari al 30% del mercato. In fondo la ristorazione, come sostiene la stessa politica aziendale, è un modo per stare vicino al consumatore, proponendogli le idee e i modi di impiegare il prodotto che trova in vendita. Parmacotto ha scelto Amsterdam Avenue per servire salumi e piatti pronti. Chi fa ingresso nei suoi ristoranti sa che può prima gustare, provare e poi portare via ciò che ha apprezzato di più. All’interno della salumeria si trova un’ampia varietà di specialità norcine, vini e prodotti della migliore tradizione italiana selezionati da Parmacotto. In Madison Avenue, invece, ha sede il ristorante Salumeria Rosi, dove l’offerta è varia ed elevata ma in più l’ambiente è impreziosito da oggetti, pezzi d’arredo e rifiniture che rievocano l’atmosfera dell’Impero romano. Zonin, avendo già riscosso un notevole successo in Giappone, ha puntato nuovamente su Tokyo aprendo il secondo ristorante-wine bar. Chi sembra deciso a non fermarsi davanti a nessun ostacolo è OSCAR FARINETTI, che con Eataly ha ora puntato su Chicago, Istanbul e Dubai, dopo aver avviato con successo dieci negozi in Italia, uno a New York e undici in Giappone. Negozi che comprendono una ristorazione di alto livello. In questa “dolce” colonizzazione c’è chi opera in franchising o in prima persona o anche con entrambe le formule, ma la partenza, con i primi locali, è stata quasi per tutti un’esperienza diretta allo scopo di tastare il mercato e verificare, nel caso, come raddrizzare il tiro.

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Protagonista in ogni locale Rana rimane la pasta fresca realizzata ad arte, come nel caso di questo cestino di Parmigiano con ravioli girasole ricotta e spinaci. È impossibile, in ogni caso, esimersi dal formare il personale e dare un’immagine unica alla catena. Il rischio potrebbe infatti essere quello di dedicare un impegno notevole in fase di investimento, per poi vedersi screditare il nome per scarso coordinamento o semplicemente per dilettantismo di alcuni poco allineati alla politica della casa madre. È finita l’era dei ristoranti italiani o pseudo tali che non facevano altro che scimmiottare la nostra cucina, dandone spesso un’immagine poco lusinghiera. Chi apre un ristorante italiano all’estero ha un doppio impegno morale: il primo è quello di contribuire il più possibile a trainare il mercato del prodotto nazionale fuori dai nostri confini; il secondo è quello di portare davvero il meglio della nostra produzione per continuare a promuoverla, mostrando al mondo la nostra parte migliore. Solo così manterremo il primato di un’offerta enogastronomica senza pari in qualità e varietà. Su questi ambasciatori dell’agroalimentare grava dunque la pesante responsabilità di presentare l’eccellenza e non una brutta copia affinché la ristorazione confermi ogni giorno di più il suo ruolo di veicolo del cibo nostrano in Italia e all’estero. L’esperienza di Giovanni Rana nella ristorazione Il compito di presentare al mondo

quanto di meglio noi Italiani sappiamo fare, Giovanni Rana l’ha preso sul serio. Rana è oggi il leader europeo indiscusso della pasta fresca, complice la sua caparbietà nel puntare su innovazione, comunicazione e qualità del prodotto. Il suo “metterci la faccia”, inoltre, ha contribuito in maniera determinante a legare al marchio milioni di consumatori in tutto il mondo. La tenacia e quella politica che l’hanno premiato in più di cinquant’anni di storia aziendale, Rana l’ha utilizzata nel momento in cui ha deciso di entrare nel canale della ristorazione, dove tuttora continua a mietere successi. La ricercatezza degli ingredienti, l’attenzione per il benessere nutrizionale, la gratificazione del palato con piatti autenticamente regionali hanno fatto dei ristoranti Rana dei luoghi in cui assaporare il meglio della nostra cucina. Protagonista, in ogni locale, rimane la pasta fresca realizzata ad arte, ma basta dare uno sguardo al menù per capire che dietro ogni proposta c’è un lavoro impegnativo e una scelta che viene fatta da Rana senza compromessi, senza sofisticazioni e al giusto prezzo. Il menù offre davvero numerosissimi prodotti regionali, compresa una buona scelta di vini. L’acqua è del rubinetto oppure confezionata nel Belpaese come la stragrande

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maggioranza dei prodotti offerti. Qui gli Italiani si sentono per qualche ora di nuovo a casa e gli stranieri hanno conferma della bontà e del gusto della gastronomia nazionale più autentica. Volendo verificare con mano che le ottime recensioni sul ristorante di New York fossero veritiere, abbiamo fatto un salto al Chelsea Market, nel pieno del Meatpacking District. All’ingresso del locale, dentro il più famoso mercato della metropoli statunitense, ci sono il banco e il laboratorio di pasta fresca: un tempio del nostro più famoso prodotto nazionale dove si può vedere con i propri occhi che la pasta servita a tavola ed esposta in vetrina non è importata, ma viene fatta lì sul momento, ripieni compresi. Chiusa l’area del pastificio, che si traduce in un ampio corridoio obbligato verso il ristorante, si apre una bellissima sala con 140 posti a sedere dove marmo, legno e rame la fanno da padrone. Più che dentro un locale pubblico pare di stare in una gigante

cucina d’altri tempi: quel luogo che, nella tradizione italiana, era il cuore della casa. Sembra quasi che, con questa scelta di design e arredi, Rana volesse mandare un messaggio preciso: qui siete a casa vostra, nella vostra cucina. In questo ambiente dall’atmosfera avvolgente e rassicurante si può assistere a buona parte delle operazioni di cottura che vengono realizzate a vista in un vero e proprio show food. Tutto o quasi viene infatti preparato di fronte ai clienti. Antonella Paternò Rana: la nostra famiglia ci mette la faccia (e tanta passione) anche a NY Quando ci ha chiesto di pazientare per avere un colloquio con lei, abbiamo pensato che dovesse occuparsi di una serie di cose che non potevano essere rimandate nemmeno di mezz’ora. In fondo siamo capitati nel ristorante all’ora di punta ed era normale, in quel momento, avere altro a cui pensare. Chi gestisce un locale con 100 dipendenti, che conta 500 coperti

in settimana e 1.000 nel week-end e che fattura 10 milioni di dollari all’anno, ha sempre i minuti contati. Siamo però rimasti profondamente colpiti e positivamente impressionati quando abbiamo visto che ANTONELLA PATERNÒ, coordinatrice della comunicazione e del marketing del Pastificio Rana Spa e responsabile del ristorante di New York, professionista dalle indiscutibili capacità nonché nuora di Giovanni Rana (ha sposato suo figlio Gianluca), oltre a coordinare il lavoro di tutto il personale, si occupava in prima persona di proporre gli assaggi ai passanti fuori dal pastificio. Quel compito, che poteva essere facilmente delegato, Antonella, in pieno stile Rana, non lo cede a nessuno dei collaboratori. La signora non solo ci vuole mettere la faccia, come il suocero ha sempre fatto anche negli spot televisivi, ma richiede un contatto diretto con il cliente e non perde nessuna occasione per averlo. L’impegno continuo e la passione nel lavoro, che emergono da ogni

Giovanni Rana augura buon appetito con cappelletti e prosciutto crudo: ingredienti ricercati e piatti autenticamente regionali hanno fatto dei ristoranti Rana al di fuori dell’Italia luoghi in cui assaporare il meglio della nostra cucina.

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dettaglio del locale newyorchesi, sono certamente gli elementi che stanno facendo del ristorante Rana un luogo di straordinario successo. Colpisce innanzitutto la ricchezza del menu, che comprende prodotti tipici regionali vari, autentici e ricercati, una preparazione curata come la si pretenderebbe a Roma o a Bologna, una presentazione gradevole ed un ambiente rilassato, con preparazioni curate come se fossimo a Roma o a Milano o a Bologna, e presentazioni gradevoli, in un ambiente rilassato, con la stessa aria che si potrebbe respirare in una trattoria toscana, veneta o emiliana. Altro che una cucina simil-nazionale per commensali distratti o semplicemente poco avvezzi ai nostri piatti. Signora Rana, qual è la vostra produzione di pasta giornaliera a New York, considerando ristorazione e vendita? «La nostra produzione di pasta fresca, ripiena e non, è di circa 500 chili al giorno. È una piccola montagna di bontà da scalare con la forchetta!» Quali sono i formati più richiesti? «Cappelletti al prosciutto, girasoli ricotta e spinaci sono gli “intramontabili”. Ma i nostri ospiti sono anche molto curiosi, perciò, subito dopo questi tre best-seller, ci sono in classifica piatti più eclettici: linguine al nero di seppia, astice e cime di rapa per esempio, o ravioli ripieni di parmigiana di melanzana». Avete particolari criteri di scelta delle materie prime e quante arrivano dall’Italia? «L’eccellenza senza compromessi è la nostra bussola, il modo in cui ci orientiamo per qualsiasi acquisto. E l’eccellenza gastronomica, secondo noi, ha sempre due anime: quella locale, proveniente dal posto specifico dove ci si trova, e quella storica, figlia della più elevata tradizione gastronomica italiana. Il Parmigiano-Reggiano, il basilico DOP, il formaggio di fossa, la mozzarella di bufala campana DOP: questi ingredienti sono rigorosamente italiani e ci arrivano dal nostro insuperabile Paese, in aereo o via nave. Ma l’eccellenza può essere anche

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locale e americana, quando si parla di lobster, ad esempio, utilizziamo solo la migliore, quella proveniente dal North Atlantic!» Il vostro personale di sala, oltre ad essere cortese e disponibile, è molto attento e ha un’ottima conoscenza dei prodotti. Come lo selezionate? Sono persone che conoscono già il mondo della pasta e i prodotti italiani? «Prima di ruoli e titoli c’è la passione, che per noi è il motore di ogni cosa. Poi arrivano le competenze. Ma la conoscenza si può trasmettere solo laddove c’è volontà di imparare, mentre la passione è qualcosa di personale: e per lavorare con noi è indispensabile, quindi questo è per noi il primo requisito». Come avete scegliete il menù del ristorante? Siamo rimasti particolarmente colpiti da un ottimo gnocco fritto, ma anche da un Carignano del Sulcis, riserva 2010, e dal pane carasau, specialità non così facili da reperire Oltreoceano. «Abbiamo cercato di rappresentare più regioni, più tradizioni, più sapori possibili: l’Italia non è un blocco monolitico di gusti, ma è un panorama ricco di infinite sfumature. In America sono molto popolari Toscana e Piemonte per i vini, mentre Campania e Lazio per il cibo. Il nostro desiderio è di rappresentare l’Italia tutta, quella contemporanea, attuale. Quindi ben vengano prodotti italiani tipici, unici, super regionali». Gli Americani chiedono cose particolari nei piatti che proponete? O si adeguano alle nostre ricette e ai suggerimenti? «Gli Americani sono affamati di conoscenza non solo di cibo! E questa loro caratteristica è meravigliosa perché permette di dialogare, di raccontare le origini. Gli ospiti desiderano sapere tutto ciò che c’è prima di un piatto: la storia della ricetta, la provenienza geografica, il tipo di ingredienti. Accettano di buon grado i nostri consigli ma, amando la libertà, chiedono anche variazioni. Cambiamenti che noi facciamo col sorriso perché la cucina non è una

Antonella Paternò Rana, coordinatrice della comunicazione e del marketing del Pastificio Rana e responsabile del ristorante di New York. fredda scuola, ma un luogo di condivisione». Quali sono i problemi e le difficoltà nell’approccio al mercato di New York? «La Grande Mela attira bocche da tutto il mondo, ma bisogna anche stare molto attenti a non esserne divorati! È una città ultracompetitiva, sempre in evoluzione, ricca di mille etnie: ma il suo lato difficile è proprio il suo lato più bello». È stato difficile, dal punto di vista burocratico, avviare l’impresa e il ristorante? «Direi proprio di no, rispetto alla burocrazia italiana, l’America è una passeggiata!» Contate di aprire altri ristoranti a New York o negli States a breve? «Riceviamo davvero tantissime richieste per ampliare la divisione ristorazione in USA, ma per ora ci concentriamo su questo ristorante. Siamo una bella famiglia, non una supermultinazionale. Desideriamo che ogni ristorante abbia un’anima, che sia pensato e seguito con amore». Per un altro locale dei Rana negli Stati Uniti c’è quindi da attendere. Sebastiano Corona

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Casa Carboni, a scuola di gusto italiano in Australia Non lontano da Adelaide, il romagnolo Matteo Carboni e la moglie Fiona hanno aperto un’enoteca, bistrot nonché bottega del gusto con scuola di cucina annessa dedicata ai prodotti e allo stile italiani di Massimiliano Rella

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n avamposto enogastronomico italiano e, nello specifico, emiliano-romagnolo in terra d’Australia. Siamo in Barossa, una tra le più importanti aree vitivinicole del South Australia. Casa Carboni è un’enoteca, bistrot e bottega del gusto con scuola di cucina, interamente dedicata ai prodotti e allo stile nostrano. L’hanno aperta nel dicembre 2012, MATTEO CARBONI,

romagnolo di Forlì, e la moglie FIONA, australiana, ad Angaston, una cittadina ad una quindicina di chilometri da Adelaide. L’attività ha realizzato, finora con successo, una proposta molto originale e innovativa, in apparenza un azzardo, ma che si fonda su solide basi. Prima di questa scommessa, perché di questo si tratta, Carboni lavorava a Parma per l’Academia Barilla; la

moglie Fiona invece ha un passato di manager nel food&beverage. Arrivati in Barossa per lavori occasionali i due si sono innamorati della zona e hanno deciso di rimanervi inventandosi questa formula ibrida di locale multifunzionale. «Mi sono anche piaciuti i prodotti e le materie prime del territorio, con una qualità che raramente ho trovato altrove», assicura Matteo, che ancora

Matteo e Fiona Carboni, ideatori di Casa Carboni, bar, bistrot, negozio e scuola di cucina ad Angaston, Australia.

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La cucina dove si tengono i corsi e l’area ristoro di Casa Carboni. non ha perso il suo accento romagnolo. La sua passione per la cucina è nata nel periodo degli studi universitari quando frequentava la Facoltà di Scienze e tecnologie alimentari. Poi, per qualche anno, Matteo ha lavorato in ristoranti in Italia e in Australia, mentre i viaggi formativi attraverso l’Europa gli hanno permesso di scoprire sia i sapori che le tecniche di chef di fama internazionale e di vari artigiani del gusto. Per cinque anni all’Academia Barilla, un istituto dedicato all’arte della gastronomia italiana, Carboni ha affinato le sue capacità di insegnante. Esperienza e competenza che ora applica e sviluppa nei corsi di cucina organizzati a Casa Carboni. Nel negozio un bel bancone con tavolo in legno accoglie gli avventori,

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qualche tavolino si presta per consumare un caffè Illy forte e aromatico, accompagnato da qualche dolce, oppure un gustoso spuntino di qualità tutta italiana. In fondo al locale, su un piano rialzato come un palcoscenico, è allestita la scuola di cucina. Molti prodotti in vendita e utilizzati durante le lezioni arrivano dall’Italia, come il riso Acquerello prodotto a Livorno Ferraris, Vercelli, la pasta Mancini di Monte San Pietrangeli, nelle Marche, la polenta del Mulino Marino, che macina con pietre naturali e produce farine biologiche certificate a Cossano Belbo (Cuneo), l’olio extravergine d’oliva di varie regioni e altre specialità. Altri prodotti “italiani” sono fatti in Australia, come la mozzarella di bufala e i salumi di un pro-

duttore sardo che si è stabilito nei dintorni di Sidney. Ma una grande risorsa è rappresentata dal Barossa Farmers Market, un mercato settimanale di contadini locali, che offrono molti prodotti da agricoltura sostenibile. Le lezioni della scuola di cucina, per gruppi da 2 a 6 partecipanti, si svolgono il sabato dalle 9.00 alle 12.00, con visita al mercato e acquisto al momento degli ingredienti, cucina e pasto di menu completo, al prezzo di 185 aud (€ 168,00). Molta disponibilità a concordare giorni e orari per gruppi, e sono previsti anche corsi per bambini. Un particolare risalto è dato alla preparazione della pasta fresca fatta a mano in vari formati, come tortelli, tagliatelle, maccheroni alla chitarra, strozzapreti e gnocchi. Il sabato sera il locale serve un menu fisso di 4 portate a 65 aud (€ 43,00), la domenica di 3 portate a 55 aud (€ 37,00), con piadine romagnole, prosciutto di Parma, mozzarella di bufala e qualche piatto caldo. La carta dei vini include solo italiani, provenienti da Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Marche e Pantelleria, e francesi, molti da vitigni autoctoni, con preferenza per quelli biologici e biodinamici, importati direttamente. Massimiliano Rella Nota Photo © Massimiliano Rella; info: www.casacarboni.com.au

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Busti, dal caseificio alla tavola Al piano superiore dello spaccio aziendale Busti ha aperto Il Rifocillo, ristoro a vero chilometro zero, all’insegna delle cose buone made in Toscana. Tantissimi gli amici produttori che insieme a Stefano Busti hanno festeggiato l’inaugurazione di Elena Benedetti

I

Busti hanno il formaggio nel DNA. Ma non solo. Questa famiglia di Acciaiolo di Fauglia, in provincia di Pisa, ha anche idee e progetti imprenditoriali che non restano a stagionare sulla carta. È infatti dello scorso fine settembre l’inaugurazione di un nuovo capitolo di questa azienda, che il prossimo anno festeggerà i 60 anni di attività. Si tratta di un ristorante, Il Rifocillo, uno spazio grande e accogliente realizzato sopra al negozio,

con sedute sia all’interno che in terrazza. Pensato per offrire una pausa ai tanti visitatori del caseificio, ad amici e ospiti di passaggio, ai turisti in visita in questa parte della Toscana che in una manciata di chilometri si affaccia sul mare, Il Rifocillo riserva la massima attenzione alle materie prime tutte provenienti da queste terre. Oltre ai formaggi di famiglia Busti, i salumi sono realizzati da norcini toscani, le carni provengono dall’azienda agricola Le Corti della

famiglia Giorgi, i vini e le birre sono anch’essi locali. Un vero ristorante “a chilometro zero”, quindi, che rappresenta l’ultimo tassello di un’avventura imprenditoriale sempre in crescita e che oggi conta, nel suo complesso, oltre 100 dipendenti che lavorano insieme a Stefano Busti e ai suoi due figlioli Marco e Benedetta. «Nel nostro ristoro vogliamo offrire un servizio tradizionale e semplice perché solo attraverso la semplicità

Il nuovo locale inaugurato dalla famiglia Busti.

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Alcuni particolari del locale. si possono valorizzare al meglio le materie prime, tutte locali» ci ha detto Stefano. Il ristorante, diretto dallo chef Raffaele Lanza, ex titolare dell’Osteria Pian di Laura, è aperto a pranzo e cena, tutti i giorni, ad esclusione del martedì. L’inaugurazione lo scorso 20 settembre è stata un momento di festa per la famiglia Busti e per tutti i collaboratori, amici e dipendenti dell’azienda toscana. La giornata inaugurale si è articolata in due momenti, uno più istituzionale, con un pranzo riservato a poco più di cento invitati super selezionati, al quale ha collaborato lo chef Luciano Zazzeri del ristorante La Pineta. La seconda parte, aperta a tutti, è stata un lungo

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aperitivo protrattosi fino a tardi, con assaggi guidati, musica e brindisi alla nuova attività di ristorazione della famiglia! Nello spazio antistante il negozio, nella grotta di stagionatura e su in terrazza, i produttori locali, fornitori dello spaccio e del ristorante, hanno offerto una selezione di prodotti in degustazione: i salumi di Gastone Bernardini, di Sergio Falaschi e dell’Antica Macelleria Falorni, una straordinaria pasta cacio e pepe di Paolo Parisi, i tartufi Savini, l’olio Toscano IGP dell’azienda agricola Le selve, e ancora vini con Giusti & Zanga, Bersi e Serlini e ancora miele, zafferano, pane e dolci. Sulla pagina Facebook del Caseificio Busti trovate un ampio reportage

fotografico dell’inaugurazione: http:// goo.gl/bDiK11 Elena Benedetti

Il Rifocillo Via Marconi, 13 A/B 56043 Acciaiolo di Fauglia (PI) Telefono: 050 6201347 E-mail: ristoro@caseificiobusti.it Web: www.caseificiobusti.it

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1) Salumi Bernardini Gastone di Crespina (PI). 2) Le birre artigianali dell’Opificio Birrario, Lavoria, Crespina (PI). 3) Savini Tartufi di Palaia (PI). 4) Sergio Falaschi, Norcineria d'autore dal 1925 a San Miniato (PI). 5) I prodotti dell’azienda agricola “Gli Archi” di Fauglia (PI). 6) I salumi dell’Antica Macelleria Falorni, Greve in Chianti (FI).

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Occelli, Eataly Roma e la “La tua ricetta in TV” Grande successo per l’iniziativa ideata dall’azienda di Farigliano (CN) Beppino Occelli presso Eataly Roma “La tua ricetta in TV”, dove domenica 16 novembre scorso i cinque finalisti del contest si sono sfidati in un “invention test”, prova che consiste nel far realizzare una ricetta su un tema specifico (il dolce Piemonte in questo caso), senza far sapere ai concorrenti gli ingredienti e le attrezzature a loro disposizione prima della prova. «Con l’operazione “La tua Ricetta in TV” — ha dichiarato in proposito Umberto Milano, responsabile Marketing Beppino Occelli — abbiamo pensato di premiare la fiducia del consumatore che sceglie la qualità in cucina offrendo l’opportunità a chiunque avesse realizzato una ricetta dopo aver acquistato i prodotti Occelli presso Eataly Roma di presentare la stessa su AliceTV. Siamo stati davvero sorpresi dalla partecipazione e dal coinvolgimento del pubblico ed è stata dura scegliere i cinque finalisti (in foto) tra le moltissime ricette ricevute. La finale, poi, è andata benissimo e non era semplice, per questo sono molto soddisfatto. I concorrenti hanno realizzato cinque fantastiche ricette in due ore ed alla fine la giuria composta da Francesca Topi (responsabile di rete AliceTV), Giulio Rossi (food blogger) ed io ha scelto Barbara Ciorba come vincitrice. Ringrazio tutti i cinque i partecipanti, Elisa Donaggio e tutto lo staff di Eataly Roma che ci ha messo a disposizione una splendida location, Francesca Topi e lo staff di AliceTV per la disponibilità ed i preziosi consigli e Giulio Rossi, blogger e nostro consulente di cucina». Nel mese di dicembre andrà in onda la puntata di Casa Alice, dove Barbara Ciorba realizzerà il “Soufflé di Cusiè Occelli e zucca con fonduta di Losa di vacca Occelli e Melograno”. Non perdetevela!


Giorni di festa

I Natali d’Italia Diversi da regione a regione, i piatti delle festività natalizie in Italia riflettono le loro origini umili. Breve itinerario attraverso le tradizioni alimentari italiane con particolare attenzione a carni e salumi di Giorgio Montanari

L’

atmosfera di Natale inebria le nostre città: fra bombardamenti mediatici, sconti nei centri commerciali, pacchetti regalo. C’è chi consumerà i pasti in famiglia, chi trascorrerà le ore al ristorante: in queste pagine cercheremo di riassumere il complesso scenario delle tradizioni alimentari italiane, regione per regione, soffermando l’attenzione sulle carni e sui salumi. Non in

tutte le zone d’Italia sono radicate tradizioni “carnivore”: molte regioni, infatti, essendo affacciate sul mare, prevedono articolati menù ma a base di pesce. Ciò che abbiamo notato, infine, è che molte ricette tradizionali sono di origini umili, riprendendo tagli “di scarto” o parti meno nobili degli animali macellati: le usanze alimentari delle feste rispecchiano tutt’ora il vissuto contadino della nostra nazione.

Valle d’Aosta A pranzo, nei giorni di Natale, si prepara la Carbonade valdostana: carne di manzo macerata nel vino rosso insieme ad erbe aromatiche, servita insieme alla polenta e ad una salsa al vino rosso particolarmente profumata. Il salume più tipico di questa regione, protetto da DOP, è il Lard d’Arnad. Nei banchetti invernali si è soliti cucinarlo con castagne cotte caramellate al miele.

Il cappone è un classico del banchetto natalizio in regioni come Piemonte e Lombardia (photo © mangiarebuono.it).

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Il Lard d’Arnad deriva dalla lavorazione dello spallotto di suini provenienti da circuiti selezionati. Dopo la sgrassatura e la squadratura, la carne stagiona in tradizionali recipienti in legno: l’alternanza fra lardo e concia (sale, acqua, spezie, aromi naturali ed erbe aromatiche di montagna) permette, nei tre mesi di stagionatura, di ottenere il profumo riconoscibile e la scioglievolezza caratteristica. Piemonte Oltre al classico cappone, preparato al forno oppure bollito, una ricetta che troviamo di frequente negli inverni piemontesi si chiama Insalata di carne cruda all’albese: si tratta di carpaccio di manzo freschissimo servito con una salsa a base di emulsione di olio (precedentemente insaporito con pepe e chiodi di garofano), limone ed aglio, ed eventualmente accompagnato da scaglie di tartufo oppure di grana padano. Liguria Le usanze della cucina povera tornano in auge nei periodi freddi: durante i

pasti natalizi si preparano gli Stecchi fritti, vale a dire spiedini che rinvigoriscono parti di scarto di vitello e di pollo. Si inizia friggendo cervella, animelle ed altre interiora di pollo insieme alla carne magra di vitello, aggiungendo subito dopo funghi e carciofi. Parte degli ingredienti viene tenuta da parte e macinata insieme al pane ed al formaggio grana per fungere da ghiotta copertura delle carni. Dopo avere avvolto i tocchetti con questo trito (una sorta di “panatura robusta”) le carni vengono infilzate con uno stuzzicadenti e fritte in abbondante olio. Lombardia Nella regione che ha inventato il panettone, sotto Natale si gusta il Consommé di cappone, un brodo di carne particolarmente sostanzioso ottenuto bollendo verdure, aromi, ossa e carne di cappone. Quest’ultimo, infatti, è presente spesso anche nella veste di seconda portata, di solito lesso accompagnato alla mostarda di Cremona, oppure ripieno di magro. Una macelleria della provincia

di Brescia ci ha raccontato l’usanza natalizia delle Soppresse da pentola. Si tratta di un tipo di salume da cuocere diverso da quelli diffusi nell’Italia nord-orientale: la variante lombarda non prevede la carne macinata bensì adopera pezzettoni di muscoli gelatinosi marinati, con varie spezie, nel vino rosso (nel bresciano si usa il Curtefranca); l’impasto viene infine insaccato ed asciugato. Sul mercato sono reperibili tre varianti: con il guanciale, con la lingua, oppure con l’os de stomeck (osso dello stomaco, dapprima messo in salamoia e poi in infusione nel vino rosso: serve a donare più profumo all’impasto ed, essendo formato da cartilagine, risulta facile da tagliare a coltello). Trentino-Alto Adige Oltre al caratteristico Speck dell’Alto Adige, protetto da IGP, nel periodo natalizio in questa regione “di confine” fra usanze germaniche ed italiane si consuma lo Stinco affumicato con patate. La ricetta suggerisce di lessare la carne ed unirla in padella ad un fondo di olio, cipolle e speck

Abbacchio al forno con verdure (photo © mangiarebuono.it).

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a cubetti. Appena rosolato, lo stinco viene bagnato col vino e, una volta formatosi il gustoso sughetto, viene trasportato in una teglia da forno, dove, insieme ad un mestolo di brodo, completa la cottura, accompagnandosi alle patate e ad altre aromi (ginepro, rosmarino, pepe). Friuli-Venezia Giulia La zona più a nord-est della penisola rinnova l’usanza natalizia di Musèt e Brovade. La “brovada” è un condimento a base vegetale: si ottiene sminuzzando le rape viola e lasciandole macerare nelle vinacce; il giorno di festa questo preparato viene scaldato in pentola assieme ad olio, alloro ed aglio e si accompagna al “muset”, una sorta di cotechino artigianale precedentemente cotto in acqua bollente. Veneto Uno dei prodotti più consumati nel periodo natalizio è la Bondiola col lengual. Si tratta di una specialità da consumare previa cottura, nata in terre patavine e vicentine originariamente come ricetta che recuperasse gli avanzi di budello impiegati per insaccati. Per la sua preparazione si tritano cotenne, teste di suino e guanciale; l’aromatizzazione è caratterizzata da sale, pepe, ginepro, alloro e, in alcune versioni, dal vino Marsala. L’impasto viene insaccato in vescica di vitello ed assume una forma tonda, come un sacchetto largo una decina di centimetri. Al centro dell’impasto viene ospitata la lingua del suino, precedentemente salmistrata. Con una legatura manuale si ottiene un prodotto a forma di sacchetto, facilmente divisibile in spicchi grazie ad uno spago che ne avvolge la superficie. Al taglio notiamo la grana grossolana che svela cromie di rosso/rosa (parti magre) e di bianco (lardelli), che abbraccia la lingua salmistrata. Il peso medio di una bondiola col lengual è di circa 600/800 grammi. Si consuma bollita in acqua e servita con radicchi trevigiani, patate o verdure cotte. Emilia-Romagna La terra da cui proviene il team di PREMIATA SALUMERIA ITALIANA (fra cui anche l’autore di questo articolo) è

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una regione particolarmente ricca di salumi natalizi, basti pensare ai celeberrimi Zampone e Cotechino, due prodotti da cuocere che sono da anni radicati nella cultura alimentare di tutto lo Stivale. Un altro salume, però stagionato, che vede un interessante picco di vendite verso la fine dell’anno è il Culatello. Ottenuto dalla parte “nobile” della coscia suina, ossia la culatta, insaccato e stagionato nelle cantine come si faceva un tempo, il prodotto trova la sua residenza ideale nei climi della bassa parmense, tant’è che il Culatello di Zibello è una pregiata e costosa DOP riconosciuta anche all’estero. Toscana L’antipasto regionale più diffuso ed apprezzato è quello dei crostini ai fegatini. Le interiora di pollo, precedentemente pulite, vengono prima saltate in padella assieme ad olio, cipolla, carote e sedano, poi sfumate col vino bianco (alcune varianti prevedono il vinsanto, che dona più vigore alla ricetta). Dopo averli sminuzzati a punta di coltello, i fegatini sono ripassati in padella insieme a filetti di acciuga, capperi tritati, pepe. Un quarto d’ora di cottura (alcune massaie “tirano” il preparato con brodo di pollo) ed i fegatini vengono adagiati sui crostini di pane precedentemente abbrustoliti e carezzati dal fondo di cottura. Nella provincia di Firenze, trascorsa la mezzanotte, alcune famiglie mantengono l’usanza del Bardiccio, salsiccia tradizionale composta da carne di maiale aromatizzata al finocchio e cotta sulle braci del falò. Umbria Come in molte altre parti della Penisola, anche in questa regione è diffusa al preparazione natalizia del Cappone. Data però la vicinanza col Lazio e, quindi, con la città di Ariccia, abbiamo recuperato fra le ricette invernali consumate in Umbria anche l’Anatra muta in porchetta. Si tratta di una ghiotta preparazione che abbina la carne saporita e grassa dell’anatra con un battuto di prosciutto preparato con maiale, vino e aromi (rosmarino, salvia, finocchietto selvatico, pepe).

Brovàde e muset. Un’antica ricetta per fare il musetto si trova nel testo di Bernardino Beretta di Udine “Nozioni pratiche per un possidente, agricoltore e padre di famiglia”, 1851 (photo © www.cucchiaio.it). Abruzzo In regione, come secondi piatti caldi natalizi, si è soliti consumare agnello arrosto e bollito di manzo. Un produttore di L’Aquila ci ha segnalato il picco di vendite della Mortadella di Campotosto: si tratta di salametti di forma ovale, legati a coppie (da cui il nome gergale Coglioni di mulo) ottenuti macinando tagli magri di suino (prosciutto, spalla) e pancetta. Al centro dell’impasto è collocato un lardello lungo una decina di centimetri, a forma di parallelepipedo, il cui bianco risulta ben visibile al taglio. Marche Questa regione dell’Italia centrale conserva il culto natalizio dei Vincisgrassi. Con questo curioso ma esplicativo nome si definisce una lasagna particolarmente saporita e sostanziosa: per la preparazione si utilizzano salsa di pomodoro, vino, salsiccia, carne macinata di vitello o di manzo, prosciutto crudo a cubetti o lardo battuto e rigaglie di pollo tritato rosolate con il burro e aromi (alcune varianti propongono l’aggiunta di funghi porcini oppure di tartufo). Nella teglia si alternano strati di pasta sfoglia al ricco ragù, il quale viene poi spolverato da parmigiano reggiano e besciamella.

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Lazio Pur non riscontrando tradizioni natalizie a base di carne, alcune fonti hanno menzionato l’Abbacchio, magari cotto al forno con aglio e limone oppure, ancor più semplicemente, con le patate. Si tratta di un piatto a base di carne di agnello diffuso in tutta la regione non solo nel periodo invernale. Nella Capitale alcune famiglie brindano alle festività gustando il Capretto alla romana: in questa ricetta la carne ovina viene avvolta nel lardo e, nella fase finale della cottura, spolverata con un trito composto da pangrattato, prezzemolo, rosmarino ed aglio. Basilicata Matera è stata recentemente eletta Capitale Europea della Cultura 2019. Benché i piatti regionali presentati alle festività di fine anno siano prevalentemente a base di pesce (ad esempio, il baccalà), abbiamo trovato testimonianze bibliografiche “carnivore”. In qualche paese vicino ai Sassi si consuma il Lardo con pepone (una polvere di peperoni essiccati che le massaie preparano e conservano in vasetti). Altre famiglie utilizzano prosciutto crudo stagionato e prosciutto cotto per farcire le Pettole, palline di pasta di pane rigonfiatesi dopo la frittura in olio (di solito le Pettole si mangiano nella versione dolce, condite solo con lo zucchero). Puglia Pur essendo le principali usanze a base di pesce, in Puglia si usa preparare l’Agnello al forno con lampascioni (una cipollina dal gusto amarognolo). Un’altra pietanza che si consuma nei periodi delle feste è il Cuturidd’, vale a dire un piatto di carne ovina (solitamente agnello) cucinata a fuoco lento insieme a spezie ed a verdure selvatiche di stagione (cicorie, cardi). Nella zona di Foggia, a cavallo del Capodanno, si preparano le Pizze fritte, simili alle Pettole lucane ma di forma rettangolare e farcite di salumi oppure di pomodoro o di ragù di carne. Campania Nella regione del sole e del mare era quasi scontato che le tradizioni natalizie fossero più sbilanciate verso portate di pesce. Nonostante ciò, nella

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zona di Caserta si serve il Pollo oppure il Tacchino ripieno all’uovo, mentre dalla parte di Napoli si prepara O’ Rraù, vale a dire un ricchissimo ragù rosso fatto con salsa di pomodoro e carne (suino, manzo) a pezzi grossi, che deve cuocere a fuoco lento per molte ore. EDUARDO DE FILIPPO dedicò addirittura una poesia a questo piatto partenopeo. Molise Come in altre terre centro-meridionali, anche in questa piccola regione non ci sono particolari pietanze prettamente natalizie a base di carne. Alcune famiglie consumano la Coratella, ricetta diffusa anche nel Lazio, che prevede la cottura di parti delle interiora degli animali di piccola taglia (agnello in primis). Il nome è il diminutivo di corata, che ha il medesimo significato pur riferendosi all’impiego delle interiora di animali di grossa taglia (di solito bovini). Calabria Le tradizioni povere portano in auge anche quest’inverno le Frittole, cotenne del maiale bollite a lungo insieme ad altri tagli di scarto del

suino. Frittole è il nome diffuso a Reggio Calabria ma preparazioni molto simili sono diffuse in tutta la regione con altri nomi (Scarafuagli nel cosentino, ad esempio). Più “nobili”, in quanto protetti da DOP, sono i tre salumi calabresi frequentemente presenti nei cesti regalo: Soppressata (il prodotto più pregiato: l’impasto è fatto di prosciutto e filetto o spalla, cui si aggiunge lardo proveniente dalla parte anteriore del lombo), Salsiccia (a forma di ferro di cavallo), Capocollo e Pancetta (di forma quadrata, ricavata dal sottocostato inferiore).

Fellata (un salame a grana grossa) e la Salsiccia (a forma di “U” ed insaccata in budello naturale). Un prodotto altrettanto frequente nelle festività di fine anno, specie nel messinese, è il Salame Sant’Angelo. Si tratta di una IGP ottenuta tagliando “a punta di coltello” carni magre (prosciutti, filetti, lonze, coppe, pancette) e grasse, condendole con sale e pepe nero a mezza grana, ed insaccando infine l’impasto in budello naturale di suino che verrà poi legato a mano e stagionato. Il suo gusto è influenzato dal particolare microclima della valle Santangiolese.

Sicilia Sulla tavola delle feste per le famiglie siciliane non possono mancare i Salumi ottenuti dal Suino Nero dei Nebrodi. Si tratta di una razza di maiali cresciuti sui territori montani dei Nebrodi, delle Madonie e dei Monti Peloritani, terre dove gli allevatori lasciano crescere il bestiame allo stato brado o semibrado (si stima che vi siano solo fra i 500 ed i 1.000 capi di quello che, localmente, si chiama U Porcu nivuru). Con questa carne preziosa si ottengono il Guanciale (Buccularu), il Capocollo, il Lardo, la Pancetta, la

Sardegna Dal classico e prestigioso Porceddu al mirto (maialino da latte insaporito con lardo nella parte esterna, e con rami pepe nero, prezzemolo e qualche rametto frondoso di mirto al proprio interno) si passa alla meno nobile Cordula (interiora di agnello — quali intestino, trippa, ventre — avvolti su loro stessi e cotti allo spiedo oppure in un tegame insieme ad un contorno di piselli): questi sono i principali piatti a base di carne serviti nelle occasioni di fine anno. Giorgio Montanari

Taste of Christmas a Verona: la musica lirica entra in cucina “La Tosca”, “Il Barbiere di Siviglia”, il “Don Giovanni” e “Roméo et Juliette”: sono le quattro opere cui si sono ispirati gli chef di Taste of Christmas per la creazione dei “piatti lirici” dedicati ad AMO-Arena Museo Opera di Verona. Nella splendida cornice del museo, dal 28 al 30 novembre scorsi, ha infatti preso vita l’evento di Taste Festival, il food festival internazionale che in tutto il mondo ha coinvolto finora più di 300.000 persone. I piaceri della tavola, si sa, hanno sempre fatto parte della vita dei più importanti compositori; alcuni di loro si sono addirittura dilettati a creare il loro piatto particolare in una perfetta trasposizione dalla musica all’arte culinaria. Sulla scia di questo connubio magico tra cibo e musica, il genio, la creatività e la dedizione degli chef Elia e Matteo Rizzo (Il Desco, Verona), Nicola Portinari (La Peca, Lonigo, Vicenza), Leandro Luppi (Vecchia Malcesine, Malcesine, Verona) e Giuseppe D’Aquino (Oseleta, Cavaion Veronese, Verona) hanno deciso di ispirarsi a quattro grandi opere liriche per dare vita ad inedite portate. «Il ritmo incalzante de Il Barbiere di Siviglia mi ha sempre evocato un’energia ed una vitalità oltre misura», ha spiegato lo chef veronese Matteo Rizzo. «Ho quindi pensato di rappresentare in cucina questa grande opera di Gioacchino Rossini creando un piatto altrettanto intenso». “L’Ovetto” al tartufo bianco (in foto) pare in effetti restituire la stessa energia. >> Link: www.tasteofchristmas.it

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Il panettone gastronomico di Clara Scaglioni

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i presenta nel bel mezzo della tavola, spesso agghindato con un nastro colorato per attirare l’attenzione, farsi ammirare e pare dire ai presenti: “sono qui per voi, assaggiatemi”. Il panettone gastronomico ha fatto la sua comparsa alcuni anni fa sulle tavole dei più eleganti buffet natalizi ed è subito diventato un must perché molto comodo nella preparazione e nella presentazione. Viene realizzato utilizzando la pasta brioche e lo si cuoce in uno stampo a forma del classico panettone. Dopo la cottura viene tagliato, farcito, trasformato in tanti deliziosi tramezzini/panini dai gusti differenti poi ricomposti

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e riassemblati in modo da ridargli l’aspetto iniziale. Dal momento delle sue prime, timide apparizioni, un buffet non è stato considerato “in” o elegante se non ne venivano serviti almeno due o tre farciti con ripieni dai gusti differenti l’uno dall’altro. Per il ripieno, infatti, ci si può davvero sbizzarrire, preparando le farciture più fantasiose e che più ci piacciono a base di carne, di pesce o verdure. Ma sono i salumi i protagonisti incontrastati del panettone gastronomico: prosciutto crudo o cotto, mortadella, salame, uniti a formaggi diversi, che siano facilmente spalmabili, salmone leggermente affumicato, gamberi, tonno, ecc…

Come spesso succede quando ci presentano una novità, viene spontaneo cercare eventuali agganci o parentele con piatti della nostra tradizione. Specialità tipiche a cui collegare il panettone gastronomico si trovano in molte località dell’Italia centrale, con le debite varianti, legate però tra loro da un comune denominatore perché preparate, per tradizione, nei giorni a ridosso della Pasqua. In questo periodo, infatti, nelle Marche si fa la crescia, nel Lazio la pizza pasquale e in Umbria si tramanda da secoli, di generazione in generazione, la ricetta della torta di Pasqua al formaggio, in versione dolce o salata, accanto alla torta al testo.

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La torta di Pasqua umbra, preparata quasi sempre nella versione salata con un impasto in cui sono presenti vari tipi di formaggio come pecorino, parmigiano, gruviera, è chiamata torta, ma la forma e l’aspetto sono quelli del classico panettone milanese. A Perugia, durante la Settimana santa, ogni famiglia si prodiga per prepararla secondo la propria ricetta personale e la sera del sabato la porta in chiesa, per farla benedire; la servirà, insieme alle uova sode e al capocollo, la mattina di Pasqua durante la colazione. Essendo un saporitissimo companatico,oggi lo si consuma ormai tutto l’anno, tagliato a fette orizzontali farcite con maionese, fette di prosciutto, salame o tonno. La differenza tra questa torta e il classico panettone è l’impasto di base, reso saporito e gustoso da tre tipi di formaggio. La torta al testo, altra specialità del territorio, è invece una focaccia impastata con pecorino e parmigiano, lasciata lievitare, cotta sul testo e mangiata farcita con affettati vari. La pizza ricresciuta laziale, preparata per tradizione sempre nella Settimana santa, anch’essa a forma di panettone, si mangia la mattina di Pasqua con la corallina, un salume locale tipico, uova sode e cioccolata calda. È caratterizzata dalla presenza, nel suo impasto, di aromi e spezie, simboli, un tempo, di ricchezza e prosperità e, se si pensa all’alto valore che sempre le spezie hanno avuto, si comprende come tale piatto comparisse sulle tavole solo in speciali periodi dell’anno. La crescia pesarese è, nel panorama culinario del centro Italia, un altro buonissimo e saporito panettone gastronomico nel cui impasto vengono messi vari tipi di formaggio che lo rendono gustoso, adatto ad essere mangiato sia come profumato companatico che come base di ottimi tramezzini. Quando si parla di crescia va ricordato come ci si dovrebbe riferire ad una specialità dalle origini antiche, vagamente simile alla piadina, derivata, secondo ricerche storiche, dalla presenza bizantina sul territorio e dal pane che preparavano. Nelle aree settentrionali e centrali delle Marche il nome di crescia

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Il nome crescia indica alcuni tipi di focacce diffuse nelle regioni Marche e Umbria. La crescia pesarese, spesso chiamata piadina, è diffusa nel territorio di Pesaro, Fano e nelle campagne circostanti, non prevede l’uso del lievito, è tirata alta con il mattarello e contiene un certa quantità di strutto. Sono presenti due varianti: la crescia vonta e la crescia sfojeta. La crescia vonta è abbastanza spessa; dopo la cottura viene unta da entrambi i lati con lardo di maiale e rimessa sulla graticola; a volte viene farcita coi cavoli ripassati in padella. La crescia sfojeta è anch’essa spessa, di forma rettangolare; si stende una prima volta, poi si ripiega e si stende nuovamente con il mattarello; si ottengono in tal modo tanti strati distinti. Originariamente queste cresce, essendo molto nutrienti, erano destinate ai contadini che dovevano ritemprarsi dalle dure fatiche dei campi. In provincia di Ancona, la crescia si prepara con la stessa pasta del pane ed è in genere cotta alla griglia o, in una versione più tradizionale, sotto la brace. Si mangia di solito sa’ le foje, cioè con erbe di campo, ma la si può accostare anche a salumi come lonza, salame e prosciutto. Una variante delle zone di Jesi ed Osimo, fatta con gli avanzi della polenta ripassati sulla piastra, è chiamata cresciola. È interessante ricordare che ad Offagna (uno dei castelli di Ancona) esiste un’Accademia della Crescia, che organizza le locali feste medievali. In passato questo alimento era così importante da dare il nome ad una moneta d’uso corrente, il cresciolo. Anche nella provincia di Macerata, e in tutta la zona dell’alto Chiascio, la crescia si prepara con la pasta del pane, ma assume una consistenza simile a quella della schiacciata toscana. Rotonda, con l’orlo spezzettato e con fossette sulla superficie (che hanno la funzione di trattenere meglio l’olio), si condisce con olio, sale, cipolla o rosmarino. Alcune varianti storiche prevedono l’uso nell’impasto di strutto e ciccioli di maiale (detti anche grasselli o sgriscioli) e la sostituzione della farina di grano con quella di granoturco (in alto, crescia marchigiana; photo © www.quandopasta.it).

è usato anche per indicare un altro alimento, una torta salata alta detta pizza di Pasqua o pizza di formaggio, tipica del pesarese, dell’anconitano e del maceratese, il cui impasto è arricchito da formaggio pecorino che le dona un colore dorato e un sapore forte e gustoso. Anche se non ha le caratteristiche tipiche del panettone gastronomico, vale la pena di ricordare la smörgàstàrta, una specialità tipica dei paesi nordici, Svezia in particolare. Si realizza mettendo uno sull’altro

dei tramezzini lunghi e larghi e farcendo ogni singolo strato con fette di salmone affumicato alternato a maionese, gamberetti, formaggio morbido, insalata, ecc… Si ottiene alla fine una torta piuttosto grossa e molto alta che, una volta tagliata, si tramuta in tanti tramezzini dai gusti e dai colori diversi uno dall’altro. Clara Scaglioni Nota A pagina 94, panettone gastronomico; photo © www.pasticceriacortinovis.it

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Fiere

SIAL, i suoi primi cinquant’anni SIAL Paris riunisce tutti gli operatori chiave produttori e buyer attorno alle grandi sfide mondiali e rivela le tendenze e innovazioni che caratterizzeranno l’industria agroalimentare di domani di Elena Benedetti

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i sono poche certezze nella vita. Una di queste è il SIAL, il Salone Internazionale dell’Alimentazione di Parigi che, recentemente concluso, si conferma ancora una volta una delle più grandi manifestazioni fieristiche dedicate all’agroalimentare a livello mondiale. Con una crescita del +10% di espositori, questa fiera mantiene ben salda la leadership tra gli eventi di settore e fa ben sperare su quella tanto agognata ripresa economica che tutti noi attendiamo. L’edizione 2014

si è svolta come d’abitudine presso il quartiere fieristico di Paris-Nord Villepinte dal 19 al 23 ottobre scorsi e ha raccolto oltre 6.500 espositori che quest’anno hanno festeggiato i 50 anni di SIAL Parigi. Un bel traguardo per un appuntamento che mantiene intatta la capacità attrattiva del meglio dell’industria alimentare, sia per offerta di prodotti che per la presenza di buyer e operatori specializzati, oltre che per l’innovazione, un tema quest’ultimo molto caro agli organizzatori del SIAL. L’inaugurazione della

fiera, poi, non poteva essere più ufficiale e autorevole, dati i 150 delegati ufficiali accompagnati da Stéphane Le Foll, ministro dell’Agricoltura e portavoce del presidente della Repubblica francese Hollande e del Primo Ministro Manuel Valls. SIAL Parigi è un evento biennale. Il prossimo appuntamento è già fissato e si svolgerà da domenica 16 a giovedì 20 ottobre 2016 naturalmente all’interno del quartiere fieristico di Paris-Nord Villepinte. >> Link: www.sial-group.com

Panoramica di uno dei padiglioni del SIAL. Con oltre 6.500 espositori, l’edizione 2014 del salone ha confermato tutta la sua attrattiva per il settore dell’agroalimentare a livello internazionale.

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1) Paolo Rossi del Prosciuttificio ItalProsciutti, Alessio Sala di Perfetta e Renato Maspero dell’Alimentare Radice. 2) Lo stand dell’azienda Aceto Balsamico del Duca di Spilamberto, Modena. 3) Francesco Iazzolino con Vincenzo Rota nello stand del Salumificio San Vincenzo. 4) Barbara Havlova e Andreas Muehlberger della CSB-System Italia. 5) Luigi e Serafino Cremonini, Gruppo Cremonini. 6) Lo stand del Consorzio del Prosciutto di Parma.

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A sinistra: lo stand di Leoncini. A destra: presente a SIAL anche il Caseificio Busti con i suoi formaggi.

Falso Parmesan sequestrato al SIAL A poche ore di distanza dall’apertura del Salone Internazionale dell’Alimentazione, il Consorzio del Parmigiano Reggiano ha chiesto l’intervento delle autorità francesi ed ha ottenuto il sequestro di ben 7 prodotti riportanti o evocanti le denominazioni che appartengono in modo esclusivo alla DOP italiana. Si è ripetuta così, a distanza esatta di un anno, una situazione già riscontrata all’Anuga di Colonia, altro “tempio” dell’agroalimentare internazionale. Immediata e dura la reazione del Consorzio del Parmigiano Reggiano, che già all’inizio di ottobre, aveva invitato alla vigilanza le autorità francesi. «Paradossalmente — sottolinea il presidente del Consorzio di tutela, Giuseppe Alai (in foto) — anche in queste grandi vetrine internazionali si registrano forme di contraffazione e usurpazione del nome del nostro prodotto, applicato nei modi più fantasiosi ad altri formaggi o a prodotti che possono contenere Parmigiano Reggiano, ma che in alcun modo possono fregiarsi del suo nome o di altre diciture evocative o, ancora, della denominazione “Parmesan”, anch’essa in uso esclusivo al nostro prodotto». Proprio la Corte di Giustizia della Comunità Europea aveva a suo tempo sentenziato che il termine “Parmesan” non è affatto generico e costituisce una evocazione della denominazione “Parmigiano Reggiano”; conseguentemente, il suo uso per formaggi non conformi al disciplinare costituisce una violazione alla DOP italiana. «Grazie all’immediato intervento dei nostri uffici legali in Italia e in Francia — spiega Alai — si è arrivati al ritiro del prodotto ingannevole presentato al SIAL. La tempestività del lavoro delle autorità di vigilanza francesi dimostra che i sistemi di vigilanza del Consorzio e i meccanismi di tutela che abbiamo ottenuto in questi anni in ambito Unione Europea funzionano: ora resta l’auspicio che il ripetersi di queste dure azioni repressive ponga fine ad una pratica che vede in campo anche aziende importanti del settore, che certo non possono né ignorare né fingere di non conoscere le norme cui debbono attenersi in materia di tutela delle denominazioni, finalizzate anche alla tutela dei consumatori». L’intervento del Consorzio del Parmigiano Reggiano è avvenuto sulla base di una legislazione dell’Unione Europea (maturata dopo anni di contenziosi) che prevede, tra l’altro, l’obbligo di tutela delle DOP “ex officio” in tutti gli Stati Membri della UE, assegnando così ai Paesi Membri l’ineludibile compito di un diretto intervento di vigilanza e l’adozione di adeguate misure.

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A sinistra: lo stand del Consorcio del Jamón Serrano. A destra: Jamón della famiglia Blázquez di Salamanca.

Il Prosciutto di Parma a Parigi Il SIAL è un appuntamento fieristico di grande rilevanza al quale il Consorzio del Prosciutto di Parma non manca mai. Quest’anno l’area espositiva dedicata al Prosciutto di Parma è stata opportunamente ampliata rispetto all’edizione precedente per agevolare l’incontro con gli operatori, ma soprattutto per andare incontro alle esigenze dei produttori. «Abbiamo previsto una grande partecipazione — ha dichiarato Paolo Tanara, presidente del Consorzio — non solo da parte dei visitatori, ma anche da parte delle nostre stesse aziende, presenti al salone per consolidare relazioni già in essere, ma soprattutto perché oggi guardare all’estero e aprirsi all’internazionalizzazione è diventato assolutamente imprescindibile per qualsiasi attività in un momento come questo, dove il mercato interno risente di un calo generalizzato dei consumi che ha interessato l’intero comparto del prosciutto crudo, produzioni tutelate comprese. Già lo scorso anno abbiamo infatti ottenuto ottimi risultati esportando complessivamente 2.500.000 prosciutti per un fatturato alla produzione di 237 milioni di euro». E la Francia, che ha ospitato il Prosciutto di Parma, nonostante una situazione di difficoltà dell’area europea, tiene molto bene e resta per questa DOP italiana un mercato importante, il terzo per le esportazioni di Prosciutto di Parma. Con circa 420.000 pezzi segue infatti solo gli Stati Uniti e la Germania. L’edizione 2014 è stata dedicata alla presentazione della Selezione Anniversario agli operatori del settore. La Selezione è un Prosciutto di Parma speciale pensato già nel 2013 per celebrare i 50 anni della Corona. Ha una stagionatura di 30 mesi ed è in edizione limitata, scelto accuratamente dai produttori e garantito dal Consorzio del Prosciutto di Parma.

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Salone del Gusto 2014: questione di nomi e cognomi di Gaia Borghi

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utti a bordo: il Salone internazionale del Gusto, il grande evento del cibo organizzato a Torino ogni due anni dal movimento Slow Food, svoltosi dal 23 al 27 ottobre scorsi insieme al convegno della rete di Terra Madre, ci ha chiamati a raccolta sull’Arca. Insieme, io e le oltre 200.000 persone giunte nel capoluogo piemontese invitate da Petrini e compagni a salire su questo simbolico ma preziosissimo barcone per unire le forze al fine di proteggere gli alimenti — e gli animali — “in pericolo”: frutta, verdura, razze suine,

ovine, bovine, formaggi, pani, dolci e salumi selezionati da una speciale Commissione e considerati a rischio di estinzione. Come? Conoscendoli, prima di tutto, e poi, dove possibile, mangiandoli, acquistandoli direttamente dai produttori presenti nella grande area del mercato, parlandone con amici, conoscenti. Leggiamo in uno dei comunicati preparati dalla Fondazione che promuove il progetto che “negli ultimi 100 anni circa il 75% della diversità genetica delle piante si è estinto e ogni mese si perdono circa sei razze

da allevamento. Se la biodiversità continua a scomparire a questa velocità, come sarà il nostro sistema alimentare fra quattro generazioni?”. «Abbiamo già salvato 2.000 prodotti — ha spiegato in proposito Paolo Di Croce, segretario internazionale di Slow Food — l’obiettivo è di arrivare a 10.000 nei prossimi quattro anni». Partendo proprio da qui, da queste premesse e, fisicamente, da quella colorata installazione di 600 metri quadrati dedicata alla biodiversità agricola posta al centro dello spazio dell’Oval (con tanto di percorso sen-

La soppressata di Gioi, l’unico salame campano lardellato. La presenza del lardello, oltre a dare un tocco per così dire “decorativo”, contribuisce a mantenere umido l’impasto nella fase di stagionatura.

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1) Pancetta arrosto a porchetta del Prosciuttificio Coccia Sesto di Viterbo. 2) La susianella, insaccato tipico della città di Viterbo, la cui ricetta sembra risalire alla civiltà etrusca. 3) Il Caciocavallo podolico della Basilicata del Caseificio Pessolati di Abriola (PZ). 4) Salsicce secche olandesi con semi di finocchio. soriale per visitatori non vedenti e ipovedenti), il mio Salone edizione 2014 è stato un viaggio in un universo multiforme e multigusto, un gigantesco macchinario cresciuto a dismisura, che si regge, però, saldamente, su persone, artigiani e produttori coscienziosi ed impegnati. Si tratta di uomini e donne che credono nel loro lavoro e si reinventano ogni giorno, i piedi ben piantati a terra (e nella terra), per i propri figli, i nipoti, il rispetto per i propri padri, le proprie radici, ma anche per i propri dipendenti, l’economia del territorio, la passione e l’amore per la professione scelta. A parte qualche presenza tra gli espositori non esattamente in linea con la filosofia assoluta del “buono, pulito e giusto” — mentre abbiamo sentito la mancanza di aziende che ci saremmo aspettati di vedere —, il “popolo” incontrato all’interno dei padiglioni di Lingotto Fiere ci ha nuovamente emozionato, positivamente sorpreso e, alla fine, conquistato.

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Forse è più affaticato, stanco che la politica, quella che sembra vivere in una dimensione parallela al reale e non si accorge dell’ingrossarsi giornaliero delle file alle mense dei poveri sostenute dalle associazioni di volontariato, non sostenga adeguatamente chi ha sempre fatto bene, seguendo le regole, chi si impegna nonostante tutto. Ma è senza alcun dubbio agguerrito: sono in tanti, infatti, che mi hanno raccontato di ampliamenti, dell’apertura di un ristorante accanto al caseificio, del rinnovamento della macelleria o dell’arricchimento della gamma aziendale di prodotti per attrarre particolari categorie di consumatori, solleticare e incuriosire acquirenti e nuovi mercati. Super professionali, sorridenti, felici di spiegare e raccontarti la propria storia, sempre educati anche di fronte a resse di pseudo-assaggiatori famelici e agguerriti, pronti a tutto per una fetta di salame in più, una scaglia di pecorino, un oliva o un biscotto.

«Il giorno che l’Italia non avrà più contadini e artigiani sarà un Paese finito» aveva dichiarato durante l’inaugurazione del salone Carlo Petrini. Una citazione, quella pasoliniana, indirizzata al nostro ministro per le Politiche Agricole, Maurizio Martina, presente all’apertura della kermesse insieme a diversi politici locali, perché la trasmetta al più presto al nostro capo di Governo. Insieme ad alcune, semplici proposte a costo zero: fare subito una legge per difendere il suolo agricolo fermando la cementificazione, aprire linee di credito per giovani contadini, rafforzare le nuove tecnologie per fare il biologico, migliorare l’offerta riguardante la formazione universitaria in agricoltura. «Mettiamoci un po’ di pepe e meno burocrazia» dice Petrini. Ecco perché il mio Salone 2014 ha un nome ed un cognome, anzi ne ha tanti: si chiama Scherzerino, Massimo, Giulio, Anna, Andrea… Gaia Borghi

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La lonzarda e altre specialità di Nero casertano nello stand dell’azienda di Caiazzo (CE) Salumi Mastro Enrico. La Casertana è il ceppo suino autoctono più importante dell’Italia meridionale. La caratteristica più pregiata è la marezzatura delle carni, la presenza cioè di abbondante tessuto connettivo intramuscolare, il grasso nobile, che dona sapidità e morbidezza ai salumi.

La rete è una forza irreversibile, uno degli elementi della nuova politica Soddisfazione. Questa la parola d’ordine del Salone del Gusto e Terra Madre edizione 2014. «Inizio dalle attività di educazione per grandi e piccini, anche quest’anno nostro fiore all’occhiello», racconta Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia. «Moltissimi gli insegnanti e i formatori stranieri interessati a trasformare le nostre attività in modelli da esportare in altri Paesi». Alta la partecipazione alle conferenze e l’affluenza all’Oval, che ha concentrato emozioni e culture da ogni parte del mondo. «Qui è stata l’Arca il vero cuore dell’evento, a cui sono arrivati prodotti da Giordania, Iran, Oman e Messico, solo per citarne alcuni. Tutti potenziali passeggeri dell’Arca, che saranno esaminati dalla Commissione competente». Il pubblico della manifestazione è risultato più giovane, più interessato al mondo del cibo e alle sue dinamiche e, soprattutto, straniero, intendendo anche solo quello proveniente da fuori regione. Per l’assessore del Piemonte all’Agricoltura Giorgio Ferrero, «questa manifestazione che si realizza ogni due anni è un’Expo consolidato e dai grandi contenuti, che riteniamo importante quanto l’Expo 2015 di Milano. A Terra Madre, poi, si incontrano tutte le nazioni i cui governi non dialogano tra loro e attraverso le Comunità del cibo queste nazioni qui a Torino ogni due anni si confrontano sui grandi temi del pianeta. Merita un ragionamento serio l’attribuzione del Nobel per la pace a chi ha inventato Terra Madre». «Siamo solo all’inizio, non pensate che ci fermiamo qui» ha commentato un emozionato Carlo Petrini. «Siamo di fronte ad una forza irreversibile, al di sopra di Slow Food, rappresentata dal cuore delle migliaia di comunità che la alimentano autonomamente. Spetterà a noi comprendere che questa rete è uno degli elementi della nuova politica, un sogno che tutti noi possiamo rafforzare. E io penso che ce la faremo perché ci piace, ci divertiamo e ci mettiamo l’anima». L’appuntamento con il Salone del Gusto e Terra Madre è al 2016. >> Link: www.salonedelgusto.com

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1) A promuovere il mallegato, originale sanguinaccio toscano, Andrea Falaschi e Andrea Fiumalbi. 2) Beppino Occelli e lo chef Igles Corelli. 3) La salsiccia di Verduno preparata con carne di bovino e suino. 4) La stortina veronese del Salumificio Poltronieri. L’azienda di Nogara (VR) produce anche la versione della stortina sotto lardo, da gustare insieme alla polenta abbrustolita.

Profondo Food: a Torino si racconta il Sud buono, pulito e giusto Si può essere moderni, felici e rispettosi del territorio? La risposta ce la danno i ragazzi incontrati a “Profondo food”, lo spazio colorato e pieno di vita che ha letteralmente incantato i visitatori di Salone del Gusto e Terra Madre realizzato da Slow Food Calabria, in sinergia con la Regione Calabria ed Unioncamere Calabria. «Profondo food è il racconto di una grande generazione di produttori che parte dagli uomini e dalle donne — oggi sempre più giovani — con le mani sporche di terra ed animati dal rispetto per il lavoro e la legalità in un contesto difficile dove, però, si può essere costruttori di una strada nuova che realizza prodotti di qualità e fa essere felici chi le realizza» ci racconta Vincenzo Alvaro. «Nel rispetto della terra e del lavoro le esperienze nuove hanno voglia di dialogare con i territori e le regioni, per raccontare i valori che si portano dentro, e non esaurirsi semplicemente nei territori che li generano. Una contaminazione agroalimentare che apre la strada alla legalità e la condivisione delle esperienze regionali del Sud che è ideale, ma altrettanto reale, e che rende Profondo food una rete operativa che punta l’attenzione sulla produzione di cibo etico, riscopre i grani antichi dell’Appennino, stimola il confronto con le istituzioni territoriali e costruisce relazioni con le filiere produttive e le associazioni di categoria come momento di liberazione di riconquista della terra». Eticità dei prodotti e legalità sono stati ad esempio il filo conduttore dell’incontro a più voci che ha visto protagonisti Peppe Orefice, Slow Food Campania, Carmelo Maiorca, Slow Food Sicilia, Marcelo Longo di Slow Food Puglia e Antonello Rispoli di Slow Food Lamezia. Insieme al coordinamento di Nicola Fiorita, presidente di Slow Food Calabria, tutto il Sud ha raccontato la voglia di riscatto offrendo anche storie positive come quelle della cooperativa Futura che con malati di mente coltiva kiwi nel sud della Calabria, il vino de La Casa di Nilla, struttura che ospita minori vittime di abusi sessuali, e l’olio e le marmellate del Consorzio Terre del Sole. >> Link: www.profondofood.it

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1) Il prosciutto del Casentino di Simone Fracassi, patron dell’omonima macelleria di Rassina. 2) Nello stand dell’Agricola Zootecnica Lauretti di Amaseno (FR), presentano i salumi realizzati con carne di bufala Anna e Antonio Lauretti, Antongiulio Campioni e Natalia Pagliaroli. 3) Uno dei piÚ antichi formaggi italiani, il Conciato romano. 4) La Macelleria Scalino porta al salone il furmagin da Cion, pasticcio di carne tipico della Val Poschiavo. 5) Il salumificio Antica Foma di Nonantola (MO). 6) Scherzerino la Rocca nello stand del Salumificio Scherzerino di Itri (LT).

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1) I salumi dalla Macelleria Giacobbe di Sassello (SV). 2) Il prosciutto Crudo di Cuneo Dop. 3) Mileto e il padre Fausto Savigni dell’omonima macelleria artigianale di Pavana (PT). 4) Nello spazio calabrese di Profondo food Vincenzo Alvaro, Giovanni Gagliardi e Giancarlo Rafele. 5) Domenico Iovine davanti ad uno dei food truck più golosi “incontrati” a Torino, con le classiche sfogliatelle napoletane e le pastiere in formato mini, anzi Mignon. 6) Massimo Cis con la carne salada e le luganeghe trentine dalla macelleria Cis di Ledro (TN).

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1) Dino Negrini della Negrini Salumi di Renazzo (FE), cui fa capo il marchio Bonfatti, e Vidmer Cantelli. 2) I salumi di Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense (PR). 3) I formaggi della famiglia Busti al salone. 4) Paola Giagulli nello stand del formaggio Monte Veronese Dop. 5) Il Prosciutto crudo di San Daniele Dop. 6) La Fontina Dop della Valle d’Aosta. 7) La Pasta di Canossa della Tenuta Cuniola di San Martino (FE). 8) Formaggi dalla Sardegna.

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar Premiata Salumeria Italiana, 6/14 109 perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


1) Il Salumificio Rossi di Sanguinaro di Fontanellato (PR) al salone con la Culaccia. 2) I salumi Chiapella di Clavesana (CN). 3) Il Salumificio F.lli Pugliese di Calimera Calabra (VV). 4) Aceto balsamico di Modena Giusti. 5) Beppino e Carlo Occelli della Occelli di Farigliano (CN). 6) La Pietro Isnardi Alimentari di Pontedassio (IM). 7) Aceto balsamico firmato La Vecchia Dispensa, Castelvetro (MO). 8) La Coltelleria Collini Silvano di Bra (CN).

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Tutela, valorizzazione e gusto, i temi vincenti del Parmigiano Reggiano SIAL e Salone del Gusto: il Consorzio ha soddisfatto le aspettative del pubblico con attività per tutti i gusti e ha ottenuto importanti vittorie nell’ambito della tutela

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ono stati mesi ricchi di soddisfazione per il Consorzio del Parmigiano Reggiano, che ha preso parte ad alcune delle più importanti manifestazioni del panorama enogastronomico italiane e non, proponendo attività dedicate a soddisfare le esigenze di diversi tipologie di pubblico. Dopo Milano Golosa e Taormina Gourmet, il re dei formaggi è volato a Parigi, dal 19 al 23 ottobre, per il SIAL-Salone Internazionale dell’Alimentazione, dove sono stati organizzati incontri specifici dedicati agli operatori francesi che hanno avuto la possibilità di degustare il Parmigiano Reggiano, incontrare i caseifici produttori presenti in fiera e approfondire la conoscenza del nostro formaggio. Il mercato francese rappresenta infatti un’importante realtà commerciale per il Parmigiano Reggiano che si aggiudica il titolo di formaggio a pasta dura più importato da questo paese (18% su un totale di 33% di esportazione). Durante il SIAL è stata condotta anche un’intensa attività di vigilanza che ha permesso, a poche ore di distanza dall’apertura della manifestazione, di individuare 7 prodotti riportanti o evocanti le denominazioni che appartengono in modo esclusivo alla DOP italiana Parmigiano Reggiano. Il Consorzio ha immediatamente richiesto l’intervento delle autorità francesi e ha ottenuto il sequestro dei prodotti in questione. Questo episodio, come altri in passato, conferma l’efficacia delle attività di

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tutela svolte dall’ente e rappresenta il grande sforzo per salvaguardare la nostra produzione ma anche un’altra vittoria per combattere il fenomeno della contraffazione che ogni anno sottrae quote di mercato ai prodotti italiani con un notevole danno economico per i produttori. Gli impegni del Consorzio sono continuati a Torino con la partecipazione alla manifestazione dedicata ai prodotti di qualità organizzata da Slow Food: il Salone del Gusto, che ha animato il Lingotto Fiere dal 23 al 27 ottobre. In questa cornice, ogni giorno, presso lo stand si sono susseguite attività che hanno trattato i diversi aspetti legati al mondo del Parmigiano Reggiano registrando una

grandissima partecipazione di pubblico. Largo spazio è stato riservato all’attività “Caseifici alla ribalta”, che ha offerto la possibilità ai caseifici presenti con stand di vendita di raccontare la propria realtà, la produzione e di far degustare il proprio formaggio. Dalla concretezza produttiva alla cucina: ogni giorno, gli appassionati dei fornelli sono stati deliziati da cooking show guidati da giovani chef, gli chef emergenti finalisti della competizione “Witaly – Chef emergente”, organizzata dal giornalista esperto di viaggi e cibo Luigi Cremona. Rappresentanti delle diverse zone della nostra penisola, Alessandro Buffolino e Simone Ci-

L’appuntamento con gli chef emergenti condotto da Luigi Cremona.

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priani (finalisti a pari merito per la categoria centro Italia), Cristoforo Trapani (finalista per la categoria sud Italia) e Diego Rigotti (vincitore della scorsa edizione per la categoria Nord Italia) si sono alternati mettendo in mostra le proprie abilità nella preparazione di differenti ricette, interpretandolo il Parmigiano Reggiano in svariate declinazioni. Una parte interessante del mondo della cucina è stata anche l’esibizione degli aspiranti chef della scuola di cucina IFSE Culinary Institute della provincia di Torino, che ha proposto il Parmigiano Reggiano in chiave dolce preparando la “Cheese cake di Parmigiano Reggiano con croccante di pistacchi, composta di pere e mostarda di Cremona”. Non sono poi mancati i momenti istituzionali, ossia la consegna del Premio Internazionale Parmigiano Reggiano, il riconoscimento dedicato ai prodotti a denominazione d’origine extra UE che si sono distinti per l’attività di tutela e valorizzazione. Il premio, giunto alla sua sesta edizione, è stato consegnato per la prima volta ad un formaggio: Le Gruyère AOP Switzerland. Nelle precedenti edizioni erano stati premiati rispettivamente: il Cidre de Glace del Quebec (Canada) nel 2004, il Cafè de Colombia nel 2006, l’Olio di Argan (Marocco) nel 2008, il Kona Coffe delle Hawaii (USA) nel 2010 e il distillato Tequila nel 2012.

Il Parmigiano in cucina e in rete Il Consorzio da alcuni anni ha implementato le proprie attività di comunicazione sulle piattaforme web e social, promuovendo attività dedicate al popolo della rete e ai comunicatori on-line come i food blogger. Il Salone del Gusto è stata la vetrina di presentazione del ricettario “Cross Cooking del Parmigiano Reggiano”, una raccolta di ricette internazionali frutto del contest “Parmigiano Reggiano Chef” aperto a maggio e rivolto a food blogger, chef ed appassionati di cucina. Dopo la presentazione del ricettario, Maria Elena Saracino del blog “Se questo è un uovo” si è esibita nella preparazione della ricetta vincitrice del contest: la “Baklava al Parmigiano Reggiano”, dessert rivisitato di ispirazione turca. L’appuntamento di sabato 25 ottobre è stato con la Parmigiano Reggiano Night, la cena web 2.0 arrivata alla sua terza edizione. L’iniziativa era dedicata a tutti gli amanti del Parmigiano Reggiano che sono stati chiamati ad invitare amici e parenti a casa o al ristorante per “salvare così il gusto di stare insieme” al grido di #bastaunacena. La novità di quest’anno è stato il voler ampliare il coinvolgimento ai ristoranti: 188 locali in tutta Italia hanno festeggiato la Parmigiano Reggiano Night con piatti o interi menù dedicati al Parmigiano Reggiano. Inoltre, inviando/caricando

Lo spazio Parmigiano Reggiano al Salone del Gusto.

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Maria Elena Saracino del blog “Se questo è un uovo” con la sua Baklava al Parmigiano Reggiano, ricetta vincitrice del contest “Parmigiano Reggiano Chef”. le immagini della serata e della propria cena nell’apposita sezione del sito del Consorzio, era possibile di partecipare al concorso “PRnight” per vincere un soggiorno nelle terre del Parmigiano Reggiano con visita in caseificio e degustazione guidata. Nello stand, la Parmigiano Reggiano Night è stata festeggiata invitando il pubblico ad assaggiare gli “Spaghetti AOP, Aglio, Olio e Parmigiano Reggiano” preparati su ispirazione delle ricette dello chef Pier Luigi Di Diego del ristorante Il Don Giovanni di Ferrara. Dalla cucina, al web, passando per le premiazioni istituzionali, allo stand del Parmigiano Reggiano al Salone del Gusto di Torino non potevano mancare le degustazioni guidate di prodotto in purezza, nelle diverse stagionature, in abbinamento a prodotti tipici italiani, in coppia con lo Jamón de Huelva (Spagna), con le birre artigianali del Birrificio Vecchia Orsa di San Giovanni in Persiceto (BO), la confettura di pera cocomerina della Romagna, la Tequila messicana e il vino Prosecco DOCG. Per ogni ulteriore informazione sulle attività del Consorzio è possibile visitare il sito: www.parmigianoreggiano.it www.parmigianoreggiano.com

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Week-end Elicicoltura e gastronomia tradizionale a Borgo San Dalmazzo

La lumaca borgarina di Riccardo Lagorio

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a compiuto cinque anni nel mese di luglio 2014 il Consorzio per la Tutela e la Valorizzazione della chiocciola di Borgo e delle valli circostanti. Detto che le valli circostanti ricadono nel territorio cuneese e sono la Gesso, la Stura e la Vernenagna, la creazione del consesso fu salutato dalle istituzioni come il proseguimento del successo che si era guadagnato Borgo San Dalmazzo come punto di riferimento per l’elicicoltura a livello internazionale. Da allora, sotto la presidenza dell’esperto e veterinario GUIDO GIORDANA, la popolarità della Helix pomatia borgarina si è accre-

sciuta, anche grazie all’assunzione da parte dei soci di un rigido disciplinare di produzione, che potenzia le caratteristiche positive del mollusco. Gli sforzi di promozione per l’allevamento ed il consumo di chiocciole borgarine risalgono in verità al 1972, quando erano emerse prospettive di sviluppo dell’elicicoltura e di altri allevamenti “alternativi” come la cunicoltura. La Helix pomatia è un mollusco diffuso nella fascia temperata del continente, ancora abbondante nell’Est europeo, ma ben diffusa un tempo anche sull’arco alpino ed in Francia dove oggi è pressoché estinta

a causa dello sfruttamento massivo delle campagne e dell’utilizzo in agricoltura di sostanze gravemente dannose alla sua esistenza. Amante degli ambienti freschi e umidi, abitava lungo i corsi dei ruscelli, tanto in montagna quanto in pianura purché lontano da ristagni d’acqua. La vicinanza al mare delle valli, con elevata piovosità ed umidità rispetto ad altre aree del Piemonte, si ripercuote positivamente sulla crescita di erbe spontanee officinali che conferiscono a loro volta particolari aromi al mollusco, cosicché si può parlare di un ecotipo locale, l’Helix pomatia alpina.

Helix pomatia alpina à la bourguignonne.

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Se ne accorsero già nel XVI secolo gli abitanti che durante il periodo estivo raccoglievano ad ogni pioggia le chiocciole allora abbondanti in natura. Poste in appositi recinti costruiti in luoghi freschi che ricreavano l’ambiente naturale, si completava l’ingrasso, preludio al letargo invernale. In questo periodo la chiocciola prende il curioso nomignolo di corritrice, poiché pascola e cammina. Con il sopraggiungere dei primi freddi il mollusco riduce e poi sospende la propria alimentazione, si depura dai residui alimentari e costruisce, in una fase immediatamente successiva, un robusto tappo calcareo, l’opercolo. È in questa breve fase dell’anno che la Helix pomatia dà il meglio di sé dal punto di vista gastronomico e sanitario in quanto è elevato lo stato di ingrassamento e risultano praticamente assenti i residui alimentari. Anche per questo il 5 dicembre di ogni anno, dal 1569 a Borgo San Dalmazzo si tiene la Fiera Fredda, importante opportunità per le genti di qui per vendere gli ultimi prodotti stagionali ed acquistare beni di prima necessità, istituita da Emanuele Filiberto di Savoia. «L’allevamento della lumaca borgarina si svolge tuttora in maniera tradizionale, basandosi per lo più sulla raccolta in natura dei molluschi, con successive fasi di ingrasso e finissaggio in cattività», rivela Guido Giordana. Ancora non esistono tecniche di allevamento a ciclo completo che si traducano in minor prelievo a carico delle popolazioni naturali in declino. Il disciplinare di produzione prevede infatti che sia tenuto un registro delle catture e che l’alimentazione avvenga per mezzo di erbe spontanee commestibili cresciute in ambiente salubre (specie bardana, tarassaco e girasole), colture orticole in buono stato di conservazione (in particolare cetrioli e zucca) e sfarinati per l’alimentazione zootecnica. «Al fine di integrare quantitativamente la disponibilità di prodotto elicico viene prevista, con distinto disciplinare di produzione, la possibilità di effettuare anche l’allevamento a ciclo parziale di chiocciole appartenenti alla specie Helix pomatia non derivanti da raccolta locale in natura ma acquistate

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In alto: lumaca fritta con salsa all’aglio. Al centro: ravioli con lumaca. In basso: spiedino di lumaca.

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Gli allevatori del Consorzio della lumaca borgarina: Mario Risso, Renato Pepino, Guido Giordana, Luigino ed Eraldo Giraudo. altrove. I due tipi di allevamento devono però essere nettamente separati e deve venire garantita la tracciabilità al fine di mantenere ben distinte le due produzioni», continua Giordana. Pare che le chiocciole apprezzino passeggiare di tanto in tanto su tappeti di ghiaia di San Lorenzo di Valdieri, calcio praticamente allo stato puro che non disdegnano sgranocchiare e che sarà utile per la costruzione dell’opercolo.

Del Consorzio fanno parte allevatori, ristoratori e operatori gastronomici che si impegnano a ritirare, utilizzare o commercializzare le produzioni degli elicicoltori associati, garantendone la tracciabilità. «Per assicurare a tutti una giusta remunerazione, il prezzo di vendita è concordato tra gli aderenti al Consorzio entro la terza settimana di novembre», aggiunge il presidente. Questo facilita il lavoro degli allevatori, che

competono con prodotti commerciali freschi o congelati provenienti da Europa orientale e soprattutto Turchia, garantisce il consumatore e rappresenta un vanto e richiamo per i ristoratori aderenti. Ciò che contraddistingue la Helix pomatia alpina sono i valori ponderali che possono raggiungere i 50 g per soggetto, la carne bianca e saporita, esaltata grazie alla presenza di erbe aromatiche di cui sopra si è scritto.

La Helix pomatia è una specie di chiocciola molto apprezzata dal punto di vista gastronomico per la grande pezzatura, la carne bianca e saporita. Per queste sue peculiarità i Francesi la chiamano “Gross blanc”. Mollusco diffuso nella fascia temperata dell’Europa, si trova in abbondanza in Croazia, Serbia, Ungheria, Romania, Polonia. In Italia è diffuso nell’arco alpino, esclusivamente nelle regioni settentrionali, che costituiscono il limite meridionale del suo areale. Attualmente l’allevamento dell’Helix pomatia alpina è limitato ad alcune piccole realtà nel Cuneese; la forte contrazione del prodotto è conseguente alla riduzione del mollusco in natura, ma anche alle difficoltà di allevamento che richiedono impegno e cura.

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Queste caratteristiche e la versatilità in cucina l’hanno eletta tra i piatti nazionali d’Oltralpe. Da noi la chiocciola è confinata in alcune cucine regionali. Meglio: di sussistenza. Tanto che se nella Francia di metà Ottocento si celebravano le lumache alla bourguignonne generate qualche anno prima dall’estro di Marie-Antoine Carême, nelle vallate cuneesi rappresentavano il pasto frugale da osteria dei cartunè, gli autotrasportatori ante litteram: semplicemente bollite e intinte in salse con la base standardizzata di aglio e prezzemolo dopo essere state estratte dal guscio con un chiodo da maniscalco. In occasione della Fiera Fredda era invece usanza consumare un pranzo a base di trippa e lumache, acquisendo valore simbolico di appartenenza alla comunità. Duecento anni dopo Carême, anche sul versante italiano delle Alpi marittime la chiocciola acquista capacità di attrarre i gourmand e diventa piatto benestante. Una decina i ristoratori coinvolti: bastano i ravioli di lumaca di Da Politano per comprendere la grande abilità dei nostri fornelli a utilizzare qualsiasi tipo di materia prima. Poi il gusto pieno e coriaceo delle lumache fritte con salsa all’aglio e quello delicato e gustoso delle foglie di cavolo con lumache e patate di Entracque. Essenzialità e pregio di assaggiare l’Helix pomatia alpina in purezza nel crostino caldo e leggermente imburrato: non sono trascorsi invano i cinque anni di lavoro del Consorzio per dare dignità di alta cucina alle loro chiocciole. Riccardo Lagorio Consorzio della lumaca borgarina e delle valli circostanti Piazza dell’Abbazia 6 12011 Borgo San Dalmazzo (CN) Telefono: 338 7711317 Web: www.conschiocciolaborgo.com Hotel-Ristorante Da Politano Via Santuario,125 12012 Fontanelle di Boves (CN) Telefono: 0171 380383 E-mail: info@hotelpolitano.it Web: www.hotelpolitano.it

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Dal 1605 il pi첫 p antico produttore di Aceto Balsamico di Modena Ba

www.giusti.it


Vino

Un brindisi che migliora il Natale di Riccardo Lagorio

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na delle notizie che nel 2014 ci ha piÚ appassionato è che ad aggiudicarsi il primo premio assoluto nel Concorso mondiale dei Sauvignon, tenutosi in Francia, a Bordeaux, sia

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stato un italiano (751 i campioni esaminati; 21 i Paesi partecipanti). ROBERTO SNIDARCIG proviene da una famiglia contadina, con animali da allevare e campi da coltivare. In campagna fin dall’adolescenza, aveva individuato

fra le uve che suo padre acquistava da altri contadini per vinificare, una vigna di Sauvignon dal carattere particolare, che spiccava sulle altre ed il cui vino si evolveva e migliorava in modo significativo e sorprendente

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Roberto Snidarcig mostra il vincitore del primo premio nel Concorso mondiale dei Sauvignon tenutosi a Bordeaux. anno via anno. Da quella vigna è iniziato il suo amore per il Sauvignon (che rappresenta ora il 45% della sua produzione, complessivamente di 100.000 bottiglie annue): ne ha preso dei tralci e, fattone barbatelle, le ha piantate nel suo primo ettaro di vigneto, a Dolegna del Collio (GO), due passi due dal confine con la Slovenia. Il suo Sauvignon Doc Collio (ma chi possiede un rapporto privilegiato con il piacere e l’amore alla vita vada dritto sull’Empîre, sempre Sauvignon, ma raccolta tarda) è giallo paglierino all’occhio. Colpisce il naso con i suoi agrumi, la sua mela ed i sentori minerali bagnati da una goccia di pipì di gatto; la bocca si riempie morbida e molle,

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densa e fresca, lunga e fine. Durante le festività natalizie lo terrete sempre vicino a voi: dagli anolini in brodo al bollito di cappone, dai pasticci di pasta all’agnello al forno. E vi beatificherete. Come nell’arancione agriturismo, se passerete per di là, dove la moglie Sandra prepara delizie (www.tiaredoc.com). Tra i Sauvignon, merita citazione anche quello di DAMIAN PRINCIC (www.colleduga.com), di Zegla di Cormons (GO), i cui terreni ricadono in parte nel territorio del Comune di Medana, in Slovenia, cru Colle Duga appunto. Nasce da un raccolto non affrettato delle uve, pressatura soffice e fermentazione ed affinamento in acciaio.

Gli aromi di sambuco e glicine sono la premessa per un bouquet raffinato che si ravviva in foglie di salvia e buccia di pomodoro. Ancora il Collio: 1.500 ettari coltivati a vite da 200 produttori, un mosaico di sfumature, cantine che prediligono soddisfare il mercato grazie a numerose etichette in portafoglio. Ma EDI KEBER e suo figlio KRISTIAN hanno vinto una loro personale scommessa: la produzione di una sola tipologia di vino, 50.000 bottiglie, dai frutti di Tocai friulano (70% dell’uvaggio. I filari sono quelli centrali sui 12 ettari del colle Zegla), Ribolla gialla (per il 15%, la parte più elevata del vigneto) e Malvasia istriana. Anche il metodo di vinificazione è al di là delle mode: vetuste vasche in cemento che garantiscono freschezza e setosità al risultato. La grassezza della Malvasia ed i suoi sentori di mandorla amara si fondono a note di frutta candita per un lunghissimo finale balsamico (www.edikeber.it). «La terra non è tua, ce l’hai in affitto dai tuoi figli». È il benvenuto di DAMIJAN PODVERSIC, omone dal cuore grande così e dall’assennatezza sottile: niente fertilizzanti, nessuna sostanza chimica nei suoi terreni, tra i quali si erge — geograficamente e ampelograficamente — il Monte Calvario in Gorizia, terra difficile e siccitosa. Qui la Malvasia istriana del 2011 ha espresso profumi di mirra e spezie e ci ha convinto per la sottile aromaticità in bocca. Bicchiere che si presta bene ad aprire i pasti sino alla loro conclusione (www.damijanpodversic.com). Altrettanto coinvolgente l’accoglienza di MIRAN KORENIKA (www. korenikamoskon.si), al di là dal confine, a Isola d’Istria, in Slovenia, che nel 1984 ha ripreso l’attività del bisnonno. Alcuni vigneti risalgono al 1954 e si dislocano in 7 diverse località intorno a Korte. Dal 2002 protegge i suoi campi, e ne trae beneficio il vino, grazie all’agricoltura biologica, ora in conversione biodinamica, e le uve vengono raccolte manualmente. «In Europa si produce vino che piace a chi lo paga; io faccio il vino che piace a me, con lieviti indigeni per evitare che i miei vini assomiglino a

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quelli ovunque uguali» taglia corto. Ed è difficile non cedere alle lusinghe delle sue creazioni: una decina le etichette, che trascorrono numerosi mesi in botte prima di essere messe sul mercato. Come il Paderno 2008, di uve Malvasia, che prende il nome dalla località del vigneto, a 1 km dal mare e a 140 metri di altitudine. In questo caso la raccolta degli acini avviene in stagione avanzata, quando quasi la buccia si inflaccidisce; il colore giallo dorato è il preliminare visivo al naso di tiglio, di pesca bianca e banana, al corpo ricco e vellutato che si genera anche grazie agli sbalorditivi 38 mesi durante i quali rimane tappato in bottiglia. Lo si beve bene con piatti di pesce e crostacei, meglio crudi e di forte impronta iodica. È singolare dovere registrare lo stesso affetto verso la terra in angoli del mondo lontani: a Feldthurns (Velturno in italiano), per esempio, in Alto Adige. JOSEF MICHAEL UNTERFRAUNER (www.zoehlhof.it) si è dedicato all’agricoltura biodinamica quasi per caso, osservando sua moglie dal maso, che risale al 1484 e che anticamente fungeva da dogana. Una nuvola la attorniava durante i trattamenti chimici alle vigne e ai meleti. Così il percorso inizia nel 1994 e si perfeziona con la prima vinificazione in regime biodinamico nel 2000. Il cortile del maso pieno di sole, accanto a frutteti e vigneti, si trasforma anche in museo con opere d’arte moderna: visioni futuristiche per dare senso nuovo al passato. Della cantina ci ha impressionato l’Aurum («Il nome latino lo abbiamo conferito perché i Romani amavano il vino», dice Unterfrauner), cuvée che combina Termeno aromatico, Müller Thurgau e Silvaner, ovviamente fermentati senza l’aiuto di lieviti selezionati. Il bicchiere è giallo con ciocche verdoline, l’aroma di rosa selvatica, noce moscata e fieno fresco e in bocca indugia corposo, minerale, speziato, eppure fresco. Perfetto come accompagnamento ad un aperitivo gagliardo come quelli serviti quassù, di cetrioli, Speck IGP e formaggio, ma anche per gli energetici primi piatti sudtirolesi. Inaspettatamente vino da apertura di pasto il

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Kristian Keber. Moscato bianco passito Luis, di COLLINE DI SOPRA (www.collinedisopra. com). Un’azienda giovane, declinata al femminile in vigna, voluta da una architetto ed un medico che si sono lasciati convincere dalla bellezza naturale di un paesaggio immortalato da poesia e cinema: alture di terre sciolte e ricche di fossili, prima del 2006 mai sottoposte alla coltivazione della vite, nel lembo meridionale della provincia di Pisa. Raccolte ad ottobre le uve e lasciate appassire sino a gennaio, esprimono in Luis accenti di zafferano e miele al naso, una spessa trama di albicocca e menta accarezza la lingua e si perde lunga, sostenuta da ricordi di cardamomo. Ripeto: ideale come apertura, specie di pesce, ma anche in chiusura di pasto con dessert che non esagerano in dolcezza o formaggi di medio affinamento.

Nell’intermezzo può venire in soccorso un’altra creazione di LUISA SILVESTRINI e PAOLO ZUCCO, Sopra, un Sangiovese Montescudaio DOC dai consueti aromi di frutti rossi, ma in bocca dagli insoliti corredi di rosa canina, susine e guizzi di pepe bianco. A fine pasto potrete apprezzare anche un Erbaluce da uve parzialmente appassite. Balsamico, dalla sostenuta acidità e bilanciata dolcezza quello di Tenuta Roletto (www.tenutaroletto.it) che ha vigne a Cuceglio, non distante da Ivrea. Se il Sangiovese è il vitigno più diffuso nel nostro Paese, il Casavecchia si trova praticamente solo nella conca di Pontelatone, nel Casertano, ed è capace di raccontare il suo territorio come pochi altri al mondo. Il nome è legato alla leggenda

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I vini di Damian Princic. secondo cui all’inizio del Novecento, accanto ad un rudere, fu rinvenuto un ceppo di questa varietà. È realtà invece che la vendemmia 2004 fatta dalla Cooperativa Viticoltori del Casavecchia (www.viticoltoridelcasavecchia.it) ci ha tramandato un Erta dei ciliegi sorprendente, colore d’inchiostro dalla carica fruttata dove fragole ed amarene prevalgono sulla forra dove scorrono rigagnoli di liquirizia. Bocca vellutata con tannini morbidi con di carruba e pepe verde sediziose nei confronti dei vitigni internazionali. Anarchico, invece (è proprio il caso di dirlo), Momo, da uve Primitivo, elaborato dalle COMUNARDE DI URUPIA (urupia.wordpress.com), un progetto libertario che dal 1995 unisce nell’alto Salento uomini e donne di diverse lingue e culture. Principi costitutivi della comune sono la proprietà collettiva dei beni e l’unanimità delle decisioni. La cura dei terreni e la trasformazione dei prodotti non sono garantite da nessun marchio, ma solo dalla trasparenza delle pratiche adottate e dal diretto rapporto con le persone. Momo possiede colore rubino intenso e anche bordi granati, profumo di piccoli frutti rossi, stoffa salda e sapida, vigorosa a tratti. Ideale per piatti a base di selvaggina quando, nei giorni tra Natale e Capodanno, meglio si apprezza la convivialità tra amici.

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Incontri ai quali peraltro incita il Gutturnio di PODERE CANOVA, di GIOVANNI e LUCA GUALDANA, alto su Pianello Val Tidone (telefono: 349 5319175), in una delle zone vinicole tutta da rivalutare e riscoprire. Questo vino assume particolare voluttà quando la carne è preparata a diretto contatto con il fuoco, specie i piedini di maiale: le uve Bonarda e Barbera selezionate generano un vino rosso violetto dai profumi floreali e speziati, magari rustici, per affidarsi infine a una inaspettata, esuberante amabilità. Incantevole, spirituale ed etereo dalla stessa Val Tidone, Angelico è il vino di uve Bonarda parzialmente appassite che ROBERTO CIVARDI (www. civardivini.com) coltiva a Ziano Piacentino. In etichetta il ritratto di un angelo dipinto da Ulisse Sartini, che crea l’utile connubio della maestria dell’arte visiva e quella materiale di questo vigneron d’altri tempi abituato a parlare alle sue vigne ed alle botti più che ai rotocalchi. Raccolte nella seconda metà di settembre, le uve sono lasciate in piccole cassette in un unico strato agli ultimi raggi di sole estivo e spremute all’inizio di ottobre, secondo antica tradizione dei colli piacentini. L’affinamento avviene in soli contenitori di acciaio almeno per un anno; le bottiglie sono da 1,5 litri ciascuna.

Dentro un liquido rubino fitto con riflessi violacei, profumi intensi di frutti di bosco ben maturi, gusto pieno e morbido con rivoli di cioccolato e spezie celestiali. Mai nome fu meglio azzeccato. Vellutato e succoso, per pranzi importanti a base di carne e formaggi ultra stagionati, Tané è invece la risposta siciliana alle festività (www. valledellacate.com). VALLE DELL’ACATE sorge tra i colli della Valle del Dirillo, in quella parte dell’isola ricca di barocco e iniziative imprenditoriali. Struttura del terreno cretosa e quantità di sabbia che lo rendono sciolto e leggero, ideale per esprimere al meglio i tannini del Nero d’Avola e le caratteristiche dello Shiraz (o Syrah, Ndr), che accarezzano le labbra. Il risultato per la bottiglia 3905 del 2003, viola intenso e impenetrabile, è stato di regalare gradevoli aromi balsamici rigogliosi di amarene ed un’originale sfumatura di liquirizia e pepe bianco. Di grande struttura e alcolicità che gli consente di essere privilegiato per secondi piatti ed oltre, quasi anche per certi dessert di pasta frolla. Da Cabernet e Marzemino, nel cuore di un territorio ricco di suggestioni e nell’equilibrio perfetto del microclima che caratterizza i primi contrafforti dolomitici trevigiani, la famiglia CESCHIN (www.bepindeeto. it) ottiene per i natalizi pranzi Montirosso, rubino con venature granate, fresco, morbido, leggermente fruttato e con lontana presenza carbonica che lo rende ancor più accattivante. Lungo il finale, di talentuosa asciutta personalità. Sostiene anche un medio invecchiamento, che lo rende ideale per gli antipasti di salumi e piatti di carni bianche con presenza di tartufo nero. In alternativa per questi piatti, ma anche per brasati alla presenza di enormi polente e bolliti, sulla tavola di Natale ci sarà il Botticino DOC di CLAUDIO CASALI (telefono: 030 219089), dalla livrea cerasuola, terroso e a tratti di fieno al naso, appena speziato, che nel 2010 ha espresso palato garbato e stretto di amarena. Sperimentatore e appassionato, Claudio Casali ha intrapreso anche

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la vinificazione di Marzemino del Lombardo-Veneto a piede franco, Atro, di nome e di fatto, poche piante sopravvissute alla fillossera e ritrovate per caso: aroma di cacao e tabacco, bocca ampia di pesca matura e lampone. Al momento una mera curiosità, che certo non può far parte del vostro banchetto natalizio. Come probabilmente nessuno troverà sotto l’albero il vino di Babbo Natale, prodotto a latitudini insolite (oltre il 50° parallelo) sulla penisola Kulla in Scania, Svezia: il Silex della KULLABYGDENS WINERY (telefono: 0046 43 510469), voluta dal dentista BERT ÅKE ANDERSSON insieme al cognato MURAT SOFRAKIS, che un tempo gestiva un negozio di animali. La loro sfida, iniziata nel 2000, su terreni d’argilla e pietra focaia, ha messo a segno un vino niente male con uve prevalentemente Solaris e poi Müller Thurgau e Chardonnay. Quello del 2006, tra l’incredulità generale dei commensali che lo pensavano francese o tedesco

Blaxta Vineyard, a Flen, in Svezia, della Kullabygdens Winery (photo © Björn Tesch, imagebank.sweden.se). o di chissà dove, si è espresso con colore paglierino, buona solidità e armonia al naso con piacevoli sentori di pesca bianca e rivoli agrumati in bocca. Curioso e desiderabile strin-

gere tra le mani una nuova bottiglia di Selex: e bello immaginare che tra i desideri espressi per Natale, questo sarà esaudito. Riccardo Lagorio


Merano WineFestival: annata di successi e di conferme Giunta alla 23a edizione, guarda serena al futuro la manifestazione che ha sfiorato quest’anno le 10.000 presenze e si conferma importante appuntamento per i wine lovers e gli addetti ai lavori di Laura Franchini

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a piccola cittadina in riva al Passirio ha riposto nel cassetto un’edizione che si è svolta all’insegna dei grandi numeri. Per nulla scontato, visto il periodo di crisi che stringe la cinghia a molte famiglie ed aziende, il successo del Merano WineFestival sta a dimostrare che la forza magnetica di questo evento ha davvero qualcosa di speciale. Kurhaus e Gourmet Arena sono stati il cuore di una tre giorni

che ha portato il meglio dell’enogastronomia italiana ed internazionale a Merano. 6.800 paganti (per un introito stimato attorno ai 6 milioni di euro), gli organizzatori costretti per alcuni momenti a chiudere le porte per limitare gli accessi e consentire il ricambio dei visitatori, sono la dimostrazione che siamo di fronte ad un evento che ha consolidato nel pubblico degli appassionati la sua fama indiscussa.

Oltre alle frequentatissime sezioni classiche — bio&dynamica, Culinaria, Chef’s Challenge, Beer Passion, Club Excellence, Wine Master Classes — due eventi specialissimi hanno rappresentato la punta del successo di questa edizione, sia come numeri che come motivo di interesse: Cult2014, uno spazio che ha raccolto i 41 pionieri del vino italiano selezionati con cura da Helmuth Koecher, patron di Merano WineFestival, e il WineWorld

Un evento multiforme, ricco di occasioni di conoscenza, di incontro, di confronto: per il Merano WineFestival 2014 sono stati quasi 10.000 visitatori, con buona soddisfazione degli organizzatori.

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Tra tanto vino anche un po’ di birra a Merano. Tra i numerosi appuntamenti da segnalare quello con la Forst e la sua birra speciale, “Pane liquido”, ideata in occasione della manifestazione. A sinistra, Helmuth Koecher, padrone di casa del Merano WineFestival, e Christian Pircher di Forst (photo © www.mixerplanet.com). Economic Forum (WWEF), un workshop-tavola rotonda con grandi nomi dell’enologia italiana che ha definito le linee del comparto dal punto di vista della sostenibilità e dell’export. Da segnalare poi alcune chicche: il Premio Godio, ad esempio, intitolato al pioniere della cucina altoatesina di qualità con il suo ristorante Genziano a 1.900 metri in fondo alla Val d’Ultimo, il riconoscimento è andato quest’anno ai fratelli Cristian e Renzo Bertol dell’Orso Grigio di Ronzone. E il premio dedicato al grande chef Andreas Hellrigl, che la commissione ha consegnato a Norbert Niederkofler del St. Hubertus-Hotel Rosa Alpina di San Cassiano in Badia. Vinibuoni d’Italia Anche quest’anno presso il Teatro Puccini si è svolta la presentazione della guida “Vinibuoni d’Italia” del Touring Editore e la consegna delle prestigiose Corone ai produttori. A portare i saluti agli intervenuti sabato mattina 8 novembre è stato il curatore nazionale della Guida Mario Busso, unitamente ad Helmuth Koecher e Cristiana Baietta, responsabile editoriale di Touring Editore. La premiazione dei vini che hanno raggiunto la Corona, ovvero il massimo riconoscimento che la guida attribuisce ai vini di eccellenza, si è intercalata al “botta e risposta” che

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ha visto i protagonisti della giornata affrontare il tema della comunicazione del vino. Questione che ha annoverato come primo attore virtuale il più grande comunicatore italiano: Gino Veronelli, a cui è stata dedicata l’edizione 2015 della guida. Ne hanno celebrato la memoria Arturo Rota, Alberto Dragone e Walter Filiputti. Altro momento saliente è stato quello dedicato alle Donne del Vino, che oggi rappresentano il 30% dell’imprenditoria di settore. A fare gli onori di casa Elena Martusciello, presidente dell’associazione nazionale. A fine premiazione è stato servito un buffet straordinario, con l’occasione irripetibile di assaggiare oltre 600 tipologie di vini e spumanti metodo classico premiati con la Corona e con la Golden star. I vini sono stati abbinati a varie tipologie di salumi territoriali del Salumificio Levoni di Castellucchio (MN), con cui la Guida quest’anno ha realizzato il progetto “Orgogliosamente buoni”. Un’iniziativa che ha mirato a valorizzare il paniere della produzione tipica norcina delle regioni italiane. Presente anche Grana Padano, con le tre stagionature classiche della sua produzione, e le chicche del Friuli Venezia Giulia proposte da ERSA, l’Agenzia regionale per lo sviluppo rurale. La tipicità, la semplicità e

l’autenticità dei gusti si confermano oggi l’arma vincente per il vino e la gastronomia made in Italy. Durante la manifestazione meranese, Vinibuoni d’Italia aveva allestito “Enoteca Italia”, un banco veramente straordinario dove è stato possibile degustare in un unico stand 340 vini selezionati dalla Guida provenienti da tutte le regioni italiane. Infine, per quando riguarda il settore “gusto”, un evento realizzato dalla birreria Forst. Da ormai tre anni, la grande azienda di Foresta (Lagundo, BZ) si è impegnata nella creazione di una birra speciale. Quest’anno abbiamo avuto il piacere di assaggiare il “Pane liquido”, birra per la quale sono stati usati tre tipi di cereali: segale, orzo e mais. All’hotel Terme, abituale sede delle degustazioni guidate — anche quest’anno apprezzatissime — è stato proiettato il film di Ferdinando Vicentini Orgnani “Vino dentro”, alla presenza dello stesso regista. Merano, quindi, si è ancora una volta confermata la capitale italiana del vino e il festival di Helmuth Koecher ha ulteriormente consolidato la sua già notevole fama. Attendiamo con trepidazione l’edizione 2015, sicuri di ritrovare la medesima qualità organizzativa e, soprattutto, qualità di gusto e d’eccellenza. Laura Franchini

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Fiocco rosso alla Cantina della Volta

È nato il Lambrusco di Modena Spumante Doc “Trentasei” di Laura Franchini

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uovo nato nella casa del Metodo Classico Cantina della Volta. Un nuovo prodotto, un nuovo calice, che di nuovo ha ben poco però per questa cantina. Perché non è certamente una

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novità, per Cantina della Volta, che raccoglie ovunque copiosi consensi e successi, attingere dalla grande ed unica esperienza in campo spumantistico di Christian Bellei, come è ben noto che questa tradizione è nata

col padre di Christian, Beppe Bellei, un uomo che ha creduto fortemente nel territorio e nel Metodo Classico modenese. Non è una novità, dunque, per questa realtà emiliana, produrre un

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Nota A pagina 126 “Trentasei” la nuova etichetta di Cantina della Volta; photo © www.cantinadellavolta.com

Il marchio Piacere Modena è espressione delle eccellenze modenesi nel mondo, intese sia come prodotti tipici che come accoglienza e cordialità. Piacere Modena è il piacere di stare insieme, della convivialità, per gustare il territorio e i suoi sapori.

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vino di qualità di moderna concezione, attingendo a piene mani da un passato di tradizione e sapienza. Sono uve Lambrusco di Sorbara in purezza, coltivate nei terreni alluvionali della cantina, a conferma della fiducia che Cantina della Volta ha nel territorio e nelle sue molteplici possibilità. Uve della vigna del 1964, vendemmiate a mano e raccolte in piccole cassette da soli 15 kg di portata, per preservarne sin dal principio l’integrità. La successiva pressatura avviene secondo rigorosi criteri di frazionamento al 50% e il mosto che se ne ricava verrà fermentato in tini d’acciaio termocondizionati. Dopo sei mesi verranno aggiunti i lieviti accuratamente selezionati e si procederà all’imbottigliamento. Al remuage seguirà la sboccatura, il dégorgement, e si procederà poi con l’aggiunta della liqueur d’expédition, come da copione. Ma è sui tempi di attesa per arrivare alla prima sboccatura che qualcosa è cambiato: anziché i soliti 24 mesi, Christian ha voluto allungare questo intervallo fino a 36 mesi, convinto di apportare, così facendo, nuove caratteristiche organolettiche al prodotto. O meglio, convinto di aprire al vino nuove possibilità espressive, nuovi panorami gustativi e d’abbinamento. Aveva ragione. Il calice acquista tessitura e struttura organolettica, l’acidità è ancora più armoniosa, il gusto rotondo, il perlage vellutato. Croccanti e lampanti i sentori di lieviti, soavemente e brillantemente accompagnati da note fruttate dolci, di lamponi e ciliegie, con tinte floreali fresche e non scontate. Un passo in più. Un’eleganza estrema, di grande valore. Un’eleganza che ha radici lontane, negli insegnamenti del padre Beppe. A lui è dedicato il “Trentasei”. Alla memoria di chi, prima di tutti, ha declinato il Metodo Classico in queste terre. E queste terre, ora come allora, ringraziano e ricambiano con generosità le attenzioni ricevute. Laura Franchini

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I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: vini di Laura

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Natale. Arriva ogni anno e con lui il presepe, le luci e il panettone. Senza panettone, non è Natale, non ci piove. Chi lo ama con i canditi e chi senza, chi alto e chi basso, chi lo farcisce con creme e chi al naturale, è senza dubbio uno dei protagonisti assoluti delle festività. Dolce di origine lombarda, si ottiene da un impasto lievitato a base di acqua, farina, burro, uova, frutta candita e uvetta. La leggenda più accreditata sulla

sua creazione vuole sia nato da un errore di un garzone di bottega prestatosi pasticcere, Toni, da cui “pan del Toni”. Al di là dei racconti, resta un grande successo, la cui produzione supera i 100 milioni di pezzi annui. Dal 2005 è tutelato da un Disciplinare che ne specifica gli ingredienti e le percentuali minime per poter essere defi nito tale. Il panettone tipico della tradizione artigiana milanese è un prodotto da forno a pasta morbida, a

Sardegna DOC Gallura Spumante Moscato di Tempio – Gallura

Passito di Pantelleria DOC Sole d’Agosto – Bukkuram

Moscato d’Asti DOCG Armando Piazzo

Un calice brillante che riflette il calore della terra da cui nasce, la Sardegna. Un metodo charmât che preserva pianamente i sentori tipici del vitigno, pesca e salvia in particolare, indulgendo in una splendida eleganza armonica, per niente stucchevole. La schiuma è soave e avvolgente, morbida e profumata, fine e persistente. Le note olfattive ritornano in retrolfattiva, regalando pienezza di frutto, pesca bianca soprattutto, con tinte lontanamente mentolate a completare la complessità. Un calice di grande bevibilità, perfettamente abbinabile alla pasticceria secca e ai dolci del Natale. Con il panettone l’abbinamento è armonico e raffinato, anche farcito con marmellate, ottime quelle di pesca o albicocca.

Zibibbo in tutto il suo splendore per questo calice potente di calorosi sentori, dorato e indimenticabile. Vigne site nella contrada Bukkuram, da cui prende il nome, a Pantelleria, zona sud-ovest. La metà delle uve appassisce per almeno due settimane in appositi stenditoi, delimitati da grossi muri di pietra lavica, mentre la rimanente metà resta in vigna a maturare ulteriormente. La macerazione, frutto di tempo e sapienza, dura circa tre mesi, fi no a che non si raggiunge un equilibrio perfetto. Affina sei mesi in barrique ed altri sei in acciaio. Al naso come in bocca il vino è equilibrato, con una bella tessitura. I sentori fruttati si integrano con note più complesse e tinte vegetali, leggerissima e oltremodo piacevole mineralità di fondo. Ideale con la pasticceria secca, anche accompagnata da creme alla vaniglia. La fetta di panettone, anche con canditi e creme, sarà sua perfetta compagna.

Piuttosto difficile immaginare il Natale senza il Moscato d’Asti. Un poco come il panettone, il Moscato fa parte delle feste come il presepe, amatissimo da grandi e piccini, non solo in Piemonte, non solo in Italia. I vigneti di questo splendido vino si trovano sulle colline di Mango e le uve maturano due mesi in vasche d’acciaio. Il tenore alcolico è bassissimo, come si conviene al prodotto, rendendolo così di facile bevibilità. I sentori sono pieni e raffi nati, con tinte di pesca bianca e tiglio, miele e rose bianche, note aromatiche a completamento. La fragranza è vivace anche in bocca, dove la sorsata risulta piena, morbida, di grande soddisfazione. Fresco e fine, equilibrato ed armonico, non potrà che accompagnarsi splendidamente ai dolci della tradizione natalizia, pandori e panettoni in primis.

Cantina di Gallura Soc. Coop. Agr. Via Val di Cossu 9 07029 Tempio Pausania (OT) Telefono: 079 631241 info@cantinagallura.com

Bukkuram Cantina di Pantelleria Contr. Bukkuram 9 91017 Pantelleria (TP) Telefono: 0923 918344 info@marcodebartoli.com

Az. Vit. Piazzo Comm. Armando Fraz. San Rocco Seno d’Elvio 31 12051 Alba (CN) Telefono: 0173 35689 apiazzo@piazzo.it

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da Panettone Franchini

lievitazione naturale, avente una tipica forma cilindrica dovuta allo stampo di cottura che resta attaccato al prodotto fi nito. La crosta superiore è screpolata e tagliata in modo caratteristico (scarpatura). La pasta presenta una struttura soffice ed alveolata e un aroma tipico della lievitazione a pasta acida. Deve altresì contenere non meno del 20% in peso sul prodotto di uvetta sultanina, scorze di arancia candite e cedro candito sull’impasto

e non meno del 10% in peso di materia grassa a base di burro sull’impasto. Questa degustazione è quindi dedicata ai calici che accompagneranno il brindisi col panettone e poiché con il termine “panettone” si intende anche la versione salata (ma anche perché, contrariamente alle regole dell’abbinamento cibo-vino, a molti piace brindare con un vino non dolce) abbiamo aggiunto alcune proposte secche, non meno accattivanti. Perché, a Natale, tutto vale.

Recioto di Gambellara Classico DOCG “Vivace” – Zonin Roberto

Franciacorta DOCG Brut Majolini

Valdobbiadene Superiore di Cartizze DOCG – Follador

Uve Garganega in purezza per questo calice nient’affatto scontato o banale, dalla bella armonia. Apre le danze un bel giallo paglierino, con riflessi intensi e brillanti, che continuano al naso con sentori dolci di sambuco e pesche gialle, leggera mineralità con tinte verdi delicate. Anche in bocca regna sovrana un’armonia tra le parti interessante, per una dolcezza che non concede nulla alla stucchevolezza. Pieno e lungo, intrigante e soave, anche nella schiuma si dimostra capace di portare eleganza e toni vellutati, con grazia. Un calice particolarmente seducente, che si presterà con facilità ad accompagnare tutti i dessert delle festività, in particolare biscotti e torte da forno. Sarà all’altezza anche del Re Panettone grazie alle note dolci ed alla bella persistenza. L’effervescenza vellutata garantirà adeguata pulizia di palato.

Le regole dell’abbinamento cibo-vino vorrebbero un vino dolce accanto ad un dessert, quindi anche il panettone dovrebbe essere accompagnato da un vino dolce. Ma è inutile negare che a molti piace abbinare un vino secco, una bella bolla virile, anche al dessert. Per questo ce ne infischiamo dei dettami della sommellerie e suggeriamo un franciacortino d’eccellenza: il Brut Majolini, composto da uve Chardonnay per circa il 90% e da Pinot Nero per il rimanente 10%. Parte dello Chardonnay dopo la pigiatura effettua una fermentazione ed un affinamento in piccole botti di legno, accorgimento che contribuisce a creare una trama olfattiva complessa, con note vanigliate e croccanti, di ampia caratura. Armonica la sorsata come l’avvolgimento della schiuma, si gioca con grande equilibrio le parti morbide e dure. Accattivante e netto, si presta ad accompagnare aperitivi e brindisi natalizi, con soddisfazione.

Prosecco è sempre più sinonimo di brindisi, di festa, di giovialità e le feste natalizie non fanno eccezione. Cartizze è un marchio che richiama l’eccellenza del made in Italy e questo vino ne è uno splendido esempio. La collina di Cartizze anche questa volta regala un calice emozionante, pieno e entusiasmante. Prodotto con uve Glera in purezza, si presenta visivamente di un giallo paglierino limpido con riflessi verdognoli, brillante. Olfattivamente non delude e sprigiona belle note fruttate piene e raffinate, note floreali di glicine a contornare frutta bianca. Al palato entra seducente e pieno, grazie ad una schiuma fine e persistente. Note in equilibrio nella tessitura completa, armonico ed equilibrato. Adattissimo al rito dell’aperitivo, si accompagnerà splendidamente ai dessert della Vigilia, primo fra tutti un morbido panettone, anche farcito con panna montata. Tanto è Natale.

Az. Vitivinicola Zonin Roberto Via Calderina, 3 36053 Gambellara (VI) Telefono: 0444 444214 info@vinizoninroberto.it

Majolini Srl Società Agricola Via Manzoni 3 Località Valle – 25050 Ome (BS) Telefono: 030 6527378 majolini@majolini.it

Az. vinicola Follador Snc Via Gravette 42 31010 Col San Martino (TV) Telefono: 0438 1890653 info@folladorprosecco.com

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Olio Maltempo e mosca olearia hanno compromesso i raccolti 2014

Il sacro ulivo e il generoso maiale di Angelo Valentini

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uesta volta il mio articolo non descriverà personaggi ma piante, anzi una pianta in particolare. L’olivo, albero millenario, simbolo di pace, diffuso in tutta l’area del Mediterraneo, caro ad Atena e conservato come bene prezioso nell’Acropoli. Secondo la mitologia, Ercole raccolse un seme di olivo e nacque così il bosco sacro a Zeus, dalle cui fronde venivano intrecciate le corone che adornavano le teste dei vincitori dei giochi olimpici. Grazie alle floride attività mercantili fenicie e greche l’olivicoltura si estese nel territorio cartaginese, in Cirenaica, in Sicilia e in Spagna, per poi estendersi a macchia d’olio nel Lazio, in Umbria, nella Sabina, nel Piceno e nel Sannio, fino a raggiungere, intorno al V secolo a.C., il Veneto, la Liguria e la Sardegna, mentre nella tarda età romana venne introdotto dalle legioni romane nella Gallia. In Italia, nel giro di pochi secoli, l’olivicoltura fu estesa in tutto il territorio vocato alla coltivazione, tanto che nel I secolo a.C. Roma esportava olio nelle province della sua giurisdizione. Nella mitologia greca l’olivo era considerato l’albero sacro a Minerva, ritenuto simbolo di pace e di prosperità dei popoli. Gli Ateniesi per esso nutrivano un rispetto sacro ed era vietato tagliarne più di due piedi in un anno, con severe pene per i trasgressori. Era altresì proibito servirsene per usi profani e l’accensione dei suoi rami era giustificata solo sugli altari degli dei. La parola olivo viene ampiamente usata nei poemi epici, tanto che Omero se ne serve con diversi significati e simbolismi legati alla vita, alla pace, alla gloria, al be-

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nessere, ed anche alla vendetta e alla morte. Di legno di olivo sono fatti il manico della scure di Pisandro, la bara di Ulisse, la clava di Polifemo, con la quale l’eroe vendica i suoi compagni di ventura divorati dal ciclope, figlio di Poseidone, mitologico interprete della prepotenza cosiddetta divina. I Greci e i Romani facevano grande consumo di olio d’oliva, usato, oltre che per l’alimentazione, per accendere le lampade, nonché per la cura del corpo. La religione cristiana usa l’olio nella somministrazione di alcuni sacramenti, nelle ordinazioni sacerdotali, nella consacrazione delle chiese (il crisma è proprio l’olio consacrato dal vescovo il sabato santo per l’amministrazione della Cresima, dell’Ordine Sacro e dell’Estrema Unzione). È proprio il caso di dire che l’olio è l’Alfa e l’Omega.

La letteratura classica deve molto a LUCIO COLUMELLA e ai suoi scritti, come il De re rustica, opera del 42 d.C., ancora oggi punto di riferimento per agronomi e studiosi. Uno dei suoi detti era: “Fammi povero di legno che ti farò ricco d’olio”. Per Columella l’olivo diventa elemento essenziale di studio sia letterario che scientifico, finalizzato all’economia agronomica dei suoi tempi. Il quinto libro del De re rustica tratta proprio il tema della coltivazione dell’olivo, valutato, dopo la vite, la seconda ricchezza economica commerciale. Nella millenaria storia dell’agricoltura autori illustri hanno elogiato l’olivo, soprattutto latini: VIRGILIO, con i suoi poemi agresti le Georgiche e le Bucoliche; CATONE col suo De agricoltura; ORAZIO, VARRONE e molti altri classici, ben noti nella

Più lacrime che olio: il 2014 verrà ricordato come l’annata peggiore della storia per la raccolta delle olive.

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Sfilati alle olive con lardo di Colonnata e porcini (photo © oliviaemarino.it). bibliografia agricola. Una letteratura agraria di altissimo livello antologico che subisce poi il declino della Roma potente e imperiale: l’ultimo autore classico della scuola agronomica romana è RUTILIO TAURO PALLADIO, del III secolo d.C. Seguono anni di oscurantismo letterario fino alla compilazione dei Geoponica, risalenti al VII secolo, libri di agronomia scritti in greco nell’epoca bizantina presso la corte di Costantinopoli, la cui paternità non è del tutto certa. Il testo fu tradotto dallo studioso modenese PIETRO LAURO e pubblicato a Venezia nel 1549. Negli anni l’olivo ha vissuto tante vicissitudini, belle e brutte, ma le ha sempre superate. Purtroppo il 2014 si è rivelato un anno difficile anche per questa pianta, ben nota per la sua forza e resistenza. Essa ha dovuto subire gli attacchi della mosca olearia (Bractocera oleae), favoriti dalle condizioni climatiche, che hanno svuotato le drupe del proprio contenuto, rovinando molti raccolti. Si sono salvate in parte le coltivazioni in alti pendii, dove le escursioni termiche non hanno favorito il riprodursi del famelico insetto, ma la produzione di olio quest’anno ha subito un grosso calo. Riscopriremo forse allora i sapidi condimenti delle nostre nonne a base di strutto, lardo, pancetta e guanciale, poiché il provvido e generoso maiale è sempre pronto a sacrificarsi per il bene dell’umanità e sopperirà alle esigenze delle nostre mense. Angelo Valentini

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Formaggio Le storie di Tagliato per il gusto

Rivoluzione all’americana

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ent’anni fa il numero di formaggi americani che si potessero definire originali si contava sulle dita di una mano: c’erano il Brick e il Colby nel Wisconsin, il Monterey e il Dry Jack in California. Sicuramente esistevano già avanguardie che sarebbero diventate degli apripista a stelle e strisce (pensiamo al Teleme nell’area della Baia di San Francisco), ma i casari americani che si avventuravano oltre il confine tracciato dai formaggi europei erano ancora piuttosto rari. Oggi la situazione è ben diversa. I formaggi originali americani — come vengono definiti dalla American Cheese Society riferendosi a quei prodotti caseari che fanno fatica a rientrare in una categoria ben precisa — stanno acquisendo la centralità del palcoscenico, non solo in casa, ma, in maniera più significativa, sulla scena mondiale. Non vi è una singola competizione internazionale in cui ai concorrenti americani non vengano riconosciuti primi premi per formaggi

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che una decina di anni prima ancora non esistevano. Prendiamo il Rogue River Blue, per esempio: nel 2003 sbalordì il mercato con una medaglia d’oro ottenuta agli World Cheese Awards come “miglior erborinato al mondo”. Lo stesso vinse il premio Best of Show durante il contest annuale della American Cheese Society, non una bensì due volte, nel 2009 e nel 2011. Come molte delle avanguardie di oggi, i titolari di Rogue Creamery, DAVID GREMMELS e CARY BRYANT, attribuiscono l’ispirazione della loro creazione vincente ai pionieri che li hanno preceduti, inclusa “IG” VELLA con il suo Dry Jack, MARY KEEHN con il suo Humboldt Fog e JUDY SCHAD con il suo caprino O’Bannon. Ma, soprattutto, ciò che marca la differenza rispetto al passato è che ognuno di questi casari ha cercato di dare un’impronta geografica al suo prodotto, legandolo al territorio in cui origina. Gremmels ricorda che quando si trattò di dare una carta d’identità

al suo Rogue River Blue, pensarono che fosse importante sviluppare un formaggio a crosta fiorita che ricordasse le grotte di affinamento naturali presenti in azienda, vecchie di circa 70 anni. «Quello che scoprimmo fu che la muffa aveva note di pancetta stufata e funghi». La coppia osò un passo ulteriore e cominciò ad assaggiare ogni varietà d’uva presente nelle valli di Rogue River ed Applegate, cercando di trovare una soluzione a come poter portare quelle note nel loro formaggio. Il risultato: forme di Rogue River Blue avvolte in foglie di Syrah della cantina Carpenter Hill macerate nel Brandy di pera di Clear Creek. Come ciliegina sulla torta, Rogue River Blue viene prodotto solamente durante l’equinozio d’autunno e prima del solstizio d’inverno con latte di mucche che si nutrono su pascoli d’altura (oltre 2000 msl) lungo il fiume Rogue. Formaggi come il Rogue River Blue diventano in questo modo originali e impossibili da copiare in altri

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luoghi e rappresentano l’American way of life per il desiderio di distinguersi, evitando di seguire sentieri fissati e standardizzati. Una dei casari di più fresca formazione ad aggiudicarsi un titolo dorato durante il World Cheese Awards dell’anno scorso è SEANA DOUGHTY della Bleating Heart Cheese di Tomales, California. Il suo Fat Bottom Girl, un formaggio a pasta molle, di piccole dimensioni di latte ovino crudo e maturato dai 3 ai 4 mesi su assi di sequoia, è stato uno dei sette formaggi americani originali ad essere nominato tra i 58 migliori formaggi del mondo a Birmingham, Inghilterra, nel 2013. Come succede sempre più spesso Doughty è soltanto uno dei tanti visionari che hanno abbandonato un impiego d’ufficio per rincorrere il sogno di diventare un produttore di formaggi di qualità. «Data la mia propensione a seguire la mia strada, non ho mai preso in considerazione la possibilità di copiare il modello europeo. Non siamo in Europa. Non abbiamo DOC o AOC o tradizioni centenarie da mantenere. Abbiamo la libertà di fare quello che vogliamo. Quindi: perché non approfittarne?». Doughty sostiene che produrre secondo la propria propensione e fantasia è il modo migliore per fare strada in questo settore rispetto alla scelta di seguire i modelli d’oltre oceano. E questo stimola ovviamente l’eccitato entusiasmo che si vive nel settore. «Se volessi fare strada nella moda non cercherei di riprodurre capi di famosi stilisti; seguirei la mia strada. Se volessi buttarmi nel rock, non copierei altri gruppi più famosi. Ci può essere soltanto un originale, per cui chiunque si metta a copiarlo — non importa quanto buona possa essere la copia — sarà sempre comparato all’originale». Anche casari di vecchia data, quelli che quattro generazioni fa iniziarono con i classici italiani e il cheddar, al giorno d’oggi stanno virando verso una maggiore indipendenza dai modelli. Nel 2008, CHRIS ROELLI, nativo del Wisconsin, decise di smarcarsi dalla strada apertagli dal padre, dal nonno e dal bisnonno:

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anziché produrre tome di cheddar da 18 chilogrammi, si mise a lavorare ad un nuovo formaggio, in solitudine e di notte. Prendendo il nome da una cittadina nelle vicinanze, il suo Dunbarton Blue è un Cheddar con venature bluastre, stagionato all’aria su assi di legno in una cella usata un tempo per immagazzinare altro Cheddar. Roelli mantenne il più assoluto riserbo circa la sua creazione per un anno, prima di dirlo al padre. «Volevo essere sicuro di avere tra le mani qualcosa che valesse la pena mostrargli prima di correre il rischio di scontrarmi con la tradizione familiare. Oggi mio padre è il mio più grande sostenitore». Lo stesso caso lo ritroviamo a casa di MIKE MATUCHESKI, mastro casaro presso Sartori. Matucheski lavorò sodo producendo Parmigiano per Kraft per decenni. Ma nel 2006, quando Sartori comprò la storica Antigo, nel Wisconsin, dove Matucheski lavorava da decenni, gli si presentò l’opportunità di una svolta. Da allora ha fatto incetta di medaglie in quasi ogni competizione nazionale o internazionale con il suo Bellavitano Oro, una formaggella dolce, a pasta farinosa. Ne produce anche variazioni a crosta affinata con menta, espresso, cognac…

Tutta questa dedizione sta dando i suoi frutti e stimolando ancor più l’inventiva. TOM KOOIMAN, che presiede il comitato dei giudici della American Cheese Society ci racconta che il numero di partecipanti alla categoria American Originals cresce di anno in anno. L’anno scorso ben 78 formaggi hanno preso parte al contest nella categoria “Ricetta Originale – Categoria Open”. «Riscontriamo un entusiasmo crescente — dice Kooiman — gli artigiani che si industriano con questi formaggi stanno creando qualcosa di nuovo, con profumi, aromi e consistenze che non si trovano altrove. Sono entusiasta nel constatare quanto orgoglio vi è in ognuno di questi formaggi». Ecco alcuni di questi originals • Kunik prodotto dalla Nettle Meadow Farm di Warrensburg, N.Y. Si tratta di formaggelle a crosta fiorita di latte caprino con aggiunta di panna di vacche di razza Jersey, maturate per due settimane in cantina. Sentori di burro e funghi. • Barely Buzzed prodotto dalla Beehive Cheese Company di Uintah, Utah. Da latte di vacche Jersey, pasta compatta con crosta lavata con lavanda ed espresso sprigio-

Formaggio Downer Brown (photo © inviatotravel.com).

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Tagliere di formaggi del Wisconsin: da sinistra, il formaggio ai lamponi di Sartori, l’Edelweiss’s Farmer’s Jack, il Gouda di Marieke, il Decatur di Amish Swiss e il Cheddar di Laack Brother (photo © wisconsinbites.me).

nando sentori di caramello. Hoja Santa prodotto da Mozzarella Company di Dallas, Texas. Caprino di piccole dimensioni avvolto in foglie aromatiche, dona sentori di menta, anice e sassofrasso. La sua acidità è mitigata dalle note vegetali. Cognac Bellavitano prodotto da Sartori di Plymouth, Wisconsin. Con una stagionatura di 18 mesi minimo, questa delizia dalla pasta friabile, dal gusto dolce, viene immerso nel cognac Rèmy Martin creando una sinfonia di profumi e aromi che spaziano dalle note affumicate di noci tostate a quelle di vaniglia e caramello. Fat Bottom Girl prodotto da Bleating Heart Cheese di Tomales, California. Di latte ovino con sentori di nocciola e di burro. Prodotto da marzo ad agosto. Su ogni forma viene impresso un calco a forma di cuore. Rogue River Blue prodotto da Rogue Creamery di Central Point, Oregon. Racchiuso nelle foglie di

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Syrah e bagnato in brandy di pere, viene stagionato per quasi 12 mesi. Il suo gusto varia dal centro dolce e fruttato alla periferia dove incontriamo note speziate e pepate. Up in Smoke prodotto da River’s Edge Chevre di Logsden, Oregon. Affumicato con legno di ontano e acero, questo formaggio di latte caprino viene avvolto in foglie di acero affumicate e intrise di Bourbon. In bocca risulta gustoso, con una piacevole nota affumicata e pienezza burrosa. Dunbarton Blue prodotto da Roelli Cheese di Shullsburg, Wisconsin. Un Cheddar semplice, con una lieve venatura blue; pasta ricca e complessa con crosta naturale. Downer Brown prodotto da Blackberry Farm di Walland, Tennessee. Crosta fiorita, vellutata per questo caprino cremoso lavato per una settimana nella birra aziendale. Dopodiché viene cosparso di uno strato di trebbie (residuo della fabbricazione della birra):

si traduce in un aroma più complesso e pieno di un tipico Brie. Franklin’s Teleme prodotto di Mid Coast Cheese Company di Los Banos, California. Franklin Peluso produce Teleme dal 1980. Un formaggio originale sin dai primi anni del secolo scorso, quando fu creato dal nonno di Peluso, Giovanni. Cosparso di farina di riso per aiutare a cremificare la pasta mantenendo la crosta morbida. Franklin ne produce anche una versione a crosta lavata, che strizza l’occhio al nostro Taleggio.

Nota A pagina 132, crostini con kunik ciliegie e miele (photo © food52.com).

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Tecnologie

Partner e CSB-System accomunati da uno stesso obiettivo: innovazione e qualità

P

artner Srl è un’azienda altoatesina produttrice di panini e tramezzini confezionati in atmosfera protettiva. E, proprio da questo suo essere “partner” ideale per tutti gli esercizi commerciali, che hanno a cuore la massima soddisfazione dei propri clienti e, al tempo stesso, la redditività del loro lavoro, trae il suo nome. L’azienda nasce nel 1992, per fornire i bar del Trentino Alto Adige con un servizio giornaliero di panini e tramezzini freschi. Il successo del prodotto è pressoché immediato e la tecnologia dell’atmosfera protettiva, allora poco conosciuta, consente di iniziare uno studio sulla conservazione dei prodotti. Nel corso degli anni, grazie all’esperienza accumulata, ai miglioramenti tecnologici del settore dell’atmosfera protettiva, alla selezio-

ne scrupolosa dei fornitori e alle tecniche di lavorazione rispettose delle più restrittive norme igienico-sanitarie, l’azienda è riuscita ad assicurare ai suoi prodotti una conservazione pari a 67 giorni sui panini e 53 giorni sui tramezzini. La scelta di fornitori fidati e sicuri è sempre stata vista da Partner come strategica per la realizzazione di un prodotto buono e salubre, sinonimo di “garanzia” e “qualità”. Questo è valso anche per il fornitore del software gestionale: circa un anno fa, infatti, è nata la collaborazione tra Partner e CSB-System, software-house internazionale specializzata in gestionali specifici per il settore alimentare, con sede nella provincia di Verona, ma operante sull’intero territorio nazionale, isole comprese, oltre ad avere sedi e clienti in oltre 30 Paesi del mondo.

Il progetto in sintesi Con il software modulare e integrato CSB-System, l’azienda controlla e ottimizza le seguenti aree aziendali: • acquisti; • magazzino; • produzione con sua pianificazione nonché gestione degli ingredienti in ricetta; • rintracciabilità; • vendite; • controllo qualità; • EDI; • contabilità generale e cespiti. Oggi Partner dispone di un nuovo e innovativo stabilimento produttivo a Bolzano, che copre una superficie utile di 4.500 m2. Il CSB-System un po’ più nel dettaglio Il modulo Acquisti permette una

Lo stabilimento di Partner Srl.

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Prodotti di Partner Srl. gestione ottimale degli ordini ai fornitori, con il rilevamento della merce ricevuta, eventuale etichettatura, controllo fatture, carico a magazzino, statistiche, ecc… Partner, ad ulteriore garanzia della salubrità dei propri prodotti, ha da poco attivato un laboratorio di analisi microbiologiche interno, per ottenere, oltre alle analisi certificate da un laboratorio esterno accreditato, anche referti in tempi strettissimi. Al fine di dimostrare il proprio impegno nell’applicare efficacemente un sistema di gestione per la qualità, qualche mese fa è stato anche implementato il modulo per il Controllo Qualità integrato nel CSB-System. In generale, il modulo di gestione della qualità rappresenta uno strumento trasversale all’interno del CSB-System e si adegua perfettamente a qualsiasi piano di controllo aziendale, per far fronte a certificazioni ISO, HACCP, BRS, IFS, ecc…, così come ai disciplinari per produzioni biologiche, Igp, Halal, Kosher od a marchio associativo. Nel caso specifico di Partner, come prima cosa, viene esaminato obbligatoriamente il Controllo Qualità sul fornitore. Poi vengono verificati e differenziati i singoli articoli. In caso di scostamento dai criteri di qualità, il sistema fornisce, dopo l’inserimento dei dati, le misure da adottare. Infine, segue il controllo commerciale dell’entrata merci. I dati vengono messi a disposizione del controllo fatture e della contabilità e vengono elaborati tramite statistiche di Controllo Qualità

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su entrata, produzione e vendite. Le materie prime ed i prodotti grezzi vengono dunque messi in produzione. Le 5 linee produttive assicurano una produzione giornaliera di oltre 100.000 pezzi tra panini e tramezzini: grazie all’impostazione di distinte base e ricette messa a disposizione dal CSB-System, ogni reparto sa esattamente cosa preparare. La preparazione avviene in regime di camera bianca, ovvero in un ambiente ad atmosfera controllata a bassissimo contenuto di microparticelle di polvere in sospensione. Dopo la preparazione il prodotto viene confezionato, etichettato e portato nel magazzino dei prodotti finiti. Il modulo della Rintracciabilità assicura, secondo il Regolamento CE 178/2002, l’indicazione precisa del percorso che il prodotto ha intrapreso dal produttore fino al consumatore finale e a ritroso. Partner, oltre a rifornirsi presso i migliori panifici italiani, dispone al proprio interno di un panificio adibito alla creazione di prodotti da forno creati con ricette appositamente studiate per il mercato dei panini confezionati. Anche questa produzione, così come la preparazione di panini e tramezzini, è interamente gestita dal CSB-System. Logistica efficiente La merce prodotta giornalmente da Partner viene quotidianamente trasferita tramite automezzi refrigerati al Centro Logistico di Verona, dove ogni ordine viene evaso (picking) e spedito agli oltre 100 grossisti/clienti,

con la massima rapidità ed efficienza. Il collegamento, o meglio, lo scambio dati tra la sede di Bolzano e il centro logistico di Verona avviene tramite EDI anch’esso gestito dal CSB-System. La sede invia gli ordini da evadere con indicazione di quantità e lotti; il centro logistico evade gli ordini ed invia alla sede i dati presenti sui documenti di trasporto ai fini della fatturazione. Il tutto senza necessità di doppi inserimenti o scambi cartacei, perché l’azienda altoatesina, anche per la Contabilità, utilizza il modulo del CSB-System. Tutte le funzioni di gestione merci vengono direttamente integrate in questo modulo, per eseguire in maniera trasparente il controllo automatico delle fatture e delle registrazioni, le registrazioni clienti/ fornitori e la gestione dei pagamenti. Con la gestione dei cespiti, il modulo Contabilità del CSB-System fornisce in ogni momento alla direzione aziendale informazioni sulla situazione contabile e sulla liquidità. Uno dei prossimi obiettivi sarà l’implementazione della contabilità industriale, allo scopo di ottenere informazioni anche sulla redditività per centro di costo. Partner continuerà sempre a porre un’attenzione particolare al gusto ed alla qualità, anticipando e orientando le scelte alimentari dei clienti di bar, circoli ricreativi e punti di ristoro in genere. Crescere e fortificare la posizione sul mercato sono le sfide per l’immediato futuro e la CSB-System è orgogliosa di fornire loro un valido supporto informatico.

Referente: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com

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Obbligatoria in etichetta la sede dello stabilimento di produzione? Parere del Governo sul mantenimento dell’obbligo in etichetta della sede dello stabilimento di produzione alimentare per i prodotti realizzati e commercializzati in Italia: a riferirlo in aula è stato Claudio De Vincenti, viceministro dello Sviluppo economico, in risposta ad una interrogazione parlamentare dell’onorevole Giuseppe L’Abbate. «Conoscere la sede dello stabilimento di confezionamento di un prodotto alimentare— ha rimarcato l’interrogante — consente alle autorità di controllo di attivare facilmente le azioni correttive utili a mitigare il rischio per la salute pubblica in caso di allerta; ciò potrebbe accadere, ad esempio, nel caso di una conserva vegetale contaminata dalla tossina del botulino». La risposta del viceministro, che non ha soddisfatto l’on. L’Abbate, è stata possibilista. La Direttiva 2000/13/ CE non prescrive l’obbligatorietà in etichetta della sede dello stabilimento, ma la facoltà di mantenere le disposizioni nazionali che impongano l’indicazione dello stabilimento di fabbricazione o di condizionamento per la loro produzione nazionale. Di conseguenza, il decreto di recepimento ha potuto mantenere la prescrizione dell’indicazione obbligatoria della sede dello stabilimento. Ma questa disposizione resta in vigore fino al 13 dicembre 2014, data di applicazione del Regolamento UE n. 1169/2011 che non prevede, fra le indicazioni obbligatorie, quella della sede dello stabilimento. Pertanto la disposizione ante Reg. 1169/2011 sarà disapplicata. «Ciò premesso — ha osservato De Vincenti — si ritiene che non vi sono preclusioni a prevedere l’indicazione obbligatoria della sede dello stabilimento nel rispetto delle condizioni che il regolamento impone agli Stati Membri». Ma per operare in tal senso, «occorre, tuttavia, una specifica norma di legge o una delega al Governo in materia di etichettatura». Il Ministero dello Sviluppo economico «sta comunque procedendo nel lavoro di riassetto delle disposizioni nazionali in materia di etichettatura degli alimenti, compatibili con il regolamento, usando gli strumenti disponibili a legislazione vigente» ha aggiunto il viceministro, chiarendo di non poter soddisfare le richieste dell’interpellanza «per assenza, appunto, di una fonte primaria che li preveda». De Vincenti ha comunque ricordato che «per alcuni prodotti, come i prodotti di origine animale, trasformati e non, l’indicazione dello stabilimento di produzione è già prevista dalla disciplina comunitaria. Nello specifico, ai sensi del Regolamento n. 853/2004, il bollo sanitario o il marchio di identificazione già recano la registrazione dello stabilimento di produzione». Peraltro, le imprese hanno già facoltà di inserire volontariamente in etichetta l’indicazione dello stabilimento. «È fatta salva, infatti, la possibilità che l’informazione della sede dello stabilimento di produzione venga fornita volontariamente dagli operatori, ai sensi degli articoli 36 paragrafo 2 e dell’articolo 37, anche a scopo informativo per il consumatore, con l’unica accortezza di non ingenerare confusione nel consumatore stesso, rispetto all’indicazione obbligatoria del nome e dell’indirizzo del soggetto responsabile dell’etichettatura, le cui indicazioni potrebbero non coincidere con quelle della sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento» ha concluso De Vincenti. (www.anmvioggi.it)

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La repubblica del maiale, come siamo, da dove veniamo

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na controstoria italiana, dal varo della Costituzione alla fine della Seconda repubblica. Una lettura fatta di aneddoti, personaggi, fatti, mode e tic. Una cavalcata di decennio in decennio, dalla fine della fame del dopoguerra alla scoperta del cibo sano e leggero complice la crisi economica di oggi, su e giù sull’ottovolante Italia che ci ha regalato emozioni a non finire tra alta cucina e bassa politica. Lo sguardo obliquo di un’affermata critica gastronomica e appassionata cittadina, attenta alle ideologie, di tutti i tipi, ci regala un’Italia mai vista, un po’ a tavola, in casa e al ristorante, e un po’ tra i banchi del parlamento e al supermercato. Dal primo Autogrill all’ultima ossessione culinaria, ecco il ritratto dell’italiano medio. Di come siamo e da dove veniamo. Comprese le ricette che hanno fatto epoca.

Questo libro «Questo non è esattamente il tipo di libro che ci si aspetterebbe da una food writer: può suonare strano che una che per mestiere recensisce ristoranti in giro per il mondo decida ad un tratto di guardarsi indietro, per rileggere la storia della Prima e della Seconda repubblica all’insegna delle ossessioni culinarie di una nazione sempre più nota all’estero per la deliziosamente perversa diade di alta cucina e bassa politica. Se l’ho fatto,

è perché ho una convinzione, basata su un precedente storico. Nell’antica Roma, fino al I secolo a.C., i cuochi sono schiavi, come gli altri servitori di casa. Dal I secolo d.C. in poi, i cuochi sono celebrities, e da schiavi diventano liberti. Nella Roma imperiale trionfa la cucina trompe-l’oeil, antenata remota ma diretta della gastronomia molecolare che, come certi film molto intellettuali, conquista più i critici che il pubblico agli albori del III millennio. Dopo la Roma imperiale è venuta la barbarie. Non so se dopo l’espressione anche gastronomica della decadenza della nostra società verrà un’altra barbarie (a volte, in vena di ottimismo, mi chiedo se il nuovo Medioevo non sia già in corso, e se dietro l’angolo non sia già bell’e pronto un nuovo Rinascimento). Ho voluto raccontare la storia di questa decadenza dall’inizio, cioè dalla fine della fame, che in Italia coincide con la fine della guerra e con l’inizio della repubblica. Mi sembra sia venuto il momento di fare un mea culpa, di osservare il progressivo decadere del mos maiorum nelle maionesi idrogenate, la progressiva perdita di senso della collettività a favore del singolare piacere del culatello di Zibello, la res publica annientata in successive fiammate di flambé, straripamenti di mousse, invasioni di petti d’anatra con riduzioni di aceto balsamico, oc-

ROBERTA CORRADIN La repubblica del maiale Sessant’anni di storia d’Italia tra scandali e ossessioni culinarie Chiarelettere (collana Reverse), 2013 272 pp. – € 12,90 cupazioni di letti di rucola, valanghe pannose di tortellini al prosciutto, pozzanghere di pizza e Nutella®… Spero di non suonare come un’oca giuliva che starnazza su e giù per le disgrazie della Repubblica, certamente non era questa l’intenzione. Quello che volevo dire, piuttosto, è: ragazzi, riflettiamo. Siamo ancora in tempo».

Roberta Corradin è nata a Susa nel 1964. Si è diplomata al liceo d’Azeglio a Torino e nel 1989 ha cominciato a lavorare nei fumetti. Nel 1992 diventa lavoratrice anomala ante litteram e da allora, per circa un lustro, scrive di pseudopsicologia da bar e da parrucchiere per svariate testate femminili. Nel 1995 esce il suo primo libro, Ho fatto un pan pepato… ricette di cucina emotiva (Zelig). In seguito, pubblica Un attimo, sono nuda, una storia umoristica misogina (Piemme), Le cuoche che volevo diventare (Einaudi), Tradizione Gusto Passione (con Paola Rancati, Silvana Editoriale) e scrive di viaggi e di cucina per diverse testate. Traduce narrativa e saggistica dal francese e dall’inglese. Nella Sicilia sudorientale porta avanti un progetto di fattoria permaculturale e gestisce un ristorante di mare a Donnalucata (RG).

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I panettoni del sole

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egli ultimi anni i panettoni creati dai maestri pasticceri campani sono stati i veri mattatori di tutte le classifiche nazionali dedicate al panettone artigianale, attestandosi sempre tra i migliori d’Italia. Da Alfonso Pepe a Salvatore De Riso, il dolce della tradizione natalizia è stato trasformato in vere e proprie creazioni d’eccezione. Il loro segreto? La lunga esperienza nel campo dei grandi lievitati e il sapiente utilizzo dei prodotti di eccellenza campani. In questo libro troverete le ricette di spicco del panettone, corredate dai consigli utili per ottenere un risultato impeccabile. Le proposte tradizionali saranno accompagnate da altre più innovative, che rendono omaggio ai prodotti tipici campani, dagli agrumi al limoncello, passando per il latte di bufala e il fico bianco del Cilento. Il volume promette un viaggio attraverso il gusto, grazie a dettagliati focus sul territorio e sulle sue eccellenze gastronomiche, che offrono alla produzione artigianale un’insostituibile materia prima.

BERNABÒ SILORATA DONATELLA I panettoni del sole Luoghi, volti, storie e sapori del panettone artigianale in Campania 2014, Malvarosa Edizioni 180 pp. – € 25,50

Panettone a due voci

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mmancabile come l’albero di Natale compare sulla tavola delle feste. Ne conosciamo ormai di tutti i tipi: panettoni casalinghi, artigianali o “di gran marca”. Saperne qualcosa di più (la storia e tradizione, le tecniche di lavorazione) aiuta a saper scegliere, e soprattutto a rendere piena giustizia a questo dolce semplice e antico, inconfondibile, nato per celebrare degnamente la festa più importante dell’anno. Una volta degustato il migliore “in purezza”, perché non farne un dolce d’autore con l’aiuto di uno chef come Davide Oldani? O un insolito salato seguendo le originali ricette firmate da Carlo Cracco? Al termine di questo sorprendete ricettario di alta cucina, degno della tavola delle feste, qualche consiglio sull’abbinamento con i vini e sull’apparecchiatura.

CRACCO CARLO, OLDANI DAVIDE Panettone a due voci Carlo Cracco, Davide Oldani e il lievito delle feste Storia, tradizioni, cucina d’autore Giunti Editore 144 pp. – € 11,90

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Premiata Salumeria Italiana, 6/14


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Fat and furious burger

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finalmente uscito il libro di ricette super glossy e di tendenza dei due designer francesi “Thomas” e “Quentin” (degli autori l’identità reale è sconosciuta). La storia di questi due artisti, tanto misteriosa quanto essenziale, si potrebbe riassumere così: un bel giorno, stanchi di mangiare sempre le stesse cose durante la loro pausa pranzo, Thomas e Quentin decisero che sarebbe stato bello cucinare insieme e fotografare il loro cibo. La loro predilezione, quasi un’ossessione a dire il vero, è rappresentata dagli hamburger. Ed è così che ha preso forma il loro progetto “Fat and furi-

ous burger”, con un’anteprima nel loro portale fatandfuriousburger. com. I testi sono in francese e grande cura è dedicata alle immagini. Excaliburger, Dr. Jekyll and Mr. Burger, My name is Bun, James Bun, Burger d’amour, Schtroumpf burger…: 60 ricette di hamburger stravaganti, originali ed improbabili, realizzati con manzo, salmone, pollo, tartufo nero, fiocchi d’avena, mele e persino ananas. Fat and furious burger 2014 – Michel Lafon Ed. € 15,95 Su Amazon: goo.gl/vcUo4c

Spollo kitchen

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ome e cosa mangiano i designer? “Spollo Kitchen” è un ricettario visivo, risultato di un processo di contaminazione tra grafica e cucina. 100 designer, italiani e internazionali, sono stati invitati da un’idea progettuale di CTS grafica, in collaborazione con AIAP (Associazione italiana design della comunicazione visiva) e ADCI (Art Director Club), ad illustrare le

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loro ricette preferite in una call per il miglior manifesto culinario. Giudicati da 5 professionisti della grafica editoriale, i progetti selezionati sono riuniti in questo volume pubblicato da Corraini Edizioni. Spollo Kitchen non è però solo un libro: nel corso di un anno le ricette proposte dai designer sono state cucinate, fotografate, mangiate e giudicate da uno chef. Tutte queste

fasi sono state documentate e le foto sono state pubblicate sulla pagina Facebook di CTS Grafica (facebook. com/ctsgrafica). AA.VV. Spollo kitchen 2014, Corraini Edizioni 576 pp. – € 35,00 www.corraini.com www.ctsgrafica.it/spollo

Premiata Salumeria Italiana, 6/14


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