Premiata Salumeria Italiana 1-2013

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXV N. 1 Gennaio-Febbraio 2013

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cosa ci fa un pistacchio di bronte in un pecorino pisano? un sapore inimitabile.

custodito in una formula originale brevettata. Questo pecorino, prodotto solo con il pregiato Pistacchio Verde di Bronte D.O.P., è uno dei formaggi piĂš apprezzati dell’intera famiglia delle Delizie. La presenza dei pistacchi lo rende particolarmente adatto come aperitivo o antipasto.

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N. 1 Anno XXV Gennaio-Febbraio 2013

€ 6,70 EUROCARNI – PREMIATA SALUMERIA ITALIANA – IL PESCE – EURO ANNUARIO CARNE – EURO GENUINE FOOD ANNUARIO DEL PESCE E DELLA PESCA – US ANNUARIO DEI FORNITORI DELLA SANITÀ IN ITALIA Stampa

Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910 In esclusiva gli articoli di Euposia

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Renato Bergonzini – Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni – Alessandra Rotondi P.O. Box 569, New York, NY 10101-0569 Tel./Fax +1 212 956 8566 E-mail: stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Aldo Focacci – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia)

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Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5.5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.1.

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L A M I G L I O R E S C E LTA D E L L A S A L U M E R I A T I P I C A D I P A R M A

P RO S C I U T TO D I PA R M A D O P C U L AT E L LO D I Z I B E L LO D O P C U L AT E L LO D I PA R M A C O P PA PA R M A I G P SAL A M E FELINO C U L AT E L LO C O N C OT E N N A F I O C C O D I Z I B E L LO PA N C E T TA D I Z I B E L LO ST RO LG H I N O D I C U L AT E L LO PA N C E T TA PA N C E T TA M A G R I S S I M A E T U T T I G L I A F F E T TAT I

G UA L E R Z I S. P. A . - info@arcagualerzi.it - www.arcagualerzi.it


N. 1

In questo numero: Immagini

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Il food in rete

Il meglio del web e delle app

Elena Benedetti

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Aziende

L’acciaio Saladini, coltellinai in Scarperia

Laura Franchini

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Amarelli: una storia di innovazioni dalle radici secolari

Riccardo Lagorio

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Quando un salame parla piemontese…

Gaia Borghi

24

Cambio della guardia al Salumificio Franceschini

Federica Cornia

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Mercati

Nuove prospettive per l’export dei prodotti della salumeria italiana in USA

Indagini

L’analisi sensoriale degli alimenti

Roberto Villa

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Formazione

Per “far su” e “ascoltare” il salame servono passione e competenza Anna Mossini

37

Prodotti tipici

Salame di filzetta, salame filzetta o salame in filzetta?

Carlo Cantoni

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La vera storia dello strolghino

Enrico Benassi

46

Cotta o stagionata: l’importante è che sia mariola

Giorgio Montanari

48

Pezzente… a chi?

Michele Bracieri

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Interviste

30

Dal 2005 il Salumificio Bertoli è insieme a CSB-System

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Falaschi: ricordare per ripensare il futuro, anche in salumeria

54

Premiate Salumerie Italiane

Lo stile vincente Langhiparma

Riccardo Lagorio

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Macellerie d’Italia

“Non solo carne”: sopra è sì macelleria, ma sotto c’è di più…

Federica Cornia

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Eventi

Pienone per il Superzampone in onore di Bortolamasi

Marco Credi

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Sapori dal mondo

Tradizionali o innovative, le terrine

Josette Baverez Blanco

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Bread & Wine: del mangiar salami ed altre prelibatezze norcine in Sudafrica

Massimiliano Rella

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Massimiliano Rella

74

Gian Omar Bison

76

Turismo enogastronomico Un sabato mattina a Rennes Riva de Milan: tutto il buono della Marca Trevigiana Fiere

Marca 2013: l’Expo è più vicino

Formaggio

Il Rinascimento caseario d’Irlanda è donna

Raffaele Bertolini

82

Lo schiz, freschezza d’alta quota

Michele Bracieri

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Vino

Costa d’Amalfi Doc, un vino difficile da fare, facile da amare

Massimiliano Rella

88

I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: Sforzato di Valtellina

Laura Franchini

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Birra

Birre trentine: sapori ritrovati

Dolci

Il cioccolato di Modica

Nunzia Manicardi

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Aceto

Aceto Balsamico, delizioso nettare, dono prezioso

Angelo Valentini

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Arti e mestieri

Il teatro in un boccone

Federica Cornia

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Storia e cultura

A tavola con Arlecchino e la Commedia dell’Arte

Cristina Casini

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I numeri primi del bollito misto

Giovanni Ballarini

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Il suino, tra il sacro e il profano

Josette Baverez Blanco 118

Libri

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Il Buglione

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Norcino fai da te

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In copertina: salami d’Italia, fatti col cuore (foto Massimiliano Rella).

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Immagini

Bar, ristorante, salumeria e negozio: è questo l’originale format delle botteghe d’arte norcina Langhiparma ideate da Alberto Isi e Sonia Verri qualche anno fa. Premiata Salumeria Italiana ha visitato a Seregno l’ultimo nato dei tre punti vendita, che diventeranno quattro tra pochi mesi. Il servizio di Riccardo Lagorio a pag. 56.

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SalumiямБcio Mec-Palmieri srl Via Canaletto, 16/A - 41030 - San Prospero (Modena) - tel. 059.90.88.29 - fax 059.90.63.36 www.mecpalmieri.com - www.mortadellafavola.it Azienda con Sistema Qualit├а certiямБcato ISO 9001


Paesaggio agricolo a terrazze sulla costiera amalfitana. In questa zona, nonostante i disagi posti agli agricoltori dalle caratteristiche del territorio, si produce il Costa d’Amalfi DOC, vino poco conosciuto ma indiscusso protagonista dell’enogastronomia locale. Il servizio di Massimiliano Rella a pag. 88.

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Il food in rete

Il meglio del web e delle app di Elena Benedetti

www.mesgouts.fr

www.laparmigianasalumi.it

www.identitagolose.it

Scelte di consumo più consapevoli I consumatori francesi possono compiere scelte di consumo più consapevoli grazie a MESGOUTS (www. mesgouts.fr), un sito che contiene un ricco database di prodotti alimentari valutati secondo un punteggio ottenuto dalla media di sette criteri: grado di apprezzamento (media dei voti espressi dai membri della community), qualità (valutata in base agli ingredienti), proprietà nutrizionali, convenienza (in base alla media di categoria), impatto ambientale (es. smaltimento dei rifiuti), origine (se proviene da imprese locali), valori etici/sociali (se sono, ad esempio, prodotti fair trade). Interrogando il database per marca, categoria di prodotto o ingrediente, il consumatore ottiene una lista di prodotti all’interno dei quali potrà scegliere in base agli elementi a cui dà maggiore importanza tra i sette criteri previsti. Il processo di scelta può diventare ancora più semplice e veloce se il consumatore personalizza la navigazione, registrandosi al sito e creando un proprio profilo. Form on-line

Salumi e Omega-3 Bella grafica, vivace nei colori che risaltano sullo sfondo bianco e i salumi in primo piano, assoluti protagonisti del portale di LA PARMIGIANA SALUMI. Questo salumificio parmense si è specializzato nella produzione di una nuova linea di salumi naturali, denominata “3”. Nello stabilimento di Sala Baganza (PR) si producono, tra gli altri, fiocchi di spalla, guanciali, salami, lardi, lonzini, arricchiti di Omega-3. La certificazione è garantita dalla filiera nutrizionale Bleu Blanc Coeur (www. bleu-blanc-coeur.com/ita). info@laparmigianasalumi.it

I protagonisti della cucina di Paolo Marchi & C. anche nel web È un contenitore ricchissimo di informazioni, notizie, novità, anticipazioni quello che Paolo Marchi insieme alla sua squadra di validi collaboratori ha realizzato con www. identitagolose.it. Con l’avvicinarsi dell’appuntamento di IDENTITÀ MILANO, nona edizione del congresso di cucina d’autore italiana e internazionale che si terrà nella capitale lombarda dal 10 al 12 febbraio, la visita al portale è utile per pianificare la visita alle lezioni magistrali dei vari chef. Il sito resta comunque un ottimo canale di informazioni anche per il resto dell’anno: con aggiornamenti sugli eventi di Identità, newsletter, link utili, video, ricette e la “blogosfera” (il meglio dei food blogger di tutto il mondo). organizzazione@identitagolose.it

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www.mastercibo.it: riparte a Valdobbiadene il Master di Ca’ Foscari in “Cultura del Cibo e del Vino” È ripartito giovedì 31 gennaio a Valdobbiadene, nel cuore delle colline del Prosecco e del Cartizze, il Master universitario di 1º livello in “Cultura del Cibo e del Vino” dell’Università Ca’ Foscari, che mira a rispondere alla crescente richiesta di qualificate competenze nella tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio turistico ed enogastronomico. Un progetto moderno e ricco di importanti novità, come conferma il direttore prof. Roberto Stevanato che ha voluto condividere la direzione del Master con la prof.ssa Christine Mauracher, professore associato all’Università Ca’ Foscari, docente di “Economia e marketing agroalimentare”, esperta anche di tematiche legate al turismo. Il Master si svolge sul territorio, trasmettendo un autentico sentire del prodotto e dando la possibilità di entrare in contatto con imprenditori e opinion leader di settore, che interverranno durante il corso di studi. Enti e istituzioni hanno da sempre supportato il progetto, già patrocinato dal Ministero delle Politiche Agricole e Agroalimentari, dalla Regione del Veneto, dalla Provincia di Treviso e sostenuto dal Comune di Valdobbiadene. È previsto un tirocinio obbligatorio di 300 ore in aziende del territorio con l’obiettivo di facilitare l’inserimento degli studenti nel mondo del lavoro. Nuove professionalità nella promozione delle eccellenze enogastronomiche del territorio, nella proposta di inediti itinerari nel settore, nell’ideazione e organizzazione di eventi culturali e turistici connessi alle risorse enogastronomiche, nella comunicazione specialistica nell’editoria enogastronomica sono solo alcuni dei profili professionali che il Master si prefigge di formare. Gianluca Bisol, eletto il 23 aprile scorso presidente del Master Club, che raccoglie amici e sostenitori del progetto formativo, dichiara: «Insieme ad un gruppo selezionato di imprenditori, sostengo questo Master fin dalle origini: puntiamo a coinvolgere solo imprenditori illuminati e creare così una rete di imprese eccellenti del territorio».

www.facebook.com/Premiata-Salumeria-Italiana-Magazine

O TIAM N E DIV I? AMIC

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ECCELLENZA, IN TAVOLA. y al

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de in I ma t

de in I ma t

2013 Bicentenario Verdiano Marco Berti e Langhiparma

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www.langhiparma.it

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Aziende

L’acciaio Saladini, coltellinai in Scarperia di Laura Franchini

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egalare coltelli taglia le amicizie” dice il proverbio. Regalare i coltelli di Saladini invece le amicizie le rafforza. Semmai taglia fiorentine, costate e la “ciccia bona”, per dirla alla Cecchini, macellaio e poeta, grande fan e amico dei coltellinai Saladini. Poi, per scrupolo, se siete così fortunati da riceverli in regalo, allungate al generoso amico una moneta, giusto per scaramanzia e godetevi il regalo.

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Scarperia è un meraviglioso borgo poco distante dalla pista del Mugello, famoso nel mondo per l’antica tradizione di coltellinai. Una tradizione già citata nelle documentazioni dell’epoca a partire dalla fondazione del paese stesso, avvenuta nel 1306. Nato come presidio militare voluto dalla famiglia dei Medici a protezione dell’area a nord di Firenze, Scarperia trasforma l’arte di fabbricare lame per la guerra in una rigogliosa attività commerciale, già molto redditizia a

partire dal 1400. Un’arte che, nonostante tutto, conoscerà periodi di alti e bassi, soprattutto per le leggi che nei secoli limiteranno il trasporto di lame (al fine di arginare il fenomeno del brigantaggio) ma che arriverà a porsi come principale attività del paese, anche grazie alla naturale evoluzione della produzione stessa. Tramandata di padre in figlio, l’arte di fabbricare coltelli dall’elevato contenuto artigianale a Scarperia non si è mai persa, anzi, è diventata

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In alto: la linea di prodotti Saladini in corno di bue dedicati alla tavola. Al centro: linea dedicata alla cucina e al professionismo. In basso: confezione set Parmigiano e spada Sabrage.

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A sinistra: Leonardo Saladini e Giacomo Cecchi con la lama creata in occasione dell’anniversario della fondazione di Scarperia. A destra: gli interni della Coltelleria Saladini. oggetto di ricerca tecnologica e di design. In quest’ottica la coltelleria Saladini non fa eccezione, ponendosi ai massimi livelli proprio nella ricerca di qualità artistica e produttiva. Già attiva nel 1851, secondo quanto narra un antico documento ritrovato presso la parrocchia, la coltelleria Saladini passa attraverso gli anni superando guerre e cambiamenti, conservando l’esperienza e le tradizioni dei secoli. Mantiene così non solo una profonda conoscenza dell’arte di forgiare lame in acciaio, ma anche un’articolata produzione di coltelli tradizionali, soprattutto di tradizioni regionali, che la pongono come uno dei fari illuminanti del collezionismo specializzato. Accanto a questa attività, prettamente dedicata, come detto, al collezionismo, Saladini si indirizza con attenzione alla produzione per la cucina e la tavola, proponendo pezzi unici per caratteristiche tecniche e per design. Dal 1997, anno di rifondazione societaria, la Saladini cerca sempre più di dedicarsi all’eccellenza partendo dalle materie prime e dalla filosofia artigianale che da sempre la contraddistingue. Anche per questo L EONARDO SALADINI, omonimo pronipote del fondatore della coltelleria, titolare e responsabile commerciale dell’azienda, decide di farsi affiancare da GIACOMO CECCHI, socio dall’anno di

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rifondazione, architetto esperto in design e abile interprete delle mode e dei trend del momento. Tra i pochi coltellinai che producono i forgiati, alla Saladini si cerca di trovare nuove interpretazioni dei cavalli di battaglia dell’azienda, come il coltello da bistecca. Prodotto in due grandezze, normale e da fiorentina, il coltello da bistecca nasce in corno di bue, ancora molto richiesto, ma vede anche altri materiali accompagnarlo verso un successo sempre più deciso: la resina, molto simile al corno di bue ma decisamente meno delicata e le diverse essenze di legno, tra le quali spicca il legno di ulivo, molto richiesto. Un legno che fa tradizione toscana e atmosfere rustiche, lavorato ecologicamente e trattato solo con olio di oliva. Un materiale caldo, molto apprezzato a adatto anche alla produzione di oggettistica da cucina, a completamento. Accanto alla produzione dedicata alla tavola, che comprende anche, ovviamente, posateria e accessoristica, la Saladini è inoltre molto attiva nella produzione dedicata alla cucina e al professionismo. Molti sono i grandi chef ed i locali famosi che si avvalgono dell’utilizzo dei coltelli Saladini, come i ristoranti “Enoteca Pinchiorri” e “Ora d’aria”, quest’ultimo guidato da Marco Stabile, o la boutique “Toscana Lovers” di Siena, solo per fare alcune citazioni. Reperibili anche presso alcune ma-

cellerie di alto livello, come Papotti a Fossoli, e presso negozi del calibro di Lorenzi in via Montenapoleone a Milano, i coltelli Saladini rappresentano un sogno per gli amanti della buona tavola e della carne. Molte le celebrità che si sono voluti affidare alla precisione delle lame Saladini, tra i quali il campione di Formula Uno Michael Schumacher e Luca di Montezemolo, al quale è stata donata la lama creata per l’anniversario della fondazione di Scarperia, un pezzo prodotto in pochissimi esemplari, di grande valore. Un valore unico ed inestimabile come il valore dell’eccellenza artigianale italiana, di cui Saladini è grande esempio. Laura Franchini

Coltelleria Saladini Laboratorio Via Solferino, 19/21 Esposizione Via Roma, 25 Scarperia (FI) Telefono: 055 8431010 E-mail: info@coltelleriasaladini.it Web: www.coltelleriasaladini.it Nota A pagina 17 confezione da 6 (disponibile anche da 8) di coltelli da bistecca Saladini in legno di ulivo.

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Liquirizia made in Calabria

Amarelli: una storia di innovazioni dalle radici secolari di Riccardo Lagorio

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i vorrebbe un museo solo per raccogliere le pubblicazioni ed i premi che vedono come protagonista la famiglia Amarelli, da trecento anni almeno impegnata nella produzione di liquirizia. E l’unico museo al mondo dedicato alla liquirizia, reale e visitabile a Rossano, nel cosentino, è tanto celebre da essere soggetto persino di un francobollo emesso da Poste italiane. Si tratta di un museo d’impresa, che però si stacca dalla trappola stereo-

tipata dell’essere didascalico: vuole raccontare piuttosto una storia. Il primo documento ufficiale che riporta la saga degli Amarelli è datato 1731, un documento contabile che lascia intendere l’esistenza di un impianto protoindustriale per l’estrazione del succo dalle radici della liquirizia. Questa pianta era peraltro già conosciuta e impiegata da oltre trenta secoli, presente in molti paesi, come l’Italia, la Grecia, la Turchia, l’Afghanistan, l’Iran e la

Mongolia, ma — secondo quanto autorevolmente afferma l’Enciclopedia Britannica — la migliore qualità di liquirizia is made in Calabria. La crescita spontanea delle piante lungo il litorale, dove le caratteristiche naturali del suolo e del clima contribuiscono ad elevare il contenuto di glycyrrhizina, il glicoside dalla cui presenza deriva la peculiarità del succo di liquirizia, fu alla base della nascita nel XVIII di un distretto industriale. La storia della trasfor-

Antichi documenti attestano che già intorno al 1500 la famiglia Amarelli commercializzava le radici della liquirizia.

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mazione della liquirizia è legata alle vicende che hanno contraddistinto il latifondo in Calabria, tanto che le famiglie Martucci, Compagna e Amarelli si spartirono praticamente i mercati mondiali andando a vendere rispettivamente nell’Impero austroungarico, in Francia e in Gran Bretagna, talvolta scambiandosi prodotti e maestranze. La raccolta delle radici di liquirizia, in un’economia strettamente dipendente dall’agricoltura, consentiva inoltre di sfruttare il terreno nell’anno di riposo della rotazione, dando lavoro ai propri contadini. Già nel Cinquecento si iniziò ad estrarre il succo di liquirizia e a questa attività si dedicò anche la famiglia dei baroni Amarelli, che alternava alla cura del proprio patrimonio agricolo anche un forte impegno militare nelle Crociate e nelle guerre contro l’Impero ottomano. Nella prima metà dell’Ottocento Domenico Amarelli e i suoi discendenti svolgevano la propria attività anche nella capitale borbona, Napoli, e ammodernarono nei primi anni del XX secolo la lavorazione con due caldaie a vapore destinate a preparare la pasta di radice e ad estrarne il succo, mentre una pompa a motore da 200 atmosfere metteva

Birra artigianale alla liquirizia.

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Chicchi di liquirizia e cioccolato. in azione i torchi idraulici per comprimere di nuovo la pasta e ricavarne altro liquido. Nel secondo dopoguerra le industrie statunitensi iniziarono ad approvvigionarsi di materia prima in luoghi diversi dalla Calabria, decretando di fatto la fine di numerose aziende medie e piccole, i cosiddetti conci, localizzati prevalentemente tra Rossano e Corigliano Calabro, che sino ad allora avevano resistito alle crisi economiche e politiche. Nei capannoni dove si lavora la liquirizia le radici vengono sminuzzate da un apposito macchinario e passano attraverso sistemi di controllo avanzatissimi. È nella fase della cottura che si ritorna allo stadio artigianale, dove un mastro liquiriziaio controlla l’esatta consistenza del prodotto. La pasta densa, scura e profumata viene portata alle forme desiderate attraverso una serie di macchinari prototipo, frutto della centenaria esperienza aziendale. Segue un ulteriore procedimento, la lucidatura, che avviene ancora esclusivamente con l’impiego di forti getti di vapore acqueo, senza aggiunta di alcuna sostanza chimica. A questo punto le liquirizie, nere, brillanti e lucide, sono pronte per essere confezionate in eleganti scatolette metalliche che riproducono antiche immagini tratte dagli archivi

della Casa. Con il trascorrere dei decenni la AMARELLI ha diversificato i prodotti derivanti dalla radice di liquirizia: dal semplice bastoncino di legno grezzo alle liquirizie pure dal profumo naturale o con aggiunta di aroma di anice o di menta, dalle liquirizie gommose profumate all’arancia e alla viola alla serie dei prodotti di liquirizia confettata. Da qualche anno sono comparsi anche il liquore alla liquirizia, il cioccolato, i torroncini, la grappa. L’ultima nata, la birra alla liquirizia, è frutto della collaborazione con le Distillerie Tenute Collesi di Apecchio, nel pesarese. Ma nella gamma di proposte non mancano prodotti più fantasiosi, come l’acqua di colonia, il dentifricio e il doccia-shampoo alla liquirizia, che hanno permesso alla AMARELLI di acquisire mercati e notorietà nelle Americhe, in Asia e in Australia, sia nel settore dolciario che nei circuiti farmaceutico ed erboristico. Un percorso proiettato quindi verso il futuro mantenendo ben salde le proprie radici, reali e metaforiche, in Calabria. Riccardo Lagorio Amarelli Fabbrica di Liquirizia Sas S.S. 106 – Contrada Amarelli Rossano (CS) Telefono: 0983511219 E-mail: amarelli@amarelli.it Web: www.amarelli.it

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Chiapella Salumieri in Langa

Quando il salame parla piemontese ma si fa capire bene in tutto il mondo di Gaia Borghi

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lessandro Chiapella è uno di quegli imprenditori che, come si suol dire, ci mette la faccia. Magari non lo fa nelle locandine pubblicitarie, sulle quali non troverete il suo viso sorridente o quello degli altri membri di questa bella famiglia unita nel lavoro come negli affetti, ma lo fa come ogni artigiano degno di questo nome, lavorando ogni giorno all’interno della sua azienda senza guardare l’orologio e controllando che ogni cosa sia fatta con la massima attenzione, verificando personalmente le attività dei diversi reparti, dedicando tempo alla soddisfazione delle richieste della propria clientela, ingegnandosi nella ricerca di nuove ricette e nella creazione di nuovi prodotti. Tanto per cambiare, anche oggi Alessandro è impegnatissimo. Il Natale si avvicina e la scrivania dell’ufficio commerciale è invasa da ordini, comunicazioni, documenti, come è imminente la Fiera del Bue Grasso, che qui a Carrù è una vera e propria istituzione e vede i Chiapella protagonisti della scena cittadina. «La Fiera del Bue Grasso è un appuntamento importantissimo a livello locale, una bella occasione per il nostro territorio che andrebbe ulteriormente valorizzata — ci dice Alessandro — rinnovandola, trasformandola in una vera e propria festa, uno di quegli appuntamenti imperdibili capace di richiamare in zona i tanti buongustai che ancora non la conoscono, gli appassionati di

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enogastronomia sempre alla ricerca di nuove prelibatezze alimentari, di storie antiche e antiche tradizioni, e che qui troveranno molto di più di quello che si aspettano». A partire, ad esempio, da una colazione a base di brodo bollente, ideale per affrontare i rigori climatici dell’inverno piemontese, minestra di trippe e gran bollito, il tutto naturalmente innaffiato da ottimo vino rosso, compagno ideale delle lunghe ore trascorse sotto le volte del Foro Boario accanto agli allevatori in trepida attesa del responso finale della giuria, per poi applaudire tutti insieme i vincitori e godersi la sfilata dei grandi bovini bianchi Piemontesi. 102 anni portati brillantemente da una fiera

che il Salumificio Chiapella festeggia offrendo un tradizionale aperitivo nel negozio di macelleria-gastronomia che si trova proprio nel centro del paese e che ogni anno viene preso letteralmente d’assalto, trasformando i portici e la piazzetta antistante in una sorta di grande open bar, chiassoso e vitale (si veda box a pag. 27). «Quello dell’aperitivo pre-pranzo il giorno della fiera è un piacevolissimo rito che per la mia famiglia rappresenta un momento da trascorrere insieme agli amici più cari e, contemporaneamente, è il nostro modo di accogliere i turisti in visita e dare loro il più caloroso dei benvenuti, offrendo il meglio delle nostre specialità». E di specialità è il momento di parlare ma

Salame di bue, fiore all’occhiello del Salumificio Chiapella.

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La pancetta arrotolata. sono talmente tanti i prodotti firmati Chiapella che non basterebbe tutto lo spazio su questa rivista per elencarli, tanto più che, di mese in mese, se ne aggiunge uno nuovo. Consigliando quindi ai più curiosi di controllare il sito web ufficiale del salumificio (www.chiapellasalumi.it), dove, oltre ad essere riportata l’intera gamma produttiva, si possono ammirare anche le immagini dei salumi Chiapella superbamente interpretati nella loro presentazione dallo chef stellato Enrico Crippa, ci limitiamo a presentarne alcuni, tra quelli che consideriamo i più significativi. Come non citare ad esempio il filetto al Barolo? «Riconosciuto dalla Regione Piemonte come PAT ovvero Prodotto Agroalimentare Tradizionale, il filetto al Barolo deve essere rigorosamente prodotto nella nostra zona» ci dice Alessandro. «La preparazione inizia con la selezione delle lonze di suino, che vengono poi sgrassate e rifilate con cura. Si procede quindi alla salagione, che si effettua massaggiandolo a “secco” con sale marino a più riprese e per diversi giorni. La lonza viene poi lasciata in infusione in vino Barolo DOCG e spezie — nessun aroma quindi — per una quindicina di giorni circa, intervallando riposo e massaggi fino al totale assorbimento del vino. Si termina con l’insacco nel budello naturale e la stagionatura per un minimo di 60 giorni in condizioni di temperatura e umidità ottimali». Il Barolo, vino simbolo di queste terre, entra anche nel lardo, da provare anche alle erbe

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e ai fiori di montagna, e nel salame, versatile “contenitore” che accoglie in un crescendo di sapori variegati differenti il tartufo, il peperoncino, il Parmigiano Reggiano, le carni di asino, cinghiale, quelle di bue… «Il salame di bue è nato una decina di anni fa come omaggio al simbolo della Fiera del Bue Grasso» puntualizza Alessandro. «Probabilmente è uno dei nostri fiori all’occhiello, un prodotto unico e inconfondibile, in cui la polpa di bue, senza nervature, viene unita al grasso suino, insaccata in un budello naturale e legata a mano». Un salame profumato, dal colore rosso intenso, da portare in tavola insieme al nuovissimo salame di vitella di razza Piemontese: a

differenza di quello di bue, questo è composto esclusivamente da magro e grasso di bovino, compreso il budello. Ricorda vagamente la bresaola e viene venduto sottovuoto a piccole pezzature, per un consumo rapido, al fine di mantenerne inalterate le caratteristiche. O ancora, il salame biologico, nato per soddisfare questa importante fetta di mercato in continua crescita, e il classico salame di Langa, prodotto seguendo la tradizionale ricetta dei contadini della zona. «Assolutamente privo di additivi e farine derivati dal latte, viene insaccato in budello naturale e legato a mano ed è disponibile in diverse pezzature» continua Alessandro. E poi ci sono i baròt: nel dialetto locale il baròt è il bastone con cui si va alla ricerca dei tartufi ma, in questo caso, invece del prezioso tubero, troviamo dei deliziosi salamini che ne ripropongono la forma, preparati in sei gusti differenti (Langa, peperoncino, aglio, Barolo, tartufo e finocchio), sempre ponendo la massima attenzione alla qualità della materia prima. Un esempio in questo senso è rappresentato dal baròt all’aglio, nel quale viene utilizzato solo quello di Vessalico, una speciale varietà ligure, la cui coltivazione è oggi in ripresa, caratterizzato dal gusto molto delicato. I baròt si possono gustare sia nella versione da 200 grammi che in quella mini, da 90 grammi, da portare in borsetta per attacchi di

Filetto al Barolo. Ottimo gustato solo o accompagnato da un filo d’olio.

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Alcune specialità Chiapella: salami al tartufo, al peperoncino, di Langa e al Barolo. fame improvvisi! «Abbiamo anche tanti altri prodotti particolari, che sfruttano diversi tagli del maiale, anche i meno pregiati — conclude Alessandro — come la galatina, preparata con la polpa della testa suina sezionata “a coltello” e l’aggiunta di pistacchi macinati. La nostra forza comunque — ribadisce il nostro interlocutore — è l’artigianalità delle preparazioni e la qualità di base della materia prima: solo suini nati, allevati e macellati in Piemonte. Fino al 2011 gli animali venivano macellati direttamente da noi in azienda: una scelta ambiziosa, legata all’orgoglio di poter esibire una filiera completa, ma i costi erano troppo alti per una realtà piccola come la nostra. Oggi ci affidiamo ad allevatori selezionati, con i quali abbiamo un dialogo continuo, perché il benessere degli animali, la loro alimentazione, gli spazi e la libertà in allevamento sono la migliore garanzia per una carne sana, genuina e saporita. Dopo più di un anno, ora possiamo affermare che l’eliminazione del macello è stata positiva: la qualità della carne è rima-

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sta invariata, mentre è migliorata la costanza e l’uniformità dell’offerta, che ci ha consentito di trovare persino nuovi clienti». Qualità piemontese, genuinità, semplicità e sapori veri La storia di questo salumificio che porta in giro per il mondo i profumi e le ricette di Langa ha inizio più di sessant’anni fa: è il 1950 e Antonio Chiapella apre a Carrù un laboratorio con vendita di carni fresche e insaccati, incontrando l’immediato consenso degli acquirenti, via via più numerosi. Il tempo passa, il punto vendita si arricchisce di nuove proposte alimentari, i valori e la metodologia lavorativa rimangono gli stessi. Ci si allarga però: un nuovo e moderno stabilimento di circa 1.000 m2 viene costruito nella vicina Clavesana, dove oggi lavorano Giovanni Chiapella, in amministrazione, insieme ai figli Davide, alla produzione, e il già citato Alessandro, responsabile commerciale. A Carrù è rimasta la gastronomia, regno incontrastato di mamma Giorgia. Una ventina di

dipendenti in tutto e la volontà di puntare ancora di più verso il mercato estero, dove finisce già il 50% della produzione. Germania, Olanda, Belgio, Danimarca, Finlandia, Russia, un grande paese per il quale la famiglia Chiapella possiede la certificazione valida per l’esportazione. In Italia la clientela è quella di nicchia delle enoteche e delle gastronomie di alto livello, dei grandi ristoranti. «Nel nostro Paese spesso si cerca di “tirare” sul prezzo, non riconoscendo la differenza qualitativa che caratterizza i nostri salumi, cosa che all’estero invece non succede mai…» ci dice ancora Alessandro. «In gennaio, insieme alla Regione, siamo stati al “Wine Professional” di Amsterdam, uno degli eventi più importanti in Europa per il settore food & wine d’eccellenza, mentre a maggio saremo al Tuttofood di Milano. E poi andremo all’Anuga a Colonia, il prossimo ottobre». Prepariamo le valigie, quindi, e portiamo un po’ di Piemonte nel mondo. Gaia Borghi

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Non c’è Fiera del Bue Grasso che si rispetti senza un bicchiere di vino gustato insieme a qualche fetta di buon salame. E non c’è carrucese che si rispetti che dimentichi l’ormai tradizionale appuntamento per l’aperitivo organizzato dal Salumificio Chiapella, le vetrine invitanti della cui salumeria nel centro di Carrù brillano come un faro nella nebbia, sicuro approdo per i naviganti in cerca delle delizie dell’enogastronomia locale. Anche quest’anno infatti erano tantissimi i buongustai, i visitatori curiosi, le personalità importanti, gli amici di sempre, che si sono ritrovati insieme a Giovanni Chiapella, alla moglie Giorgia e ai figli Alessandro, Davide ed Elisabetta per festeggiare e brindare alla fiera e ad un nuovo anno ricco di soddisfazioni e “bontà”.

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Cambio della guardia al Salumificio Franceschini Sarà Vincenzo, figlio di Gino Franceschini, il fondatore, a guidare l’azienda che dagli anni ’70 a Spilamberto, in provincia di Modena, produce salumi tipici della tradizione locale di Federica Cornia

«I

o compero solo carne nazionale di maiali pesanti». Parola di Gino Franceschini, fondatore e titolare del Salumificio Franceschini Gino & C. Srl di Spilamberto, in provincia di Modena. Una frase lapidaria che riassume perfettamente la filosofia di

un’azienda che, fin dalla sua nascita, ha fatto perno attorno a elementi cardine quali la qualità della materia prima e la territorialità. Principi guida anche oggi, anzi soprattutto oggi, e che fanno di Franceschini un baluardo a difesa del gusto e del prodotto tipico locale di fronte al processo di

globalizzazione e ad un mercato che insiste sempre più sulla quantità a scapito della qualità. Incontriamo Gino nello stabilimento ubicato nella zona artigianale di Spilamberto, dagli ’70 laboratorio e dispensa di prodotti saldamente radicati nella tradizione della salumeria

Oltre ai ben noti zampone e cotechino a marchio, è ampia la gamma dei salumi proposti dal Salumificio Franceschini: salame, prosciutto, pancetta, ciccioli e coppa di testa.

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modenese, sopra a tutti lo Zampone e il Cotechino IGP. Una lunga storia alle spalle fatta di eccellenze emiliane nate e cresciute dall’esperienza artigiana messa in campo da Gino e portata avanti grazie alla sua di passione, ma anche a quella dei figli Adele e Vincenzo, che con grande impegno e dedizione da tempo ormai lo aiutano nello svolgimento dell’attività aziendale. Lei in compiti d’ufficio, lui alle vendite ormai da anni. E va sottolineato il lungo apprendistato di Vincenzo alle dipendenze del padre perché basta poco, giusto un cenno, per capire che c’è aria di cambiamento qui a Spilamberto, che i tempi e le persone sono maturi, che siamo di fronte a un passaggio di consegne: spetterà a Vincenzo d’ora in poi il compito di tener vivi gli antichi sapori dei prodotti tipici della salumeria locale, sarà lui erede, custode e dispensatore delle vecchie tradizioni contadine salumiere. D’altra parte compie già qualche anno la prova concreta dell’amore di Vincenzo per il mestiere paterno e la voglia di fare e far bene: è il salame Modena&Modena che, in commercio dal 2010, sta riscuotendo un discreto successo di vendite. Studiato insieme a Gino, ricetta e idea sono di Vincenzo. Insaccato in budello naturale, prodotto senza glutine e lattosio, con una stagionatura che va dai 30 a 60 giorni, fresco e morbido, più leggero rispetto al Montanaro, è un salame al passo coi tempi, che risponde al gusto dei più giovani senza per questo allontanarsi dalla tradizione. Franceschini non è infatti solo zamponi e cotechini: accanto ad essi prende corpo la prelibata schiera di salumi che comprende, oltre naturalmente al salame, prosciutto, pancetta, coppa di testa e ciccioli. Che questi ultimi siano Campagnoli o Montanari è una questione di pressione e messa in forma, mentre la loro bontà è una

Gino Franceschini insieme ai figli Adele e Vincenzo. questione di materia prima. Per farli grasso e magro di pancetta e grasso e magro di gola cuociono insieme nei calderoni per 4 ore. «Sono l’unico che usa anche il magro per fare i ciccioli e infatti stanno andando bene» ci confessa Gino poco dopo, con soddisfazione e non senza una punta d’orgoglio, mentre siamo in visita allo stabilimento. I prodotti Franceschini nascono da una scelta precisa che mira a prodotti di alta qualità ricercando sul mercato le migliori carni nazionali di suino pesante — da animali nati, allevati, macellati e certificati in Italia — osservando il principio dell’utilizzo di pochi ingredienti indispensabili, secondo ricette prive di farina di latte, di caseinati e glutine, con l’impiego del solo budello naturale e stagionati in cantina. «La nostra clientela attuale sono negozi specializzati, salumerie e gastronomie, ristoranti, agriturismi, la piccola distribuzione» dice Gino, sottolineando come è grazie a queste realtà che si può mantenere la qualità. E subito aggiunge: «È un mercato diffi-

“È un mercato difficile, dice Gino Franceschini, che guarda la quantità, che chiede la quantità. Ma se i produttori a valle hanno distributori sensibili alla qualità, allora diventa possibile anche per i produttori mantenerla” Premiata Salumeria Italiana, 1/13

cile, che guarda la quantità, che chiede la quantità. Ma se noi produttori a valle abbiamo i distributori che sono sensibili alla qualità, allora diventa possibile per noi mantenerla». La speranza dunque è che si riescano a preservare aree di vendita di prodotti di nicchia in un mercato che richiede sempre di più il prezzo. A Spilamberto già si lavora in quest’ottica da tempo e ultimato l’ampliamento dello stabilimento con nuovi locali di produzione e stoccaggio, il Salumificio Franceschini è oggi in grado proprio di rispondere con la qualità anche a grosse richieste da parte di chi sul territorio ricerca prodotti di nicchia. E per il futuro? Per il futuro c’è da sperare, come dice lo stesso Gino «che al mondo ci sia sempre gente che ami mangiare e mangiare bene!». La domanda di prodotti di nicchia non è scollegata all’educazione del gusto. È anche questo il compito arduo che Vincenzo eredita dal padre, quello di formare buoni palati. A noi non resta che augurargli buona fortuna e buon lavoro! Federica Cornia Franceschini Gino & C. Srl Via dei Marmorari, 38 41057 Spilamberto (MO) Telefono: 059 784037 E-mail: info@franceschinigino.it Web: www.franceschinigino.it

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Mercati

Nuove prospettive per l’export dei prodotti della salumeria italiana in USA Un primo passo verso il via libera anche a salami, coppe, pancette, speck. Le autorità statunitensi riconoscono l’indennità da malattia vescicolare delle Regioni Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e Trentino Alto Adige

L

e autorità statunitensi di APHIS (Animal and Plant Health Inspection Service) hanno ufficialmente riconosciuto l’indennità di Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e delle Province autonome di Trento e Bolzano dalla malattia vescicolare del suino. Questo tanto atteso riconoscimento rappresenta un primo, fondamentale passo verso l’apertura del mercato degli Stati Uniti d’America ai prodotti della salumeria italiana a breve stagionatura (salami, coppe, pancette, speck). Ricordiamo che al momento negli Stati Uniti è ammesso l’invio dei prodotti cotti come la mortadella e il prosciutto cotto, e dei prosciutti crudi stagionati oltre 400 giorni, a partire dai Prosciutti DOP come il prosciutto di Parma e il prosciutto di San Daniele.

Salame tradizionale.

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«ASS.I.CA. può affermare con orgoglio di aver lavorato attivamente per anni, al fianco delle autorità sanitarie italiane e della Commissione europea, al fine di consentire alle aziende italiane di esportare negli USA tutta la gamma dei prodotti della salumeria e di aver senz’altro contribuito al raggiungimento di questo storico risultato. La prima richiesta di riconoscimento di indennità da malattia vescicolare presentata alle autorità americane risale al 1997; purtroppo la complessità delle procedure statunitensi per l’attuazione di modifiche normative e il ripetersi di focolai di malattia vescicolare suina, peraltro esistente solo in piccoli focolai di alcune regioni in Italia, hanno posticipato fino ad oggi la decisione di APHIS» ha dichiarato LISA FERRARINI, presidente di ASS.I.CA. (Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi aderente a CONFINDUSTRIA). «È da tempo che come associazione ci battiamo affinché vengano messe in atto efficaci soluzioni per risolvere problemi di limitazioni all’export dei salumi, della carne suina e degli altri prodotti freschi, che ci provocano danni ogni anno per 250 milioni di euro. La mancata vendita stimata è, solo per gli USA, di circa 2.000 tonnellate, con un danno per le imprese di trasformazione che può essere quantificato in circa 18 milioni di euro ogni anno» ha continuato la Ferrarini.

Lisa Ferrarini, presidente ASS.I.CA. APHIS ufficialmente ha dichiarato di aver valutato il rischio derivante dall’importazione di prodotti a base di carne suina a breve stagionatura dall’Italia e di aver ritenuto che le misure di sorveglianza, prevenzione e controllo attuate dall’Italia nelle quattro regioni e due province autonome in esame sono soddisfacenti per autorizzare l’importazione negli Stati Uniti dei salumi italiani. «Affinché possano partire i primi prodotti occorrerà aspettare la conclusione dell’iter procedurale, che salvo complicazioni, potrebbe avvenire entro giugno 2013» ha concluso la presidente.

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Borsa Merci di Parma centro nevralgico della salumeria italiana Da alcune settimane, il venerdì, vengono quotati anche la Mortadella Bologna Igp, Salamini Italiani alla Cacciatora Dop, Zampone Modena Igp, Cotechino Modena Igp La Borsa Merci di Parma si conferma sempre più il centro dell’agroalimentare italiano e in particolare della filiera suinicola. Grazie al fatto che ospita, da aprile 2011, le Commissioni Uniche Nazionali “tagli di suino” e “grasso e strutto”, è infatti frequentata dai più qualificati operatori nazionali della macellazione e della produzione di salumi. Proprio per questo il Consorzio Mortadella Bologna, il Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena e il Consorzio Cacciatore hanno fatto richiesta di allargare le quotazioni di salumi già presenti inserendo le quotazioni dei prezzi all’ingrosso di quattro prodotti simbolo della salumeria tutelata italiana: Mortadella Bologna IGP, Salamini Italiani alla Cacciatora DOP, Zampone Modena IGP, Cotechino Modena IGP. Oltre a questi prodotti da alcune settimane sono quotati, inoltre, anche i corrispondenti prodotti generici. Infatti, sebbene presso talune Borse Merci italiane siano già presenti delle quotazioni di questi prodotti, i Consorzi ravvisano l’esigenza di un punto di riferimento autorevole, frequentato assiduamente dagli operatori, che fornisca in maniera più precisa ed oggettiva la reale situazione di mercato. La scelta di essere quotati anche a Parma è stata fatta proprio perché è oggi la piazza di riferimento per il settore: per la posizione geografica e la presenza degli operatori essa è strategica per gli scambi commerciali dei nostri. «L’allargamento delle referenze quotate dalla Commissione salumi della Borsa Merci di Parma dimostra il successo dell’operazione avviata con l’accoglimento delle Commissioni Uniche Nazionali» ha commentato Andrea Zanlari, presidente della CCIAA di Parma. «La Camera di Commercio attraverso le molte iniziative in campo, continua a lavorare per fornire alla filiera della produzione di carni suine e salumi i servizi che la aiutino ad accrescere la propria efficienza e la propria produttività».

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Indagini

L’analisi sensoriale degli alimenti Un approccio scientifico aiuta a comprenderne le caratteristiche ed indica dove attuare i miglioramenti, allo scopo di conquistare meglio i mercati di Roberto Villa

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ell’attuale situazione di economia globalizzata, le attività di trasformazione e di conservazione degli alimenti diventano elementi fondamentali per consentire la penetrazione di nuovi mercati su scala planetaria, guadagnare nuove fasce di consumatori, garantire le condizioni di igiene e di sicurezza alimentare a livelli sempre più alti. In questo quadro, diviene imprescindibile conoscere come le caratteristiche intrinseche di un prodotto mutino a seguito di

trattamenti e di condizioni di conservazione prolungata; tra i primi, e con particolare riferimento al settore ittico, si possono annoverare le pratiche legate alla pesca o all’allevamento e le tecniche di produzione (modalità di lavorazione, utilizzo di ingredienti e di conservanti); tra le seconde, l’applicazione di refrigerazione, surgelazione, confezionamento sottovuoto o in atmosfera protettiva, l’uso di materiali di confezionamento “attivi”. L’analisi sensoriale, soprattutto se condotta con regolarità e secondo cri-

teri scientifici, permette di valutare gli alimenti, attribuire un punteggio secondo parametri e scale predeterminate, monitorarne l’andamento in funzione di diverse variabili, con l’obiettivo ultimo di soddisfare le richieste dei mercati a cui ci si intende rivolgere. L’approccio scientifico: i primi passi Sono numerose le norme volontarie emanate con lo scopo di dettare delle linee guida attraverso le quali

Pelabilità, esame visivo e olfattivo riguardano l’analisi sensoriale del salame. Corsi di formazione per tecnici assaggiatori di salumi vengono organizzati presso l’ONAS, Organizzazione Italiana Assaggiatori Salumi, con sede a Cuneo.

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seguire un approccio il più possibile ordinato al tema. La base di partenza, senza la quale ogni ulteriore attività perde di significato, è costituita dalle norme ISO 11035 “Analisi sensoriale. Identificazione e selezione di descrittori per stabilire un profilo sensoriale attraverso un approccio multidimensionale” ed ISO 13299 “Analisi sensoriale. Metodologia. Guida generale per stabilire un profilo sensoriale”. Il campo di applicazione della ISO 13299 coinvolge: • lo sviluppo di nuovi prodotti o la loro modifica; • la definizione di un prodotto, di uno standard di produzione o commerciale in termini di attributi sensoriali; • lo studio ed il miglioramento della vita commerciale; • la definizione di un prodotto fresco di riferimento per valutarne la vita commerciale; • la comparazione di un prodotto con uno standard o con altri prodotti simili presenti sul mercato; • l’individuazione degli attributi percepiti di un prodotto, da mettere in relazione con le sue proprietà chimiche, fisiche, nutrizionali e/o con l’accettabilità da parte del consumatore. I passi da realizzare per giungere allo scopo prefisso sono i seguenti: 1. stabilire il luogo della valutazione (i cui criteri sono esplicitati nella norma ISO 8589 sulla progettazione delle aree dedicate ai test); 2. selezionare una serie di prodotti che contemplino la gamma di attributi necessari; 3. selezionare ed addestrare i valutatori che saranno coinvolti nel progetto; 4. selezionare gli attributi (i cosiddetti “descrittori”) più idonei per il prodotto considerato e per le finalità del progetto; 5. determinare l’ordine di percezione degli attributi nel profilo (facoltativo); 6. selezionare una o più scale di intensità da usare per gli attributi; 7. addestrare i valutatori all’uso dei descrittori selezionati e delle scale di intensità; 8. realizzare il test;

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Esempio di espressione dei risultati su salami piccanti

9. effettuare una relazione sui risultati, ovvero trarre le conclusioni sulla base di analisi statistiche, grafici, istogrammi, tabelle. Vi sono linee guida anche per la selezione, l’addestramento ed il monitoraggio dei valutatori (ISO 8586-1 ed ISO 8586-2). I candidati devono essere in possesso dei seguenti requisiti: • interesse e motivazione; • abilità di memorizzare e comunicare le impressioni sensoriali; • disponibilità a partecipare alle sessioni di valutazione; • capacità di concentrazione ed onestà nel riferire le proprie sensazioni; • rapidità; • buona salute (di solito vengono esclusi i fumatori medi e forti, per le implicazioni negative che il fumo determina sulla percezione delle proprietà organolettiche); • abilità di discriminare le specifiche caratteristiche oggetto dello studio; • impegno a partecipare a tutta la durata del progetto. La scelta degli attributi (“descrittori”) L’utilizzo di una corretta terminologia è fondamentale nel processo di scelta degli attributi di un prodotto, si ricorre solitamente a tre approcci, alternativi o variamente integrabili fra loro: • consultazione della bibliografia disponibile e di persone esperte. Per molti prodotti esistono delle

terminologie ufficiali; fissare la terminologia più appropriata allo scopo attraverso tavole rotonde a cui partecipano i valutatori designati sotto il coordinamento del valutatore leader del gruppo; • identificazione e selezione dei termini secondo il metodo indicato dalla norma ISO 11035, attraverso l’utilizzo di campioni appositamente preparati. Per la selezione dei descrittori più importanti, spesso necessaria per evitare un eccessivo dettaglio, essi vengono ordinati in una scala, che tiene conto della frequenza (F) con cui tali descrittori sono stati individuati dai valutatori e dell’intensità (I) attribuita a ciascuno, attraverso il calcolo della media geometrica delle due serie di valori: M = √(F x I). Esistono molte norme di riferimento per la scelta dei descrittori e l’addestramento dei partecipanti: la norma ISO 5496 riguarda la metodologia della rilevazione e del riconoscimento degli odori, la ISO 11036 la metodologia per la consistenza (anche se il concetto del termine inglese texture va un po’ al di là del termine italiano). I descrittori per l’analisi sensoriale vengono raggruppati in base a categorie come l’aspetto (ad esempio il colore esterno ed interno, le caratteristiche della superficie, la forma), l’odore (diretto e dopo inspirazione ed espirazione), il sapore (gusti di base, sensazioni al palato come il freddo, il caldo, il pungente, il metallico, •

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Un gruppo di assaggiatori al lavoro (foto: www.assaggiatori.com). l’allappante, retrogusti percepiti in un secondo tempo rispetto al passaggio del cibo), la consistenza (masticabilità, elasticità, plasticità, friabilità, rugosità, ecc…). I caratteri principali dei descrittori adottati sono l’applicabilità ai campioni oggetto di valutazione (ovvero non si deve eccedere nella ricerca di parametri troppo fantasiosi e distanti da ciò che si sta assaggiando), la possibilità di differenziare i campioni in base alle loro caratteristiche, la facilità di individuazione da parte dei valutatori, in maniera tale da giungere ad una sintesi di giudizio tra i partecipanti senza eccessiva dispersione. Ciascun attributo deve essere quantificabile attraverso opportune scale di intensità (ad esempio, con riferimento al contenuto in sale: per nulla salato, poco salato, moderatamente salato, abbastanza salato, molto salato, eccessivamente salato), che possono andare ad influenzare la gradevolezza dell’alimento e dunque la scelta di acquisto (ad esempio, con riferimento alla presenza di spezie in un insaccato o in una zuppa di pesce: insufficiente, scarsa, bassa, sufficiente, giusta, leggermente in eccesso, esagerata).

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La valutazione: i test discriminanti Fra i test più comuni vi sono quelli denominati “discriminanti”, ovvero quelli che hanno l’obiettivo di stabilire se fra due prodotti vi siano delle differenze, descrivendo quantitativamente e qualitativamente tali differenze, e quale dei due risulti più gradito ai valutatori. Solitamente presuppongono gruppi di assaggio (panel) composti da un numero elevato di persone, non necessariamente addestrate; sono infatti utilizzati spesso per fare una scrematura generale, alla quale seguiranno altri test più specifici e mirati. I principali tipi di test discriminanti sono il test a coppie, il test triangolare, il test “due su cinque”, il test degli attributi rispetto ad un testimone, il test di somiglianza o di differenza. Nel test a coppie viene tipicamente chiesto ai valutatori di assaggiare in sequenza due prodotti alla volta, esprimendo un giudizio su quale dei due si avvicina maggiormente alla caratteristica richiesta (ad esempio l’intensità del sapore, la dolcezza, la consistenza alla masticazione, ecc…). Nel test triangolare bisogna indicare quale di tre campioni è diverso dagli altri due mentre nel test “due su cinque” il numero totale dei cam-

pioni da valutare è pari a cinque, di cui due sono diversi dai rimanenti tre, dichiarati identici. Questi due tipi di test sono usati anche per selezionare ed addestrare i potenziali assaggiatori e valutarne in continuo la stabilità e l’affidabilità nel tempo. L’espressione dei risultati I risultati possono essere tradotti in grafici di vario tipo (linee, istogrammi, grafici a torta). Quelli più classici utilizzati a questo fine — in grado di dare una buona rappresentazione visiva dell’intensità di ciascun descrittore e di confrontare i campioni tra loro — è costituita dalle “ragnatele”. Tali rappresentazioni grafiche, che sono il passaggio finale di una valutazione, divengono utili come base per ulteriori valutazioni, stimolando ad esempio una modifica nella composizione (ad esempio la sostituzione di ingredienti o la variazione della loro quantità in una ricetta), nelle modalità di imballaggio, di porzionamento, di conservazione. La ripetizione del test dopo le variazioni apportate consentirà un confronto con la situazione precedente per appurare se le stesse siano state migliorative rispetto all’obiettivo ricercato. Roberto Villa

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Formazione

Per “far su” e “ascoltare” il salame servono passione e competenza Sono circa 300 i soci dell’Associazione Lombarda Norcini che, sorta quattro anni fa, organizza in regione numerosi corsi per norcini, degustatori e assaggiatori. L’obiettivo è mantenere viva la tradizione della norcineria a tutela del territorio e di non poche produzioni di salumeria di cui nemmeno si conosceva l’esistenza di Anna Mossini

A

vreste mai pensato che il “salame va ascoltato”? Proprio così. Decisamente un modo nuovo, se non addirittura inconsueto, di gustare uno dei salumi più apprezzati del made in Italy, che da Nord a Sud dello Stivale vanta una vastissima varietà di tipologie. Ma cosa significa, in sostanza, “ascoltare il salame”? E chi, soprattutto, può essere in grado di mettere in pratica un’operazione così originale ancorché complessa? Ovvio, un degustatore o, meglio ancora, un assaggiatore. Figure che non si improvvisano, ma che al contrario devono seguire un iter formativo di tutto rispetto, accompagnato necessariamente da un’innata predisposizione, diciamo pure genetica, a questa attività. Perché di attività vera e propria si tratta. Lo sanno bene i componenti dell’Associazione Lombarda Norcini, sorta non più tardi di quattro anni fa su ispirazione di FRANCO TESTA, che dell’Associazione è oggi direttore, insegnante presso l’Istituto agrario Bonsignori di Remedello, in provincia di Brescia, e che, in poco tempo, grazie alle sue competenze e alla sua passione, è riuscito a raccogliere qualcosa come 300 associati.

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Anche saper tagliare un salame non è così scontato.

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Alla scoperta dei salumi perduti Forse nemmeno Franco Testa, quattro anni fa, immaginava che dalla volontà di dar vita all’Associazione Lombarda Norcini sarebbero scaturite così tante soddisfazioni, così tante sorprese. Per lui il mondo della norcineria è un mondo incredibile, pieno di cose inaspettate. Come forse erano inaspettati i numerosi contatti con l’estero che si stanno susseguendo e che stanno dando lustro e risalto all’Associazione e ai suoi componenti, come era sicuramente inaspettata la scoperta di salami come il sassolino, originario di Sassuolo, insaccato nella coda del maiale o della rosetta, un salame della zona di Milano che viene insaccato nella pelle che lega il budello all’addome del maiale. Una volta tagliata, questa pelle prende la forma di una tasca al cui interno viene inserita la carne. È lì che assume la tipica forma della rosetta. Grazie a questo involucro l’impasto rimane sempre morbido, tant’è vero che anche dopo un anno dalla preparazione il salame risulta ancora tenerissimo. E che dire del lardo impanato alla griglia della Val Trompia o delle peculiarità del Salame Cremona dove è prevista un’aggiunta elevata di aglio, percentuale che nei medesimi salumi realizzati nel Milanese e nel Mantovano cala considerevolmente. Non dimentichiamo poi il salame della Val Sabbia, zona del Bresciano, molto speziato grazie all’aggiunta della cannella, o quello di Pavia, per nulla riconducibile agli analoghi prodotti mantovani o cremonesi. Insomma, una varietà davvero sterminata che corre il serio e sperato rischio di incrementare il suo elenco via via che le degustazioni dei diplomati dell’Associazione Lombarda Norcini aumenteranno, coinvolgendo chi, pur non disdegnando le produzioni industriali a marchio DOP, ha voglia di scoprire quei salumi di nicchia di cui si rischia di perdere la memoria.

«Il nostro obiettivo — spiega Testa — è quello di mantenere viva sul territorio una tradizione, quella dei norcini, che con l’industrializzazione delle macellazioni ha rischiato di disperdersi. Un tempo quello del

norcino era un mestiere vero e proprio, riservato a quegli esperti che quando si uccideva il maiale venivano chiamati per trasformare le carni in salumi. Peculiarità che ovviamente esiste ancora, anche se da mestiere

diffuso si è trasformato in un’attività di nicchia. Che in quanto tale va però mantenuta e tramandata di generazione in generazione». Lo spirito dell’Associazione Lombarda Norcini è anche quello di

Il sezionamento del maiale a cui seguono tutte le preparazioni per i vari prodotti di salumeria: è questa l’attività di cui si occupa il norcino.

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favorire un’interazione sul territorio regionale che porti a uno scambio prima di tutto di prodotti e poi di esperienza che Franco Testa definisce “bellissimo”. Succede allora che nei territori di pianura, più vocati alla stagionatura, si aprano le porte dei locali destinati a questa fase della trasformazione ai salumi ad esempio della Val Trompia, e via di questo passo arrivando a scoprire una varietà davvero impressionante di prodotti ognuno diverso dall’altro per preparazione, ingredienti, gusto, dove l’unico comune denominatore resta sempre il maiale. Forte motivazione Norcini quindi si diventa. E così degustatori e assaggiatori. Ma qual è l’iter da seguire? «I nostri corsi prevedono un percorso teorico e uno pratico — spiega ancora Testa — che, partendo dall’anatomia del maiale, arriva fino al cosiddetto “far su” il salume con la relativa fase di stagionatura, al termine del quale i partecipanti devono sostenere un esame che, se superato, permette di ottenere un diploma. In questi quattro anni di attività non solo abbiamo scoperto nella nostra regione almeno 7 tipi differenti di salame di cui non si conosceva l’esistenza, ma abbiamo raccolto le iscrizioni di un pubblico molto variegato: tanti giovani e tante donne, a dimostrazione che l’interesse per la norcineria c’è, è sentito e lo si vuole approfondire. Voglio però sottolineare che, prima di accettare le iscrizioni, procediamo con una scrematura, perché pensiamo sia giusto dar spazio a chi intende impegnarsi seriamente garantendo la continuità necessaria ad acquisire la qualifica di norcino. Fuor di metafora, non vogliamo gente che per inseguire la moda del momento si iscrive e poi decide di sospendere perché l’interesse piano

Franco Testa, ideatore e oggi direttore dell’Associazione Lombarda Norcini. piano scema. Vogliamo gente motivata, altrimenti è inutile iniziare». Tra i partecipanti ai corsi c’è poi chi vuole diventare degustatore e, successivamente, assaggiatore. Ma qual è la differenza tra le due qualifiche? «Diciamo che l’assaggiatore è un esperto degustatore quindi, nella scala dell’acquisizione delle competenze avremo prima il degustatore e successivamente l’assaggiatore» puntualizza il direttore dell’Associazione Lombarda Norcini, che non dimentica di sottolineare quanto sia complessa la formazione di queste figure, a cui peraltro sono richieste una predisposizione naturale e alcune caratteristiche. «A cominciare dal non essere fumatori — incalza Testa — perché il fumo, al pari dell’alcool assunto in quantità elevate, altera le papille gustative, il che comprometterebbe il giudizio obiettivo del salume che si sta analizzando». Ma le peculiarità di chi vuole diventare degustatore e poi assaggiatore di salumi non si fermano qui. La strada è riservata a persone

“In questi anni di attività, dice Franco Testa, non solo abbiamo scoperto nella nostra regione almeno 7 tipi differenti di salame di cui non si conosceva l’esistenza, ma abbiamo raccolto le iscrizioni di un pubblico variegato: tanti giovani e donne, a dimostrazione che l’interesse per la norcineria c’è” Premiata Salumeria Italiana, 1/13

che si sanno concentrare e sanno rimanere nel silenzio più assoluto per diversi minuti: non a caso i corsi per degustatori prevedono un massimo di 10 persone per ognuno, in cui si alternano i circa 25 insegnanti che fanno capo all’Associazione. Massima concentrazione «Il tempo necessario a valutare un salume non può mai essere inferiore ai 20-25 minuti perché molti e diversi sono i criteri da applicare — argomenta ancora Testa — senza dimenticare che anche l’abbinamento con il vino giusto è importante. Per questo ci avvaliamo di un esperto sommelier che ci indirizza sempre verso gli accostamenti più azzeccati». Tanta preparazione e competenza prelude al ruolo di giudici che gli assaggiatori diplomati presso l’Associazione Lombarda Norcini vengono chiamati a svolgere nelle diverse gare che vengono organizzate non solo in regione. «Il nostro è un organismo pionieristico — conclude Testa — che prima di tutto vuole mantenere una tradizione secolare. Stiamo lavorando per ottenere l’Albo regionale dei norcini e per iniziare le necessarie procedure abbiamo bisogno di arrivare a contare almeno 500 associati. Non è un traguardo irraggiungibile. Siamo certi di avere tutte le credenziali per poter centrare questo obiettivo». Anna Mossini

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Prodotti tipici

Salame di filzetta, salame filzetta o salame in filzetta? di Carlo Cantoni

I

l salame di filzetta è elencato col numero 44 nella settima revisione dell’Elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali della regione Lombardia con produzione diffusa a tutto il territorio lombardo (www.ersaf.lombardia.it). Con questo nome le produzioni principali di questo insaccato si localizzano nella Brianza e nel Mantovano-Cremonese, dove il salame di filzetta “rappresenta il re degli insaccati” (Gruppo di Azione Locale Oglio Po terre d’acqua, www.galogliopo.it). Per le ragioni che verranno esposte di seguito, si ritiene che tale definizione non sia corretta in quanto la preposizione “di” tra i due termini può indurre a ritenere la filzetta un componente del prodotto, mentre altro non è che il budello del suino impiegato per avvolgere il salame. La definizione più rispondente è senz’altro quella di salame filzetta, tralasciando anche quella di “salame in filzetta” in quanto quest’ultima comprende altri tipi di salami diversi dalla filzetta lombarda, che saranno anch’essi descritti.

L’etimo filzetta può avere diverse origini: potrebbe derivare dal dialetto lombardo gallico, emiliano lombardo o emiliano, ove si definiva filzata (piccole parti dell’intestino tenue) o filze ton con diametro più grande; altre denominazioni simili sono filzetta o ciupeta (Ceresara, Mantova), filza o filsa o pilza (Siena); oppure potrebbe anche derivare da filzetta, fizella (DEVOTO, 1968). Il salame di filzetta lombardo Secondo la definizione dell’Atlante regionale dei prodotti tradizionali il salame tradizionale di filzetta è un insaccato di carne suina, a stagionatura medio-lunga, da consumarsi crudo. L’impasto è costituito dal 75% di muscolo o parte magra (rifilatura di prosciutto, spalla, lombo), dal 25% di parte grassa (gola), sale, pepe, spezie varie, aglio, vino, salnitro. Il salame deve presentarsi con forma cilindrica regolare, di consistenza morbida, con un diametro di 5,6 cm, con una lunghezza di 45 cm e con peso compreso tra 0,7-1 kg macinato medio-fine

(versione brianzola). Il suo colore deve essere rosa chiaro e l’odore deve essere quello tipico prevalente dell’aglio. Le fasi di preparazione, sinteticamente, comprendono la miscelazione del magro e del grasso, l’impastatura, l’insaccatura (nella filzetta), la legatura, l’asciugatura e la stagionatura di circa 90 giorni. Più precisa è la descrizione del prodotto e del processo produttivo fornita dalla SITA: “prodotto tradizionale della provincia di Cremona, è un insaccato di carni suine stagionato per 90 giorni, da consumarsi crudo. Si presenta cilindrico con un diametro di 8-10 cm, lungo 20-30 cm, dal peso generalmente compreso tra 1 e 2 chilogrammi. Al taglio la superficie dell’impasto è di colore rosso vivo, compatto, con grana grossa e netta distinzione tra parte magra rossa e grassa di colore bianco. Gli ingredienti del salame sono: carne di maiale tra lombo e coppa di testa, sale, pepe in grani, aromi e spezie variabili da produttore a produttore, nitrato di sodio o nitrito.

Salame filzetta del Salumificio Gottardi Srl.

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Budello naturale: filzetta. Le fasi del processo comprendono: a. mondatura delle carni; b. preparazione della concia; c. triturazione a grana grossa dei tagli suini; d. trasferimento in impastatrice; e. unione dei tagli con la concia; f. miscelazione fino ad ottenimento dell’impasto omogeneo; g. trasferimento in insaccatrice; h. insacco meccanico; i. legatura a mano con spago; j. foratura del budello; k. asciugatura per 12 ore a 24°C; l. maturazione per 7 giorni a 1618°C; m. stagionatura a 12-14°C per un periodo di 90 giorni”. Un produttore del salame di Varzi DOP produce anche la filzetta Varzi (peso da 500 a 700 g, periodo minimo di stagionatura 45 giorni) e il filzettone Varzi (peso 950 g, periodo minimo di stagionatura 60 gg). Le prescrizioni produttive del salame Varzi sono le seguenti: 1) i tagli di carne che possono essere impiegati sono: spalla, coscia, lonza, filetto, coppa opportunamente snervata, pancettoni convenientemente mondati, triti di prima qualità. Il grasso da impiegare è esclusivamente quello del guanciale, della testata di spalla, del culatello e lardello, con esclusione dell’uso di carne congelata o comunque conservata; 2) la resa in pasta di salame si deve aggirare sul 28-33% del peso dell’animale vivo, non usando coppe e pancette; sul 35-40% se si usa la totalità dei tagli elencati in precedenza; 3) il rapporto di carne/grasso presente nell’impasto deve essere, per ogni 100 kg di carne magra, 40-45 kg (30-33%) di grasso; 4) la grana della carne e del grasso costituenti la pasta di salame deve corrispondere all’impiego di uno stampo con fori da 12 millimetri; 5) il budello da impiegarsi per l’insaccato deve essere di maiale e il prodotto ottenuto, opportunamente forellato, deve essere legato con spago a maglia fitta; 6) la miscela di salagione deve essere costituita da: sale marino, sodio,

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Salame filzetta del Salumificio Gamba Edoardo Srl. nitrato e/o sodio nitrito per quanto consentito, pepe nero solo in grani, infuso di aglio e vino rosso filtrato. Complessivamente i filzetta Varzi corrispondono alla definizione regionale del salame filzetta, pur non osservando le dimensioni della grana e, comunque, senza l’obbligo di usare sempre la filzetta p.d. come involucro. In Lombardia si producono altri prodotti denominati filzetta, come il salame di coscia definito “delizioso salame Brianzolo Filzetta a pasta magra”. Questo salame è prodotto con carne di coscia di suino e pancetta. Insaccato in budello naturale suino (non specificato), ha un sapore sincero, non agliato, non piccante; è prodotto a Oggiono, Lecco. O il salame filzetta prodotto in bassa Valtellina, preparato impastando tra loro carne suina, bovina, grasso e spezie, macinato a grana media e stagionato lentamente all’aria di montagna; dal sapore casereccio e genuino. Troviamo poi altri salami filzetta insaccati in involucro naturale suino, non specificati. Nella salamina di filzetta sotto grasso le carni esclusivamente suine grasse e magre della filzetta vengono macinate, insaccate in budello sottile, e messe sotto strutto fuso. Essendo insaccata in un budello relativamente sottile, la salamina di filzetta tenderebbe

ad indurirsi troppo: viene pertanto conservata sotto strutto fuso, che mantiene la morbidezza iniziale. Se non è conservata sotto grasso, deve essere consumata entro trenta giorni, e viene chiamata con nomi diversi: luganega, salamella, salamina, ecc… Non esiste una ricetta precisa, per cui le carni possono essere più o meno grasse. I coadiuvanti tecnologici sono sale, pepe e aromi naturali; gli additivi: salnitro, polvere di latte, lecitina di soia. La zona/e di produzione è il Mantovano, lungo il corso del Po e del Mincio. Un salame denominato salame con aglio (filzetta), infine, viene prodotto a San Giovanni del Dosso (MN) con queste caratteristiche: struttura di carne trita, crudo, fermentato; stagionatura media (10-60 giorni) per 45 giorni; forma: cilindrica; aspetto esterno: bianco grigiastro, superficie legata, infarinata; aspetto al taglio: grasso di colore bianco; parte magra di colore rosso vivo; consistenza uniforme; struttura a grana media (6-12 mm); spezie e aromi non evidenti; peso 350-1.200 g; ingredienti: carne bio (ritagli/rifilature di suino, coscia fresca); grasso (ritagli/rifilature, pancetta di suino); sale marino; saccarosio; aromatizzanti: aglio, pepe nero in polvere o macinato o tritato; involucro (naturale): gentile di suino; se venduto in Giappone: di equino;

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superficie: amido di riso; innesti Lactobacillus sake, Staphylococcus xylosus. Altro tipo di filzetta mantovano: per la produzione del salame vengono utilizzate solamente le rifilature dei prosciutti, spalle completamente sgrassate e denervate, accuratamente macinate con il calibro 8 che rende l’aspetto granulometrico rustico e tradizionale. La parte grassa composta dalle pancette fresche dei suini non deve superare il 25% del peso. La stagionatura minima è di sei settimane. Il budello in gentile di ottima qualità valorizza l’aspetto e il sapore del prodotto. Altri salami in filzetta prodotti fuor di Lombardia Salam gentil, salame gentile (PC) La zona di produzione comprende l’intero territorio della provincia di Piacenza. La materia prima è costituita da un impasto di spalla suina disossata, trito di prosciutto, magro di gola di suini nazionali, con aggiunta di sale, aromi e conservanti. La preparazione è effettuata tramite macinatura in tritacarne con stampo a fori di circa 6 mm di diametro. La salagione è effettuata con l’impiego di sale, zuccheri (saccarosio, destrosio), spezie, antiossidante e conservanti. Successivamente si procede al mescolamento accurato e quindi all’insaccatura in budello naturale suino (culare o gentile o filzetta), alla foratura dell’involucro e quindi alla legatura a passi radi. L’asciugatura è effettuata in ambienti a temperatura variabile tra i

13 e i 22° per garantire un’adeguata disidratazione del prodotto. La stagionatura è effettuata in ambienti con temperatura di circa 12-14°C con umidità relativa tra il 70 e il 90%, si protrae per un periodo minimo di 60 giorni dal momento della salatura. Salame Sfilsetta (Bassa parmense) Il salame Sfilsetta è un prodotto realizzato con carni suine fresche e mature. Si utilizza la parte che si trova tra il culatello e il fiocchetto, che è magra e leggermente nervosa. Ha una macina a grana media con una bella presenza di lardelli che conferiscono al prodotto morbidezza, profumo e dolcezza. Deve avere un colore rosso vivo al taglio e il grasso, perfettamente bianco, ben compatto con l’impasto. Il sapore deve essere dolce e delicato con un aroma caratteristico condizionato dal periodo di stagionatura. Le carni macinate vengono aggiunte di sale, pepe e aromi naturali secondo antiche e segrete ricette e quindi insaccate in budello suino parzialmente sgrassato con aceto e vino bianco.. Salame tipo Felino in filzetta Castel Guelfo (BO) È un salame insaccato in budello filzetta naturale con l’impasto del Felino. Il peso di ogni pezzo è di circa 1 kg. È lungo circa 40-45 cm. Il Fiorettino, Felina (RE) Il nome del prodotto, compreso sinonimi e termini dialettali, è salame Fiorettino. Il territorio interessato alla produzione è la provincia di Reggio Emilia, con particolare riferimento alla zona appenninica. La materia

prima è costituita dalla carne di suini nati in Italia, allevati e macellati nel territorio riconosciuto per i prodotti a DOP Prosciutto di Parma e Prosciutto San Daniele e ottenuta da allevamenti e da suini aventi le caratteristiche di quelli inseriti nella filiera produttiva delle predette denominazioni. I tagli utilizzati sono: per la parte magra il lombo, il fondello, la rifilatura magra del prosciutto, il sottospalla, i triti di banco; per la parte grassa il grasso del guanciale e della gola, i ritagli del prosciutto e della pancetta. Il lardo della zona dorsale è utilizzato per la preparazione dei lardelli. Altri ingredienti: sale, cannella, pepe in grani e pepe bianco in polvere, aglio, garofanino, macis. Possono venire impiegati anche noce moscata, rosmarino tritato. È consentita l’aggiunta di vino bianco o rosso nella misura massima di 250 ml/100 kg di impasto, nonché l’impiego di zuccheri (saccarosiodestrosio) nella quantità di 200 g/100 kg di impasto, specie se si utilizzano colture per l’avviamento della fermentazione, di acido ascorbico (50 g/q) e di nitrato(250 ppm)/nitrito di sodio (150 ppm). La carne è macinata con piastre a fori del calibro di 8 millimetri e ben amalgamata. La caratteristica distintiva del Fiorettino è l’aggiunta nell’impasto di lardelli non tritati, ma accuratamente tagliati a punta di coltello a cubetti con spigolo di 1 cm. Sono proprio questi ultimi che formano nelle fette il caratteristico aspetto del fiore, da cui, verosimilmente, deriva il nome del salame tipico. Per l’insacco viene impiegato il budello gentile di suino

Tabella 1 – Valori nutrizionali di salami filzetta Nutrienti

Salame filzetta di carne bovina/suina (tipo antico)

Salame filzetta di sola carne suina

Umidità

36%

36,93%

Proteine

25,3%

29,6%

25,58 ± 2

5,22%

35,5%

34%

28%

28,63 ± 2

15,77%

29,3%

0,20%

4,41 ± 0,2

2,75 ± 0,2

4,19%

408

365

359,96

216

415,7

1.717

1.527

1.494,04

899

1.740

Lipidi Carboidrati Ceneri Kcal Kjoule

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(eventualmente anche la cosiddetta filzetta o canna). Salame di filzetta gusto estense (Galliera, BO) A carne trita, crudo, fermentato, questo salame ha una stagionatura media (10-60 giorni) per una durata 40 giorni. La forma è cilindrica. L’aspetto esteriore: bianco, bruno con superficie irregolare. Dimensioni: lunghezza 25-35 cm, diametro 5-6 cm. Aspetto al taglio: grasso di colore bianco, parte magra di colore rosso vivo; consistenza uniforme; struttura a grana media (6-12 cm) compatta, spezie e aromi. Peso unità prodotto: 1 kg medio. Ingredienti: carni (ritagli/ rifilature) di suino, coscia, spalla; grasso (ritagli/rifilature) di suino; sale marino, aromatizzanti; zuccheri glucosio-saccarosio; additivi acido ascorbico (E300), nitrato di potassio (E252). Involucro (naturale), intestino tenue (digiuno) di suino. Filsa o filza (Siena) Detta anche pilza, è un salume ottenuto dalla parte magra del collo del maiale “capocollo”, stagionato ed aromatizzato con i fiori di finocchio. A metà stagionatura viene rincartato con carta paglia affinché non si disidrati troppo e l’aroma del finocchio penetri profondamente nella carne. La filza era l’affettato tipico della colazione di Pasqua da consumare con fette di schiacciata di Pasqua. Salame filzetta (Reggello, FI) Salame di antica tradizione; deriva dall’impasto di carne scelta di suino e di grasso suino duro macinato a grana di riso, insaccato in un budello e ben legato da uno spago o posto in rete. È un prodotto di media pezzatura conciato semplicemente con sale e aromi come pepe e aglio, stagionato per più di 8 settimane allo scopo di raggiungere una buona compattezza della parte grassa e magra. Il risultato è una consistenza compatta, di colore rosso rubino con granelli di grasso ben distribuiti. Si caratterizza per il un profumo deciso ed armonico e il sapore dolce e delicato. Si serve al naturale tagliato sottile, prevalentemente a macchina, con il pane.

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Salame lardellato marchigiano Per l’ottenimento del salame lardellato sono necessari i seguenti tagli di carne suina: spalla, prosciutto, trito di spalla e prosciutto (tagli magri); lardello, pancetta, triti di lardello e di pancetta (tagli grassi). Gli altri ingredienti che concorrono alla composizione del prodotto sono: sale marino, pepe nero in polvere, pepe nero in grani, aglio fresco, vino bianco o rosso proveniente da vitigni autoctoni marchigiani, chiodi di garofano, cannella. Il salame lardellato ha una pezzatura variabile da 400 a 1.200 grammi, forma cilindrica con circonferenza da 40 a 60 mm, lunghezza variabile da 300 a 700 mm; è rivestito con budello naturale: gentile o filzetta; si presenta compatto, con resistenza dura e non elastica, di colore rossastro; al taglio la fetta si presenta compatta ed omogenea con presenza regolare dei lardelli. I salami così preparati devono essere poi asciugati per un periodo che va da 6 a 7 giorni in condizioni microclimatiche controllate. La temperatura di partenza è di 18-23°C con una umidità relativa pari al 75-80%; gradualmente la temperatura deve essere abbassata, in modo tale che l’ultimo giorno di asciugatura sia contraddistinto da una temperatura di 12-16°C; a questo punto i salami possono essere trasferiti in sala di stagionatura. Il locale adibito alla stagionatura deve essere asciutto, fresco ed aerato con temperature comprese tra 12 e 16°C, al 75-85% di UR: qui i salami devono sostare per un periodo che va da 30 a 90 giorni. Salametti tipo ventricina I salametti tipo ventricina, dolci o piccanti, sono una variante della ventricina, salume che prevede l’aggiunta di peperoncino, dolce o piccante. La differenza con i salami ventricina sta nell’insaccatura che, in questo caso, prevede l’utilizzo di budello naturale di suino filzetta del calibro 55/60 legato a mano. La stagionatura è di circa 30-40 gg. La pezzatura va da 350 a 400 grammi. In base a quanto affermato all’inizio, questo salume va considerato come “ventricina in filzetta”.

Salame abruzzese pressato filzetta Un altro salame che utilizza la filzetta come involucro è il salame abruzzese pressato filzetta. Il budello filzetta Considerata l’importanza del nome del budello per la caratterizzazione del salume, è opportuno riportare la denominazione dei vari tratti dell’intestino suino con riferimento numerico alle tipologie di salumi producibili. Budella suine: 1. intestino tenue (o torto): da questo si ricavano i budelli denominati budellina, vianella, baggetta. Si utilizzano per salsicce, luganeghe, salsiccia fresca, würstel, verzini, toscanelli; 2. intestino retto (culare o gentile): con questo sono confezionati: salame Felino, salame fiorettino, salame Fabriano, salame mantovano, salame di San Felice; 3. intestino cieco (o muletta): i salumi avvolti da muletta sono: sopressa veneta, ’nduia calabra, salumi cotti, mariola, muletta, zia ferrarese, signora di Conca Casale. 4. intestino crasso (o diritto): da questo si ottengono involucri per corpo, crespone, sottocrespone, crespa netto, filzettone, filzetta liscia o ritta, tronchetti. I salumi prodotti sono: salame Felino, salame Milano, cotechino, salame di Varzi, sanguinaccio, salame piacentino, salame filzetta; 5. vescica (vesciche suine): con questa si insaccano: mortadella, bondiola, cotechini e salama da sugo. Come si è segnalato all’inizio, nell’Atlante dei prodotti tipici e tradizionali non è menzionato il tipo dell’involucro da utilizzarsi per il salame di filzetta. Dalla trattazione risulta che i due principali tipi di salame di filzetta sono preparati in Brianza e nel Cremonese. Quando si usa questo involucro (nel rispetto della trattazione), il prodotto può presentare una difficile pelabilità dipendente dalla provenienza della materia prima. Il budello filzetta, proveniente da suini leggeri allevati all’estero, ha una parete molto più sottile rispetto a quella del budello nazionale, che

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ha una parete più spessa ed è quindi pelabile più facilmente. La differenza nell’impiego riguarda i tempi di stagionatura; il budello estero permette una stagionatura più rapida mentre il salame nel budello naturale necessita di una stagionatura più lunga. La stessa difficoltà di pelatura si può presentare anche se si utilizza la filzetta pelata, budello al quale è stato tolto il doppio strato interno. L’asportazione accelera la stagionatura, ma indebolisce il budello, pur mantenendo le caratteristiche proprie del budello normale. Per completare gli aspetti tecnici si riportano i millimetri dei fori delle piastre del tritacarne usate per macinare le carni: le dimensioni dei fori iniziano da 4,5 mm fino a 6-8-12-14-16-18-20 mm. Per il salame filzetta si usano piastre con fori di numero 6 (8-12). Conclusioni Con l’introduzione del salame di filzetta nell’Atlante regionale dei prodotti tradizionali, la regione Lombardia ha cercato di individuare le caratteristiche fondamentali del prodotto, limitandosi poco all’indicazione delle materie prime, delle caratteristiche fisiche del salame e al tempo di stagionatura, escludendone altre fondamentali quali l’aglio e l’involucro filzetta, dal quale il salame prende il nome e che dovrebbe essere quindi evidenziato. Dall’esame dettagliato dei vari salami prodotti in Lombardia denominati “filzetta” emergono alcune differenze fondamentali, già tra il filzetta tipo brianzolo e quelli cremonese e mantovano. Anche tra questi esistono varianti. Pare trattarsi quindi di una categorizzazione omnicomprensiva poco soddisfacente e opinabile, considerato che prodotti similari, ma non identici, sono prodotti anche in Emilia e Piemonte. Per concludere, ripetendo, non si comprende il significato dell’attribuzione del nome di salame di filzetta quando nel salume, molto spesso, non v’è traccia di questo budello e si hanno differenze di marinatura e di dimensione. Carlo Cantoni Libero docente in Ispezione alimenti di origine animale

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La vera storia dello strolghino Nasceva nelle campagne emiliane una cinquantina d’anni fa, quando il salame scarseggiava perché non ancora sufficientemente stagionato e pronto per il taglio di Enrico Benassi

I

l nome “strolghino”, non so se inconsciamente o meno, compendia tutti i ragionamenti che faremo sulla sua origine. In dialetto si dice “strulghèn” e deriva dal verbo “astrologare”, che significa pensare qualcosa, avere un’idea. E chi l’ha inventato ha certamente ha avuto una buona idea! La sua origine risale all’Emilia di cinquant’anni fa. Allora i negozi di salumeria erano pochi e concentrati nelle grandi città mentre nei paesi tutti i salumi erano prodotti e commercializzati nelle macellerie. Da molte di esse ebbero origine quei piccoli nuclei di produttori artigianali ed i primi stabilimenti di produzione e commercializzazione degli insaccati. Di tutta la produzione, il più facile da realizzare, di minore costo e maggior consumo e vendita era certamente il salame, in quanto coppe, culatelli, spallotti, ecc… richiedevano stagionatura e quindi rischi, non solo di buona riuscita, ma anche di perdite di capitale. Ecco che, per far fronte alle richieste dei consumatori anche quando il salame scarseggiava perché non ancora sufficientemente stagionato e pronto per il taglio (ricordiamo che allora non esistevano le camere e gli attuali sistemi di stagionatura), qualche artigiano salumiere ha avuto l’idea di dar vita allo “strolghino”, che, per svariati motivi, non doveva confondersi con il salamino, anche se ne è parente prossimo. Stesso budello per l’insaccaggio dell’impasto, stessa circonferenza, lunghezza più prossima al salame, stagionatura di due o tre settimane al massimo… prezzo maggiorato!

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Lo strolghino, un ottimo antipasto. La sua nobiltà, rispetto al parente povero, viene da subito attribuita al tipo di carne impiegata, ovvero ritagli della coscia a seguito della preparazione del culatello. È però noto ai cultori che più il culatello è grosso migliore è la sua riuscita, quindi viene apprezzato di più.

Ciò ovviamente contrasta con gli atti di notorietà sopra dichiarati, in quanto per avere buoni strolghini occorrerebbero molti ritagli od addirittura tutta la polpa del re dei salumi. Qui si innesta pertanto il discorso commerciale e finisce la storia!

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Cotta o stagionata: l’importante è che sia mariola Il nome deriva dal budello utilizzato, di forma irregolare e bitorzoluta, particolarmente adatto per la conservazione delle carni. Oggi la versione cruda è presidio Slow Food di Giorgio Montanari

I

l Po, il fiume più lungo d’Italia, carezza le terre di Piacenza, Parma, Cremona e Mantova. Un tempo Zibello (patria del Culatello DOP) e Polesine erano paesi dell’Oltrepò cremonese, mentre oggi figurano sotto la provincia di Parma. Questa introduzione geografica è necessaria per delimitare l’attuale area produttiva della mariola, il prodotto analizzato in queste pagine: si tratta di un salume proveniente dalle tradizioni cremonesi e piacentine ma che deve parte della sua celebrità oggi alla Bassa parmense. La mariola è infatti riconoscente ad uno dei più rinomati produttori di salumi di Polesine, Massimo Spigaroli, dell’Antica Corte Pallavicina, battutosi per tutelare questo antico prodotto che sarebbe altrimenti stato oggetto di registrazione esclusiva del marchio da parte di un operatore lombardo. Il noto imprenditore parmense ha difeso, insieme alla collaborazione di contadini, salumieri e sindaci di paese, la tradizione della mariola rendendone la versione cruda, ossia quella più difficile da preparare, addirittura un presidio Slow Food. Ma procediamo con ordine… Già a metà del XIX secolo vi sono tracce del termine “mariola” su pubblicazioni locali. Il nome deriva dal particolare budello utilizzato (l’intestino cieco del suino), di forma irregolare e bitorzoluta, caratterizzato da pareti doppie fra cui si interpone uno strato di grasso. Tale peculiarità permette all’impasto di essere

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conservato più a lungo in cantina, contribuendo dunque alla conservazione dei profumi tipici del salume e preservandone la giusta morbidezza nel periodo di affinage.

Esistono due versioni di mariola: una da consumare cruda (previa stagionatura che, dai 3 mesi, può portarsi addirittura ad un anno), più una variante da cuocere (che ha una

Mariola cruda. Il nome deriva dal particolare budello utilizzato che ne permette lunghe stagionature (dai quattro mesi fino ad un anno).

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composizione di carni differente). Il Presidio valorizza esclusivamente quella cruda che, come da tradizione, viene lavorata nella zona fra l’Appennino piacentino e la Bassa parmense. Si ritiene che la mariola nasca come salume “nobile” destinato ad un “pubblico” benestante. Vista la complicata lavorazione e, soprattutto, il prolungato periodo di stagionatura, il rischio di riscontrare difetti a maturazione avvenuta era alto: solo un acquirente ricco poteva dunque permettersi il lusso di gettare simile bendidio nel caso non fosse stato di suo gradimento. Per evitare questa evenienza nacque quindi la versione da cuocere. Per la preparazione della mariola cruda, quella apprezzata dai “puristi”, si utilizzano carni dei suini pesanti, prevalentemente parti magre (spalla, stinco), che vengono tritate a grana fine, conciate con sale, aglio ed aromi, e successivamente insaccate nel già menzionato budello naturale. L’involucro permette al salume di prolungare la stagionatura dai quattro/sei mesi fino ad un anno (come richiesto dal presidio Slow Food). Attualmente solo pochissimi artigiani possono permettersi di utilizzare la materia prima tradizionale (suini locali delle razze Nera parmigiana o Mora romagnola) portando il salume a stagionature così prolungate. Al termine di una lavorazione effettuata “a regola d’arte”, la mariola si presenta come un salame stagionato di grandi dimensioni (sopra il chilogrammo), dall’aspetto cilindrico allungato ed irregolare (per via del budello naturale), con la dovuta piumatura superficiale e con un solco in corrispondenza dello spago. Al taglio è compatta e sprigiona il tipico “olio” (come accade per altri salami stravecchi); l’equilibrato mix fra carni magre e grasse dona alla

Esemplari di Nera parmigiana. mariola un colore rosso cupo; al naso risaltano profumi intensi, lievemente speziati, con un vago richiamo a sentori di fungo; in bocca vince un sapore deciso, complesso, ed un persistente retrogusto. Preparato all’inizio della stagione autunnale, vista la lenta e complessa maturazione, la mariola completa il ciclo dei salumi. Ideale se abbinata a formaggi locali (specie se stagionati come il Parmigiano Reggiano DOP) oppure ad altri salumi del Ducato, si consiglia di accostarla ad un bicchiere di Fortana, un rosso frizzante originario della Bassa parmense. Per quanto concerne la versione da cuocere, questa declinazione di prodotto potrebbe ricordare un cotechino di dimensioni enormi (oltre il chilo e mezzo di pezzatura in quanto il budello impiegato, lungo circa 20 centimetri, è lo stesso della versione cruda). La sua ricetta include alcuni tagli suini differenti rispetto alla versione stagionata (mu-

“Per la preparazione della mariola cruda, quella apprezzata dai puristi, si utilizzano carni dei suini pesanti, prevalentemente parti magre (spalla, stinco), che vengono tritate a grana fine, conciate con sale, aglio ed aromi, e successivamente insaccate nel budello naturale” Premiata Salumeria Italiana, 1/13

setto, lingua), una quantità di grasso superiore, la presenza delle cotenne, l’impiego di spezie quali noce moscata e cannella. Terminata l’operazione di insacco la mariola da cuocere subisce una fase di asciugatura (circa due settimane) al termine della quale è pronta alla vendita. Il prodotto va consumato previa cottura di circa tre ore in abbondante acqua calda (magari con l’aggiunta di sedano, carote, cipolle e vino bianco secco). Da servire in fette spesse circa mezzo centimetro, la mariola cotta ha consistenza gommosa ma compatta ed è di colore rosato (più chiaro rispetto alla tipologia stagionata). Dal profumo delicato ed avvolgente, dal sapore dolce e vellutato, ricorda sia un cotechino (ma è più magra e digeribile) sia un salame cotto (non così asciutto). Disponetela al centro del piatto, vicino ad una porzione di purè, di fagioli in umido o di mostarda (se si apprezza l’abbinamento con sapori che “pizzicano” il palato), la mariola cotta si accompagna in maniera paradisiaca con un bicchiere di rosso frizzante (Fortana o Gutturnio piacentino). Cotta o stagionata: l’importante è che sia mariola! Giorgio Montanari

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Pezzente… a chi? In Basilicata è un salume povero, realizzato con i tagli meno nobili del suino macinati a grana grossa e poi mescolati a sale, peperone dolce macinato, semi di finocchietto selvatico e aglio. Si consuma con buon pane casereccio o nel sugo della pasta di Michele Bracieri

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uando nel 1931 veniva pubblicata la prima edizione della Guida del Touring Club, riferimento nel panorama gastronomico italiano di quei tempi, già si riportavano notizie che riguardavano il “pezzente materano”. Questa salsiccia, prodotta nel medio Basento e nelle foreste della montagna materana, viene realizzata con una razza suina autoctona, il Nero di Lucania, che in tempi lontani viveva numerosa nell’area collocata nel Parco Naturale di Gallipoli, una delle zone incontaminate e più ricche di risorse minerali del territorio italiano. Il nome di questo insaccato, “pezzente” o “povero”, va ricercato nella sua origine contadina: era infatti ottenuto mettendo insieme le parti eccedenti della lavorazione del maiale come fegato, milza, polmoni, nervetti, muscoli, stomaco e grasso residuo. Queste componenti venivano poi fatte a strisce e tritate, mentre i tagli più “nobili” erano utilizzati per produrre pancette, guanciali e soppressate. Il pezzente era quindi l’ultima salsiccia preparata dalla macellazione del maiale, ricavata dal grasso in avanzo, e anche per questo motivo veniva utilizzato soprattutto in cucina per insaporire zuppe e ragù, grazie al suo gusto caratteristico conferito alla carne attraverso l’aggiunta di polvere di peperone dolce di Senise, o peperone piccante, sale marino, trito di aglio fresco e finocchio selvatico. Tutte le operazioni della lavorazione vengono ancora oggi compiute in maniera manuale e la fase più delicata è senza dubbio quella che i materani chiamano “arricciatura”:

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amalgamare carne e concia, operazione che deve essere compiuta manualmente con grande energia fino a far diventare l’impasto completamente omogeneo. Il tutto viene poi insaccato nel budello di maiale e conservato nella “sugna” fresca o nell’olio d’oliva, oppure appeso in un luogo asciutto. La produzione del pezzente avviene ancora oggi da novembre a marzo. La salsiccia viene utilizzata soprattutto per preparare il sugo rosso della pasta fatta in casa, oppure accompagna verdure tipiche della zona, come la scarola, la bietola, la cicoria, il cavolo e il cardo mariano. Tuttavia, il modo più comune di consumarla è tagliata a fette e accompagnata con del buon pane casereccio. Per essere mangiata cruda deve stagionare almeno venti giorni, mentre se la si vuole cucinare possono

bastare due settimane. Il risultato sarà un insaccato dal profumo caratterizzato da una miscela di spezie ben distinguibili all’olfatto, morbido al palato e dal gusto armonico ed equilibrato. Purtroppo i produttori del pezzente tradizionale attivi in quest’area si contano sulle dita di una mano, essendo la ricetta originaria legata ad animali allevati allo stato brado nei boschi che circondano i comuni di Accettura, Aliano, Calciano, Cirigliano, Garaguso, Gorgoglione, Oliveto Lucano, Stigliano e Tricarico. Ecco perché la Regione Basilicata, che vanta una grande tradizione in questo settore (i Lucani sono stati tra i primi salumieri della storia, non a caso in epoca romana il termine “lucaniche” definiva tutti i tipi di insaccati), ha inserito il pezzente nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani

Il pezzente materano. Premiata Salumeria Italiana, 1/13


insieme al Caciocavallo podolico, alla melanzana rossa e all’oliva infornata di Ferrandina. Il pezzente della montagna materana ci permette di riflettere su alcune trasformazioni del settore alimentare in Italia: con il boom economico degli anni Sessanta la produzione di alimenti considerati “poveri” è andata via via scomparendo a vantaggio della produzione su ampia scala, ma negli ultimi anni si sta manifestando una nuova sensibilità, che premia la qualità e la tradizione. Quello che veniva considerato il cibo dei poveri e che sostituiva la carne sulle tavole dei contadini è diventato oggi un prodotto ricercato dalla grande cucina nazionale, a dimostrazione di come una nuova sensibilità in campo alimentare, favorita anche dall’industria del gusto, si stia lentamente diffondendo. Michele Bracieri

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I produttori del Presidio Pancrazio Cetani Via Appia s.n.c. – Località Santa Maria 75019 Tricarico (MT) Telefono: 0835 725022 – 347 9141282 E-mail: pietrocetani@alice.it Don Francesco di Francesco Schettino Via Tuzio, 9 – 75018 Stigliano (MT) Telefono e fax: 0835 561509 E-mail: f.schettino@donfrancesco.it Web: www.donfrancesco.it Sapori Mediterranei di Giovanni Ciliberti Via Regina Elena, 58 75010 Cirigliano (MT) Telefono: 0835 563028 E-mail: info@saporimediterranei.net Web: www.saporimediterranei.net

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Interviste

Dal 2005 il Salumificio Bertoli è insieme a CSB-System Intervista ad Edoardo Bertoli, amministratore del Salumificio Bertoli

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ttivo da ormai 60 anni, il Salumificio Bertoli di Pontoglio (Brescia) vanta una produzione di qualità che, attingendo alla più grande tradizione italiana, comprende tutti i prodotti tipici del territorio (salame, pancetta, coppa stagionata), la salumeria fresca, le carni fresche di suino e la commercializzazione di prodotti DopIGP come prosciutto crudo, speck, bresaola. Già da tempo il Salumificio Bertoli impiega il software gestionale CSB-System. Abbiamo intervistato EDOARDO BERTOLI, che insieme al fratello Umberto dirige oggi l’impresa fondata dal nonno, per conoscere la sua esperienza diretta con l’utilizzo del sistema informatico nell’attività quotidiana dell’azienda. Sig. Bertoli, quando avete adottato il software CSB-System? E perché avete scelto proprio il CSB-System e non altri pacchetti gestionali? Il mercato offre in fondo numerose soluzioni informatiche, dalle più artigianali a quelle di maggior prestigio e fama… «Abbiamo implementato la soluzione CSB-System in azienda nel 2005 — risponde Edoardo Bertoli — quando

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abbiamo dovuto adeguarci alle normative europee sulla rintracciabilità dei prodotti alimentari. Prima di decidere per il CSBSystem, abbiamo in effetti valutato diversi software. Quello che ci ha convinto del CSB, che tuttora si rivela la carta vincente di questo sistema, confermandoci sempre più che abbiamo fatto la scelta giusta, è il fatto che il software è nato ed è stato sviluppato in maniera specifica per le aziende di lavorazione della carne. Non è, cioè, un gestionale generico da adattare poi in qualche modo alle procedure dell’azienda. Spesso, anzi, con tanti sistemi informatici succede il contrario: è l’azienda che deve forzare le sue procedure per adattarsi alla rigidezza del software, che ormai si è acquistato con tale investimento da non poter più tornare indietro… Il CSB, invece, conosce esattamente i processi ed il modo di operare, fin

nel dettaglio, delle imprese come la nostra che trattano carne». Come si svolge la vostra attività? Quali moduli CSB avete implementato? «Attualmente vengono elaborati circa 160 ordini al giorno, con la preparazione di ceste e cartoni multiprodotto. Il modulo CSB per i contenitori a rendere ci ha permesso una gestione più efficace riducendo di oltre il 50% le perdite di ceste. Gli ordini vengono raccolti dai rappresentanti mediante la soluzione mobile del sistema su terminali portatili ed inviati in sede a qualsiasi ora e da qualsiasi luogo. La forza vendita ha quindi sempre con sé i dati aggiornati circa le condizioni applicate, le offerte in corso e le personalizzazioni del cliente. Il sistema durante la notte controlla la congruenza di condizioni/

Edoardo Bertoli, amministratore del Salumificio Bertoli.

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Tutto lo staff del Salumificio Bertoli è entusiasta della comodità, praticità ed efficienza del CSB-System. A sinistra: Umberto Bertoli. Al centro: Edoardo Bertoli, con il padre ed il fratello Umberto. A destra: Edoardo Bertoli. quantità/prezzi per trasmettere poi gli ordini al mattino ai primi addetti che iniziano il turno. Grazie all’integrazione del sistema con le bilance e le peso-prezzatrici, siamo in grado di offrire etichettature di prodotto e/o di cartone secondo le specifiche richieste dal mercato, in modo assolutamente trasparente per l’operatore del reparto di confezionamento. Questo naturalmente significa meno errori e, soprattutto, meno costi e maggiore soddisfazione del cliente. Mediante l’uso dei codici a barre in standard EAN128, le informazioni relative alle caratteristiche del prodotto, come il suo codice, il peso, il numero di lotto e la data di scadenza, sono utilizzabili anche dal cliente, rendendo quindi l’obbligo di legge della tracciabilità e rintracciabilità un’operazione facile, veloce ed economica. L’utilizzo dei moduli CSB di contabilità industriale ci consente inoltre di effettuare simulazioni di variazione sulle distinte base, per valutare opzioni o prodotti diversi, oppure di verificare l’impatto sui costi finali delle variazioni di costo di uno o più componenti di un prodotto, o anche di valutare l’incidenza della variazione dei costi energetici o del personale, senza andare a manipolare i dati della produzione reale». Se dovesse sintetizzare in poche parole il vantaggio fondamentale che deriva per Voi dall’impiego del CSB?

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«Direi la velocità, cioè evasione di più ordini in meno tempo con lo stesso personale. Siamo un’azienda piccola: dobbiamo puntare al servizio veloce e all’ultimo minuto per soddisfare le richieste dei nostri clienti senza commettere errori o dimenticanze. Per questo abbiamo bisogno di avere disponibili dati sempre aggiornati sulla nostra giacenza/produzione e di poterci affidare ad un sistema centralizzato e non alle singole persone. Il CSB ci dà questa garanzia». Ma il CSB è un sistema flessibile? O è un monolite inaccessibile? «Proprio questa è la caratteristica fondamentale del CSB-System: la flessibilità. Nel sistema confluiscono tutte le personalizzazioni programmate dalla CSB per i suoi clienti. Queste possono essere attivate o meno, tramite parametrizzazioni, in base alle necessità dell’azienda, che è libera di fissare le sue procedure specifiche, lasciando a pochi utenti interni la possibilità di modifiche e variazioni. Il sistema è, cioè, al contempo flessibile ma garantito da manipolazioni». Si può immaginare che un sistema così sia anche molto costoso… «Il CSB non costa poco, ma la spesa iniziale è immediatamente ammortizzata, perché l’utente diventa subito autonomo nell’utilizzo del programma. Alla lunga, cioè, non ci sono negli anni costi nascosti derivati

da interventi di consulenza non previsti ma necessari per proseguire la propria attività. Anche modifiche di moduli stampa, etichette, ecc… sono fattibili direttamente. L’utente ha insomma da subito gli strumenti per provvedere alla gestione del sistema secondo le sue esigenze». Possiamo dire che la CSB-System è allora un partner affidabile? «Mi sento proprio di rispondere affermativamente a questa domanda e senza esitazioni. La CSB è nata nel settore della carne ed è quindi attenta alle sue esigenze che saranno sempre rispettate anche con le inevitabili modiche ed evoluzioni dei mezzi tecnologici di supporto». Concludendo? «Concludendo, posso solo riportare le parole di mio padre, che pur essendo uomo della vecchia generazione, quella in cui si faceva tutto a mano senza computer, vedendo i risultati raggiunti con il CSB-System, mi ha detto: “Perché non l’abbiamo fatto prima?”». Referente: • A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: segreteria@csb-system.it Web: www.csb-system.it

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Falaschi: ricordare per ripensare il futuro, anche in salumeria Il progetto di Slow Food e Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo “Granai della Memoria” ci dà una nuova ed affascinante lettura storico-antropologica dei saperi del mondo. Ne parliamo con uno dei protagonisti: Sergio Falaschi, titolare dell’omonima macelleria toscana

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l progetto “Granai della Memoria” è un ambizioso percorso scientifico e didattico di Slow Food e Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, realizzato con lo scopo di raccogliere e comunicare in video le cosiddette “memorie del mondo” attraverso un complesso archivio multimediale, utilissimo sia per tutti i professionisti del settore che per i profani interessati all’argomento. Le interviste, raccolte nel corso di lunghe e approfondite ricerche, condotte in Italia e all’estero, riportano testimonianze di contadini, operai, artigiani, imprenditori, partigiani, ecc… Tra gli altri spicca la figura di Sergio Falaschi, titolare e gestore insieme ai famigliari dell’omonima storica macelleria di San Miniato, in provincia di Pisa, testimone “attivo” di vecchi saperi e tradizioni orali in qualità di responsabile dei produttori del presidio Slow Food del “Mallegato di San Miniato”. Durante la sua intervista Sergio è riuscito a trasporre il video la sua originale “dimensione interpretativa” del mangiar sano e sicuro, le sue scelte fatte in ambito lavorativo per rispondere a quell’urgenza di conoscere, meglio interpretare e comunicare la gastronomia di un’Italia ricca e varia. La video intervista è stata poi accompagnata da un video documentativo delle fasi vere e proprie di preparazione del mallegato, realizzato all’interno del laboratorio artigiano della macelleria. Abbiamo incontrato Sergio Falaschi e gli abbiamo chiesto diretta-

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mente qualcosa di più su quelle che sono le basi del suo lavoro e di quel recupero della tradizione, e quindi della memoria, che lo ha reso custode di saperi e prodotti da salvaguardare dall’ingiuria delle mode e del tempo. Iniziamo dalla macelleria: quali sono i principi su cui si fonda la sua attività quotidiana, i concetti alla base delle sue scelte professionali? «La macelleria-norcineria Sergio Falaschi è attiva sin dal 1925 ed è giunta oggi alla quarta generazione di “maestri macellai” — rappresentata da mio figlio Andrea — rispettando le regole e i metodi di lavorazione tradizionali, mantenendo rapporti

di collaborazione privilegiati con i produttori e con le aziende agricole del nostro territorio. Queste decisioni hanno contribuito nel tempo a dare visibilità a quel processo che oggi ha preso il nome di filiera corta, di tracciabilità, consentendoci, nel corso di 88 anni di attività, di instaurare un esclusivo rapporto di chiarezza e fiducia con i nostri clienti. Da tempo abbiamo iniziato un lungo percorso fatto di prove e sperimentazioni che ci hanno consentito di realizzare prodotti di ottima qualità, sempre seguendo il percorso di filiera corta e rispettando quel concetto fondamentale per noi che è rappresentato dalla biodiversità».

I mallegati.

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Focus mallegato: di che cosa si tratta esattamente? «Innanzitutto vorrei ribadire che tutti i nostri salumi sono prodotti e lavorati esclusivamente a mano, con la cura tradizionale che è la nota che li contraddistingue oramai da decenni. Uno di questi prodotti, particolarmente rappresentativo di queste istanze protezionistiche della cultura tradizionale, è appunto il mallegato di sangue, del cui presidio Slow Food la Macelleria Falaschi rappresenta il responsabile dei produttori. Il mallegato è un insaccato che appartiene alla variegata ed un tempo amplissima famiglia italiana dei sanguinacci. Quelli prodotti nella zona che va da San Miniato a Volterra prendono questo nome dalla particolarità di essere legati “lenti”. Si produce da ottobre a febbraio, utilizzando sangue freschissimo di maiale». Un prodotto che sembra riemergere dalle nebbie di un passato lontanissimo, un tempo in cui del maiale davvero non si buttava via nulla… «Il sanguinaccio è l’insaccato anti-moderno per eccellenza mentre un tempo era considerato il modo più semplice ed economico per assumere ferro e proteine. La versione classica prevede di insaccare il sangue crudo con l’aggiunta di lardelli di suino, tagliati in piccoli cubetti ed eventualmente saltati nel Vin Santo o nel vino bianco. Si procede poi con l’aromatizzazione con noce moscata e cannella, si aggiungono uvetta sultanina e pinoli, quindi si mette il sanguinaccio nel pentolone a bollire, sino a raggiungere una temperatura di 90°C, al fine di ottenere una giusta consistenza». Come è nata la collaborazione con Slow Food e il conferimento del presidio al mallegato? «Innanzitutto occorre ricordare che i presidi sono prodotti selezionati dalla Fondazione Slow Food per la Biodiversità onlus, che si avvale nelle sue valutazioni di una commissione tecnica costituita da esperti in varie discipline. I presidi sostengono le piccole produzioni eccellenti che rischiano di scomparire, valorizzano territori, recuperano mestieri e tecniche di

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Lina Falaschi nel backstage del video “I Granai della Memoria”. lavorazione tradizionali… Il presidio del mallegato in particolare nasce con il patrocinio della Regione Toscana ed è sostenuto dalla Provincia di Pisa, dal Comune di San Miniato “Città Slow” e dalla Comunità Montana Alta Val di Cecina in quanto prodotto tipico, tradizionale e gastronomicamente molto interessante, dunque meritevole di valorizzazione. La problematica incontrata inizialmente è stata quella di individuare una tecnica lecita per la lavorazione del sangue. Grazie alla collaborazione con il Consorzio Macelli di San Miniato e il distretto ASL di zona, abbiamo messo a punto un sistema di prelievo del sangue direttamente dalla giugu-

lare del suino, con coltello aspirante. Un espediente tecnologico che ha consentito nuovamente la produzione di mallegato. La cosa bella è che con la nascita del presidio si sono create nuove e interessanti sinergie con istituti di ricerca tra i più rinomati, quali ad esempio l’Università Bocconi di Milano, che ha pubblicato una sua ricerca sui presidi italiani sulle pagine de Il SOLE 24 ORE. Inoltre, i rapporti con la Regione Toscana e l’Arsia di zona si sono oltremodo consolidati negli anni, proprio grazie a progetti come questi ed al forte legame che hanno creato con i territori d’origine, contribuendo ad una loro più ampia e ricca valorizzazione».

La definizione “Granai della Memoria” affonda le sue radici nel mondo contadino: la riserva alimentare frutto del lavoro dell’anno agrario, dispensa di cose di prima necessità per superare il lungo periodo invernale in cui la terra è sterile e per molti mesi non genera frutti. Lo scopo del progetto è quello di raccogliere e comunicare in video le memorie del mondo attraverso un archivio multimediale. Le video-interviste raccolte nel corso di lunghe e approfondite ricerche riportano testimonianze di contadini, artigiani, anziani, imprenditori, partigiani o artisti e sono visibili in rete sul sito web www.granaidellamemoria.it. Vedendo questi filmati ci si imbatte in memorie di realtà, di universi a cui molte volte è stata negata la parola. Memorie intese non solo come sguardo sul nostro passato, ma strumento per ri-pensare e ri-modellare il futuro. L’archivio in rete “Granai della Memoria” rappresenta una nuova e affascinante lettura storico-antropologica dei saperi del mondo. >> Link: www.granaidellamemoria.it

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Premiate Salumerie Italiane

Lo stile vincente Langhiparma Dopo Gargnano e Lomazzo, anche a Seregno approda il format della bottega d’arte norcina a marchio Langhiparma. Entusiasti Luca Masciari e Mara Alunni, gestori del locale dove protagoniste sono le eccellenze emiliane di Riccardo Lagorio

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a crisi, che a seconda dei punti di vista e della condizione in cui ci si trova, è reale o lontana come il mondo delle fate, ci terrà compagnia ancora per anni. Forse non se ne andrà mai. La crisi, quella economica, dico: impossibile da governare per alcuni, un’occasione per aguzzare l’ingegno per altri. Tra questi, Alberto Isi, elfo dallo sguardo sagace e appuntito, per anni chef, ora imprenditore. «La ristorazione non ce

la fa più? È soprattutto il costo del personale, che si concentra per poche ore al giorno, che affligge il finanziatore? Allora spalmiamo quel costo lungo un periodo di tempo», ci fa capire Isi. Ma soprattutto le spese alimentari non sono del tutto comprimibili, in questo Paese che ancora sventola la bandiera del buon gusto in cucina. Allora perché non costruire intorno al ristorante un bar, una salumeria, un negozio per fare originali regali

gastronomici dove il pubblico può entrare tutto il giorno? Furono queste le considerazioni che spinsero Alberto a rispolverare un suo antico progetto. Messi insieme la lombarda Sonia Verri e altri tre soci, importanti imprenditori provenienti dal settore dall’alta finanza con all’attivo una società, la Five Sixty, che si occupa di sviluppo d’imprese di altro livello, ecco prendere vita Langhiparma, un’idea di ristorante che non è solo ristorante,

Il punto vendita Langhiparma di Seregno (MB). Situato in pieno centro, davanti al parcheggio comunale, il locale è ampio, spazioso e molto luminoso. Particolare l’area bimbi, dove tutto è su misura.

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In alto: a sinistra, i due fondatori di Langhiparma, Sonia Verri e Alberto Isi. A destra: la sala ristorazione di Seregno. In basso: prosciutti di Parma, una delle eccellenze emiliane che è possibile assaggiare nei locali Langhiparma.

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di bottega che non è solo bottega, di bar che ancor meno è bar. Nell’inconscio collettivo degli Italiani ghiottoni, ma non solo, Langhirano e Parma ricordano le meraviglie golose suine, i prosciutti, gli strolghini e le coppe, e casearie, il Parmigiano. Così nei tre Langhiparma aperti sinora, sul porticciolo della graziosa Gargnano, sul versante bresciano del Garda, a Lomazzo nel Comasco e a Seregno, è facile l’incontro con un Prosciutto di Parma DOP stagionato per oltre 24 mesi, con un salame Felino, con ciccioli, coppa, Culatello di Zibello DOP, lardo, Parmigiano Reggiano DOP di montagna almeno 28 mesi, Aceto Balsamico di Modena IGP e Aceto Tradizionale di Modena DOP, sottoli, vini, birra con mosto di lambrusco o malvasia, nocino, bargnolino in stile strettamente emiliano. Unica concessione per l’olio, del Garda bresciano. Come ricorda Isi, l’inizio, quattro anni fa, non fu semplice. Bisognava farsi conoscere dai fornitori, che avevano legittime perplessità sulla buona riuscita dell’operazione. «Ora che il mercato ha riposto in maniera favorevole e che il sistema della ristorazione arranca, tanti vorrebbero entrare a far parte del nostro parco fornitori» conclude orgoglioso. Prodotti selezionati attentamente che si possono consumare seduti ai semplici e garbati tavoli o che si scelgono dal bancone per prepararsi uno spuntino o una cena comodamente a casa. Da sottolineare il fatto che il 99% dei prodotti (l’unica eccezione è rappresentata dagli oli) è Langhiparma, così il cliente è propenso a rintracciare il marchio per gli acquisti futuri in quanto garanzia di qualità. «Prosciutto e Parmigiano sono un biglietto da visita ovunque si vada e, assieme ai prodotti, vorrei poter esportare il modo di vivere che ci sta dietro» sottolinea Isi. Laborioso e gaudente, parafrasa l’estensore del pezzo. «Nel nostro piano di sviluppo ci sono infatti 50 punti vendita e lo sbarco in Germania, in Russia e Gran Bretagna ci sembra sempre più a portata di

Mara e Luca nel punto vendita Langhiparma a Seregno. mano. Del resto abbiamo studiato con molta cura come aprire i punti vendita. Il quadro normativo che li regola è l’affiliazione commerciale. Si trova il locale idoneo, si arreda secondo lo stile di Casa Langhiparma e l’affiliato diventa e rimane socio» spiega Isi. Entusiasti ad esempio della scelta di avere aperto un punto Langhiparma a Seregno sono Luca Masciadri e Mara Alunni, ex impiegata in uno studio grafico che ha voluto mettersi alla prova e diventare imprenditrice con rischi contenuti. «Qui da noi l’accoglienza è aperta e informale, familiare. Pur mantenendo le peculiarità che contraddistinguono i Langhiparma, con gli spartiti scritti da Verdi, diretti da Toscanini e cantati dalla Tebaldi dipinti sulle pareti, abbiamo costruito un luogo di ritrovo moderno e di conversazione per colazioni, aperitivi, merende, pranzi di lavoro, cene e dopo cene ad orario continuato». Una bella idea è che nei Langhiparma hanno voluto togliere di mezzo il coperto: uno paga per quel che mangia, pesato sulla bilancia del bancone. Entri, scegli, ti accomodi. Paghi per quel che consumi. Per quanto riguarda i primi piatti, essi pure fanno parte della tradizione emiliana: anolini di carne in brodo, tortelli alle

Langhiparma Corso Matteotti, 68 Seregno (MB) Tel.: 0362 230727

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Langhiparma Piazza Feltrinelli, 8 Gargnano (BS) – Tel.: 0365 790006

erbette, alla zucca, al culatello, torta fritta, lasagne, gnocchi, melanzane alla parmigiana. Ovviamente anche i primi piatti possono essere da asporto. «La preparazione delle pietanze è centralizzata a Parma. Esse vengono poi stoccate nella piattaforma di Limido e quindi non si devono avere preparazioni specifiche per stare in cucina. La sostituibilità di ciascuno è l’elemento fondamentale per il funzionamento dei nostri Langhiparma» afferma Alberto Isi, orgoglioso di aver creato una formula che si sta rivelando vincente. E che ha in programma tante altre novità: come l’imminente inaugurazione di Casa Langhiparma a Limido Comasca, 1500 metri di palazzina con piattaforma logistica, sale formazione e preparazione, uffici e show room, vero cuore e motore di tutta l’impresa; e, ancora, nel mese di aprile, l’apertura del quarto Langhiparma a Varese, in pieno centro, o, ancora prima, a partire da marzo, l’e-commerce on-line nel nuovissimo sito. La crisi, quella economica, non è riuscita a scalfire l’entusiasmo di Alberto Isi, segno che si tiene lontana dalle buone idee come quella di Langhiparma. Riccardo Lagorio >> Link: www.langhiparma.it

Langhiparma Via Monte Bianco, 14 Lomazzo (CO) – Tel.: 0296 779192

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Premiata Salumeria Italiana, 1/13 OCCELLI AGRINATURA srl - Reg. Scarrone, 2 - 12060 Farigliano (CN) - Tel. +39 0173 74.64.11 - www.occelli.it

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Macellerie d’Italia

“Non solo carne”: sopra è sì macelleria, ma sotto c’è di più… “Non solo carne” e “La cantina del macellaio”: a Gioiosa Ionica alla macelleria si unisce la cantina, non solo per la stagionatura, ma anche per la degustazione. Otto portate di carne alla griglia, salumi e prodotti tipici, rigorosamente locali di Federica Cornia

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na salsiccia stagionata, lunga da 1 a 3 metri a seconda del numero delle persone presenti, sistemata a centro tavola. Tutt’attorno salumi appesi, formaggi e vino. Potrebbe essere il mitico paese di Bengodi, invece si tratta di un luogo reale, dove a un certo punto uno dei fratelli Magnoli

apparirà e taglierà per voi qualche fetta di questo prelibato salume fatto in casa. Siamo a Gioiosa Ionica, in provincia di Reggio Calabria, comune che conta poco più di 7.000 abitanti. Un posto davvero speciale, a metà strada tra mare e monti, 120 m d’altitudine, pochi chilometri la separano dalla costa, la Riviera dei

Gelsomini, bagnata dallo Ionio. Qui in paese è da almeno 60 anni che la famiglia Magnoli gestisce una macelleria e tratta di carne: «Mio padre, mio nonno e il mio bisnonno erano macellai» ci dice Cosimo, che oggi si occupa dell’attività assieme al fratello gemello Antonio. Proprio come dice il nome stesso, “Non solo

Antonio e Cosimo Magnoli nei locali sotto la macelleria “Non solo carne” che ospitano “La cantina del macellaio” a Gioiosa Ionica.

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La ben rifornita “cantina del macellaio”. Proprio sotto la macelleria, piccola e accogliente, gli avventori che vanno a cena si troveranno immersi in un vero e proprio paradiso gastronomico fatto di salumi, formaggio e vino. carne”, oltre alla carne di vario tipo — bovina, suina, equina, avicunicola, ovina — offre un’ampia scelta di salumi. E se non riuscite ad acquistarli durante il giorno potete scendere in cantina e assaggiarli — e perché no poi comprarli — la sera. Infatti, “Non solo carne” sopra è sì macelleria, ma sotto c’è di più: “La cantina del macellaio”. Da 11 anni la famiglia Magnoli propone infatti anche salumi di produzione propria, lavorati e stagionati, come si suol dire, “in casa”. E tutto per pura passione, per lo più di Cosimo che per vini e salumi ha dichiarato di avere da sempre un grande amore. Dal piano superiore al piano inferiore il passo è breve e carni e salumi arrivano al consumatore in tutta la loro squisita “quintessenza”: dalla

cantina salgono in macelleria capocollo, lombo, pancetta, guanciale, soppressata, salsiccia a completare la gamma della carne fresca, cui s’affiancano classici del pronto a cuocere come cotolette, involtini, polpette. Dalla macelleria scendono tagli di carne fresca, tutta da animali cresciuti in zona da allevatori locali. E se in macelleria si lavora e si vende un po’ di tutto, d’inverno però vince il maiale, che viene utilizzato per fare i salumi nei mesi di gennaio e febbraio. Salumi che finiscono penzoloni in cantina e poi tagliati a fette sui piatti degli antipasti assieme a formaggi locali fatti in casa, come pecorini misti e ricotta fresca. Il vantaggio di un posto così è che la carne si può anche scegliere al minuto e state certi che Cosimo e

“Le persone vengono apposta per questo e perché si mangia proprio dove si stagionano i salumi, sottolinea Cosimo. Ho voluto creare questo locale perché i clienti possano assaggiare i prodotti che hanno tutt’attorno. Oltre ai salumi e ai formaggi ci sono anche le botti col vino” Premiata Salumeria Italiana, 1/13

Antonio proveranno ad accontentarvi in tutti modi — a meno che voi non siate vegetariani! Però sarebbe un vero peccato perdersi la degustazione appositamente studiata per appassionati carnivori e a base di carne esclusivamente grigliata. Dopo i salumi, dopo le bruschette con ’nduja, lardo o ricotta affumicata mammolese (prodotto tipico di Mammola, di antica produzione e dalla singolare forma a fungo) e la “gelatina”, la coppa di testa, nessun primo piatto ma si passa subito al secondo:«Perché vogliamo che assaggino la nostra carne» ci tiene a sottolineare Cosimo. Anche perché sono ben otto, serviti uno per volta, i piatti di carne proposta di vario tipo, dal cavallo al pollo, dal maiale al vitello. Tutta arrostita dicevamo: si susseguono così, per esempio, lo spiedino misto aromatizzato, le cosce di pollo disossate aromatizzate, hamburger di vitello con funghi e melanzane grigliate, la braciola di vitello con cipolla, costine e braciola di maiale, tagliata di vitello, bistecca di cavallo. E la lista ogni volta è diversa!

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Lo staff de “La cantina del macellaio” al completo. Oltre all’offerta di prodotti tipici ed esclusivamente locali, davvero speciale è la proposta dell’assaggio di otto portate di carne alla brace. A far compagnia alla sequela di piatti vino casereccio, della zona naturalmente, e pane, anche questo casereccio. Prenotare è d’obbligo, dal momento che la scelta di Cosimo è stata molto precisa nell’allestire questo piccolo angolo di ristorazione carnivora, i posti sono al massimo una ventina, «perché chi viene vogliamo passi una serata tranquilla e possa gustare con calma tutti i prodotti». Veto numerico peraltro imposto anche dall’altra scelta fondamentale: quella di presentare solo prodotti locali, cosa che però al contempo è anche un punto di forza. «Le persone vengono apposta per questo e perché si mangia proprio dove si stagionano i salumi. Ho voluto creare questo locale perché i clienti possano assaggiare i prodotti che hanno tutt’attorno. Oltre ai salumi e ai formaggi ci sono anche le botti col vino» sottolinea Cosimo. Un rapporto di vicinanza garante di una produzione locale genuina. Ci spiega poi: «Oltre al menu fisso di antipasti e carne alla griglia capita che si organizzino serate dedicate a un piatto particolare, come la fiorentina e

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la costata per esempio e, per occasioni speciali, la porchetta». Presenti all’assaggio sottaceti vari (melanzane grigliate, pomodorini secchi, involtino di melanzane con pomodoro secco) e marmellata, quella di fichi, e miele, particolare quello piccante, da stendere sui formaggi. Dopo i dolci fatti in casa, anche per la fase digestiva la scelta è ampia e sempre di produzione propria coi cinque liquori di finocchio e alloro, limone e mandorla, cioccolato, caffè e liquirizia. Con l’idea avanzata da Cosimo sono stati da subito tutti d’accordo e oggi sono contenti e soddisfatti i familiari che partecipano all’avventura della cantina: Antonio che aiuta il fratello in macelleria, assieme al padre Salvatore e alla madre Maria, le sorelle Patrizia e Teresa, che con il nipote Domenico curano antipasti e portate della cantina, la moglie Simona, che si dedica alla preparazione di liquori e dolci. Che poi si divertono anche i Magnoli nella loro attività si vede dalle soppressate, che come appetitosi centrotavola sono sagomate in vario

modo, in sintonia con le festività in corso, abeti a Natale, cuori a San Valentino, oppure di più generici maialini. La cura è d’obbligo al tavolo e nelle sue svariate forme! «Passione e volontà di fare sono stati i fattori fondamentali per realizzare questo progetto di macelleriacantina. Pubblicità noi direttamente non ne abbiamo fatta, sono stati i clienti però a farcela. Vuol dire che sono contenti. Si è mosso tutto attraverso un passaparola, a partire dagli abitanti locali fino ai turisti. Che qui sono numerosi». E conclude così Cosimo:«La risposta delle persone a questo nostro esperimento è stata incredibile. Non ce lo aspettavamo proprio!». E allora prenotate gente, prenotate! Federica Cornia Macelleria “Non solo carne” Salumi e Formaggi F.lli Magnoli Viale delle Rimembranze, 74 89042 Gioiosa Ionica (RC) Telefono: 0964 419675 E-mail: macelleria_nonsolocarne@ hotmail.com

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(ora Visentin)

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Eventi A Castelnuovo in 7.000 per “divorare” 912 chili di carne

Pienone per il Superzampone in onore di Bortolamasi Grande festa con Nino Benvenuti che ha ricordato l’ideatore dell’evento. Fallito per pochi chili il nuovo record di peso di Marco Credi

L’

ultimo saluto a Sante Bortolamasi è un bagno di folla a Castelnuovo Rangone per la sua “festa”, il Superzampone. In 7.000 persone si sono messe in fila per pranzare con una fetta di zampone quasi da Guinness dei primati: per poco, infatti, i 912 chili di carne non sono stati sufficienti a battere il record di 4 anni fa, che

aveva visto la bilancia segnare 942 kg! Domenica 2 dicembre l’intero Paese ieri si è dunque fermato per “divorare” un superzampone speciale, dedicato a SANTE BORTOLAMASI — inventore e da sempre anima dell’evento — scomparso pochi mesi fa. L’edizione numero 24 della tradizionale kermesse non ha tradito le attese attirando migliaia di visitatori

che hanno gustato il celeberrimo zampone, servito con circa 8 quintali di fagioloni in umido, 150 chili di pane e infiniti bicchieri di Lambrusco, il vino della nostra terra che è lo “sposo” ideale dello zampone. Il gigantesco insaccato è arrivato sul palco a mezzogiorno, dopo 3 giorni e 3 notti di cottura, accompagnato dall’Ordine dei Maestri Salumieri,

Il gigantesco insaccato è arrivato sul palco a mezzogiorno, dopo 3 giorni e 3 notti di cottura, accompagnato dall’Ordine dei Maestri Salumieri, organizzatori insieme al Comune dell’evento, e a tanti ospiti.

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organizzatori insieme al Comune dell’evento, e a tanti ospiti. Per giungere al momento clou di ieri è stata necessaria una lunga preparazione: per un mese 40 esperti dell’Ordine dei Maestri Salumieri hanno tritato 912 chili carne e preparato la “concia” con sale e aromi, grazie alla collaborazione di numerosi macelli intorno a Castelnuovo che hanno partecipato all’evento. Si è resa necessaria una giornata di lavoro solamente per insaccare e dare allo zampone la tipica forma a zampa di maiale: dopo di che 75 ore di cottura a 95ºC, in una specifica zamponiera collocata in centro a Castelnuovo da giovedì. Per il primo Superzampone senza il suo re, Sante Bortolamasi, a dare il via alla festa ed a tagliare la prima fetta, insieme al sindaco Carlo Bruzzi e ad Amanda Beneventi, miss Zampone 2012, c’era Nino Benvenuti, indimenticata e, finora, ineguagliata gloria della boxe in Italia ed anche grande amico di Sante, con cui si allenava in gioventù. «Sono voluto essere presente per rendere omaggio — ha detto il grande Nino — al mio caro amico Sante, a cui sono stato legato da un grande affetto». Poi ancora scherzando: «Come faccio a mantenermi così in forma alla mia età? Mangio zampone tutti i giorni!». «Questa festa — ha proseguito poi il sindaco Bruzzi — rappresenta l’identità simbolica di un territorio che, grazie alla laboriosità della sua gente, ha saputo riscattarsi dalla povertà. Oggi però siamo qui anche per esprimere un grazie infinito a Sante Bortolamasi, ideatore ed organizzatore instancabile del Superzampone. Questa è la prima edizione senza di lui e, anche per questo, i volontari si sono rimboccati ancora di più le maniche per realizzare un evento che vogliamo continui negli anni».

Il momento del peso del superzampone, che per pochi chili non consente di battere il record del 2008. Castelnuovo Rangone, come da tradizione, si è trasformato in un enorme ristorante a cielo aperto, con il pubblico sui tavoli approntati per l’evento, oltre che lungo le scalinate dei portici del centro, panchine e tran-

“Questa festa, ha dichiarato il sindaco Carlo Bruzzi, rappresenta l’identità simbolica di un territorio che, grazie alla laboriosità della sua gente, ha saputo riscattarsi dalla povertà. Oggi però siamo qui anche per esprimere un grazie infinito a Sante Bortolamasi, ideatore ed organizzatore instancabile del Superzampone” Premiata Salumeria Italiana, 1/13

senne. Stefano Bortolamasi, figlio di Sante, visibilmente commosso, con la mamma Maria ha avuto in dono una targa speciale, in memoria del padre, dall’organizzatore del carnevale di Cento, oltre ad un ritratto del “re dello Zampone”, realizzato da Alessandro Rasponi e regalato dal “Club Motori Modena”. «Quella di oggi — ha affermato Stefano Bortolamasi, che dal papà ha ereditato il testimone della manifestazione — non è una commemorazione ma una festa in onore di Sante, per celebrare il suo impegno verso gli altri». Marco Credi

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Zampone Modena e Cotechino Modena uniti per la rinascita di Mirandola Domenica 2 dicembre, a Mirandola, uno dei paesi più colpiti dal terremoto della scorsa primavera, si è svolta la Festa dello Zampone Modena e del Cotechino Modena, voluta dal Consorzio di tutela. Ricordiamo, infatti, che fu proprio Mirandola la “culla” dello zampone. La leggenda narra che nel 1511, durante l’assedio dell’esercito papale di Giulio II, i cittadini di Mirandola si inventarono lo zampone, da cui poi avrebbe avuto origine il cotechino. Lo “Zampone Day”, come è stata denominata la giornata, è stato interamente dedicato allo zampone ed ha avuto uno stretto collegamento con la tradizionale festa del Superzampone che si svolgeva in concomitanza a Castelnuovo Rangone. Alle 12.00, come previsto, è stato fatto anche un collegamento dalla piazza di Mirandola alla piazza di Castelnuovo Rangone. L’anno scorso, il 3 dicembre, i due prodotti di eccellenza emiliani furono sotto i riflettori di tutta Italia per festeggiare il cinquecentenario della loro nascita. Festeggiamenti che coinvolsero la città di Modena attirando molti giornalisti della stampa e delle televisioni. Quest’anno il Consorzio ha voluto replicare un momento di “attenzionalità” che fosse sì per lo Zampone Modena ed il Cotechino Modena ma, soprattutto, per il territorio. L’intento, insomma, è stato quello di ritrovarsi, dopo qualche mese dal sisma, per una giornata di convivialità, di gioia e solidarietà. Se 500 anni fa l’invenzione dello zampone ha aiutato i mirandolesi a resistere strenuamente al famoso assedio delle truppe papaline, quest’anno — dopo le violente scosse del terremoto — è stato ancora lo zampone, assieme al cotechino, a venire in sostegno della città, con un evento che mirava a calamitare l’attenzione dei media nazionali su Mirandola, per incentivare la ricostruzione e la ripresa economica. La formula della festa ha previsto lo svolgimento di uno show cooking con un abbinamento insolito: le “rezdore”, le massaie-cuoche da secoli custodi e simbolo stesso della cucina tradizionale modenese, hanno animato l’evento insieme a colui che è stato definito il più grande chef della cucina mondiale, Massimo Bottura (foto in alto), il quale ha coordinato personalmente una degustazione di preparazioni a base di Zampone e Cotechino Modena Igp. L’evento si è poi concluso con una cena di beneficenza ad invito, il cui ricavato è andato alla città di Mirandola (in basso, Paolo Ferrari, presidente del Consorzio di Tutela dello Zampone Modena e Cotechino Modena Igp).

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Sapori dal mondo

Tradizionali o innovative, le terrine Dalla classica versione a base di carne macinata alle nuove tendenze che ne propongono declinazioni con pesce, verdure e formaggi di Josette Baverez Blanco

L

a terrine, un classico delle festività natalizie francesi, è spesso presente quando sulle tavole si ricevono gli amici anche durante l’anno. Richiede un po’ di lavoro ma gli occhi e il palato rimangono incantati! Verso l’inizio del ’400 questo termine designava, nel nord della Francia, una marmitta di terracotta con coperchio a tronco di cono. Permetteva di cucinare sulle braci ma anche di conservare la pasta da lievitare. Nel 1684, MADAME DE SÉVIGNÉ usò questo termine non più per indicare il recipiente ma il piatto caldo che conteneva, segnalando alla figlia le locande della posta, fra Amboise, Saumur e Angers, la zona dei castelli della Loira, dove poter assaggiare tale pietanza. La terrina godeva allora di un gran prestigio e il Marchese di Louvois, nel suo castello di Meudon, la servì al Delfino e al fratello di Luigi XIV nel 1690, a fianco ad altre dodici entrées in gran parte di selvaggina. Il famoso MASSIALOT la inserì con un’apposita ricetta nel suo “Le cuisinier royal et bourgeois”. Nel 1724, questo volume venne ristampato con alcune aggiunte e tradotto in italiano, a Bologna, con il titolo “Il cuoco reale e cittadino”. Il traduttore parla di una bastardella, cioè di un tegame basso di terracotta con coperchio e manici, senza precisare se la portata veniva servita a tavola tal quale. Lo era probabilmente — com’è tutt’ora — nelle case borghesi, mentre nel servizio regale era senz’altro trasferita in recipienti d’argento o di porcellana.

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Terrine con fegatini di pollo. Nel 1766 venne pubblicato “Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi” in cui troviamo una ricetta

di “terrina alla paesana” molto semplice, di stufato di manzo e pancetta di maiale cotto sopra la cenere, sgras-

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sata e servita calda. L’importante, in questo caso, è sigillare bene il coperchio con la pasta, lasciandovi solo un minuscolo forellino di sfiato per impedire al vapore e al profumo di disperdersi. La terrine si declinava in diverse varianti: alta o bassa, costosa o economica, calda o fredda. In effetti, divenne poco a poco un metodo per conservare la carne che poteva essere spedita anche da una regione all’altra, persino verso Spagna e Inghilterra. Nel 1803, GRIMOD DE LA REYNIÈRE, primo giornalista gastronomico, ne consigliava l’acquisto nel negozio di Corcelet. Il Sud-ovest della Francia, l’Aquitania, era zona di produzione di terrines molto famosa, ricca di pernici ma anche di anatre e oche, oltre che di tartufo nero. Di fronte alla domanda crescente del prodotto e alla progressiva scomparsa delle pernici, la terrine si fece sempre di più con il fegato grasso intero e spesso con il tartufo, trasformandosi quindi un piatto particolarmente pregiato. Nell’Ottocento venne conosciuta in Italia nella versione di terrina fredda. “Il re dei cuochi” curato da G. NELLI nel 1868 ne dava questa definizione: “Si chiamano terrine le composizioni di pasticcio freddo cotte in vasi di terra verniciata capaci di resistere al caldo del forno. Esse si preparano indifferentemente con pollame, selvaggina e fegato grasso”.

Terrina di pesce e prosciutto crudo (foto: www.akkiapparicette.it).

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Terrina di radicchio trevigiano (foto: http://cucina.ilbloggatore.com). Le terrine potevano trovarsi in salumeria o in casa in occasione di pranzi conviviali. L’uso del termine terrine era quindi in auge sia per i piatti caldi che freddi. Nel 1904 la casa editrice Hoepli pubblicò il manuale “Il Gastronomo moderno” di EMILIO BORGARELLO, nel quale si parlava della “terrina, di stampo prettamente francese (la parola deriva da terra), significa anche scodella”. Nel testo si fa riferimento a spezzatino di vitello o d’agnello in terrina, cioè in recipiente sigillato — e questo vale per qualsiasi brasato, salmì o pasticcio — ma resta un termine di alta gastronomia. Più tardi, il famoso GEORGES AUGUSTE ESCOFFIER denominò terrina il pâté senza crosta, preferibilmente di volatili, avvolto nello strutto o coperto di gelatina se servito freddo. La cottura doveva avvenire a bagnomaria nel forno e doveva arricchirsi secondo fantasia di tartufi, nocciole, ginepro... Oggi è una pietanza che si può mangiare con gli occhi sui banchi di tutti i salumieri francesi. Tutte le terrine sono quindi a base carnea. In Italia entrano nelle usanze delle case con la divulgazione di ricettari professionali semplificati. Le troviamo ne “La cucina pratica professionale” di MARIO BORRINI e nel “Carnacina” curato da Mario Veronesi nel 1961. Le numerose ristampe di questo volume hanno garantito vita al termine, se non all’e-

secuzione delle ricette stesse a livello casalingo. Lui ne cita tre: terrina di coniglio alla Luigi Veronelli, terrina di vitello all’inglese, terrina di lepre del cacciatore. Una nuova rivoluzione ebbe luogo negli anni ’80: la terrina non era più di sola carne ma anche di pesce, di verdure e di frutti. Nel “Larousse gastronomique” del 1984 vennero proposte queste nuove ricette (nuove per modo di dire dato che alcune, come la terrina di sogliola, erano già citata nel 1748 ne “Les dons de Comus”!). Il termine terrina divenne proprio sinonimo di pasticcio, preparato fatto con la pirofila, il forno e magari un abbassatore di temperatura. Il risultato è comunque sempre gustoso, sia che si utilizzi la carne o altri ingredienti più delicati, dai frutti alla gelatina al miele. L’ultima edizione del “Larousse gastronomique” del 1996 registra queste nuove tendenze proponendo tre ricette tradizionali (coniglio, anatra, vitello), due di pesce (luccio e sardine) tre di ortaggi e formaggi (ortaggi e tartufi, porri e formaggio,carciofi e Beaufort). Essendo una tradizione solida, non si corre nessun pericolo nel lasciare la massima libertà alla fantasia culinaria, alla varietà compositiva e alle sorprese innovative per preparazioni fredde, tiepide o calde. Josette Baverez Blanco

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Bread & Wine: del mangiar salami ed altre prelibatezze norcine in Sudafrica di Massimiliano Rella

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alumi artigianali di tradizione e tecnica britannica, spagnola, tedesca, e non solo. Prodotti in Africa subequatoriale, più precisamente in Sudafrica. Specialità che non mancano mai sulle tavole del Bread & Wine, il ristorante e grocery dell’azienda vitivinicola Moreson, gestito dallo chef inglese NEIL JEWELL. Siamo a Franschhoek, nel distretto di Cape Winelands, nella provincia del Capo Occidentale. Quando Jewell, oggi trentottenne,

arrivò da queste parti, 13 anni fa, si trovò a confrontare le sue abitudini nutrizionali con produzioni di salumeria locale, come per esempio il bacon fatto da carne di agnello, che non lo convinsero del tutto. Facendo di necessità virtù, decise di mettersi a produrre salumi in proprio. Norcino autodidatta, non lasciò il risultato al caso. Puntò invece alla qualità partendo da una sua intima convinzione, e cioè che “the pig is the best”, il maiale è il migliore di tutti.

Negli anni, con sperimentazione e duro lavoro, Jewell ha imparato a preparare e cucinare la charcuterie, cioè a produrre bacon, salsicce, prosciutti, salami. Oggi compra maiali interi di razza Duroc per i maschi e un incrocio di Landrace e Large White per le femmine, alimentati con orzo, frumento, erbe medicinali, ghiande, per poi macellarli tra i 12 e i 18 mesi di vita. Sono la materia prima per fare artigianalmente salumi in stile spa-

Neil Jewell, chef e norcino del Bread&Wine. Il suo motto? “Pig is the best” (foto di Massimiliano Rella).

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gnolo, marinati con sherry, paprika e aglio, e leggermente affumicati con legno di faggio; ma anche salumi aromatizzati con semi di finocchio e Pinotage, il più sudafricano dei vini, un rosso interessante. È invece di derivazione francese il Saucisson sec, un salame sottile con grasso a grana grossa, aromatizzato con sale, pepe, zucchero e vino bianco, di grande qualità. È di origine tedesca il Mettwurst, morbido e fresco, che ricorda il nostro cotechino. L’intraprendente Neil non ha trascurato le produzioni locali, come il biltong, una carne secca di manzo del Botswana, allevato allo stato libero, oppure di struzzo e antilope. La carne viene prima marinata nel vino rosso per cinque giorni, aromatizzata con coriandolo, sale, pepe nero. La ricetta dello chef inglese prevede anche una seconda marinatura con aglio, cipolla, alloro, semi di senape in polvere. Poi la carne viene essiccata in ambiente naturale e asciugata per un paio di settimane, infine affumicata con legno di vecchie botti usate per affinare il vino rosso.

Paesaggio di vigne nella valle di Stellenbosch (foto di Massimiliano Rella). L’abbinamento perfetto del biltong è con il Pinotage, il più sudafricano di tutti i vini, ottenuto da un vitigno che è il risultato di un incrocio tra Hermitage e Pinot nero. Come quello prodotto dalla stessa cantina Moreson, fatto con uve ac-

quistate nella zona di Stellenbosch, che matura in rovere francese per 14 mesi, fruttato con note di ciliegia e frutti di bosco, piacevole in bocca e di facile beva. L’azienda vitivinicola che ospita il Bread & Wine produce anche il

Il biltong, una carne secca tipica del Sudafrica (foto di Massimiliano Rella).

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Blanc de Blanc Chardonnay Solitaire, un metodo classico con una buona acidità, dal perlage fine fermentato in bottiglia sui lieviti per 24 mesi; uno Chardonnay in purezza, il Dr. Reason Why; e il Premium Chardonnay, fatto solo con uve di produzione aziendale. La cantina Moreson ha 15 ettari di vigneti e produce anche cinque spumanti metodo classico, tipologia di vino su cui è specializzata. I vini si possono degustare nel Bread & Wine, che include un grocery e un ristorante. Il primo ha un bancone per la vendita dei salumi e dei vini, tavolini e sedie di legno per mangiare in un ambiente rustico e informale, sempre aperto a pranzo e cena. La proposta più apprezzata è un ricco tagliere di varie specialità a un prezzo medio di 120 rand (12 euro). Il secondo è un ristorante vero e proprio con cucina contadina e qualche piatto europeo, come il fish & chips inglese, la pizza italiana, il risotto con i tartufi. Non mancano i frutti di mare, dalle ostriche alle cozze della costa occidentale del Capo, mentre nascono dalla creatività dello chef ricette più fantasiose e originali, come i ravioli di mela, agnello e pancetta, con un conto medio di 160 rand (16 euro). Da Moreson è possibile partecipare a corsi di charcuterie, di panificazione, degustazioni speciali, assemblaggi di vino guidati con etichette personalizzate (850 rand), compreso pranzo e degustazione; 1.500 rand in due). Massimiliano Rella Salumi nel locale di stagionatura del Bread & Wine, il ristorante con grocery della cantina Moreson, a Franschhoek in Sudafrica (foto di Massimiliano Rella).

>> Link: www.moreson.co.za.

In estate spedizioni e corsi di biologia degli squali in Sudafrica Sapevate che tre dei maggiori esperti di squali al mondo — Chris Fallows, Monique Fallows e Alessandro De Maddalena — organizzano già da qualche tempo spedizioni/corsi di biologia degli squali in Sudafrica? La prossima edizione avrà luogo dal 31 luglio all’8 agosto 2013. Anche Alessandra Baldi, biologa, prenderà parte a tutte le prossime edizioni delle spedizioni. Il costo (2850 euro circa) include: volo, alloggio 7 giorni, 7 uscite in barca con gli squali bianchi ed immersione in gabbia nella False Bay, attrezzatura sub, trasporti a terra, corso sulla biologia degli squali, osservazione di altri animali (otarie del Capo, balene franche australi, balenottere di Bryde, delfini comuni, pinguini africani, ecc…). Le spedizioni rappresentano un’eccezionale opportunità per biologi, naturalisti, fotografi naturalisti, subacquei e appassionati di natura in generale. Tutti si possono immergere in gabbia, non occorre infatti brevetto sub. La disponibilità è di 10 posti. Contatti: telefono: +277 95573201 — alessandrodemaddalena@gmail.com — www.corsi-squali-sudafrica.webs.com

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Turismo enogastronomico

Un sabato mattina a Rennes Coi suoi 300 banchi il Mercato Les Lices raccoglie in un’unica piazza un’interessante varietà di specialità gastronomiche. Dai dolci alla frutta, dal pesce ai salumi, dai formaggi alla carne ce n’è per tutti i gusti. L’importante è essere golosi. E curiosi di Massimiliano Rella

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l sabato mattina nella piazza Les Lices a Rennes, in Bretagna, è una festa di colori, profumi e sapori. Qui, nello spazio un tempo destinato a campo di battaglia per giochi medievali, è allestito il Mercato Les Lices, di cui si ha notizia già nel 1622, ma organizzato nella forma attuale a partire dal 1965. Include place de la Trinité, place Saint-Michel, place Rallier du Baty e le Halles Martenot, due edifici costruiti tra il 1868 e il 1871 sotto la guida dell’architetto JEAN-BAPTISTE MARTENOT. Il Mercato

Les Lices, con i suoi 300 banchi, offre una varietà interessante di specialità gastronomiche, per lo più di produzione diretta di contadini e artigiani da tutta la regione. E non mancano i fiori, ai quali è dedicato un apposito spazio. Sui banchi è facile trovare golose tipicità, come per esempio le fragole di Plougastel, le gariguette, una varietà dalla polpa consistente ma succosa derivata dall’incrocio della Fragaria chiloensis, portata dall’America del Sud nel 1766 da AMÉDÉE FRANÇOIS FRÉZIER, un ingegnere militare ed

esploratore francese di ritorno dal Cile, con una varietà europea. Oppure il burro salato, le crêpes e le galettes, le prime di frumento, le altre di grano saraceno. E poi il kouign amann, un dolce di pasta sfoglia molto buono appena riscaldato, i craquelin di Plumaudan, panini dolci con pezzetti di zucchero all’interno, il far, uno sformato dolce con uva sultanina e prugne secche, e naturalmente il sidro di Bretagna, una bevanda alcolica prodotta con il succo di mele fermentato.

Salumi tipici al mercato Les Lices di Rennes: saucisson, noix de jambon, filet mignon, diot de Savoie.

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Formaggi e specialità casearie al mercato Les Lices. Nei banchi del pesce fanno bella mostra di sé frutti di mare di alta qualità pescati nell’Oceano Atlantico che lambisce le coste bretoni a poche decine di chilometri da Rennes: granchi, granciporri, granseole, cicale di mare, astici, come il saporito homard, l’astice nero dai riflessi blu. Ma anche capesante, vongole e tartufi di mare, inclusi alcuni molluschi molto apprezzati come le cozze della baia di Mont-Saint-Michel, in Normandia, e le ostriche di Cancale e del golfo di Morbihan. Immancabile il pesce di mare: tonno, sgombri, gattucci, orate e aringhe, fresco o conservato, come le stuzzicanti sardine sottolio, ma anche di fiume: salmoni, anguille, trote, lucci, varietà che servono per la cotriade, una zuppa locale fatta con

pesci di giornata, cotti in un brodo ristretto al vino e ben conditi. Chi predilige i salumi al mercato Les Lices trova le bancarelle che offrono prodotti delle piccole salumerie e dei laboratori dei villaggi di campagna, come l’andouille, una salsiccia di trippa di maiale, o come la salsiccia du Guéméné, affumicata, morbida, non troppo grassa, da gustare su tartine con burro salato; e poi la salsiccia al lardo. Anche per le carni la scelta è varia: rillette, la carne di maiale cotta nello strutto, tritata e conservata in vasetti di terracotta, la trippa, oltre a pollame, molto diffuso in Bretagna, cappone, gallina vecchia, anatra, e agnello pré-salé. Allevato nei pascoli vicino al mare dove bruca erba salata

“Chi predilige i salumi al mercato Les Lices trova le bancarelle che offrono prodotti delle piccole salumerie e dei laboratori dei villaggi di campagna, come l’andouille, una salsiccia di trippa di maiale, o come la salsiccia du Guéméné, affumicata, morbida, non troppo grassa, da gustare su tartine con burro salato; e poi la salsiccia al lardo” Premiata Salumeria Italiana, 1/13

che dà sapidità alla carne, viene utilizzato per cucinare il cosciotto alla bretone, con i fagioli bianchi. Tra i formaggi si vendono i classici brie, camembert ed emmental e prodotti caseari del posto come la brique, un piccolo formaggio dal gusto dolce, la crosta sottile con la muffa bianca e la pasta tenera e cremosa. Nel mercato si trovano anche altre eccellenze gastronomiche francesi. Come i formaggi della Savoia, tra i quali il Reblochon e l’Abondance, ottenuti dall’eccellente latte delle mucche di razza Tarine e Abondance; e naturalmente i salumi, dal prosciutto alle salsicce, come le piccole diots, fatte di carne di maiale delicata e tenera o con un trito misto di maiale e vitello, o la longeole, prodotta con interiora cotte di maiale, cotenna e finocchio; la pormonier, fatta con carne di maiale e verdure come cavoli e porri, e infine la saucisse de Magland, ottenuta da carne di maiale bollita in acqua e stagionata. Massimiliano Rella Nota Info: www.tourisme-rennes.com; foto di Massimiliano Rella.

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Riva de Milan: tutto il buono della Marca Trevigiana di Gian Omar Bison

“P

osibie che co tanta tera che ghe ne al mondo, no ghe ne sia un tochetin anca par mi?”. Il cruccio, il desiderio di nonno Angelo è stata la molla che ha spinto i Bernardi a fare del “Riva de Milan” un cucuzzolo del bengodi a Valdobbiadene (TV), capitale del Prosecco DOCG nelle omonime colline della Marca. Un agriturismo con camere, circondato da una cantina importante, con rivendita, dalle stalle dei maiali, dei bovini e avicoli in mezzo ai filari di uva Glera. In tutto dodici ettari di terreno, sette dei quali dedicati ai vigneti. Non manca niente, in particolare quell’ospitalità grassa e guascona che i fratelli Angelo, Celestino, Valentino e Bruno dispensano a piene mani ai

clienti, nessuno escluso. E sempre accompagnati da una buona ombra di bollicine. La storia inizia nel 1884 con Angelo Bernardi impiegato come mezzadro nella tenuta della famiglia Dalla Favera (medici di vaglia del bolognese). E mezzadro muore nel 1951 col desiderio soddisfatto di diventare “paron”. Si tramanda educazione, cultura e si trasmette ai figli (sei maschi e due femmine) anche la passione per il lavoro rurale così come si è trasmesso il rapporto di mezzadria portato avanti dal figlio Antonio (padre degli attuali gestori dell’agriturismo) che, dopo varie peripezie, rileva il podere nel 1975. «Si è iniziato subito ad ammodernare l’azienda» ricorda Celestino, che all’epoca lavorava spesso all’estero

per una grande impresa italiana. «Nel 1992 mio padre mi chiese di fermarmi in azienda ed io l’ho assecondato scegliendo la famiglia». Tolti i vigneti vecchi e piantato i nuovi, reso le colline macchinabili, la gente, soprattutto quella del posto, iniziava a frequentare l’azienda e a consumare gli insaccati col pane fatto in casa insieme ad un buon bicchiere di vino. «Siamo partiti come “frasca” per la quale serviva la sola licenza comunale e da allora fino all’agriturismo non ci siamo più fermati». La proposta culinaria è rimasta tradizionale, veneta, e si è via via arricchita con varietà di primi piatti e dolci di pregio. «Ma la base è rimasta quella, ci mancherebbe! Dalla pasta e fagioli cucinata e riproposta riscaldata

Il casale dell’agriturismo Riva De Milan a Valdobbiadene in provincia di Treviso (foto: Paolo Geromel).

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Valdobbiadene Brut e Extra Dry Docg Riva de Milan (foto: Paolo Geromel). dal giorno seguente, cotta spesso col piedino di maiale agli insaccati che prepariamo noi, pancetta, sopressa, salame al lardo, poi la gallina in tocio (in umido), lo spiedo misto con maiale e coniglio, le costate». All’inizio allevavano e macellavano tre maiali l’anno: ora sono arrivati a trenta, più dieci manze (bovini acquistati al peso di 250 chili e macellati sui diciotto mesi di età). Nel 1990 le camere a disposizione dei clienti erano sei, oggi tredici. «Dati alla mano — sottolinea Celestino — l’80% dei nostri clienti è rappresentato da austriaci e tedeschi rapiti dalla bellezza e dall’amenità delle nostre colline, oltre che dalla proposta enogastronomica. A Valdobbiadene fino a non molto tempo fa c’erano soltanto due hotel e adesso raggiungiamo 500 posti letto in tutto». L’agriturismo chiude a fine settembre e riapre a Pasqua, sempre pieno, mentre le camere sono a disposizione tutto l’anno. «Non è che si facciano poi così tante ferie nel periodo di chiusura. Si curano gli alloggi, la campagna, il vigneto, il vino stesso. A novembre si iniziano le macellazioni e poi, su prenotazione, capitano giornate in cui riapriamo la ristorazione a gruppi numerosi di turisti». Insomma al “Riva de Milan” il lavoro non manca. Il vino in particolare ha un ruolo determinate. Dai vigneti che circondano l’agriturismo

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In alto: i fratelli Bernardi (foto: Paolo Geromel). In basso: salumi e vini (DR). si raccolgono 1.560 quintali di uva, vinificando e collocando direttamente l’intera produzione: 1.200 ettolitri di Prosecco DOCG Conegliano-Valdobbiadene e DOC. Il visitatore può scegliere fra lo Spumante Brut, Dry, Extra dry, Millesimato o le Tirele (vino fermo) o il Surlie (fermentazione naturale in bottiglia). Immancabile la grappa, che qui si può trovare fine da uve monovitigno. Per la ristorazione l’azienda offre la disponibilità di 60 posti tavola. Le specialità, come detto, seguono la stagione: salumi, tagliatelle, frittate (alte e soffici), muset con le erbe, poenta e tocio, ossada di maiale, pane e dolci caserecci e l’immancabile spiedo di

carni miste. Specialità, quest’ultima, tipica di tutta la Pedemontana trevigiana, diffusa prevalentemente nel periodo autunnale e primaverile. Le carni infilzate, di maiale, pollo, coniglio, vitello, vanno salate e unte e il segreto di una buona cottura è mantenere un fuoco costante per circa 5-6 ore. Una procedura in grado di garantire colore e sapidità particolari. Gian Omar Bison Riva de Milan Via Erizzo, 148 31049 Valdobbiadene (TV) Telefono: 0423 973496 E-mail: rivademilan@libero.it Web: www.agriturismorivademilan.it

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Fiere

Marca 2013: l’Expo è più vicino Si è conclusa con successo la principale fiera dedicata ai marchi delle insegne della distribuzione. Registrato un aumento degli espositori del 10%, mentre il mercato nel 2012 segna un +7,3%

P

ositivi i dati registrati alla chiusura di Marca, appuntamento fieristico annuale dedicato al settore delle marche commerciali che si è svolto a BolognaFiere il 16 e 17 gennaio scorsi. L’edizione 2013 si è conclusa con un dato incoraggiante, un segno di crescita: un +10% di espositori, mentre le vendite dei prodotti a marchio delle insegne della distribuzione organizzata nel 2012 sono cresciute del 7,3%. La manifestazione è stata aperta alla presenza del ministro Mario Catania, che ha tagliato il nastro con il presidente di BolognaFiere, Duccio

Campagnoli. Durante il convegno di apertura della manifestazione, organizzato da Adm, Associazione della distribuzione moderna, sono stati presentati i risultati di mercato: nel 2012 le vendite di prodotti a marca del distributore sono cresciute del 7,3% rispetto al 2011, raggiungendo una quota di mercato del 18%. Camillo De Berardinis, presidente Adm, ha dichiarato: «i prodotti di marca del

distributore, con una quota nazionale del 18% delle vendite complessive, sono oggi una componente essenziale dell’offerta della Grande Distribuzione e contribuiscono sempre di più a costruire la sua immagine e a fidelizzare il cliente». Il presidente di FEDERDISTRIBUZIONE, Giovanni Cobolli Gigli, ha sottolineato che «la marca del distributore ha un valore che non si limita al prezzo, ma che significa anche qualità, attenzione all’ambiente». Intanto, sono ben quattro le manifestazioni di BolognaFiere che hanno ottenuto il patrocinio di Expo Milano 2015. Da qui allo

Un successo l’edizione 2013 di Marca. La manifestazione, appuntamento annuale dedicato al settore delle marche commerciali, si è svolta il 16 e 17 gennaio scorsi a BolognaFiere.

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1) Nello stand della Raspini di Scalenghe (TO), Remo Pochettino, direttore commerciale. 2) Marcello Palmieri del Salumificio Palmieri di San Prospero (MO). 3) Nello stand di Alcar Uno Lorenzo Levoni con Franz Staffler, amministratore Merano Speck. 4) Il Gruppo Grandi Salumifici Italiani. 5) Il Salumificio San Vincenzo di Spezzano Piccolo (CS). 6) Nello stand dell’azienda Pini, di Grosotto (SO), Roberto Pini (al centro) con Luca Righetti e Christian Rocchi di Tönnies Fleisch Italia. svolgimento dell’Esposizione universale, le tre edizioni di Marca by BolognaFiere, Salone Internazionale delle Private Label, Sana – Salone Internazionale del Biologico e Naturale, Saie – Salone Internazionale dell’Industria Edilizia, Accadueo – Mostra

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internazionale delle tecnologie per il trattamento e la distribuzione dell’acqua potabile e il trattamento delle acque reflue potranno fregiarsi del logo dell’Expo. L’impegno preso da BolognaFiere, grazie all’accordo maturato nel corso di diversi incontri

tra il presidente Campagnoli e l’amministratore delegato di Expo 2015 Spa Giuseppe Sala, porterà quindi un po’ di Expo a Bologna, nell’attesa della grande esposizione che richiamerà a Milano visitatori da tutto il mondo dal 1 maggio al 31 ottobre 2015.

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A sinistra: lo stand di Crudi d’Italia. A destra: nello stand di BP Prosciutti Stefania Bonfiglioli, Franck Galopin, Vittorio Montaldi, Ufficio commerciale BP Italia e Export, Stefano Serdini e Alessandro Covili.

Tutto il sapore della qualità: Mela Alto Adige Igp e Speck Alto Adige Igp protagonisti delle degustazioni nei punti vendita Dopo le positive esperienze dello scorso biennio, si apre una nuova fase per la campagna di informazione sul significato e l’importanza dei marchi europei di qualità Igp (Indicazione Geografica Protetta) e Doc (Denominazione di Origine Controllata) “La nuova sicurezza alimentare europea – proseguimento”. Il progetto biennale, approvato nel luglio 2011 dall’Unione Europea, coinvolge nuovamente i consumatori incontrandoli direttamente nei punti vendita, nei luoghi della spesa quotidiana. Anche in questa occasione i testimonial saranno i prodotti altoatesini di qualità: la Mela Alto Adige Igp e lo Speck Alto Adige Igp, già protagonisti, insieme ai Vini Alto Adige Doc, in qualità di ambasciatori dei rispettivi marchi europei di tutela, a garanzia dell’origine, della sicurezza alimentare e della salubrità, il tutto in un’ottica di trasparenza nei confronti dei consumatori. A partire da febbraio 2013 fino ad aprile, pertanto, i clienti di alcune importanti catene della grande distribuzione saranno coinvolti nella degustazione della Mela Alto Adige Igp e dello Speck Alto Adige Igp nei punti informativi allestiti all’interno dei punti vendita. Oltre ad un assaggio “di qualità” i consumatori saranno invitati a compilare un questionario di gradimento e riceveranno in omaggio materiale informativo sui due prodotti a marchio europeo di qualità e interessanti brochure con ricette e note sulla cucina dell’Alto Adige. Il tutto con l’obiettivo di continuare ad informare e sensibilizzare il grande pubblico sul significato dei marchi europei di qualità Igp e Doc, sinonimi di origine e rispetto delle tradizioni artigianali e regionali. I risultati dell’analoga iniziativa della scorsa primavera hanno ribadito come il consumatore sia sempre più attento alla qualità, tanto da anteporla persino al fattore prezzo, e sappia riconoscere i prodotti a marchio europeo. L’occasione è propizia, quindi, per proseguire con la campagna informativa avvalendosi dell’ormai storica collaborazione con i prodotti dell’Alto Adige, approfondendo il dialogo ed il confronto con i consumatori. Maggiori dettagli e informazioni sul progetto europeo, concepito anche per contrastare il fenomeno dell’abuso delle denominazioni protette, sono disponibili sul sito internet www. suedtiroler-originale.info, una piattaforma digitale che raccoglie il materiale della campagna e numerosi documenti sull’iniziativa.

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Formaggio

Il Rinascimento caseario d’Irlanda è donna Negli anni Settanta non esisteva ormai nessun formaggio irlandese che si potesse definire artigianale. È merito di donne come Jeffa Gill, Veronica Steele, Giana Ferguson e Helen Willems se oggi l’alta qualità casearia d’Irlanda vanta formaggi quali Durrus, Milleens, Gubbeen, Ardrahan ed altri ancora di Raffaele Bertolini

N

on si sbaglia se si afferma che il rinascimento caseario occorso negli ultimi decenni in quella fredda e piovigginosa terra che è l’Irlanda è merito di alcune figure femminili divenute quasi leggendarie. Nomi

come JEFFA GILL, VERONICA STEELE, GIANA FERGUSON e HELEN WILLEMS rappresentano per gli estimatori mondiali del prodotto caseario di qualità l’equivalente della figura mitologica del demiurgo, creatore e plasmatore. La loro importanza sta nell’essere riu-

scite a dare nuova forma e sostanza a ciò che preesisteva ma di cui si erano perse le tracce. Formaggi dimenticati prodotti secondo pratiche ataviche ma dimenticate. Formaggi nuovi per quella terra e per quella gente ma tradizionali per altre genti di altre

Il Durrus, formaggio a crosta lavata prodotto da Jeffa Gills nel West Cork, regione della contea di Cork in Irlanda.

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terre. L’Irlanda ha sempre avuto una forte tradizione casearia. Addirittura il bestiame, quello bovino, era investito di un’importanza quasi magica. Come ci testimoniano la letteratura, il folclore, le agiografie e i resoconti di viaggiatori, le vacche si trovavano comunemente sull’isola e il formaggio, localmente chiamato ban bhia, ossia “carne bianca”, aveva rappresentato durante tutto il Medioevo il pasto principale per la maggior parte della popolazione. Nel 1617 il viaggiatore FYNES MORYSON scrisse: “si nutrono per la maggior parte di carni bianche, e tengono in grande considerazione le cagliate acide, chiamate volgarmente bonaclabbe”. Il declino della produzione casearia su piccola scala iniziò verso la metà del XVIII secolo, quando la produzione industriale del burro mandò in rovina i piccoli allevatori e le patate entrarono a forza nella dieta corrente. Nel 1833 un turista che si trovava nella costa occidentale del Connaught lamentava come “un terreno così evidentemente ricco non producesse formaggio”. Qualche anno più tardi la regione fu devastata dalla carestia (1845-52) e l’interesse per il prodotto locale svanì. Nel 1889 si costituirono delle cooperative casearie e il formaggio iniziò ad essere prodotto in grandi stabilimenti, soprattutto per l’esportazione. L’unica eccezione era rappresentata da un convento di suore che si trovava nelle terre di mezzo e che conduceva un piccolo caseificio, attivo dal 1912 fino agli anni ’70, chiamato San Brigido, dal nome del patrono delle lattaie. Si producevano formaggi secondo lo stile di un Port Salut, un Pont l’Évêque, di un Cheshire e Caerphilly, secondo metodi acquisiti da monaci trappisti francesi. Anche i grandi caseifici copiarono alcuni tra i più rinomati formaggi continentali. Del resto era invalsa l’opinione che il cibo di qualità fosse solamente quello straniero, cacio incluso. Questo fu vero dall’inizio del secolo scorso fino al 1970 circa, quando la produzione irlandese di Cheddar, su larga scala, aveva completamente fagocitato la produzione contadina. Il formaggio era, secondo un giornalista

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In alto: Ardrahan (foto: http://portraitoftheartisan.blogspot.it). Al centro: Cashel Blue (foto: www.tastingsgourmetmarket.com). In basso: Gubbeen, lavorazione (foto: John Carey, http://online.wsj.com).

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Veronica Steele e il Milleens. dell’epoca, “roba da quattro soldi, di una tinta color arancio”. Negli anni ’70 non esisteva ormai nessun formaggio irlandese che si potesse definire artigianale. I pionieri della produzione casearia di fattoria che arrivarono sull’isola con il movimento contro-culturale del tempo non avevano nessuna tradizione a cui attingere. C’erano solamente caseifici in disuso e utensili sparsi in alcune fattorie. Esistevano sì scuole casearie, mercati di paese e una via via crescente richiesta di prodotti artigianali ma ciò che stava scomparendo era la conoscenza del fare. Chi si fosse apprestato a produrre formaggio senza ottenere apprezzabili risultati non avrebbe incontrato il biasimo di nessuno se avesse deciso di lasciar perdere. Ma ci fu chi non si diede per vinto. Correva l’anno 1978 e Veronica Steele viveva in un angolo remoto della penisola sud-occidentale di Beara. Fu lei, con la sua creazione che chiamò Milleens, a dare l’avvio alla rinascita. Suo marito Norman era professore di filosofia. Avevano bisogno di un’idea per conservare il latte durante l’inverno e Veronica sentiva l’urgenza di darsi da fare fuori dalle mura domestiche. «Se sei abituata a stare chiusa in casa con i bambini rimarrai stupita da quello che riuscirai a fare fuori» ricorda. I primi risultati furono “disastrosi”. Poi diede mezzo chilo del suo

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formaggio a crosta lavata ad uno chef locale e presto si trovò a consegnare il suo Milleens ai migliori ristoranti e negozi gourmet. La pratica di farsi il formaggio in casa cominciò a diffondersi attorno a West Cork. Molte coppie giovani si erano spostate in questo territorio non proprio ospitale per cercare un nuovo stile di vita. Le bibbie del fai da te, come il “Complete book of self sufficiency” di John Seymour (1976) e “Small is beautiful” di E. F. Schumacher (1973) erano in circolazione tra i piccoli produttori. Alcuni di loro, come Dick e Helen Willems, olandesi, portarono dalla madrepatria una certa perizia. All’interno di questa migrazione c’erano dei casari di quarta generazione, come i Mahers, la cui fattoria di Tipperary vinse un premio per il miglior latte, nel lontano 1905. Molti contadini erano stati colpiti dalla recessione in Irlanda, e tra questi anche Pat O’Farrell di Carrigaline, che si trovò senza stipendio dopo la chiusura della locale fabbrica di ceramiche. Lo stimolo decisivo fu l’introduzione delle quote latte,voluta dall’Unione Europea nel lontano 1983, catastrofica per alcuni e catalitica per altri. Gli allevatori non avrebbero potuto far altro che ottimizzare il valore del loro fantastico latte. Jeffa Gill, la produttrice del crosta lavata Durrus, arrivò dall’Inghilter-

ra quando aveva 17 anni. Comprò una fattoria in disuso a West Cork, nei pressi di Knockboolteenah (dal significativo nome di “collina delle piccole latterie”). La condivisione era fondamentale in quella situazione difficile. «Il tuo lavoro te lo dovevi creare tu, negli anni ’70» spiega Jeffa. «Non avevamo capitale». Nel 1979 produsse un piccolo formaggio praticamente senza avere una lira. «Dovevamo inventarci anche le nostre attrezzature. Avevamo bisogno di contenitori piuttosto grandi che ci servissero come caldaie, usavamo dei tubi come fascere e i coltelli da pane per tagliare la cagliata». Nello stesso anno Helen Willems decise di produrre un Gouda. Trovò un set per fare il formaggio, una ricetta olandese piuttosto vetusta e usò il latte del suo gregge. Il risultato fu un formaggio magnifico, esotico benché nettamente irlandese, profondamente marcato dal territorio, ora chiamato Coolea. La gente si incontrava, si scambiava idee e anche gli stessi formaggi. «Eravamo tutti molto coesi» ricorda Jeffa. Nonostante questi gruppi molto affiatati ogni formaggio irlandese aveva una propria personalità, dovuta al territorio, al clima assolutamente imprevedibile. Jeffa prese in prestito un libro da Veronica e diede a Giana Ferguson, la produttrice del Gubbeen, una porzione di caglio. Jane e Louis Grubbe

Confezionamento del Gubbeen (foto: www.thegatheringireland.com).

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si impadronirono delle ricette per il Cashel Blue, come oggi ricordano con un sorriso, semplicemente offrendo da bere a due vecchi casari locali. Avevano anche loro lo stesso atteggiamento empirico; produssero il loro primo erborinato nel 1984, che fu anche il primo ad essere creato in Irlanda, in una caldaia di rame usata per la produzione della birra. Non avevano conoscenze tecniche, ma avevano accesso ad una biblioteca, c’era la formazione di Louis in botanica e l’amore di Jane per la cucina. Gli anni ’70 rappresentano più un punto di arrivo che di partenza per il formaggio di fattoria. Durante gli anni della guerra si era trascurato il cibo. I grandi marchi facevano capolino, il formaggio di Calvita lo si trovava ovunque come farcitura dei sandwiches, il Brie di rado lo si vedeva sulle tavole in campagna e, come dice Veronica, «il Cheddar lo trovavi soltanto nei negozi più in, dovevi metterti la pelliccia e salire sulla tua Rolls». I formaggi erborinati erano qualcosa di esoterico. «È andato a male», la figlia di Sarah Furno ricorda si sentiva dire dalla gente durante la fiera equina di Tipperary nel momento in cui faceva assaggiare il suo Cashel Blue. «Eravamo sul punto di perdere una cultura gastronomica locale» sostiene Giana Ferguson, la creatrice del Gubbeen. Giana, una cittadina inglese di estrazione ungherese, aveva vissuto nel sud della Spagna, dove aveva osservato alcune donne produrre del formaggio fresco. Lei e il marito Tom, un casaro, stavano fornendo il latte alla Baileys Irish Cream quando iniziò a produrre il suo formaggio “molto particolare”. Il suo Gubbeen ora è un formaggio meravigliosamente aromatico e consistente. Alcune delle donne presero delle lezioni di caseificazione all’Università di Cork. «Erano lì per tentare di formare tecnici in camici bianchi per la produzione industriale… e poi finirono con il ritrovarsi tutte queste donne, tutta questa gente hippy!» ricorda Giana con ironia. Nel 1983 molte di queste donne si riunirono per formare un consorzio, la Irish Farmhouse Cheesemakers Association, che divenne in seguito

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Neal’s Yard Dairy a Londra. CAIS (formaggio in gaelico). Vide la luce come associazione senza scopo di lucro per poi aprirsi al mercato. Il movimento era partito. Quell’anno vide inoltre l’entrata in scena dell’Ardrahan, formaggio a crosta lavata prodotto da Mary e Eugene Burns nella loro fattoria nella contea di Cork. La famiglia di Eugene possedeva una mandria con pedigree dal 1925 e l’introduzione delle quote latte nel 1983 li incoraggiò a produrre l’Ardrahan con latte crudo (oggi è pastorizzato, senza tuttavia incidere sulla carica aromatica). Come il Milleens, il Durrus e il Gubbeen anche l’Ardrahan ha una crosta lavata, un metodo che ben si accorda con il clima umido e piovigginoso di West Cork. «Erano sempre così pungenti», dice Mary richiamando alla memoria i suoi primi formaggi. Eugene, avendo avuto difficoltà nel trovare un mercato interno per i suoi formaggi, li portava personalmente al mercato di Rungis a Parigi ogni mese. Quando nel 2000 Eugene morì, Mary prese in mano il controllo completo dell’azienda, dalla produzione alla commercializzazione, con il figlio Gerald e nuovi operai. I casari artigiani irlandesi hanno avuto la meglio contro ogni sorte di calamità: dalla crisi finanziaria causata dalla tubercolosi ai timori dei consumatori legati alle malattie bovine, dalle idee mistificate sul latte crudo fino ad arrivare ad alcune

tragedie personali e allo sforzo fisico quotidiano richiesto dalla lavorazione manuale. E a tutto ciò si aggiungono due recessioni economiche. Hanno ricevuto un po’ di aiuto lungo la strada nel momento in cui, gradualmente, i gusti e le idee cominciarono a cambiare. Neal’s Yard Dairy a Londra e l’apertura di Sheridans Cheesemongers a Galway negli anni ’90 contribuirono a creare una cultura della qualità che il settore retail tradizionale non era riuscito a fare. Al momento ci sono 53 produttori di formaggio artigianale in Irlanda e circa 130 tipi diversi di formaggio. Questa è un’operazione di trasmissione. Tutti questi formaggi sono il risultato di una tradizione che si rinnova di padre in figlio. Quando Sarah Furno era piccola, dava una mano in famiglia a sgrondare le cagliate e ad allattare i vitelli. Ora, insieme al marito Sergio, dirige l’azienda che produce il Cashel Blue e il loro erborinato di latte ovino, il Crozier Blue. Lei ha portato avanti la tradizione dei Quaccheri a cui apparteneva la famiglia, assumendo della gente del posto, qualcosa che rende la produzione di formaggio artigianale qualcosa di unico. Jeffa Gill lo descrive in modo più significativo: «Abbiamo creato un modo di vita rurale sostenibile». Non c’è molta gente al mondo che possa dirlo. Raffaele Bertolini

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Lo schiz, freschezza d’alta quota Simbolo di una cucina povera ma genuina, lo schiz è un formaggio tipico della provincia di Belluno, che si caratterizza proprio per prodotti caseari molti umili, frutto della tradizione montanara di Michele Bracieri

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arliamo dello schiz, un prodotto tipico delle montagne tra Feltre e Belluno, più precisamente delle Dolomiti bellunesi. Ci troviamo in Veneto, in una regione che fornisce alle tavole italiane una grande varietà di formaggi, tra cui il Montasio, il Casel Bellunese, il Cesio, il Renaz e il Tosella, ma l’elenco potrebbe essere più lungo. Si tratta di prodotti lattiero caseari che rappresentano un patrimonio della cucina e delle tradizioni bellunesi. I formaggi hanno un ruolo dominante nella storia alimentare di quest’area, poiché l’ingegno dell’uomo ha portato alla creazione di innumerevoli tipologie che riflettono la storia di famiglie che si alimentavano, in larga parte, con prodotti fatti in casa. Queste zone montane, infatti, nei periodi invernali venivano tagliate fuori dalle comunicazioni, e l’auto-sostentamento diventava una necessità primaria.

Schiz alla piastra (foto: www.mytasteforfood.com).

Alimentazione e territorio Nella provincia di Belluno, dove risultava del tutto assente la coltura dell’olio e scarsissima quella del vino, il latte e il formaggio, insieme alla carne, hanno rappresentato elementi essenziali per la vita in montagna. Largamente diffuso è il consumo di latte sotto forma di cagliate e caciotte, un’usanza alimentare in grado di radicarsi e propagarsi attraverso l’impiego di pochi e invariati ingredienti: latte, sale, caglio. Con questi pochi elementi si è dato origine, nei secoli, a svariate tipologie di formaggi legate alle forme di insediamento, alle modalità di conservazione, alla commerciabilità, ai gusti del tempo, alle condizioni climatiche e dei trasporti. Insomma, i formaggi sono il frutto di variegate, ricche e diffuse culture locali (a sinistra: Auronzo di Cadore e sullo sfondo le Dolomiti bellunesi; foto: http://it.wikipedia.org).

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Tra i derivati del latte, in origine lo schiz rappresentava, più che un formaggio vero e proprio, un modo di consumare il formaggio stesso: quando in una malga (o in una latteria “turnaria”), la cagliata ottenuta con latte parzialmente scremato veniva tolta dal paiolo e pressata nelle fascere, la pasta in eccedenza debordava e, una volta rifilata, formava delle striscioline di formaggio che, tagliate a pezzi, venivano cotte in padella. Lo schiz è quindi una cagliata che, accompagnata con la polenta, costituiva il pasto giornaliero del “malgaro”, ovvero di colui che trascorreva le giornate ad alta quota accompagnando il bestiame al pascolo. Oggi è possibile reperire questo prodotto tipico anche nei negozi o nelle latterie “turnarie”, ma i veri intenditori consigliano di prepararlo direttamente in casa, poiché è un formaggio che va consumato preferibilmente in giornata: la freschezza costituisce la sua principale caratteristica. Le sue fette, infatti, restano integre e non si fondono solo se il formaggio è di giornata e se confezionato con latte freschissimo. Per cucinarlo è necessario riscaldare del latte vaccino intero (o parzialmente scremato) in una pentola, fino al raggiungimento della temperatura di 35°C, a questo punto si aggiunge del caglio (la dose è di 5 grammi per 10 litri) e si lascia riposare il prodotto per poco più di mezz’ora. La “cagliata”, quando si è coagulata, viene rotta con un apposito attrezzo che disunisce la massa riducendola in frammenti della dimensione di un chicco di grano. Dopo dieci minuti di riposo, il tutto viene di nuovo scaldato alla temperatura di 40°C (è importante ricordarsi sempre di mescolare). Dopo aver spento la fiamma e aver lasciato raffreddare il formaggio, è possibile osservare come la cagliata si separi dal siero, a questo punto è necessario scolare il

Caseifici molto speciali Le latterie “turnarie” sono spazi pubblici in cui le famiglie avevano diritto di lavorare il latte delle mucche per ottenere burro e formaggio. Molto diffuse negli anni ’60 e ’70, sono notevolmente diminuite con lo spopolamento delle aree montane. Nella zona di Feltre e del Bellunese, ancora oggi, è possibile trovarne alcune tuttora funzionanti, anche se, per sopravvivere, hanno dovuto unificarsi alle vigenti normative europee. Queste regolamentazioni, tuttavia, non hanno modificato le procedure artigianali e la qualità dei prodotti caseari (in basso, una foto d’epoca di un Caseificio turnario; foto: www.spazidelfare.it).

tutto entro uno scolapasta o un telo. Il risultato è un formaggio a pasta semicotta, tenera, che viene disposto in stampi di forma quadrata, in modo da favorirne il taglio a fette. Proprio queste fette vengono poi rosolate in padella con burro e poco sale, prima da una parte e poi dall’altra, fino a quando non compare sulla superficie un’invitante crosticina dorata. Oltre ad accompagnarsi con la polenta, lo schiz può essere gustato aggiungendo della panna o una quantità maggiore di latte in fase di cottura, oppure impanando le sue fette nella pastella con uovo sbattuto e pangrattato. Risulta essere un formaggio versatile che si presta a molteplici interpretazioni culinarie: antipasti, primi, secondi e persino dolci.

“Un tempo pasto giornaliero del malgaro, oggi è possibile reperire questo prodotto tipico anche nei negozi e nelle latterie turnarie, ma i veri intenditori consigliano di prepararlo direttamente in casa perché va consumato in giornata e fresco” Premiata Salumeria Italiana, 1/13

Lo schiz è un piatto unico, simbolo di una cucina povera ma genuina, tipico della provincia di Belluno, che si caratterizza proprio per prodotti caseari molti umili, frutto della tradizione montanara. Il nome stesso del formaggio deriva dal dialetto locale e dal fatto che durante la cottura esso fa uscire (“schizzare” fuori) le goccioline del siero trasudate con il calore. Tra le altre “controindicazioni” di questo prodotto, bisogna sottolineare che è possibile degustarlo solamente nelle zone di Belluno e Feltre: è impossibile riuscire a trovarlo ad altre latitudini. Non resta quindi che programmare una piccola vacanza in montagna, abbinata magari a qualche rilassante escursione, un modo per far convivere l’amore per la natura con quello per i prodotti genuini. L’ideale è, infatti, gustare lo schiz in una tradizionale malga, preferibilmente a pranzo dopo una bella passeggiata: il modo migliore per integrare le energie perdute. Michele Bracieri

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Vino

Viticoltura estrema

Costa d’Amalfi Doc, un vino difficile da fare, facile da amare di Massimiliano Rella

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no straordinario panorama, fatto di scogliere e borghi a picco sul mare, con scorci incantevoli, fa della costiera amalfitana un luogo rinomato in tutto il mondo per la sue bellezze naturalistiche, che l’UNESCO ha dichiarato patrimonio dell’umanità. Ma anche l’agroalimentare e l’enogastronomia rendono interessante questo tratto di costa campana che si affaccia sul Golfo di Salerno, tra Positano e Vietri sul Mare, includendo tredici centri rinomati, come Amalfi, Ravello, Tramonti. In queste terre scoscese la viticoltura sopravvive grazie al lavoro, alla determinazione e alla passione degli agricoltori. I vini, per esempio, sono spesso prodotti a costo di sacrifici e disagi imposti dalle caratteristiche orografiche del territorio. I vigneti sono coltivati su terreni difficili e impervi, inaccessibili con mezzi meccanici, da lavorare a mano. In Costiera troviamo prodotti dalla forte identità territoriale, come lo Sfusato amalfitano, una varietà di limone a forma allungata e molto

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profumata, senza semi, con un’acidità non eccessiva, usato per produrre il famoso limoncello, come quello dell’azienda Il Gusto della Costa, di Praiano, specializzata anche in confetture e marmellate di agrumi, liquori alla liquirizia o al finocchietto (www.ilgustodellacosta.it). Un altro grande prodotto — ma veramente di nicchia — è la Colatura di alici di Cetara, un presidio Slow Food oggi fatto da tre sole aziende, a Cetara, Vietri sul Mare e Salerno. La lavorazione è artigianale: le alici fresche, pescate nel golfo, vengono pulite e messe in contenitori con sale grosso e disposte a strati per la disidratazione — 24 ore — e poi conservate nel sale sotto la pressione di un coperchio che fa da base d’appoggio a una pietra per 9-12 mesi. Si produce così un liquido, trasudato dal pesce per lenta maturazione, raccolto e messo in bottigliette da 100 ml. Si può utilizzare in cucina per condire la pasta, ma anche sui crostini caldi. Ogni “terzigno”, il tradizionale recipiente in rovere, è riempito con 20 kg di alici per produrre 2 litri

scarsi di colatura. A Cetara l’azienda Nettuno, della famiglia Giordano, gestisce un laboratorio ittico dove per produrre la colatura di alici viene fatto ancora tutto a mano (telefono 089 261147). Dopo i limoni e le alici è il turno del protagonista indiscusso dell’enogastronomia amalfitana. È il vino Costa d’Amalfi DOC, un prodotto di qualità ancora poco conosciuto. La produzione è basata prevalentemente su vitigni autoctoni come Biancazita, Biancatenera, Pepella, Tintore, Ginestra, Fenile, Piedirosso, Aglianico e altre varietà coltivate su terrazzamenti in forte pendenza, che con viti anche centenarie e prefillosseriche caratterizzano il paesaggio. I vini DOC Costa d’Amalfi, bianchi, rosati e rossi, possono portare in etichetta l’indicazione di una delle tre rispettive sotto zone: Furore, Ravello, Tramonti, a seconda dell’area di coltivazione delle uve. A Vietri sul Mare (Salerno) l’azienda Le Vigne di Raito, di Patrizia Malanga, coltiva due ettari di vigne a conduzione biologica e biodinamica. Tra i vitigni coltivati troviamo

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1) Gaetano e Luigi Reale nelle vigne dell’Azienda Agricola Reale, a Tramonti. 2) La produttrice Patrizia Malanga, della cantina Le Vigne di Raito. 3) Ettore Sammarco, titolare dell’omonima cantina di Ravello, e l’enologo veneto Carlo Roveda. 4) La cantina di Tenuta San Francesco a Tramonti. Aglianico e Piedirosso utilizzati per produrre una IGT Colli di Salerno Rosso (Aglianico 80%), ma anche un nuovo vino, creato dall’enologo Gennaro Reale, un nuovo rosato ottenuto da una pressatura soffice e dall’eliminazione immediata delle bucce (Piedirosso 80%). Su prenotazione sono organizzate visite e degustazioni anche in abbinamento a prodotti locali, percorsi di approccio alla vitivinicoltura e, su richiesta, pranzi. Il tutto con varie formule di prezzo, per promuovere una produzione che richiede costi di gestione elevati (www.levignediraito. com).

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Sono diverse le aziende agricole che abbinano la produzione di vini all’attività ricettiva e di ristorazione, come l’azienda Reale, nel Borgo di Gete, a Tramonti, di proprietà dei fratelli Luigi, Gaetano ed Emanuele Reale. Il vigneto è in conversione biologica. I vini sono: il rosso Borgo di Gete da uve Tintore in purezza; il Cardamone, un rosso ottenuto da un uvaggio di Piedirosso in prevalenza con aggiunta di Tintore; il bianco Aliseo da uve Biancolella, Pepella e Biancazita e, infine, il rosato Getis, da Piedirosso e Tintore. A cinque minuti di cammino dalla cantina si può visitare la cappella

rupestre della Madonna delle Grazie. Entro l’anno riapriranno la trattoria e alcune camere per la notte, dopo un’opera di ristrutturazione (conto medio € 30,00, doppie da € 70,00 www.aziendaagricolareale.it). La Tenuta San Francesco a Tramonti è una cantina in un’antica masseria, che produce vini DOC Costa d’Amalfi: Tramonti bianco, rosso e rosato e un Tintore di Tramonti da uve coltivate su viti prefillosseriche, oltre al cru bianco Per Eva ottenuto da uve Falanghina, Pepella e Ginestra. Due altri vini sono il Costa d’Amalfi DOC Riserva 4 Spine, e il Tintore di Tramonti Prephilloxera È Iss. L’a-

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Vigne della cantina Marisa Cuomo a Furore. Viti nella parete rocciosa e scala di pietre per passare da una terrazza all’altra: le condizioni di lavoro sono dure in questo territorio inaccessibile ai mezzi meccanici. zienda appartiene ai soci Gaetano e Gerardo Bove, Vincenzo D’Avino e Luigi Giordano. Oltre a produrre vino ha un allevamento di maiali e pecore. Sono di produzione diretta anche ortaggi, frutta, salumi, pancette e pane. I turisti del vino possono pernottare in due camere semplici sopra la cantina (www.vinitenutasanfrancesco.it). Interessanti vini del territorio di Ravello sono quelli di Ettore Sammarco, un simpatico signore che ha fondato l’azienda omonima nel 1962, dopo studi di Enologia ad Avellino. «Era l’unica cosa che volevo fare e mi piaceva tanto» ricorda Sammarco. «A Salerno comprai le prime botti

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di castagno, ma fui sconsigliato di mettermi a fare vino. Eppure riuscii a venderlo tutto». Una passione che non è venuta meno: dalla produzione iniziale della prima annata di 20.000 bottiglie oggi la cantina è arrivata a produrre 80-90.000 bottiglie. Passione che Sammarco vorrebbe fosse riscoperta e condivisa dai giovani. «Solo chi è nato qui fa il lavoro in vigna, senza questo attaccamento si rischierebbe l’abbandono della terra. Oggi è prevalente il turismo anche se i giovani stanno recuperando questo rapporto con la terra d’origine». Sammarco coltiva solo vitigni autoctoni: Biancolella, Falanghina,

Piedirosso, Aglianico, Pepella, Ginestra. Anche la sua è un esempio di viticoltura eroica: una vigna a Montebrusaro, vicino Ravello, a 450 metri sul livello del mare, può essere raggiunta solo a piedi e lavorata a mano. Tra i vini prodotti troviamo il Selva delle Monache bianco ottenuto da un uvaggio di Biancolella con Falanghina, Pepella e Bianca Tenera; il Selva delle Monache rosato da uve Piedirosso e Sciascinoso; il Selva delle Monache rosso da uve Piedirosso con una piccola percentuale di Aglianico; e ancora, Terre Saracene, un bianco da Biancatenera, Pepella e Falanghina; e il cru Ravello Vigna Grottapiana da un uvaggio di ginestra con Biancolella e Falanghina (www. ettoresammarco.it). Una delle più note cantine della Costiera è però Marisa Cuomo, situata nel paese “disperso” di Furore, a 500 metri sul livello del mare, in un paesaggio di montagne a picco su baie, insenature, rupi scoscese e — unico nel suo genere — il Fiordo di Furore. In questo territorio impervio ogni metro di vigna è strappato ad un ambiente ostile e impone condizioni di lavoro difficili, a volte avventurose. L’azienda è nella zona di vigneti terrazzati della DOC Costa d’Amalfi. Le viti sono coltivate su rocce dolomitiche calcaree — a volte in orizzontale con le radici che affondano nelle pareti rocciose. Nella cantina, scavata nella roccia, sono affinati vini Furore e Ravello, come l’apprezzato Fior d’Uva, un bianco ottenuto da un uvaggio di Fenile, Ginestra e Ripoli. La cantina utilizza le uve dei propri vigneti, circa cinque ettari, e quelle conferite da una quarantina di viticoltori locali, aggregati fornendo assistenza agronomica e tutto il necessario per gestire le vigne. L’azienda è titolare del marchio Gran Furor Divina Costiera che risale al 1942, da quando è utilizzato per commercializzare i vini ottenuti dai terrazzamenti della Costa di Furore (www.marisacuomo.com). Massimiliano Rella Nota A pag. 88 viti nella parete rocciosa, vigne di Marisa Cuomo, a Furore. Foto di Massimiliano Rella.

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar Premiata Salumeria Italiana, 1/13 91 perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: di Laura

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n vino passito, rosso e secco, una denominazione di origine controllata e garantita quella dello Sforzato di Valtellina, anche detto “Sfursat”. Un vino noto, amato e bevuto non solo in Italia. Per lungo tempo bacino di produzione vinicola destinata essenzialmente alla Svizzera, in particolare al cantone dei Grigioni, ora la Valtellina è particolarmente conosciuta per i suoi eccellenti vini, che esporta in tutto il mondo, grazie al binomio tradizione-qualità. Una regione che stu-

pisce anche per i paesaggi mozzafiato. Ammirandoli, non è difficile capire perché la sua viticoltura venne definita “eroica”: i terrazzamenti che ospitano i nobili vigneti di Valtellina durante la vendemmia erano certamente l’incubo dei raccoglitori di uve, impegnati in scoscese e ripide salite, muniti di pesanti giare. Ora la tecnologia è venuta in aiuto ai coltivatori di queste terre, meravigliose quanto difficili, alleviando, almeno in parte, l’immensa fatica necessaria alla vendemmia di questi impervi vi-

Sforzato di Valtellina DOCG Sfursat Carlo Negri 2009 Nino Negri

Sforzato di Valtellina DOCG Albareda 2010 Mamete Prevostini

Sforzato di Valtellina DOCG San Domenico 2007 Triacca

Una realtà vinicola di deciso successo quella di Nino Negri, che regala splendide interpretazioni del territorio, senza eccessi creativi ma sempre in linea con tipicità e qualità. Lo Sforzato Carlo Negri è ampio e complesso al naso, con profonde e lunghe note fruttate e speziate, che ritornano in retrolfattiva. Non delude di certo la sorsata, che è altrettanto ampia e lunga. Intenso di note morbide e calde, con note di sapidità e freschezza ben presenti, a garanzia di un gran bel equilibrio. Armonico, intenso e lungo, allo stesso tempo facile di graziosa e necessaria acidità, si presta benissimo sia a degustazioni meditative, alla ricerca delle numerose note olfattive, che all’abbinamento con i numerosi piatti della tradizione valtellinese, così adatti alle lunghe e fredde sere invernali.

Mamete è un giovane imprenditore che ha voluto investire nella viticoltura di tradizione, facendosi carico dei rischi e della mole di lavoro che questo comporta. I risultati non si sono fatti attendere e già da tempo colleziona successi e riconoscimenti. Non fa eccezione lo Sforzato Albareda, ampio, armonico e intenso. Un calice rosso rubino scuro di grande stoffa, caratterizzato da un bouquet olfattivo ricco e complesso. Alle note di confettura di frutti rossi si vanno ad aggiungere note speziate dolci, tinte di carruba e sentore di rose appassite. Al palato è circolare, entra morbido e avvolgente, accattivante grazie alla necessaria spalla acida, che lo spinge verso una bella lunghezza gustativa. Ottimo da solo per una degustazione meditativa, è straordinario con la polenta taragna, a base di grano saraceno, e bitto, formaggio tipico valtellinese.

Lungo, ampio, intenso, persistente. Ci si può sperticare con i complimenti davanti a questo corposo e complesso calice di Sforzato, il San Domenico della nota cantina Triacca. Emerge con forza una grande armonia unita ad un’altrettanto decisa bevibilità. Sono assolute le tinte fruttate, di frutta passita, accompagnate da spezie dolci, note di mandorle tostate e bacche di cacao. Forte la morbidezza e la componente alcolica, sostenute da un’ottima freschezza e da una garbata vena sapida. Un tannino vellutato, presente ma non aggressivo, completa una degustazione circolare, assolutamente persuasiva. Un calice adattissimo alla meditazione gustativa, così come ai piatti corposi, preferibilmente di carne e selvaggina, da penna e da piuma. Dimenticate una bottiglia in cantina per una decina d’anni almeno, lo merita.

Nino Negri Spa Via Ghibellini, 3 23030 Chiuro (SO) Telefono: 0342 485211 negri@giv.it

Crotasc Srl Via Don Primo Lucchinetti, 63 23020 Mese (SO) Telefono: 0343 41522 info@mameteprevostini.com

Cavitria Casa Vinicola Triacca SA Via Nazionale, 121 23030 Tirano (SO) Telefono: 0342 701352 info@triacca.com

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Sforzato di Valtellina Franchini

gneti. Il paesaggio però resta, grazie al cielo, quello di un tempo, e le magnifiche terrazze coltivate ad uva della Valtellina meritano una visita, unita ad una sosta presso le cantine vinicole. Lo Sforzato deve il suo nome al tipo di appassimento delle uve che caratterizza la sua produzione, cioè quello di “forzare”, di prolungarne la maturazione, lasciandole appassire per alcuni mesi dopo la vendemmia, preferibilmente in grotte, i cosiddetti “crotasc” (crotacci o crotti).

Qui le fredde e secche correnti d’aria della Valtellina contribuiscono ad una concentrazione perfetta delle uve. L’appassimento dura poco più di cento giorni e causa una perdita di quantità di circa il 40% del peso delle uve. Il prodotto che ne deriva è quindi pronto per la pigiatura e per i successivi ventiquattro mesi di maturazione e di affinamento, in legno e bottiglia. Il vitigno alla base di questo prezioso vino è il Nebbiolo, nella varietà denominata Chiavennasca, per il 90% della produzione.

Sforzato di Valtellina DOCG Vigneti di Spina 2009 Bettini

Sforzato di Valtellina DOCG Tinaia 2005 Cantina di Villa

Sforzato di Valtellina DOCG Canua Conti Sertoli Salis

La piacevolezza gustativa di questo calice di Sforzato è la prima cosa che emerge dalla degustazione, che apre con un bel rosso granata pulito. Al naso regala copiose note di frutta in confettura, quasi dolci, di spezie ben integrate nel bouquet, di pinoli tostati e cannella. Non delude al palato, dove rivela un’inaspettata e forte bevibilità, tipica dei vini ben fatti e di grande eleganza. Un fascino derivante anche dal grande equilibrio tra morbidezze e asperità, dal tannino educato, dalla globale armonia. Pur ottimo in degustazione, da solo per ricercare le molteplici note olfattive, è eccellente con piatti di carne strutturati, come stufati, brasati e spezzatini, ricchi di aromi e intensi di gusto. Si presta anche all’abbinamento con formaggi di media e lunga stagionatura.

Nebbiolo in purezza per questo Sforzato, il Tinaia, che affina in botti grandi di rovere per almeno 36 mesi. Si apre alla degustazione con un rosso rubino tendente al granata. Ampia e intensa la parte olfattiva: sono note di frutta sotto spirito, di piccoli frutti rossi in confettura, di spezie a corredo. Intensa anche l’entrata in bocca, morbida e calda, sorretta di una bella vena fresca. È sulla persistenza che gioca le sue ottime carte, lasciando un gran bel ricordo, seducente e raffinato. Non deluderà il bevitore esperto, alla ricerca di lunghe e copiose note olfattive e circolari, così come l’esperto gourmet, alla ricerca di abbinamenti convincenti. Provatelo con stufati di selvaggina, di cinghiale e con formaggi stagionati. Ottimo con la cassoeula. Vino dalla vita lunga, adatto all’invecchiamento.

Una cantina che definirla storica è certamente riduttivo. Secoli di storia, di coltivazione delle uve, la prima bottiglia è datata 1869. Merita decisamente una visita il palazzo antico che ospita l’azienda, di grande pregio storico ed artistico. Diciotto mesi di affinamento in tonneaux di rovere per lo Sforzato Canua, eccellente espressione della denominazione, particolarmente pregevole nell’equilibrio tra morbidezza e durezza. Rubino limpido il colore, al naso è suadente di note fruttate rosse e mature, leggere tinte balsamiche, anche circolari, ricca la speziatura a contorno. Un calice decisamente morbido e caldo, con una buona freschezza ed acidità, che si presta benissimo al lungo rito della degustazione meditativa, magari davanti ad un camino acceso, in una nevosa serata invernale, ospiti di uno chalet valtellinese.

Casa Vinicola F.lli Bettini Snc Via Nazionale, 68 23030 San Giacomo di Teglio (SO) Telefono: 0342 786068 info@vinibettini.it

Cantina Cooperativa Villa di Tirano e Bianzone Sca Via Campagna, 17 (23030) Villa di Tirano (SO) – Telefono: 0342 795107 info@cantinadivilla.it

Salis 1637 Società Agricola Srl Via Stelvio, 18 23037 Tirano (SO) Telefono: 0342 710404 info@sertolisalis.com

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Prestigiosa affermazione del Lambrusco modenese alla 20 edizione del Concorso Enologico Internazionale del Vinitaly a

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Si è conclusa la 20 edizione del Concorso Enologico Internazionale del Vinitaly. Il concorso, tra i più prestigiosi al mondo, è da sempre un affermato strumento di marketing e di promozione confermato dalla larga partecipazione di vini provenienti da tutto il mondo e testimoniato dal sempre maggior numero di vini partecipanti. Ogni anno vengono assegnati i premi speciali Gran Vinitaly, Vinitaly Nazione e le prestigiose medaglie Gran Medaglia d’Oro, Medaglia d’Oro, Medaglia d’Argento e Medaglia di Bronzo. Il Concorso Enologico Internazionale Vinitaly 2012, il più selettivo del mondo, ha assegnato ben 14 riconoscimenti alle aziende vinicole modenesi. I nostri Lambruschi DOP e IGP sottoposti al giudizio severo delle 21 commissioni hanno premiato il costante e continuo miglioramento qualitativo conseguito dalle aziende vitivinicole del nostro territorio. Il dettaglio dei premi inizia con la Gran Medaglia d’Oro vinta dalla Cantina di S. Croce, Carpi, con il Lambrusco Salamino di Santa Croce amabile, due Medaglie d’Oro con il Lambrusco Grasparossa di Castelvetro “Vigneto Cialdini” della Chiarli 1860 di Modena e con il Lambrusco Grasparossa di Castelvetro “Il Fojonco” di Cantine Riunite&CIV, due Medaglie di Bronzo sempre con la tipologia Lambrusco Grasparossa di Castelvetro, una per l’azienda agricola Pezzuoli di Maranello e l’altra per la Chiarli 1860 di Modena. Le nove Gran Menzioni sono state ottenute da cinque campioni di Lambrusco Grasparossa di Castelvetro, da due campioni di Lambrusco di Sorbara, da un Lambrusco Salamino di Santa Croce e da un Lambrusco dell’Emilia rosato. (Consorzio Tutela del Lambrusco di Modena)

Anteprima Bardolino: domenica 17 e lunedì 18 marzo a Lazise si presenta la nuova annata del Bardolino e del Chiaretto Giunta alla quinta edizione, l’Anteprima del Bardolino raddoppia: accanto all’apertura, domenica 17 marzo, alla Dogana Veneta di Lazise, si aggiunge una giornata dedicata esclusivamente agli operatori, lunedì 18 marzo. All’esterno, sul lungolago, il consueto spazio per la gastronomia e i prodotti tipici. A distinguere l’Anteprima del Bardolino e del Chiaretto dalle altre analoghe iniziative che si svolgono in Italia è una caratteristica unica: qui davvero si assaggiano i vini dell’ultima vendemmia, pronti ad andare sul mercato. Più di sessanta aziende espositrici, quasi duecento vini in degustazione, serviti direttamente dai produttori (in basso, foto di Thilo Weimar): è questo il parterre dell’Anteprima del Bardolino e del Chiaretto, vini che stanno vivendo un momento felice, premiati anche dalle maggiori guide nazionali del settore. «C’è una forte riscoperta dei vini fruttati e leggeri, capaci di accompagnare la tavola e la convivialità» dice Tommasi. Quanto all’annata 2012, i primi riscontri sono piuttosto interessanti: «La vendemmia del 2012 — sottolinea il responsabile tecnico del Consorzio del Bardolino, Andrea Vantini — è la conferma di quanto possano essere aleatori i modelli previsionali nel settore del vino: in piena estate, con il caldo incessante, si ipotizzava una raccolta scarsa, e invece l’andamento di settembre e di ottobre ci ha consegnato quantitativi di uva in linea con la media della Doc del Bardolino». Quella del 2012 è anche la prima annata per la quale tutti e 32 i milioni di bottiglie del Bardolino e del Chiaretto recheranno il contrassegno di Stato, a totale garanzia del consumatore. Ma è anche l’annata del riconoscimento da parte del MIPAAF della funzione erga omnes per il Consorzio del Bardolino, che gode di un’adesione tra le più alte d’Italia: «In questi ultimi anni — conferma il presidente Tommasi — abbiamo visto un numero sempre più alto di aziende aderire al Consorzio e oggi rappresentiamo il 92% delle uve prodotte sul nostro territorio». >> Link: www.ilbardolino.com

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Birre trentine: sapori ritrovati È relativamente recente il recupero della tradizione della birra artigianale in Trentino. La visita ai birrifici Birra di Fiemme e Fravort ci dice che la strada intrapresa dalla nuova generazione di mastri birrai è quella giusta

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iù che di una novità, è giusto parlare di un ritorno. Anche se il Trentino è stato da sempre — assieme all’Alto Adige — una zona dichiaratamente vocata per la viticoltura, la tradizione birraia ha avuto nelle vallate attorno a Trento un significativo passato. La storia Decollata principalmente per rispondere alle esigenze del turismo termale di metà dell’Ottocento e alla mancata produzione di vino a seguito delle epidemie che falcidiarono i vigneti europei fra Otto e Novecento, la birra trentina conobbe una fase espansiva interessante con una connessa produzione di materia prima locale, malti e orzi principalmente, che ne connotavano sapori e qualità. La storia — fonte principe ed assai interessante è il saggio “L’industria sudtirolese della birra tra XIX e XX secolo nel contesto della produzione italiana” di ANDREA LEONARDI, professore di Storia economica presso l’Università degli Studi di Trento, ripreso dal collega Cristian Cenci — inizia però nel 1300, con le prime produzioni tirolesi di birra grazie a mastri bavaresi e boemi. Il primo birrificio a sud del Brennero — oggi un quartiere di Bolzano — fu opera di un albergatore di Gries, Thomas Carli, che nel 1838 avviò la prima “cotta”. Nella seconda metà dell’Ottocento la produzione di birra si spinse sempre più a sud, sbarcando per la prima volta in Val di Fiemme. Nel 1861 venne fondato, ad opera di 96

Giuseppe Rizzoli, uno stabilimento a Kaltenbrunn/Fontanefredde che conquistò fette di mercato anche extraregionali grazie all’aiuto di mastri birrai istruiti in Boemia. L’esperienza di questo birrificio, però, si esaurì con

l’annessione del Tirolo meridionale al Regno d’Italia. La produzione in questi primi birrifici avveniva tramite malto prodotto in loco e altre materie prime reperibili nel mercato interno austriaco, mentre

Birra di Fiemme: Nòsa, Lupinus, Larixbier, Flaimbier, Weizenbier. Premiata Salumeria Italiana, 1/13


A sinistra: il logo Birra di Fiemme. A destra: Stefano Gilmozzi. il luppolo proveniva esclusivamente da Boemia e Moravia. Dopo queste prime esperienze i birrifici iniziarono a diffondersi anche in Trentino. Nel 1870 se ne contavano otto, per una produzione di birra di 8.330 hl tra Trento, Rovereto, Riva, Lavarone, Pergine, Borgo, il Tesino e il Primiero. Questa rappresenta la fase “movimentista”: l’Impero, infatti, ben presto iniziò a disciplinare l’industria birraia anche da un punto di vista igienico e alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, con la Forst, erano rimasti attivi soltanto altri due birrifici: la Birreria Maffei di Rovereto e la Birreria Menardi di Predazzo. La guerra cambiò lo scenario: il rame delle caldaie venne fuso per l’industria degli armamenti, la produzione crollò... Bisognò attendere la fine della guerra, quando i birrifici trentini scoprirono che a valle c’era un mercato molto promettente. Le “nuove birrerie italiane” collocate negli ex territori asburgici (non solo la Forst di Merano, ma anche la Dreher di Trieste) coprivano da sole il 14% della produzione nazionale di birra. In particolare la produzione di birra nel territorio del TrentinoAlto Adige/Südtirol nel 1925 era di 68.734 hl: la quota principale (43.767 hl, quindi il 64%) era prodotto da Forst, mentre la quota più piccola

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(0,4%, ossia 277 hl) era prodotta in Valsugana, dalla Birreria Boso & Moranduzzo di Borgo. Superato il picco di produzione dei primi anni ’20 del Novecento, la domanda di birra iniziò a scendere, costringendo la produzione ad un nuovo calo. In questa parabola alcuni birrifici furono costretti alla chiusura e proprio quello di Borgo Valsugana fu il primo a serrare i battenti nel 1926, seguito poi nel 1931 dalla Menardi di Predazzo e dalla Orsingher del Primiero; altre furono più fortunate venendo acquisite da imprese più grandi e importanti. La nuova generazione di mastri birrai Delle dieci birrerie regionali che erano sopravvissute alla Grande Guerra, al termine degli anni Trenta ne erano rimaste solamente due, la Forst e la Seeber di Sterzing/Vipiteno. È da questa storia, e dalla tradizione di lavorare la materia prima locale, figlia dell’economia rurale di montagna, che una nuova generazione di mastri birrai ha deciso di ripartire. Birra di Fiemme Bisogna salire in Val di Fiemme (non è un grande sforzo, ammettiamolo, la vallata è stupenda e magica, ovviamente) per farsene spiegare le ragioni. STEFANO GILMOZZI proviene da una

famiglia di albergatori e ristoratori (suo fratello è lo chef de El Molin di Cavalese, per il quarto anno di seguito segnalato come il miglior ristorante del Trentino). La sua è una passione che nasce da ragazzo, che lo porta a lavorare prima in Germania come garzone di birrificio per imparare il mestiere dai grandi maestri e poi sul Lago di Costanza per conoscere tutti i segreti del luppolo. «La birra era una tradizione di qua, non c’è dubbio — spiega Stefano ad Euposia — faceva parte della nostra cultura. In modo particolare la materia prima, che qui era rappresentata dai pochi prodotti che l’agricoltura di montagna riusciva a garantire: un po’ di malto, un po’ d’orzo, i lupini di Anterivo, in Alto Adige, che i nostri vecchi in tempo di guerra tostavano e usavano come surrogato del caffè, il luppolo selvatico, dal gusto forte e rustico. Ecco, ho voluto far rinascere quei sapori, quelle birre “nostre” e questa che era una passione è diventata oggi una realtà d’impresa che vede già mio figlio al mio fianco in birreria». Per non dimenticare l’eccezionale qualità delle acque di montagna, ingrediente fondamentale nella realizzazione di una birra d’alto profilo. Come sede del suo “stabilimento” Stefano Gilmozzi ha preso in affitto alcuni locali dell’ex Colonia Pavese

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di Cavalese, un casermone che negli Anni Trenta accoglieva i bambini lombardi per le loro vacanze, oggi praticamente abbandonato. E per avere una materia prima “propria” e di qualità, la Birra di Fiemme si è guardata attorno e ad Affi, dove la montagna finisce ed inizia la grande pianura a mezzogiorno, ha preso in affitto cinque ettari per coltivare il proprio malto. Resta la grande sfida del luppolo: un paio di piantine fanno da cornice all’ingresso del birrificio, ma prima o poi il luppolo potrebbe diventare una coltivazione trentina, una diversificazione rispetto alle colture dominanti e una possibile, e interessante, integrazione al reddito degli agricoltori locali. Fravort Questa strada — quella del luppolo trentino — è stata presa anche da CLAUDIO SMANIOTTO, belga di nascita che, dopo aver lavorato in Congo per InBev, multinazionale fiamminga del settore (da Stella Artois ad una settantina di altri brand diffusi in tutto il mondo come Beck’s, ma anche la trappista Leffe) è rientrato in Italia avviando, assieme al socio Perrella, un birrificio che doveva in primis servire ristorazione e mescita al pubblico. «Nulla vieta al Trentino di allargare le proprie produzioni agricole al luppolo — sottolinea Smaniotto — i guadagni sono interessanti e potrebbe essere una buona misura per evitare l’abbandono delle campagne. Noi abbiamo avviato un impianto-pilota a Marter e il luppolo cresce rigoglioso». Rispetto alla Birra di Fiemme, il microbirrificio Fravort ha puntato inizialmente alla distribuzione in fusti per locali della Valsugana cruda per poi rilanciare lo scorso anno nuove birre: la Bionda e la Rossa di Brenta. Birre d’impostazione — ovviamente — belga: il nuovo mastro birrario viene dal Belgio così come

la direzione tecnica affidata a Christine Dujardin, ingegnere che aveva collaborato con Smaniotto in Congo. La degustazione Euposia ha provato le produzioni complete dei due birrifici. Quello di Fiemme appare “culturalmente” più impostato, mentre Fravort paga ancora lo scotto dell’avvio e delle difficoltà dello startup: dall’identità precisa del prodotto all’organizzazione. Non a caso, al debutto rampante del 2009, è seguito un periodo di ripensamento e riallineamento della produzione che ha ripreso poi slancio nel 2011. Ed è evidente il cambio di passo di questa “seconda fase” che si traduce nelle due nuove birre assai interessanti: la Bionda e la Rossa di Brenta, ad alta fermentazione, dal carattere assai ben definito ed una ricchezza e complessità di profumi e aromi davvero interessante. L’altro prodotto bandiera, la Valsugana cruda, destinata alla sola ristorazione, vanta un eccezionale palato, penalizzato in parte da un olfatto non altrettanto limpido. Birra di Fiemme, all’opposto, sembra aver trovato già un solido equilibrio. A partire dalla Fleimbier, una birra chiara, leggera, con nuance di malto e frutta secca, assai beverina, capace di dare però grande soddisfazione al palato. Le altre due birre tradizionali provate — la Weizenbier e la Larixbier — presentano contenuti qualitativi assai elevati: la prima, di frumento come evidenzia già il nome, sempre ad alta fermentazione, vede la scelta di lieviti particolari che conferiscono note più fruttate e speziate. Una birra dissetante, fresca, graziosamente “poco” impegnativa. La Larix è la rossa di casa, a bassa fermentazione: una vera esplosione di profumi e sapori. Ricca, complessa, mantiene però la caratteristica della bevibilità e della piacevolezza. Nuance di caramello, di prugna e

“Prima o poi il luppolo potrebbe diventare una coltivazione trentina, una diversificazione rispetto alle colture dominanti e una possibile, e interessante, integrazione al reddito degli agricoltori locali” 98

Birra Fravort. caffè. Da provare su qualche piatto un po’ complesso (d’obbligo il riferimento alle pizze speciali create dagli chef della pizzeria di famiglia a Cavalese, l’Excelsior, contigua al Ristorante El Molin). Risultati impressionanti. Lupinus e Nòsa (sembra portoghese, ma significa “nostra” nel dialetto locale) sono due birre speciali che debbono essere assolutamente provate: la prima vede la presenza di un lupino autoctono che in tempi più grami permetteva di realizzare un caffè davvero autarchico. La seconda è la ricostruzione della birra che a fine Ottocento/inizi del Novecento si beveva in vallata, prodotta dai mastri della Birreria di Predazzo. Una ricerca fatta di testimonianze orali, di documenti nei Comuni, di tante prove... E sono proprio i sapori così particolari, così unici, così vivi di queste ultime due che fanno capire come la birra nel Trentino abbia trovato una nuova strada. Un’ottima strada, soprattutto.

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Dolci Un prodotto d’eccellenza che proviene dagli Aztechi

Il cioccolato di Modica Ancora oggi si prepara “a freddo”, secondo l’antichissima tradizione centroamericana importata sull’isola nel ’500 dagli Spagnoli insieme con l’uso arabo della canna da zucchero di Nunzia Manicardi

“D

olce fossile”: così è stato definito il cioccolato di Modica. E la definizione davvero appare quanto mai azzeccata quando si pensi alle origini storiche di questo straordinario prodotto siciliano, unico al mondo in quanto caratterizzato da una particolare lavorazione “a freddo” che esclude la fase del “concaggio”, per cui il cioccolato che ne deriva risulta di consistenza frammentaria, come se si “sfogliasse” in bocca. Il termine “concaggio”, che deriva dalla forma a conchiglia dei rulli impiegati durante la lavorazione del cioccolato, indica una fase oggi considerata indispensabile perché il cioccolato grezzo si presenta in una forma granulosa che lo rende non propriamente adatto al consumo. Fu il produttore di cioccolato svizzero Rudolph Lindt a scoprire, nel 1879, un processo di rullatura e impastamento del cioccolato e ideò un’apposita macchina per conferirgli quella maggiore omogeneità e qualità che hanno contribuito al successo del prodotto così come attualmente è conosciuto. Nella lavorazione a freddo, come già detto, il cacao invece non passa attraverso la fase del concaggio: la massa di cacao viene lavorata a 40°C con aggiunta di zucchero semolato il quale, non riuscendo a sciogliersi né ad amalgamarsi, conferisce al cioccolato modicano il caratteristico aspetto “ruvido” . La tavoletta ha un colore marrone non uniforme; l’aroma è quello del cacao tostato, con note

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leggermente astringenti. Il cioccolato di Modica si può mangiare così com’è o sciolto in acqua come bevanda. La barretta non si può improvvisare: forme moderne, aerodinamiche, artistiche non sono ammesse. Dagli stampi metallici esce ancora, da centinaia di anni, sempre la stessa, squisita barretta di cioccolato modicano. E da sempre la si aromatizza con cannella o vaniglia; da alcuni anni anche con il peperoncino, secondo un uso davvero arcaico di cui si hanno notizie riferite agli Aztechi. Ma quasi tutti i laboratori artigianali che producono il pregiato cioccolato modicano propongono ormai altre varianti di gusto da affiancare

a quelle tradizionali: caffè, arancia, limone, agrumi misti, anice, carruba e naturale sono quelle più utilizzate e richieste. Alcuni propongono perfino barrette al gusto menta con granella di mandorle, oppure al pepe bianco, al pistacchio, allo zenzero, alla manna… Le misure standard sono: lunghezza 13 cm, larghezza 4,5 cm, altezza 1,2 cm. Peso 100 grammi all’origine, con avvolgimento in carta oleata. Ma come mai a Modica, in Sicilia, il cioccolato viene lavorato in questo modo così particolare? E come mai questa lavorazione è giunta fin qui, dove, com’è noto, di cacao non c’è la più pallida traccia? La spiegazione

Il caratteristico aspetto “ruvido” e granuloso del cioccolato di Modica.

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va fatta risalire all’arrivo, nel 1500, degli Spagnoli nella Sicilia orientale (Modica è in provincia di Ragusa). Con la conquista del Nuovo Mondo, e in particolare del Messico, dove vivevano gli Aztechi, gli Spagnoli vennero a conoscenza di una straordinaria varietà di prodotti e generi alimentari sconosciuti in Europa, tra cui la Xocoàtl, la cioccolata. Gli Aztechi la ricavavano dai semi di cacao e ne avevano un grande riguardo perché era un alimento in grado di dare forza e vigore (tant’è vero che la pianta veniva chiamata “l’albero della forza”) e, indirettamente, rappresentava anche uno status symbol, un indice di ricchezza e benessere. Essi la ottenevano macinando i semi di cacao sopra un attrezzo detto metate, costituito da una pietra ricurva appoggiata su due basamenti trasversali su cui schiacciavano i semi con uno speciale mattarello sempre in pietra. La pasta di cacao così ricavata veniva poi mescolata con spezie e il tutto era sfregato sul metate finché il composto non si induriva. Durante la loro dominazione in Sicilia, gli Spagnoli vi introdussero man mano i nuovi prodotti che venivano conoscendo là in Centro America, tra cui le bacche del cacao, che arrivarono così nella contea di Modica, allora il più importante stato feudale dell’Italia meridionale, dotato di autonomia amministrativa. Vi introdussero poi anche la lavorazione, tal quale come l’avevano vista effettuare presso i lontanissimi Aztechi. Attualmente non esistono più tracce di questo tipo di lavorazione né in Spagna né in Centro America. Solo lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia ha ricordato come essa, ai suoi tempi, sopravvivesse nella città di Alicante nelle due versioni originarie, con aggiunte di vaniglia e cannella, anch’esse portate in patria e in Sicilia dagli Spagnoli insieme con altre spezie tra cui il peperoncino: «…Altro richiamo, per restare alla gola, è quello del cioccolato di Modica e quello di Alicante (e non so se di altri paesi spagnoli): un cioccolato fondente di due tipi — alla vaniglia, alla cannella — da mangiare in tocchi o da sciogliere in tazza: di inarrivabile sapore, sic-

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Cioccolato modicano in produzione (Dolceria Bonajuto, Modica). La caratteristica è quella di non portare mai il cioccolato a una temperatura troppo alta in fase di produzione per evitare che lo zucchero si sciolga (foto: http:// lafinestrasulmondofotograficodiely.blogspot.com).

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Riconoscimento Igp per il cioccolato di Modica Il Parlamento europeo ha approvato lo scorso anno il “pacchetto qualità” aprendo la porta al riconoscimento Igp per il cioccolato di Modica. Il marchio Igp (Indicazione Geografica Protetta) viene attribuito dall’Unione europea a quei prodotti agricoli e alimentari la cui qualità dipende dall’origine geografica e la cui produzione, trasformazione e/o elaborazione avviene in un’area geografica determinata. Per ottenere la Igp i produttori devono così attenersi a regole produttive stabilite nel disciplinare e il rispetto di tali regole è garantito da uno specifico organismo di controllo. Un iter durato due anni, quello del cioccolato modicano, che ora giunge finalmente a conclusione. «Il marchio — sottolinea NINO SCIVOLETTO, presidente del Consorzio di Tutela del Cioccolato di Modica — rappresenta un meritato premio alla capacità di tanti artigiani che a partire dal 1746 hanno continuato a produrre un cioccolato che registra un grande apprezzamento nei consumatori di tutto il mondo».

ché a chi lo gusta sembra di essere arrivato all’archetipo, all’assoluto, e che il cioccolato altrove prodotto — sia pure il più celebrato — ne sia l’adulterazione, la corruzione…» (LEONARDO SCIASCIA e GIUSEPPE LEONE, La contea di Modica, 1983). In seguito ci si rese conto che unendo la massa di cacao ottenuta dai semi di cacao tostati e macinati alla canna da zucchero (scoperta qualche tempo dopo) si univa il gusto amaro e forte del cacao al gusto dolce dello zucchero. Storicamente il cioccolato modicano si è tramandato come un dolce tipico delle famiglie nobili che, durante le feste e le occasioni importanti, lo preparavano in casa. In questo modo si è tramandato fino ai giorni nostri e solo successivamente è diventato un prodotto dolciario di fama internazionale, pur continuando, nelle Antiche Dolcerie Modicane, ad essere prodotto con lo stesso metodo e con gli stessi ingredienti. In città esisteva un tempo anche la figura di uno specifico artigiano detto ciucculattaru, che si portava dietro il metate su di un carretto per produrre di casa in casa ciò che i suoi compaesani ritenevano un alimento prima ancora che un dolce. Ma vediamo come, ancora oggi, viene preparato questo inimitabile prodotto. La lavorazione, lo ripetiamo, è tuttora simile a quella effettuata dagli Aztechi al tempo della conquista

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spagnola, cioè nel XVI secolo. Essa inizia con il riscaldamento della massa di cacao ottenuta dai semi tostati e macinati (detti localmente caracca, provengono da Sao Tomè in Africa) e non privata del burro di cacao che contiene. Una volta diventata fluida, a una temperatura non superiore a 40°C, la massa viene mescolata a zucchero semolato o di canna e spezie, come le già più volte ricordate cannella, vaniglia, peperoncino, ma anche zenzero oppure scorze di limone o arancia. Rimangono comunque elevate percentuali di cacao, minimo 65%, anche nelle versioni “classiche”, fino ad arrivare alle versioni purissime con 90% di cacao. Nella più antica lavorazione a mano, la massa veniva deposta su uno spianatoio a mezzaluna, detto la valata ra ciucculatta, costruito interamente in pietra lavica e già riscaldato, e poi veniva amalgamata con il pistuni, speciale mattarello cilindrico di pietra, di diverso peso e spessore in rapporto alle fasi di lavorazione, che consistevano nella prima, nella seconda e nella terza passata, fino alla raffinazione che prendeva il nome di stricata. In molti laboratori, oggi, queste fasi di lavorazione sono effettuate da più moderne temperatrici. Il composto viene sempre mantenuto a una temperatura massima di 35-40°C che non fa sciogliere i

cristalli di zucchero, che rimangono integri all’interno della pasta. Ancora pastoso, viene versato in apposite lanni (formelle di latta a forma rettangolare) che vengono battute sia perché abbia, una volta solidificato e freddo, la forma del suo contenitore, sia per far venire in superficie eventuali bolle d’aria e rendere il prodotto compatto. La forza di quest’ultimo consiste nella semplicità della lavorazione e nell’assenza di burro o di altre sostanze estranee (grassi vegetali, latte, lecitina), il che lo rende altamente digeribile. Per proteggere il cioccolato di Modica è nato, nel 2003, il Consorzio di Tutela del Cioccolato di Modica che raggruppa venti produttori della città. Il cioccolato di Modica è anche protagonista di prestigiose manifestazione di settore: dal 2005 al 2008 la splendida città barocca siciliana ha ospitato Eurochocolate, importante manifestazione itinerante che si tiene annualmente a Perugia e in altre località italiane. Dal 2009 il Comune di Modica, in collaborazione con Fine Chocolate Organization, promuove e organizza una manifestazione denominata Chocobarocco, in sostituzione di Eurochocolate, che si tiene annualmente nel periodo autunno-inverno. Se amate il cioccolato, se amate la Sicilia, se amate le preziose tradizioni del nostro straordinario Paese, questa può essere l’occasione giusta. Nunzia Manicardi

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Aceto VIP, Visti Io Personalmente

Aceto Balsamico, delizioso nettare, dono prezioso di Angelo Valentini

N

egli anni ‘60/70, dalla mia Umbria mi trasferii in Emilia per motivi di lavoro e precisamente in quel di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, ove mi fu affidata la direzione delle aziende agricole dei coniugi Romeo e Afra Giacobazzi, noti industriali nel settore delle piastrelle con l’animo e la passione rivolte all’agricoltura, dalla quale provenivano in qualità di possidenti. L’esperienza in terra emiliana mi è stata molto preziosa nel proseguio della mia vita professionale e personale: qui, infatti, ho conosciuto mia moglie, con cui siamo felicemente sposati da 49 anni e l’anno prossimo festeggeremo le nozze d’oro, ma ho conosciuto anche un altro amore, di natura assai diversa. Una scoperta sensazionale che ha segnato una rivoluzione nel costume della tavola della mia famiglia, dove impera sempre l’ampolla di questo delizioso nettare: l’aceto balsamico. Ero stato assunto da pochi mesi e, in prossimità del Natale, nel farmi gli auguri la signora Giacobazzi mi regalò una bottiglia da litro — dico da litro — di aceto, senza specificare o magnificare tale dono. Dalle mie parti l’aceto si regala a chi ti ha fatto un torto, tanto che ringraziai timidamente e senza nessuna enfasi, convinto di aver commesso qualche cosa che ai titolari non fosse gradita. Lo presi insomma come un monito o un avvertimento, pensai anche di essermi giocato il posto. Lo portai a casa, lo commentai con i miei genitori e nel versarlo notammo che era di colore brunastro, denso, tanto da farci pensare ad un aceto avariato. Il dramma fu risolto quando raccontai

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l’accaduto alla mia attuale moglie, allora fidanzata, la quale mi informò che si trattava di aceto balsamico, a me sconosciuto prima d’allora, e se la signora Afra munificamente me ne aveva regalato addirittura un litro, testimoniava l’affetto e la stima nei miei riguardi: chi è profano della materia, sappia che agli amici cari è costume regalare un ampolla massimo di 100/200 grammi. Dal buio nero uno squarcio di luce si apriva all’orizzonte, una scoperta che ha segnato la mia vita, tanto da farmi diventare “aceto balsamico dipendente”. La scintilla era scoccata, sentivo il bisogno di acculturarmi, scoprire i segreti legati a tradizioni ultracentenarie; trovai reticenze, gelosie, segreti tramandati di generazione in generazione, fatta eccezione, per un personaggio che considero mio maestro, Nando Cavalli, scandianese DOC, scomparso alcuni anni orsono, noto commerciante di vini e produttore al tempo stesso.

Negli ozi che gli concedeva la sua attività vitivinicola, si dedicava alla cura dei suoi numerosi “vaselli”, che conservava nelle soffitte di un piccolo borghetto medievale nelle vicinanze di Scandiano, in competizione allora con i cugini modenesi, entrambi impegnati a vantare la primogenitura: i modenesi si fregiavano della famosa acetaia Granducale, tanto che il principe di Metternich espresse al Duca il desiderio di assaggiare l’aceto balsamico di cui nella famiglia imperiale tanto si favoleggiava. L’avvento dell’Unità d’Italia mise fine ad un patrimonio prezioso, poiché la regola era che chi vinceva facesse il cosiddetto “bottino”: molti gioielli culturali patrimoni dei piccoli Stati soppressi furono allora confiscati, tanto che i “vaselli”Granducali furono portati a Moncalieri in Piemonte, nel castello dei Savoia. I reggiani, per non essere da meno, fanno risalire la loro storia e

Assaggio d’aceto balsamico.

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Batteria di un’acetaia tradizionale, particolare di alcune botti. la tradizione del balsamico a Matilde di Canossa, figlia ed erede dello sfortunato Bonifacio e di Beatrice. Oggi la guerra di campanile è finita, le battaglie commerciali si vincono se si è uniti, lavorare per il bene comune del balsamico, regolamenti provvidenziali, disciplinari e consorzi di tutela provvedono al rispetto delle regole la cui nomenclatura e le dizioni certificano la provenienza del prodotto stesso. L’amico e maestro Nando Cavalli ha avuto il merito di avermi iniziato, donandomi un piccolo “vasello” centenario; da quello, per gemmazione, possiedo oggi ben sei batterie, collocate purtroppo ma necessariamente extra moenia, tutte dedicate e battezzate per ogni figlio e nipote. L’altro maestro, del quale mi avvalgo tuttora, attraverso la sua cospicua e saggia letteratura in materia, è Renato Bergonzini: Modena deve molto a questo personaggio, ad egli il merito di avere divulgato al di fuori delle mura emiliane la conoscenza del balsamico. Un poeta, uno storico, un appassionato cantore della sua terra, che ha lasciato suo malgrado per la vicina Toscana. Sono fermamente convinto che per curare al meglio una batteria bisogna conoscere la produzione degli altri, tanto che nei miei frequenti soggiorni all’ombra della Ghirlandina gli amici oxologi, con piacere, mi sottopongono gli assaggi dei loro tesori, con scambi di opinioni costruttivi. Come dimenticare un grande aceto,

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che mi regalava a suo tempo Don Manni, proveniente dai vaselli della Curia vescovile, un nettare unico di matrice curiale, solenne come un pontificale, laddove il suono maestoso dell’organo rapisce tutti i sensi. Non da meno quello di Telesforo e Giorgio Fini, oggi sotto le abili cure di Anna Maria: altro timbro, sublime e condimento insieme, me lo immagino con gli altri prodotti, probabilmente nella salumeria di piazzale San Francesco, parlare tra loro un linguaggio ermetico a noi mortali sconosciuto. Lo storico ristorante adiacente ne esaltava il gusto e il sapore dei grandi piatti della cucina di Giuditta. Fintanto che la mia prima batteria non ebbe raggiunto la maturazione, mi rifornirono gratificandomi per diversi anni con il loro aceto centenario, oserei dire casalingo, degno di una grande rezdora Mario, Ines e Marianna Giacobazzi. Non mancano nella mia collezione quelli centenari di Giusti, noto in tutto il mondo per le sue specialità, dove fanno bella mostra nello storico e affascinante negozio della centrale via Farini i prodotti della gastronomia modenese. Diversi e nobili quelli delle famiglie Agazzotti, Guidotti e Amorotti, derivanti dai loro feudi e tramandati di generazione in generazione, dal momento che un tempo il balsamico era appannaggio esclusivo delle famiglie benestanti, depositarie dei segreti legati alla tradizione.

Acetaia vetusta e composita di vaselli di varia foggia e dimensione quella di Vecchi detta Bompana all’uscita autostradale di Modena Sud; ogni batteria una storia famigliare da raccontare, ogni assaggio un aneddoto diverso, illustrato pacatamente dal suo curatore. Per fare grande un aceto, oltre alla sapienza di chi lo cura, sono determinanti i vaselli ed a quello provvede il mastro bottaio Renzi: le sue botti sono inconfondibili, salde, a tenuta stagna, azzimate, provenienti da scorte di legname stagionato e spurgato dai tannini primari, la cui presenza impedirebbe la naturale ossidazione del prodotto. Recentemente ho visitato la bellissima e linda acetaia di Claudia Cremonini: bella la struttura che la ospita, le travature in legno fanno da cornice alle innumerevoli batterie curate amorevolmente, dove profumi compositi ti danno il benvenuto appena varchi la soglia della balsameria ed avverti la sensazione di bere attraverso l’olfatto, tanto è pregno di profumi complessi l’ambiente. Preziosa e maestosa insieme la balsameria del mecenate d’arte Mazzoli Ferretti in Santa Maria di Mugnano, unica al mondo per lo spessore delle doghe delle botti, un vestito al prezioso nettare concepito dalla sensibilità artistica del committente; qui avvalendosi di una cornice di opere d’arte di grandi artisti di levatura internazionale il suo aceto ne risente, pieno di uno stile tutto particolare. Ho la netta convinzione che la diversità dei balsamici sia strettamente legata all’ambiente che li ospita, al territorio ed alla personalità del curatore. Prima di lasciare l’Emilia non posso non citare un’acetaia nota in quel di Reggio Emilia di proprietà dell’agronomo Antonio Ficarelli, oxologo scrupoloso, vincitore di alcuni palii competitivi che si tengono a Spilamberto nel modenese. Altri produttori più o meno noti avrei voluto citare e non me ne vogliano: importante per tutti è parlarne dell’aceto ed io alla mia maniera ho cercato di farlo. Lo spirito di questo articolo è però quello di farvi conoscere anche altre realtà, fuori dalla zona tipica

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riconosciuta tale da leggi che ne autenticano la provenienza. Inizierò dal nord, da Manzano, Udine, capitale della seggiola, con la balsameria più grande del mondo, entrata nel Guinness dei primati. Lo si deve ad un uomo eccezionale, self made man, che dal niente ha scalato tutti i gradini sociali, per le sue intuizioni e idee, noto industriale che un bel giorno decide di dedicarsi all’asperum, così chiama il suo condimento, mettendo in crisi il bottaio Renzi, per l’elevato ordinativo di vaselli tale da raggiungere alcuni migliaia: suggerisco a tutti di leggere il suo libro autobiografico scritto con il cuore, dal titolo “La mia vita, come la ricordo”. Si tratta di Lino Midolini, il suo motto? «Ho una voglia matta di fare quello che gli altri non fanno». In momenti di crisi e di disoccupazione, come quelli che stiamo vivendo, il motto di Midolini sia di monito ai giovani: ogni lavoro se fatto bene ha dignità! Dal nord passiamo al centro Italia, e precisamente in Umbria, con sei piccole batterie appartenenti al sottoscritto (chi vi scrive ha fatto parte a suo tempo del Consorzio tra produttori dell’aceto Balsamico Tradizionale di Modena ed era iscritto

all’albo al numero 288), ognuna intestata ad un componente famigliare: il luogo di nascita di questo balsamico è Scandiano nel 1960, la residenza ed il domicilio Perugia, per cui l’aceto parla un linguaggio strano, un bel connubio composto dai dialetti reggiano e perugino, ma a tavola assolve egregiamente il suo ruolo esaltante dei piatti. Sempre in Umbria, due piccole batterie ad uso famigliare le ho trovate ad Assisi nella Tenuta Bianconi, centro residenziale di alta ospitalità, situate in bella mostra nella reception dell’albergo, protette da un cristallo, sì da poter essere viste dai numerosi pellegrini in terra Francescana. Una donna la curatrice, Susanna, figlia dell’eclettico patron Giampiero. In territorio appenninico, a Gualdo Tadino, città della ceramica artistica, presso la Tenuta San Pellegrino dei Fratelli Manfroni, due piccole batterie situate nella sommità di una torre medievale, curate dall’agronomo Pierluigi Mazzoni, per conto dei titolari farmacisti in Roma, consci del valore del prezioso condimento, che usano a tavola con le piccole bottiglie contagocce di uso farmaceutico. Non lontano dalla torre medievale sopra

citata, in quel di Fossato di Vico l’industriale della “ICO Cartoni” non è voluto essere da meno dei suoi amici vicini, dotandosi di una piccola batteria per uso strettamente famigliare, che cura negli ozi concessi dai suoi impegni di lavoro. A Firenze, nella villa Medicea di Artimino, ho scovato quattro batterie intitolate al Granduca Ferdinando primo committente della Reggia Granducale denominata dei cento camini opera di Messer Bernardo Buontalenti: qui il condimento balsamico è in via di maturazione, usato esclusivamente per l’annesso ristorante “Biagio Pignatta “. Scendo al sud, nella città di Sorrento, a me particolarmente cara per la qualità della vita e l’arte nell’accogliere il turista. Mi corre l’obbligo descrivervi due piccole batterie, di proprietà dei coniugi Anna Acampora, discendente di una dinastia di noti albergatori, e Nino Apreda, aspirante oxologo, attualmente postulante, desideroso di apprendere tutti quei cosiddetti segreti al fine di produrre in Campania felix un condimento che forse poteva essere già presente in epoca romana. Angelo Valentini

Assegnate Borse Studio Consorzio Aceto Balsamico Modena Igp Hanno abbinato l’Aceto Balsamico di Modena IGP con prodotti tipici di Grecia, Slovenia e Germania, contaminando la tradizione gastronomica di questi Paesi con quella modenese. Sono i tre allievi della Scuola Alberghiera e di Ristorazione di Serramazzoni che hanno vinto le tre borse di studio messe in palio dal Consorzio Aceto Balsamico di Modena. La consegna degli assegni da 700 euro ciascuno è avvenuta lo scorso 10 gennaio alla Scuola Alberghiera di Serramazzoni, dove si è tenuta la presentazione e degustazione dei piatti ideati e preparati dai nove allievi usciti dalla selezione. L’allievo del terzo anno di cucina Nicolò Soccio, che si è ispirato alla tradizione greca, ha proposto bocconcini di dentice su crema di peperoni al profumo balsamico; Filippo Marchesi (sala-bar) ha preparato alla lampada uno château di foie gras d’oca sfumato alla slivoviz (acquavite slovena) con insalatina leggera alle fragole e Aceto Balsamico di Modena IGP; l’allievo di pasticceria Simone De Gaetano ha mescolato l’Aceto Balsamico con ingredienti calabresi e tedeschi (come il kirsch, liquore di ciliegie) per il suo dessert “Il profumo della nebbia”. «L’elaborazione di ogni progetto ha richiesto anche una ricerca storica e culturale sia sull’Aceto Balsamico di Modena IGP che sul Paese scelto dall’allievo e sulle sue tipicità», ha spiegato il direttore della Scuola Alberghiera di Serramazzoni, Giuseppe Schipano. «Oggi abbiamo assistito ad abbinamenti dell’Aceto Balsamico di Modena IGP che non conoscevamo o credevamo possibili» ha commentato al termine delle premiazioni il presidente del Consorzio, Cesare Mazzetti. «Gli allievi hanno dimostrato coraggio e fantasia, oltre che preparazione e rigore. Una volta entrati nel mondo della ristorazione, questi ragazzi saranno i migliori ambasciatori del nostro prodotto in Italia e nel mondo».

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Arti e mestieri

Il teatro in un boccone A Castello di Serravalle, sulle colline bolognesi, il Teatro delle Ariette prepara le tagliatelle e gli spettatori diventano commensali con lo spettacolo “Teatro da mangiare” di Federica Cornia

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o appena prenotato per tre. Hanno anche aggiunto un posto a tavola. Domani si va a teatro, cioè a pranzo, insomma: tutto assieme! “Teatro delle Ariette”: la piccola insegna ci dice che siamo arrivati e una freccia ci indica la direzione del capanno attrezzi, ovverosia del teatro. Siamo in via Rio Marzatore, al civico 2781 nel comune di Castello di Serravalle. “Le Ariette” altro non sono se non un podere di 3 ettari e mezzo su queste belle colline in provincia di Bologna. Seguiamo la freccia: ci inerpichiamo su per la salita. Riparato dalla cortina verde degli alberi c’è il capanno attrezzi. Un po’ di gente aspetta fuori. Finalmente entriamo, noi, spettatori-commensali, e una grande tavola rettangolare, tovaglia a quadretti bianchi e blu, è apparecchiata, pronta ad accoglierci. Prendiamo posto. Saremo poco più di una trentina. Da una parte della stanza stanno tirando la sfoglia e dall’altra s’affettano salumi e formaggi da disporre ordinatamente sui piatti da portata.

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Il brusio perplesso di sottofondo è interrotto da uno stacco musicale, chiara soglia di un ulteriore inizio. Un lato corto della mensa è rimasto vuoto, restringersi confidenziale del teatro, che anziché proporsi con una quarta parete si propone con un quarto lato della tavola. Il luogo scenico è già tracciato, uno spazio di vicinanza e convivialità. È letteralmente attorno al tavolo, infatti, che ruota lo spettacolo autobiografico di Stefano e Paola. Entrambi attori e coppia nella vita, nel 1989 lasciano la compagnia teatrale di cui facevano parte a Bologna per venire a vivere qui, in questo podere del nonno di Stefano che nessuno reclamava. Tutto è nato proprio dallo stupore della scoperta incredibile fatta venendo a vivere in campagna: quella del prodotto originario della terra che si trasforma in cibo. La necessità di condividere questa esperienza di vita ha poi fatto il resto. Così è nato “Teatro da mangiare”. Mattarello in mano e grembiule, Stefano appoggia sul tavolo cestini

contenenti le crescentine, le meglio note tigelle, che subito cominciano a passare di mano in mano, appetitoso pretesto per descrivere il viaggio del grano per diventare pane. Nella suggestiva alternanza di finzione e realtà il racconto prende corpo attorno al tavolo. Le storie sono sgranate, snocciolate ai commensali: sul piatto, insieme al cibo, l’intreccio della vita, la relazione personale con le cose essenziali come l’amore, la morte, la madre, il rapporto col presente, ma anche col futuro e col passato, che è tradizione. Tra la frittata con scalogno e mele romane, due tipi di formaggio, il Parmigiano Reggiano e il Pecorino Nero, il salame e la mortadella — e qui si tradisce l’origine dell’innato amore per il cibo, di Stefano per lo meno, essendo suo padre quel Pasquini di Bologna, noto artigiano salumiere, il fornitore della mortadella e del salame che le Ariette portano in tavola! — un bicchiere di vino annacquato o meno, a piacimento, lo spettacolo procede coi rumori della cucina che

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diventano sottofondo scenico e contrappunto musicale. Lo scricchiolio del guscio di noci e nocciole sotto la morsa dello schiaccianoci, il sonoro e prolungato rotolio che fanno cadendo nella ciotola, la pentola che bolle, lo sfregar sottile delle mani sulla sfoglia e poi, una volta tagliata, lo scoppiettio dato dal precipitare delle strisce sottili di pasta a formare nidi di tagliatelle sono i suoni, discreti e delicati che cullano lo spettatore in un’atmosfera intima e famigliare in cui tutto si mescola, quasi a dire che tutto è nutrimento. Così l’evento che si crea non è solo un “oggetto artistico” da consumare ma diventa un momento da vivere. Proprio l’esperanto dei gesti legati alla preparazione del cibo, questo linguaggio comune a tutti, linguaggio universale in grado di parlare oltre il dato culturale locale, li ha portati con successo in giro per l’Europa, in Germania, Svizzera, Francia, Spagna, Portogallo. «Ma allora di cosa è fatto il teatro?» è la domanda retorica che gli attori pongono quasi alla fine dello spettacolo. La risposta è racchiusa tra l’indice e il pollice, nel chicco di grano posato, minuscolo, sulla tavola, a suggello di un legame forte dell’uomo con la terra attraverso il cibo. La terra coi suoi frutti e un forte legame col cibo sono dati imprescindibili del lavoro teatrale della compagnia delle Ariette: nello spettacolo L’Estate, prodotto dal Festival di Sant’Arcangelo di Romagna, l’obiettivo era portare lo spettatore alla radice del rapporto col cibo e per questo avevano allestito uno spettacoloevento coltivando un campo di 6.000 m2, vera e propria scenografia vegetale ad accogliere il pubblico. Mentre in Matrimonio d’inverno, spettacolo per otto commensalispettatori, durante la lettura del loro

Paola Berselli e Stefano Pasquini in una scena dello spettacolo “Teatro da mangiare” (foto di Federico Riva). diario, intimo resoconto degli anni passati alle Ariette, preparano un pranzo nuziale con tortellini, brodo lesso, salsa verde e zuppa inglese. Ma qui ormai siamo in chiusura: la pentola bolle. Stefano butta la pasta e poco dopo siamo di fronte a vassoi fumanti. Partono gli applausi. «Sì, sì,

“Tra la frittata con scalogno e mele romane, due tipi di formaggio, il Parmigiano Reggiano e il Pecorino Nero, il salame e la mortadella, un bicchiere di vino annacquato o meno, a piacimento, lo spettacolo procede coi rumori della cucina che diventano sottofondo scenico e contrappunto musicale” Premiata Salumeria Italiana, 1/13

grazie grazie, ma non fate raffreddare le tagliatelle» ci dice. Insomma… lo spettacolo continua! Federica Cornia Teatro delle Ariette Via Rio Marzatore 2781 40050 Castello di Serravalle (BO) Telefono e fax: 051 6704373 E-mail: info@teatrodelleariette.it Web: www.teatrodelleariette.it Nota A pagina 108 l’attore Maurizio Ferraresi in scena con un vassoio di tagliatelle durante lo spettacolo “Teatro da Mangiare” (foto di Marco Caselli).

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Storia e cultura

A tavola con Arlecchino e la Commedia dell’Arte di Cristina Casini

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a Commedia dell’Arte rappresentò un fenomeno teatrale tipicamente italiano, nato nella seconda metà del Cinquecento come reazione ai dotti e accademici componimenti delle corti; ebbe il suo massimo sviluppo nel Seicento, il secolo del teatro, ma continuò a riscuotere un grande favore ancora per tutto il Settecento. Si trattava di una forma teatrale popolare basata sull’uso delle maschere e sull’improvvisazione degli attori che non seguivano un copione, ma si riferivano ad approssimativi e generici canovacci. I temi trattati erano quelli

dell’amore, del sesso, della fame, della povertà, della furberia e della sopraffazione e venivano messi in scena all’aperto, nelle strade e nelle piazze: il pubblico poteva immedesimarsi in quelle vicende, in una dimensione rovesciata, in cui i servi, scaltri e astuti, gli zanni, venivano elevati al ruolo di eroi. I personaggi, identificati dalle maschere fisse, erano sempre gli stessi: una coppia di innamorati, il capitano vanaglorioso, i servi come Brighella, Arlecchino e Colombina, il dottore come Balanzone, presuntuoso e arrogante, simbolo di una scienza ridicolizzata, il mercante

avaro e lussurioso come il veneziano Pantalone. La Commedia dell’Arte, pur essendo una forma popolare, mostrava di aver assorbito temi e situazioni del teatro classico e rinascimentale, da Plauto a Ruzante, a Machiavelli. Gli attori conducevano una vita itinerante all’interno di carrozzoni, coprendo anche grandi distanze e affrontando pericoli e avversità; durante gli spostamenti osservavano la realtà e il repertorio delle maschere si allargava, includendo nuovi stereotipi. Poiché le condizioni di vita erano molto dure e dal momento che le vicende

Anonimo fiammingo, Compagnia dei Gelosi (1580 circa), Museo Carnavalet, Parigi. Nella scena si vede l’amante che passa un messaggio d’amore alla propria amata (forse un ritratto di Isabella Andreini) sotto l’occhio sospettoso di Pantalone, seguito dallo Zanni (http://it.wikipedia.org).

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Maurice Sand, Arlecchino nel 1671, dal libro Maschere e Buffoni, la Commedia Italiana, Parigi, 1860 (http:// it.wikipedia.org). raccontate dovevano includere diversi personaggi, gli attori formarono delle vere e proprie compagnie teatrali nelle quali furono ammesse per la prima volta le donne: tra queste la più famosa fu probabilmente Isabella Andreini, della Compagnia dei Gelosi. Nel tempo anche i nobili e i principi cominciarono a interessarsi a questo tipo di rappresentazioni sceniche e in alcuni casi divennero dei veri e propri impresari, costruendo dei teatri stabili, a pagamento e aperti al pubblico, come quello della Baldracca a Firenze o di San Cassiano a Venezia. In Italia i Gonzaga furono tra i primi ad apprezzare la Commedia dell’Arte, in una Mantova che costituiva un punto d’incontro tra la Spagna, l’Italia, lo Stato Sabaudo e Venezia: soprattutto grazie a questi appoggi i comici varcarono le Alpi, dirigendosi nelle Fiandre, in Austria e soprattutto a Parigi dove la Commedia dell’Arte conobbe uno straordinario successo, tanto da venire definita “commedia all’italiana”. Nonostante la grande fama di cui godevano le maschere, il repertorio

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Spitzweg, Il mercoledì delle ceneri (1855-1860), Stuttgart, Staatsgalerie Germania (http://commons.wikimedia.org). degli attori, osceno e irriverente, provocò spesso dei contrasti con le autorità politiche e religiose: a Milano il cardinale Borromeo sottopose a censura i canovacci, mentre a Mantova la Compagnia dei Gelosi fu condannata alla forca per aver ingiuriato il duca gobbo e, secondo la tradizione, gli istrioni riuscirono a salvarsi solamente grazie al fascino della seducente Isabella; infine Luigi XIV, pur avendo dato prova, in molte occasioni, di apprezzare la comicità mordace dei personaggi della Commedia dell’Arte, non approvò alcuni lazzi diretti alla sua favorita, madame de Maintenon,

e nel 1699 chiuse il teatro parigino degli italiani, cacciando per qualche tempo gli attori dalla capitale. Arlecchino La maschera di Arlecchino affonda le sue radici nel folclore: nel XIII secolo in Francia era sicuramente identificato con un terribile demone, condottiero di un esercito di spettri, la Mesnie Hellequin. Questa spaventosa milizia, derivata dalla mitologia germanica, era composta da spiriti erranti di uomini deceduti in modo violento, spesso orrendamente mutilati, da fate, streghe, folletti, anime

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dannate, esseri mostruosi, cavalli e animali. La schiera demoniaca appariva nei cieli, accompagnata da un “frastuono infernale” e poteva essere evocata volontariamente dai negromanti nel periodo delle tempora invernali, ma anche da un qualunque rumore intenso e improvviso: la manifestazione di questo esercito era particolarmente temuta e attesa durante i charivari, quelle processioni tipiche del Medioevo, caratterizzate da grida e da gesti osceni indirizzati nei confronti dei vedovi o delle vedove che intendevano risposarsi. Nelle leggende germaniche gli spettri erano guidati da Wotan; successivamente, con il diffondersi della saga in Europa, il dio venne sostituito da altri personaggi mitologici, come re Artù in Gran Bretagna e Arlecchino in Francia. Le apparizioni di questi demoni, impegnati in cacce selvagge o in terribili combattimenti aerei, sono attestate nell’Italia settentrionale ancora nel Cinquecento. Arlecchino divenne una maschera carnevalesca solo in un secondo momento, quando l’attore Tristano Martinelli, durante la sua permanenza a Parigi, fuse la figura dello zanni bergamasco con quella del demone francese, dando vita al personaggio di Arlecchino re dei Diavoli: poiché gli attori, anche quelli più acclamati, erano pur sempre considerati ai limiti della legalità e il teatro era visto come un luogo promiscuo e “infernale”, il comico mantovano decise di riassumere tutte queste valenze in un unico soggetto, posto a capo di una schiera di poveri e vagabondi, osceni e chiassosi, vestiti con abiti dai colori sgargianti. Arlecchino, quindi, divenne la figura del servo forestiero, un po’ sciocco e pasticcione, sempre morso dalla fame e alla ricerca di espedienti.

In alto: Peter Nicolai Arbo, La caccia selvaggia, 1872, Museo d’arte nazionale, Åsgårdsreien, Norvegia (http://it.wikipedia.org). In basso: Wattau, Il galante Arlecchino (1716), Londra Collezione Wallace (http://commons.wikimedia.org).

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La tavola dei comici e quella dei principi Nella letteratura comica il Carnevale è spesso associato a un lupo famelico, bramoso di cibo e di sesso, ansioso di divorare bufali, maiali, pecore e agnelli: quest’associazione, probabilmente molto antica, trova un riscontro in alcune espressioni dialettali italiane quali “mangiare come un lupo” o

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Pierre Mignard, Ritratto di Luigi XIV, XVII secolo (http://commons. wikimedia.org).

Giovanni Battista Tiepolo, Il banchetto di Cleopatra (1746-47), Venezia, Palazzo Labia (http://commons.wikimedia.org). “essere allupati”. L’animale, essere spaventoso e famelico, nell’immaginario popolare emetteva terribili grugniti simili alle urla delle anime dannate di cui spesso era il guardiano: allo stesso modo la voce degli attori, sotto le maschere, sembrava essere una riproduzione di questi suoni ferini, una traduzione fonetica dell’ingordigia del Carnevale, il tempo in cui era permesso dare libero sfogo ad una carnalità normalmente repressa e controllata. Se la condizione famelica era tipica degli zanni, alcuni degli attori, forse i migliori o forse i più fortunati, furono ricevuti nelle corti d’Europa e riuscirono a saziarsi abbondantemente con

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i ricchi cibi delle mense regali. Nel Seicento la tavola dei nobili costituiva una manifestazione di potenza e di ricchezza, una tendenza sviluppatasi lungo tutto il Cinquecento e divenuta un obbligo formale appunto nel XVII secolo: la ricerca dello stupore e della meraviglia rappresentò il tratto distintivo della vita quotidiana dei potenti come dell’arte e della letteratura. Si susseguirono trattati di buone maniere in cui la cucina rivestiva un ruolo importante e nei quali venivano messe in evidenza le parti animali di maggior pregio, da riservare agli ospiti più insigni: le ali degli uccelli di terra, le cosce dei volatili, il petto dei capponi, delle oche e dei tacchini,

i lombi e le cosce delle lepri e dei conigli. A Mantova operava lo scalco Bartolomeo Stefani, autore di un importante trattato di cucina, l’Arte di ben cucinare, e valente scalco dei Gonzaga. Nell’inverno del 1655 fu incaricato dal duca di organizzare un banchetto per la regina Cristina di Svezia, di passaggio per la città: si trattò di un evento importante, in cui lo Stefani seppe realizzare meravigliose coreografie e in cui la carne, cucinata in modi differenti, occupava un posto di primo piano. Tra le numerose vivande previste per l’occasione sulla mensa vennero posati piatti con fragole lavate nel vino bianco, uccelletti di marzapane, zuppa di piccioni, pasticcio di fagiani, cedri, limoni e arance cinesi. Furono poi serviti fagiani, volatili arrosto, capponi cotti in bianco, pasticci di petto di pernici, midolli di bue, tortore cotte allo spiedo, occhi di vitello ripieni, uccelletti di Cipro, teste di vitello cotte nel latte e cosce di daini servite con salsa di capperi e malvasia; infine ostriche, uva, pere e dolci. Nell’Arte di ben cucinare lo scalco, oltre a ricordare il banchetto organizzato in onore della regina svedese, tramandò alcune ricette, importanti per conoscere i gusti e i costumi dell’epoca: il fagiano allo spiedo, ad esempio, doveva essere preparato con un animale morto da almeno quattro giorni e finito dopo un lungo inseguimento nei mesi invernali; doveva poi essere cosparso di

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lardo, cotto lentamente sullo spiedo con salsa reale, un rinomato intingolo ottenuto mescolando sapientemente cannella, garofano, aceto e zucchero. La pernice, invece, leggera e molto saporita, poteva essere cucinata arrosto, preparata con lardo e salsa reale, ma era ottima anche gustata con i cavolfiori e il prosciutto. Lo Stefani apprezzava anche la carne dei tordi catturati in gennaio, dopo che gli animali si erano abbondantemente nutriti di bacche di ginepro e di mirto: potevano essere arrostiti e bagnati con l’olio, oppure stufati nella malvasia. Infine, una ricetta decisamente particolare riguardava la preparazione di una torta con la pelle del cappone, che doveva essere tagliata finemente e unita alla cannella, al cedro, ai pistacchi, ai semi di melone, ai tuorli d’uovo e al latte: il tutto doveva poi essere cotto nel forno, su una padella cosparsa di burro, e servito caldo con uno strato di zucchero. Nel Seicento la cucina italiana subì la forte concorrenza di quella francese, la nouvelle cuisine, fondata sul ritorno a sapori naturali, sulla semplicità delle pietanze, sulla separazione tra dolce e salato e sulla predilezione per le verdure e la frutta; nello stesso periodo furono ideati i ragoûts e le garnitures per decorare le pietanze, che nel tempo diedero vita ai contorni. Nella seconda metà del secolo furono stampati importanti trattati culinari: Le jardinier français di NICOLAS DE BONNEFONS, il Nouveau Cuisinier di PIERRE DE LUNE, Le cuisinier royal et bourgeois di FRANÇOIS MASSALIOT e soprattutto Le cuisinier françois di FRANÇOIS PIERRE DE LA VARENNE, che riscosse un grande successo anche in Italia, forse in virtù della profonda influenza che la cucina rinascimentale italiana esercitò sul grande cuoco francese. La Varenne, infatti, non abbandonò del tutto i sapori agrodolci e la volontà di stupire con accostamenti inconsueti, come si deduce dalle sue ricette sugli stufati in salsa dolce — ottenuti con carne di cappone posta a bollire nell’acqua con i chiodi di garofano e quindi unita alle mandorle dolci e all’aceto — oppure dalle sue

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Karel Dujardin, Commedia dell’arte, Zanni, Scaramouche e la ruffiana (1657) Louvre, Parigi (http://it.wikipedia.org). indicazioni sulla preparazione della zuppa domenicana, in cui la carne di cappone poteva essere unita a una salsa bianca formata da uova stemperate con un liquore agro, allo zucchero e alla cannella. Luigi XIV amava il buon cibo ed era ghiotto in particolare di fragole e di piselli. Prediligeva la carne dei volatili, la frutta e la verdura di ogni varietà: ovviamente i suoi gusti contagiarono l’aristocrazia francese e si diffuse l’uso di mangiare funghi champignons, asparagi, meloni, carciofi, cetrioli e fichi, oltre che fragole e piselli. Se l’arlecchino Tristano Martinelli aveva lavorato in Francia presso la regina Maria de’ Medici e il re Enrico IV, alla corte del Re Sole recitava l’attore napoletano Tiberio Fiorilli, in arte Scaramouche, assiduamente invitato dallo stesso sovrano a rallegrare i suoi lunghi pasti, che comprendevano almeno una trentina di portate. Il Fiorilli diede vita a una maschera originale e godette di un grande successo: viaggiando per le regge di tutta Europa, come Tristano Martinelli prima di lui, gustò certamente molti cibi raffinati e vini superbi. Per i grandi attori l’arte è parte integrante della vita personale e un

aneddoto riferito alla morte di Tiberio Fiorilli conferma pienamente questa simbiosi: Scaramouche, infatti, nonostante il tragico momento, non perse il gusto per le battute argute e decise di lasciare la sua chitarra al proprio medico, augurandogli di essere sempre in grado di allietare i pazienti con la musica, dal momento che, evidentemente, non era in grado di curarli. Cristina Casini Bibliografia • F. BIZZARRI, Tacuinum histrionis. I comici dell’arte alla tavola del re, Perugia, 2007. • L. ZORZI, Intorno alla Commedia dell’Arte, in AA.VV., “Scene e figure del teatro italiano”, Bologna, 1985. • Tristano Martinelli in Dizionario biografico degli italiani, Enciclopedia Treccani, 2008, www. treccani.it. • O. N ICCOLI , Profeti e popolo nell’Italia del Rinascimento, Bari–Roma, 2007. • S. FERRONE, Arlecchino, vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Bari–Roma, 2006. • P. CAMPORESI, La maschera di Bertoldo, Milano, 1993.

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I numeri primi del bollito misto Prima fu l’arrosto e poi venne il bollito, sembra abbia affermato il filosofo Aristotele, una preparazione culinaria oggi in eclisse, anche per la difficoltà di trovare carni adatte di Giovanni Ballarini

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ei tempi andati il bollito era uno dei piatti più ambiti della cucina popolare e tra i più diffusi di quella borghese nazionale, anzi in quest’ultima non mancava mai, soprattutto d’inverno, la domenica e le altre feste comandate, in particolare nel settentrione, dove ogni regione aveva le sue varietà e i suoi riti, in associazione al brodo di carne, anche se vi era una certa antinomia tra i due. Un buon brodo dà un mediocre lesso, mentre un buon bollito dà un brodo di poco valore. La stessa

distinzione di termini tra bollito e lesso pone l’accento su questa non piccola differenza. La carne bollita con il suo brodo era fondamentale nel “pranzo funebre” padano. Dopo la morte di un congiunto, in attesa del funerale in chiesa, i parenti e gli amici che arrivavano alla sua casa per le condoglianze, magari nella stagione più fredda, erano accolti con una tazza di brodo, un poco di carne bollita e una fetta di pane. Col passare degli anni il bollito è stato un poco dimenticato e maltrattato dalle diete, causa ideologie

vegetariane varie e antipatie personali anche nei confronti di alcune sue parti ritenute meno nobili o un poco esecrabili (come la lingua, il piedino e via dicendo). Vi è inoltre un’altra ragione alla base della sua decadenza: la scarsità, se non la rarità, degli animali con le carni adatte e la scarsa disponibilità dei tagli migliori per questa preparazione culinaria. Il bollito classico italiano di norma si otteneva con le carni di bovino, soprattutto di un bue, quindi di un animale castrato o “sanato” che, dopo

Il “Gran Bollito Misto” di Gianni Lubatti, chef dell’Osteria del Borgo, nel centro di Carrù, Cuneo (foto Massimiliano Rella).

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essere stato impiegato nel lavoro dei campi o di traino dei carri, era tenuto in stalla e ingrassato a dovere. Vi era poi l’eccezionalità dell’animale giovane che non aveva lavorato ma era ingrassato: il vitello grasso celebrato fin dall’antichità. Non si dimentichi infine che anche le vacche vecchie, dopo aver figliato, lavorato e dato latte, erano destinate al macello, con carni che erano prevalentemente utilizzate per lessi e bolliti. Oggi il bollito è di nuovo un piatto di punta in alcuni ristoranti, anche rivisitato da diversi grandi cuochi, come MASSIMO BOTTURA con il suo “Bollito non Bollito”, nel quale i diversi tagli di carne sono cotti in poco liquido sottovuoto, non a contatto con l’ossigeno, a basse temperature, per un periodo tra le 18 e le 24 ore. A proposito di questa cottura sottovuoto, si tenga presente che nella bollitura tradizionale la carne non viene a contatto con l’ossigeno. Non bisogna infine dimenticare che le passate ideologie igieniche alimentari attribuivano alle carni bollite una leggerezza che contrastava la forza e pesantezza di quelle arrostite. Nel Medioevo, quando la “carne dei forti” per eccellenza non era quella bovina, ma la selvaggina, Carlo Magno, come ricordano il suo cronista EGINARDO nella Vita Karoli e il monaco ALCUINO nel De virtutibus et vitiis liber, era presentato come un moderato, in quanto a tavola si faceva servire soltanto quattro portate, oltre alla carne arrostita, suo cibo preferito; anche da vecchio Carlo Magno rimase affezionato all’arrosto e non si adattò mai al lesso, consigliatogli dai medici. Nelle sue tante varietà, cinque sono i numeri del bollito, 1 – 2 – 3 – 5 – 7, senza contare le combinazioni più complesse di nove (tre per tre) e di ventuno (tre per sette). Che il bollito abbia rapporti con i numeri non deve stupire, dato che è una preparazione antichissima, strettamente collegata alle scoperte tecniche e scientifiche. Particolarmente curiosa è la preminenza dei numeri primi, che sembra dare al bollito un carattere esoterico e magico, come la pentola, o meglio le diverse pentole, con le quali viene preparato. Partiamo dal bollito più semplice, poi

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Il “Bollito non Bollito” di Massimo Bottura. arriveremo a quello più complesso: 1. Uno – È il bollito più semplice, costituito solo di carne bovina, con particolare riguardo ai tagli anteriori e con l’aggiunta di un osso spugnoso. Uno è anche il sale grosso che si deve sempre presentare in tavola per condire il bollito di qualsiasi tipo. 2. Due – Due carni sono necessarie per un bollito un poco più variato: quella di bovino, sempre con un osso spugnoso, e quella di gallina, meglio se vecchia. 3. Tre – Nel bollito di terza, alle carni bovine con l’osso spugnoso e alla gallina vecchia, meglio un cappone, si aggiunge un salame da brodo. Tre sono anche le classiche salse di accompagnamento: bianca (cren o mostarda), rossa (pomodoro) e verde (prezzemolo con o senza aglio). 5. Cinque – Il bollito di quinta vede aggiungersi a quello di terza qualche altro taglio, ma solitamente la lingua e la testina di vitello. Possono anche aumentare le salse di complemento, sempre con il sale grosso in tavola. 7. Sette – È il numero del gran bollito piemontese, nel quale vediamo anche la moltiplicazione del sette per tre: sette tagli nobili, sette ammennicoli, sette bagnetti o salsine. Sebbene vi siano inevitabili varianti, sempre sette e tre volte sette è una regola classica che va sempre osservata. Tra le

presenze più diffuse si può citare la seguente. Sette tagli nobili tutti ed esclusivamente di bovino: tenerone (dal collo alla coppa), caramella (pancia e costato), muscolo di coscia, stinco, spalla, fiocco di punta, cappello da prete. Sette ammennicoli di animali diversi: lingua, testina, coda, zampetto, gallina, cotechino, rollata. Sette bagnetti o salsine: verde rustico, verde ricco, cren rosso, mostarda, cugnà (tipica mostarda delle Langhe piemontesi), senape, salsa al miele. A piacere si uniscono i contorni, diversi e fino a sette, a iniziare da patate bianche lesse, purea di patate, spinaci al burro, spinaci con acciuga, cipolle rosse in agrodolce, peperoni in agrodolce, verdure sottaceto e via dicendo. La carne va cotta in una o più pentole, con la consuetudine d’immergerla in acqua già bollente, poco salata e aromatizzata con erbe: immancabilmente sedano, cipolla, carota e gambi di prezzemolo, ma anche rosmarino, lauro e aglio. La durata della cottura, a fuoco basso, varia secondo i pezzi e le abitudini. Oltre ad eccellenti carrelli dei bolliti nelle varie trattorie e osterie italiane, anche a casa possiamo preparare un buon bollito misto, oggi coadiuvati dalle moderne attrezzature di cucina. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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Il suino, tra il sacro e il profano di Josette Baverez Blanco

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ant’Antonio Abate è il padre del monachesimo occidentale cristiano, immancabilmente rappresentato, nei santini popolareschi, con un porcello ai suoi piedi. Patrono di allevatori, macellai, guantai e cestai, festeggiato il 17 gennaio, questo pio eremita è riuscito a smuovere le coscienze di milioni di fedeli e tutt’ora gli vengono affidate le nostre bestie e le nostre case. Egiziano, nato a Coma nel 250 d.C., abitava sul Sinai. Cercava la pace ai margini del deserto ma il diavolo tentò di traviarlo, come descritto da Gustave Flaubert nel 1874, con seduzioni di ogni tipo: prima con la ricchezza che aveva abbandonato, poi con la bellezza e la sensualità attraverso la regina di Saba. I demoni non desistettero e lo costrinsero a lasciare il suo rifugio per un antico sepolcro e poi quel sepolcro per le rovine di un antico castello. In un periodo di persecuzioni, si precipitò ad Alessandria per sostenere la comunità cristiana, ma tornò presto sui monti della Tebaide dove morì, pare, a 105 anni. Nelle più antiche rappresentazioni iconografiche lo vediamo con il maiale ai suoi piedi, il sant’uomo incorruttibile: nell’iconografia cristiana, in accordo all’esegesi medievale, il maiale rappresenta infatti il peccato (come il maiale ama rivoltarsi nel fango, così il peccatore si crogiola nella sporcizia dei suoi peccati). A cambiare la scena fu probabilmente la pietà popolare. «Perché — diceva la gente umile — pigliarsela con un animale che fa tante opere buone, che ci nutre e che è comunque indispensabile alla nostra sopravvivenza?». Così, poco a poco, i pittori impararono a conformarsi a questi desideri e il porcello non fu più calpestato ma ne divenne il fedele accompagnatore.

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Inventore del convento diffuso, guida spirituale di tanti monaci (μόνος, monos, in greco significa solo, solita-

rio), la sua via di santità è stata lunga e dolorosa. Possiamo parlare di miracoli a cominciare dal ritrovamento delle

Sant’Antonio Abate è un dipinto a olio su tela (297 x 148 cm) del Moretto, databile al 1530-1534 e conservato nel santuario della Madonna della Neve di Auro, frazione di Casto, in provincia di Brescia. Ai piedi del santo è steso un maiale nero.

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sue spoglie 170 anni dopo la morte e già durante il viaggio del feretro verso Costantinopoli, scacciò demoni, sanò i malati e salvò da morte sicura alcuni condannati al patibolo. Nel corso dei secoli, il suo nome fu legato e invocato contro la peste, lo scorbuto e soprattutto contro una strana malattia che causava morti atroci riempiendo di ferite la carne dei malcapitati che si slabbrava completamente come se fosse bruciata. Questa malattia fu allora chiamata “Fuoco Sacro” o “Fuoco di Sant’Antonio”. Niente a che vedere però con l’herpes zoster dei tempi odierni. Si trattava infatti dell’ergotismo, patologia causata da un parassita delle graminacee (segale in primis) capace di dare pesanti intossicazioni ad intere comunità, con effetti allucinogeni simili a quelli che si manifestano

tramite LSD. Chi andava in pellegrinaggio all’Abbazia di Sant’Antonio vedeva scomparire questi sintomi demoniaci. Inoltre, per curare questa forma cancrenosa, si usavano spesso grasso di maiale e piante officinali per realizzare il cosiddetto Balsamo di Sant’Antonio. I frati che producevano questo unguento potevano lasciare pascolare liberamente i maiali ovunque, persino in città, purché avessero la campanella usata dai frati questuanti. In tal modo, la collettività aveva l’incarico di alimentarli. Ai tempi dell’Abate, il maiale era assai cinghialesco, col muso appuntito e un peso che non superava i 70/80 kg, anche meno. Questo spiega il perché la stagionatura dei prosciutti si faceva in pochi mesi ed era considerato un cibo estivo, “ec-

cellente rinfresco della gola assieme al vino”, come scriveva il poeta Frizzi nel XVIII secolo. Anche il colore era diverso. Quando Enea si inoltrò nel territorio laziale, risalendo il Tevere con la sua flotta, segno di buon augurio fu l’incontro con una scrofa e la sua numerosa prole. Virgilio precisa che il felice auspicio era legato al fatto che l’animale era bianco, cosa straordinaria in un periodo dove i suini erano neri. Lo erano ancora anche in Calabria fino a pochi decenni fa, dove ricevevano il nome di “neri” per definizione. È stato solo durante il secolo scorso, con il passaggio dal nero al bianco, che il suino ha raggiunto quel peso di quasi due quintali se non di più per essere considerato ottimale per salumi di qualità. Josette Baverez Blanco

Back to black: una questione di colore e non solo A Polesine Parmense, c’è chi ha lanciato la sfida per produrre squisiti culatelli con suini neri. Siamo lontani dal Medioevo, dalla povertà, dalle malattie e dai conventi. Massimo e Luciano Spigaroli hanno trasformato in fattoria e in ristorante-relais la Corte Pallavicina, castello con enorme distese sulle quali far pascolare la razza autoctona di suini neri complici della vita di Sant’Antonio Abate, per produrre uno dei più prestigiosi salumi italiani, il culatello, cuore della coscia del suino. Gli animali nascono e vivono allo stato brado, in uno spazio quattro volte superiore a quello dedicato ai suini bianchi che vediamo ovunque in Emilia-Romagna. Le scrofe fanno pochi figli e il maiale raggiunge, dopo venti mesi, i 280/300 kg. La qualità e il sapore di questo rinato Culatello di Zibello prodotto con le carni di suini antichi — quelli di cui Massimo Spigaroli sentiva parlare da bambino dai contadini, “al macià, al ros, al negar…” — e con l’ostinazione dello chef, non ha certo niente da che vedere con la carne del maiale magro e semi selvatico raffigurato ai piedi o vicino a Sant’Antonio Abate, ma regala emozioni paradisiache. Che si tratti di un altro miracolo? (foto a lato: in alto, lo chef Massimo Spigaroli davanti all’ingresso dell’Antica Corte Pallavicina. In basso: la cantina dei culatelli, particolare con quelli per il Principe Carlo d’Inghilterra; fonte: Alessandro Gandolfi; www.ellastudio.it).

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Libri Un libro gioioso, con 24 ricette di Paolo Piazzesi

Il Buglione

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n pot-pourri di ricordi, proverbi, racconti, versi, consigli e aneddoti che una provetta narratrice, sul filo dei mesi dell’anno, passando leggera da un tema all’altro, trasforma in una piacevolissima lettura. C’è tanto odore di buona cucina in queste pagine, vicende e situazioni di quando il focolare era il centro della casa, anzi, era la casa: non linda e asettica come un’infermeria, ma un ambiente caldo, vivo, dove tutti trascorrevano la maggior parte del tempo, senza il cicaleccio della televisione. Quando la cucina dispensava non solo calore ma anche sapienza, esperienza, amore… Cose di un altro mondo. Non un inno nostalgico al passato tuttavia, ma un libro gioioso e scoppiettante, divertente dalla prima all’ultima pagina. Lasciamoci dunque incantare da Miriam Serni Casalini, che ha tante cose da raccontare, come ogni nonna che si rispetti, che allegra e imprevedibile improvvisa filastrocche, che dedica un’ode alla memoria del maiale, sacrificato al piacere del palato.

Un libro da leggere tutto d’un fiato, grazie al quale alla fine, oltre ad aver passato qualche ora lieta, saprete anche perché lo stracotto non è adatto alle donne in carriera… E per non lasciarvi a bocca asciutta, dopo tanto parlare di cucina, troverete, anch’esse scandite secondo i mesi dell’anno, le ricette che compendiano il meglio della tradizione toscana. Ci pare significativo, per comprendere la filosofia che accompagna il libro, la conclusione dell’autrice: «Avrei ancora ricordi e ricordi. Nella mia cucina vi ho passato tanto tempo. Ma ora basta. In queste pagine ho messo giù una macedonia male assortita, meglio dire, una pastasciutta assai arruffata, un buglione, insomma. Visto che di cibo si tratta, spero che almeno sia gustoso. Vorrei chiudere questa chiacchierata con le parole con le quali Alessandro Manzoni chiude I Promessi Sposi (mi scuserà per l’ardire il sciur Lisander): “(…) se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta (…) Ma se

MIRIAM SERNI CASALINI Il Buglione Ricordi, proverbi, racconti, versi e mangiari del focolare toscano 176 pp. – € 15,00 Edizioni Polistampa Firenze in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta”. Grazie!».

L’autrice: nata a Firenze nel 1928, MIRIAM SERNI CASALINI racconta di sé: «Dovevo fare l’insegnante, invece, sposata giovanissima, andando “contracqua” dalla città alla campagna, sono stata solo donna di casa: moglie, nuora, mamma, nonna, con quel che ne comporta. Sono appassionata cultrice di memorie di vita paesana chiantigiana toscana che mi piace far rivivere nero su bianco. Sono valori da conservare e trasmettere perché la memoria non si perda. Scrivere di cose del passato mi dà gioia, mi tiene occupata la mente mentre il cuore si tuffa nei ricordi. Pur percorrendo sempre strade di carta, ho tenuto tutto chiuso nel cassetto, iniziando a pubblicare qualche lavoro solo in tarda età». Il messaggio di Dario Cecchini «Mi metto ora a sedere dopo una bella giornata di lavoro e penso a Miriam e al suo libro. Ci vogliamo un bene profondo fatto non solo di simpatia, che simpatica la Miriam lo è eccome, ma di tante profonde affinità. Ho letto il libro e ho pianto. Ho rivisto la mia gente, le voci di famiglia, le aie dei contadini nella compravendita delle bestie, i mangiari della nonna, gli odori della memoria. M’è venuto uno struggimento ma anche una forza incredibile: vai, goditi la vita, pensa a noi, facci vivere nella tua gioia di sapori, odori armonia toscana. Così vedo io la mia Miriam: una giovinetta ai suoi primi felici ottant’anni che ci guida il cammino con questi semplici profondissimi fili di memoria. Ti voglio bene e mi hai fatto tanto bene, Dario».

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Industria Alimentare in Europa

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a prima edizione dell’Annuario Industria Alimentare in Europa contiene un repertorio di circa 10.000 industrie alimentari dei 17 Paesi dell’Europa occidentale ripartite in 16 comparti produttivi. Per ogni azienda sono disponibili, oltre ai dati anagrafici (ragione sociale, indirizzo, telefono, fax, sito internet, e-mail), informazioni su prodotti, fatturato, management. L’Annuario contiene anche il rapporto “Situazione, punti di forza e criticità dell’industria alimentare in Europa”, che illustra la realtà del settore con analisi, tabelle e grafici. Come tutti gli Annuari Agra, Industria Alimentare in Europa 2012 è disponibile anche in versione cd-rom (€ 302,50 IVA inclusa). Il software è particolarmente utile, non solo per una veloce ricerca e selezione delle informazioni riguardanti il settore agroalimentare, ma anche per utilizzarle per scopi

commerciali. Infatti, le possibilità offerte per gestire e stampare circolari, oltre che per stampare indirizzi su etichette, rappresentano un buon investimento e un grande potenziale di sviluppo commerciale attraverso operazioni di mailing mirato. Con questo strumento è possibile ottenere tutti i dati presenti sull’Annuario effettuando ricerche semplici (per comparto alimentare, per categoria merceologica, per Paese) oppure ricerche complesse attraverso più chiavi di ricerca selezionabili direttamente dall’utilizzatore. Nelle nuove edizioni in cd-rom degli Annuari è riportato l’indirizzo internet delle aziende: direttamente dal programma è stato creato un link che automaticamente avvia la connessione e apre tramite il browser la pagina web dell’azienda selezionata. Il catalogo completo degli Annuari è disponibile andando sul sito www.agraeditrice.com

Industria Alimentare in Europa 2012 Collana Annuari – Roma, Agra Editrice, 2012 – 1.140 pp. – € 130,00

Progettare il cibo e la qualità

N

el moderno contesto sociale e culturale in cui viviamo il consumatore acquista un prodotto alimentare non solo in base a considerazioni connesse alle sue caratteristiche di genuinità, salubrità, piacevolezza, ecc… Oltre a questo, infatti, un attributo particolarmente importante, che può garantire il successo o l’insuccesso di un prodotto, è il suo packaging. Il packaging è infatti una componente essenziale di un prodotto alimentare e rappresenta un importante “ingrediente” della strategia di marketing in quanto strumento attraverso il quale “comunicare” il prodotto al consumatore. Nelle industrie di trasformazione grande rilievo viene dato allo studio del packaging e alla progettazione dei sistemi di confezionamento da impiegare per i singoli prodotti, dei materiali, dei colori e delle informazioni; in definitiva, quindi, dei messaggi da fornire.

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Partendo da queste considerazioni e dalla consapevolezza dell’importanza che il packaging ha nel “vestire” adeguatamente un alimento, AZIENDA ROMANA MERCATI, Azienda Speciale della Camera di Commercio di Roma, ha realizzato un progetto finalizzato a formare ed informare le piccole e medie imprese alimentari su ciò che il mercato offre in termini di materiali e tecnologie. Sono state inoltre raccolte testimonianze e contributi volti a costruire un documento che fornisca un quadro completo per affrontare la progettazione e la realizzazione di una confezione per un alimento, partendo dai materiali e arrivando alle informazioni da porre in etichetta. Il libro rappresenta quindi uno strumento operativo per le Pmi alimentari e per i tecnici, e fornisce una guida completa e dettagliata per costruire consapevolmente il packaging di un alimento.

ARM-AZIENDA ROMANA MERCATI (a cura di) Progettare il cibo e la qualità Collana: Idee e strumenti per il marketing Edizioni Agra 2012 – 216 pp – 20,00 €

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Norcino fai da te

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idea alla base di Norcino fai da te è nata proprio in cascina. L’esigenza era quella di un testo che raccontasse tutte le fasi della lavorazione della carne suina, per essere in condizione di ottenere il salume desiderato. In questo volume sono riportate le produzioni norcine della Bassa Padana, frutto di tradizioni secolari lungo l’asta del Po: salumi rinomati e tutelati come il culatello parmense, il cotechino modenese o il salame mantovano, affiancati a piccole produzioni di nicchia come la mariola da cuocere o il salame con la lingua, rimaste finora ad uso e consumo delle comunità di origine ed ora disponibili per chi avesse la curiosità di avvicinarsene. Norcino fai da te è un mondo magico fatto di ricordi e saperi tramandati dalle tradizioni del macellino: un antico rito pagano, che nelle case dei nostri nonni trasformava il maiale in eccellenti salumi e tante altre prelibatezze. SOCRATE GHISINI, nonostante «ogni norcino abbia il suo metodo di lavoro», ci indica gli strumenti necessari per tornare a ottenere in casa quei salumi e quei sapori, con una filiera mantenuta rigorosamente a chilometro zero. Anche per questo motivo — oltre che

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per aiutare il lettore — si è pensato di allegare un DVD esplicativo, in cui Ghisini ci riporta in un tempo lontano e ci accompagna con semplicità nel percorso della lavorazione delle carni, dell’insacco e delle tecniche di legatura dei salumi; le sequenze sono state girate filmando il sistema tradizionale, con l’uso di tavole in legno come si usava un tempo, e strutturate in modo da descrivere ogni fase della lavorazione con chiarezza e semplicità in ogni sua parte. Chi ama il fai da te può quindi acquistare, dal proprio macellaio di fiducia o negli spacci dei macelli, la carne o le parti anatomiche atte alla preparazione del proprio salume e provare a cimentarsi in questa nuova esperienza. L’autore SOCRATE GHISINI nasce mugnaio, in un paese del Mantovano confinante con le province di Brescia e Cremona. Nonostante il lavoro lo abbia portato altrove, è da sempre legato alle tradizioni contadine del suo territorio, in particolar modo alla norcineria. E non ha mai smesso di coltivare la sua passione. Ghisini ha fatto pratica sul campo, affiancato a norcini di indubbia capacità; la sua partecipazione a corsi per “Salumi di alta qualità”,

anche se i salumi erano ad uso personale, gli ha consentito nel tempo di acquisire quella pratica ed esperienza che negli anni gli hanno regalato parecchie soddisfazioni personali. Una passione spinta, naturalmente, anche dal piacere autentico di sedersi a tavola con gli amici, davanti a un buon salame e del buon vino.

SOCRATE GHISINI Norcino fai da te Editoriale Sometti 132 pp – 18,00 € www.sometti.it

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Formaggi, il primo corso di degustazione

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appiamo distinguere tra Pecorino, Provola e Quark? Cosa vorrà mai dire “occhiatura”? Come si prepara il vassoio del formaggio? E poi, la crosta si mangia? Questo primo corso di degustazione è pensato per tutti gli amanti del formaggio e i curiosi dei sapori di ogni genere. Inizia, con leggerezza, a educare i cinque sensi per andare alla scoperta del grande tesoro caseario nostrano. “Assaggiare non è sinonimo di mangiare poco. Vuol dire gustare con attenzione un prodotto alimentare di cui si vogliano apprezzare le qualità, sottoponendolo all’esame dei nostri sensi, in particolare del gusto e dell’olfatto (ma anche della vista, del tatto e dell’udito); studiare, analizzare, descrivere, giudicare, classificare. Come tutte le occu-

pazioni e le discipline portate avanti con passione, l’assaggio dei formaggi può regalare molte soddisfazioni”. L’autore BEPPE CASOLO, maestro assaggiatore e vicepresidente di ONAF (Organizzazione nazionale assaggiatori di formaggi, nata a Cuneo nel 1989. Ha proposto, prima in Italia, la conoscenza e la valorizzazione del formaggio attraverso l’utilizzo della tecnica di assaggio dalla stessa codificata), presta consulenze ai diversi soggetti della filiera e svolge attività di formazione sui temi dell’analisi sensoriale. Organizza, inoltre, concorsi caseari nazionali e internazionali. Vive in una comunità inter-etnica di famiglie accoglienti, con Margherita e i loro cinque figli.

BEPPE CASOLO Formaggi Il primo corso di degustazione Terre di mezzo Editore 56 pp. – € 4,00

Se vuoi fare il figo usa lo scalogno

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CARLO CRACCO Se vuoi fare il figo usa lo scalogno Dalla pratica alla grammatica Imparare a cucinare in 60 ricette Rizzoli Editore 252 pp. – € 15,90

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icette classiche della tradizione e piatti rivisitati dall’estro di uno chef stellato, lezioni di cucina con procedimenti spiegati fin nei minimi dettagli (per non sbagliare) e racconti di una vita ai fornelli e non: dai picnic al lago con il sugo di pomodoro fresco della mamma alla cucina di Gualtiero Marchesi a Milano e di Alain Ducasse a Montecarlo. CARLO CRACCO accompagna gli amanti della cucina (veri esperti e semplici principianti) in un percorso esclusivo e innovativo che permetterà a tutti di apprendere le preparazioni di base, le tecniche di cottura dei cibi, i trucchi e i segreti ai fornelli, con la soddisfazione garantita di portare in tavola piatti di alto livello. Si impara cucinando, eseguendo le ricette dello chef che, con precisione e rigore, fa da Cicerone nell’affascinante universo del cibo. Un corso di cucina unico, adatto

sia a chi muove i primi passi, sia a chi vuole avere l’opportunità di mettersi alla prova con le idee più sorprendenti della cucina di Carlo Cracco. Che non manca di aggiungere ai piatti suggerimenti personali per servire portate degne del suo nome (e delle stelle Michelin!). L’autore CARLO CRACCO (Vicenza, 1965) è uno dei cuochi più famosi d’Italia. Comincia a lavorare sotto la guida di Gualtiero Marchesi a Milano e di Alain Ducasse e Lucas Carton in Francia. Nel 2001 apre a Milano “Cracco Peck” che oggi porta solo il suo nome: 2 stelle Michelin, 3 forchette Gambero Rosso, premiato come uno dei 50 migliori ristoranti al mondo dalla prestigiosa rivista inglese Restaurant, che ogni anno stila l’attesissima classifica. Dal 2011 è giudice di MasterChef Italia.

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Ristoranti & Delicatessen di Romagna

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n viaggio nel gusto tra tradizione e innovazione: Ristoranti & Delicatessen di Romagna, giunto alla sua quinta edizione, è una proposta di viaggio alla scoperta dei piatti della memoria e delle nuove creazioni in cucina degli chef. Un viaggio fatto a tappe nei ristoranti selezionati che consacrano oggi la grande esperienza gastronomica del territorio romagnolo. Leggiamo direttamente dalla prefazione del volume: “Da Rimini a Ravenna, la Guida scandisce i passaggi di questo viaggio nel gusto, percorrendo il territorio di Romagna dalla provincia felliniana al Monte Titano fino ai confini della grassa Bologna, passando dalle colline dell’entroterra fino alla dune del mare Adriatico. Prima di partire per questo gustoso viaggio, rendiamo omaggio al nascente connubio tra tradizione e innovazione con un utile “Ricet-

tario” di prelibatezze che riassumo sapori tradizionali e accostamenti originali. A corredo delle ricette, curiosità, suggerimenti e consigli dedicati ai lettori. E, se volete premiare la qualità di un ristorante che non è presente, segnalatelo sulla pagina ufficiale di facebook di Ristoranti & Delicatessen o compilate la scheda che trovate in fondo alla Guida indicando la vostra preferenza alla Redazione». L’Emilia-Romagna è crocevia di cultura e civiltà, culla di una gastronomia dai sapori e inconfondibili. La cucina e i ristoranti di Romagna hanno saputo sperimentare e rinnovarsi, mantenendo sempre un legame indiscutibile con la tradizione, nel rispetto dei tempi di cottura e lavorazione di ogni pietanza. Dunque che il viaggio abbia inizio! A noi non resta che augurarvi Buon appetito!

Ristoranti & Delicatessen di Romagna La Guida 2013-2014 Smarti Editrice 13,50 € www.ristorantiedelicatessen.it

Si parla di zampone su Gastronomica, The Journal of Food and Culture Segnaliamo Gastronomica, gran bella rivista pubblicata dalla University of California con cadenza trimestrale. “Dal 2001 lavoriamo per rinnovare il legame che esiste tra il nutrimento sensuale e quello intellettuale, offrendo ai nostri lettori un approfondimento appassionato e gustoso su fiction, poesia, arti visive, testi accademici, humour. Attraverso voci differenti e un mix eclettico di articoli, Gastronomica utilizza il food come fonte di conoscenza sulle diverse culture e società, provocando discussioni e incoraggiando riflessioni sulla storia, sulla letteratura, sulla rappresentazione e l’impatto culturale del cibo (…) più conosciamo il cibo, maggiore è il piacere che ne traiamo…”. Questa la presentazione di Gastronomica, firmata dal suo editore Darra Goldstein. Sul numero Winter 2012-13 (uscito a fine novembre 2012), a pagina 91 c’è un interessante articolo dal titolo “On the Zampone Trail” firmato da John F. Carafoli. L’autore ripercorre la storia della sua famiglia, emigrata dall’Italia a Cape Cod, Massachussets nel lontano 1904. Originari dell’Emilia i Carafoli erano soliti cucinare carni bollite. I ricordi culinari si rifanno a zamponi e cotechini fatti in casa. Da qui la ricerca dell’autore tra documenti, testi e opere sulla storia dello zampone (è ampiamente citato anche il prof. Giovanni Ballarini dell’Università degli Studi di Parma, oltre al Consorzio Zampone Modena e Cotechino Modena). Fa un gran piacere ritrovare parte della nostra cultura gastronomica tra le pagine di una bellissima rivista di cultura del cibo californiana.

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