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In caso di mancato recapito inviare al CMP di Milano Roserio per la restituzione al mittente previo pagamento resi

Artù n°48 - Gennaio - Febbraio 2012

Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati

Origine e tenerezza i plus della carne inglese Villa Crespi, la solidità di Cannavacciuolo Eugenio Pol ‘Vulaiga’: il panificatore solitario L’impronta di Mestriner al Relais di Follina

Gennaio Febbraio 2012

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EDITORIALE n°48

edi tori al Valori NUOVI

Eravamo il paese dei professionisti dell’ospitalità. Forse lo siamo ancora. Ma nella percezione generale non lo siamo più. La crisi ha certamente fatto la sua parte, ma il resto (e non è poco) lo ha fatto la mancanza di buon senso, condita da leggerezza, immaturità, inutili azzardi. L’esempio della Costa Concordia è emblematico in tal senso; la mancanza di senso della responsabilità, che non è certo un disvalore solo italiano, all’interno dei nostri confini è amplificata rispetto al resto d’Europa. Un mix di individualismo e cattiva educazione, di sottocultura e luoghi comuni, aggravato da uno scarso ‘senso del prossimo’, ha creato una situazione molto difficile, anche per le sorti future della nostra industria dell’ospitalità. Peccato. Ma si può invertire la rotta? Si può restituire all’Italia quella credibilità di cui tutti abbiamo bisogno? Credo che l’impresa sia possibile, lavorando alla creazione di una rete di valori diversi e innovativi, che tengano ben presente le istanze espresse dalla clientela contemporanea, quella - per intenderci - del ‘nuovo mondo’ nel quale dovremo abituarci a vivere. Tento, di seguito, di indicare il mio punto di vista sulla possibile ‘uscita’ dalla crisi, auspicando risposte, commenti, interventi che, come sempre, sono ben accetti. 1) Scordarsi del passato. Gli antichi fasti non torneranno più e, spesso, erano legati alla propensione di spesa edonistica che ha visto decimare i propri attori, i protagonisti attivi di quello scenario 2) Puntare sulla qualità dell’offerta, nella ristorazione ma anche nell’ospitalità. Il consumatore, seppure abbia drasticamente ridotto la spesa, non rinuncia alla qualità di ciò che acquista. Non è vero che l’abbassamento generalizzato dei consumi comporti al tempo

stesso uno scadimento qualitativo delle scelte. Tutt’altro 3) Comunicare in modo efficace il valore delle proprie proposte. Nel nostro paese si è perso (se mai è esistito) il concetto di comunicazione, spesso relegato unicamente nell’ambito della visibilità. Il problema non è tanto di rendersi visibili, quanto di rendere visibile il proprio valore: sono due cose molto diverse. E su questo punto c’è molto da lavorare 4) Non dare più nulla per scontato. I consumatori continueranno certo a consumare, ma su basi completamente ribaltate, seguendo strade nuove che dovranno soddisfare bisogni essenziali prima ancora che edonistici. Inoltre, la scomposizione del ceto medio (verso il basso), comporta un riassetto globale dell’offerta 5) Stimolare le liberalizzazioni, ma in modo intelligente. Mi pare l’unico modo per ricreare una competizione nuova, stimolata dallo sviluppo di energie in sintonia con le nuove aspettative: l’appiattimento corporativo, oltre ad essere un retaggio del secolo scorso, blocca la crescita e favorisce solo eventuali rendite parassitarie 6) Price for value: sembra ormai una formula vecchia, visto e considerato che ne parliamo da sempre. Ma su questo punto non si deve mollare la presa: tanti ristoratori lo hanno capito e, a costo di attraversare momenti difficili, stanno comunque seminando per il futuro. Ricevo ogni giorno mail di gestori di locali, ma anche di chef patron, che hanno impostato la propria attività su basi innovative: menù-degustazione a 35 euro, alla carta sotto i 40, vini al calice o in mezza bottiglia, ecc... 7) Aumentare le competenze e la professionalità: per gestire la sfida imposta dall’emergenza è fondamentale accrescere la propria cultura dell’ospitalità,

in tutti i settori. Non basta individuare la formula giusta, se poi non si è in grado di riempirla dei contenuti vincenti 8) Lavorare su proposte chiare, ben definite, semplici, essenziali. C’è bisogno di chiarezza, di trasparenza, di onestà. Se per anni qualcuno ironicamente diceva che “il furto è l’anima del commercio”, oggi gli assi si sono ribaltati. La riduzione dei margini è ormai la norma. E per sopravvivere (e crescere) si può solo puntare sull’aumento della clientela e relativa fidelizzazione 9) La pressione fiscale è insostenibile, d’accordo. Ma per reagire alla sottocultura che vuole vedere i ristoratori come ricchi evasori senza scrupoli, bisogna contrapporre – dati alla mano la situazione reale, che non merita davvero trattamenti punitivi che portano il settore alla morte 10) Essere ottimisti, nonostante tutto. Con la depressione non risolviamo nulla: c’è bisogno, semmai, di maggiore statutarietà, di quella che in molti (compreso il Presidente della Repubblica) definiscono coesione. Sarà un ritornello trito e ritrito, ma dobbiamo fare sistema molto in fretta. Prima che sia il sistema a ‘fare’ noi. Alberto P. Schieppati

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In copertina: carne di manzo. La carne-mania imperversa nella ristorazione. A fronte di consumi relativamente stabili nel canale famiglia, i locali gourmet vedono una crescita costante di interesse da parte della clientela. In questo numero, un’intervista esclusiva a Jeff Martin, responsabile di Eblex, sulle carni inglesi e un report sull’attività di Motta, il macellaio degli chef.

Info people Merano, un successo per Koecher e Olenik La terza dimensione del business Info people&brand Cedroni, Cuttaia, Romito: gli chef si scatenano Vino e food, mercato vivace Vite appassionate De.Al - Pac Food, il presidio del territorio La foto di Cioffi Focus food L’orgoglio di Jeff: carne inglese a gonfie vele di Alberto P. Schieppati Protagonisti food Cassoeula e bolliti. Rivive la Brianza d’antan di Luisa Contri Villa Crespi: il percorso di Tonino di Theo Smith La “Leggenda” dei Saporito di Alberto P. Schieppati Eugenio Pol: pane amore e coraggio di Luisa Contri Format food Ottimo Massimo sveglia Milano di Luisa Contri Il doppio lavoro del macellaio Motta di Luisa Contri Stessa terra, stessa passione di Monica Zani Format locali Maharajà: l’indian bar di Milano di Alberto P. Schieppati Tendenze Il ritorno di Luca Brasi. Lo stile a domicilio di Elio Ghisalberti Tipico Focaccia di Recco. L’Europa se ne accorge di Davide Bernieri Accueil La famiglia Zanon punta su Mestriner di Alessandra Piubello Il Bottaccio: dignità d’entroterra di Fiorenza Auriemma Locali Gambrinus: storia di famiglia di Marta Lai Equipment Cottura, se d’avanguardia soddisfa di più di Davide Deponti La luce del futuro si chiama led di Davide Deponti Libri La filosofia verde di Pietro Leemann Secondo Artù Bocchia, la ricerca estrema e altri esempi ragionevoli Artù n°48

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Merano, un SUCCESSO per Koecher e Olenik

Durante lo scorso Wine Festival, Beverage & Food Group si è fatto promotore di un evento che ha coinvolto 37 aziende vinicole, unite dal desiderio di fare sistema e di comunicare ai mercati della ristorazione le proprie eccellenze. L’incontro si è svolto nella splendida cornice della Maiena, il Life Resort condotto da Hans Waldner. Come abbiamo già avuto modo di scrivere, la scorsa edizione di Merano Wine Festival si è confermata come un evento di grande successo, capace di raccogliere da anni il gotha delle aziende vinicole di qualità e, soprattutto, di metterle in contatto con un pubblico di veri enoappassionati, alla continua ricerca di novità inedite o di conferme importanti. A riprova del valore della manifestazione, giunta

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alla sue ventesima edizione, Helmuth Koecher, patron del Festival, sarà presente a Milano, il prossimo febbraio, a Identità Golose, l’evento enogourmet che Paolo Marchi organizza annualmente nel capoluogo lombardo: per l’occasione, si chiamerà Milano Wine Festival, a significare il legame fra le due città e a rafforzare una sinergia culturale che nasce da approcci strategici e di comunicazione finalizzati ad un medesimo obiettivo. Ma ci piace, a due mesi di distanza dal Merano Wine Festival, soffermarci su un evento ‘collaterale’ che ha visto protagonista un personaggio molto noto nel mondo del vino, Graziello Olenik, fondatore di Beverage & Food Group, l’organizzazione con sede a Muggia (Ts), impegnata nella valorizzazione e promozione del vino italiano di qualità. Così, il 6 novembre, a Marlengo (ad un passo da Merano), Olenik ha lanciato ufficialmente l’ambizioso progetto a firma ‘Global Lion’, che non a caso titola la propria mission con l’ambizioso e lungimirante progetto di International Distribution of Luxury Drink ed Excellence Food ‘Made in Italy’. Obiettivo dichiarato di Olenik è quello di mettere in collegamento fra loro le eccellenze dell’Italia vinicola (ma anche gastronomica) al fine di rafforzarne l’impegno e la visibilità, coinvolgendo anche i media per comunicare un’immagine di statutarietà che parta dai valori concreti di cui il mondo del vino è responsabilmente l’artefice. Non a caso alla serata, oltre ad Artù, hanno preso parte giornalisti di altre importanti testate, locali, nazionali e specializzate. Nelle suggestive sale del Life Resort La Maiena, un complesso di ospitalità di prim’ordine, dall’offerta alberghiera molto strutturata, guidato dal patron Hans Waldner, Graziello Olenik ha mirabilmente condotto una serata in cui protagonisti erano proprio loro, gli uomini (e le donne) del vino: 37 aziende vinicole che si sono dimostrati protagonisti attivi, con i propri vini proposti in abbinamento ad una splendida cena allestita da André Kassin, l’eccellente executive chef del ristorante de La Maiena. Punta sul lavoro in team l’attività di Olenik (un


passato nel mondo del marketing della moda ed un presente completamente dedicato all’universo del vino e del food di qualità), che non nasconde il suo obiettivo: “Abbiamo costruito una squadra che non deve mai perdere, al massimo potrà pareggiare: e sono certo che potrà ancora crescere arricchendosi dell’adesione di nuovi produttori”. E non erano certo pochi i 37 produttori presenti all’incontro meranese: grazie ai loro prodotti, abbinati agli ottimi piatti preparati dalla brigata della Maiena (memorabili i tortelloni ripieni di coda di bue su crema di sedano e la sella di cervo della Val Venosta in crosta di porcini con mirtilli rossi, cavolo cappuccio e spaetzli), le aziende presenti hanno dimostrato con efficacia che la qualità, comunicata concretamente, pone al riparo da ogni crisi e consente di raggiungere performance uniche e durature nel tempo. Solo aggredendo i mercati con una presenza strategica unitaria, pur nelle ovvie differenze produttive rappresentate dalle singole aziende, si può fare fronte comune e presentarsi al mercato della clientela con le carte in regola e la necessaria determinazione, supportata

dalla qualità e dall’eccellenza delle proprie produzioni. Il messaggio di Olenik, coadiuvato dall’entusiasmo e dalla competenza di Laura Tenze, è stato dunque molto chiaro: e la serata ‘Global Lion’ ha dimostrato di essere un buon punto di partenza per le aziende coinvolte che hanno subito compreso di non avere partecipato alla ‘solita’ cena di pr, ma di avere lanciato un messaggio molto forte a tutto il comparto. Perché la competizione, prima di tutto, ha bisogno di cooperazione… Beverage & Food Group “GLOBAL LION” (Luxury Drink & Excellence Food) 34015 Muggia (TS) bieffegi@bieffegi-italy.com www.bieffegi-italy.com

I produttori presenti Al primo happening ‘Global Lion’ hanno preso parte molte prestigiose aziende del mondo del vino presenti al Wine Festival distribuite in diversi paesi esteri dalla Beverage & Food Group - Muggia (TS). Di seguito elenchiamo i marchi presenti. Malvirà, Parusso, Poderi Luigi Einaudi, Albino Rocca, Les Cretes, Olio Toniolli, Josef Waldner Kellerei, Ritterhof Kellerei, Roner, Lunae Bosoni, Le Marchesine, Provenza, Nicolis, Bastianich, Casa Zuliani, Castello di Spessa, Castelvecchio, Livon, Villa Russiz, Cantina Paltrinieri, Umani Ronchi, Boscarelli, Castello di Querceto, Tenute Guicciardini Strozzi, Tenute Silvio Nardi, Usiglian del Vescovo, Antonelli San Marco, Cantine Lungarotti, Olio Marfuga, La Valentina, Villa Matilde, Cantine Viola, Gulfi, Marco De Bartoli.

ph. by Gigi Bortoli luigi.bortoli@alice.it

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La TERZA DIMENSIONE del business zione del televisore in grado di riprodurre contenuti tridimensionali e una fornitura di 200 occhiali dedicati usa e getta. “Con l’arrivo del 3D siamo ancora una volta leader nella tecnologia come lo eravamo stati con l’HD - continua Angelo Liotta -. “Comprendiamo che per alcuni bar l’investimento del nuovo schermo potrebbe essere un ostacolo verso la diffusione della più moderna offerta Sky. Ma creeremo delle offerte ad hoc finalizzate ad abbattere questo tipo di barriere e ad accelerare il processo di adeguamento del mercato alle nuove tecnologie”. La nuova punta di diamante dell’offerta Sky è destinata per ora a costituire una nicchia di mercato. Resta il fatto che per molti esercizi pubblici lo schermo 3D costituisce un elemento di forte distinzione per il proprio locale e una vera leva strategica per spingere i consumi oltre la crisi.

L’offerta Sky guarda al futuro e punta su schermi e contenuti 3D per un intrattenimento all’insegna dell’hi-tech. Ieri pioneri dell’HD, oggi paladini del 3D. L’offerta Sky per il segmento business è da poche settimane più ricca. Il ventaglio dei prodotti per il segmento dei pubblici esercizi viene potenziato dalla possibilità di usufruire di uno schermo per la visione tridimensionale e da contenuti ad hoc fruibili con gli immancabili occhialini usa e getta compresi nell’offerta. È un passo importante, che si traduce in prospettive inedite per tutta l’utenza business in cerca di nuove opportunità. “La caratteristica fondamentale del nostro prodotto - sottolinea Angelo Liotta, Marketing & Communication Manager Business Department di Sky - è la sua capacità di essere veramente modellato sulle esigenze del cliente. Se parliamo di bar, ristoranti o pizzerie basti pensare che oggi siamo in grado di fornire anche contenuti in grado di allinearsi alle caratteristiche di stagionalità di molti esercizi pubblici aperti solo qualche mese all’anno”. La spinta continua di Sky verso l’innovazione tecnologica, la novità e una user experience di grande appeal, sfrutta oggi gli atout dell’immagine tridimensionale che ben si sposa con la carica emotiva di avvenimenti sportivi e alcuni eventi musicali come i concerti dal vivo. L’impatto visivo viene amplificato e trasforma l’evento in un momento unico. Un’esperienza che chiunque vorrebbe ripetere e che per i bar si traduce, fra l’altro, in una formidabile forma di fidelizzazione della clientela. “I bar sono per noi un core target dice Valerio Ciceri, Responsabile vendite Business Department di Sky specie quelli aperti tutta la settimana e che possono coprire tutti gli eventi in diretta. Stiamo parlando di locali che per lo più sono interessati al calcio, ma che spesso fanno buoni numeri anche con altri sport come il tennis o il rugby. Per gli esercizi

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pubblici aperti nelle ore diurne, l’offerta Sky attinge più al cosiddetto infotainment come le news di skytg24, piuttosto che i flash di skysport24, o il meteo, più adatti a una clientela

orientata al mordi e fuggi della colazione, la pausa caffè, lo spuntino o il pranzo veloce...”. Nelle scorse settimane, Sky ha lanciato un prodotto bundle che prevede anche l’installa-

Nelle foto: Angelo Liotta, Marketing & Communication Manager Business Department di Sky e Valerio Ciceri, Responsabile vendite Business Department di Sky. Qui sotto la sede di Milano.



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Cedroni, Cuttaia, Romito Gli CHEF si scatenano Limited Edition: Moreno Cedroni loves Pink Lady

passione, ganache cioccolato al latte e sale, streusel alle spezie. E come non innamorarsi...

La Gioielleria del vino

antipasto - Moskit Pink Lady Galeotta fu una Pink Lady. L'amore a prima vista tra la famosa 'fashion apple' e l'acclamato chef del Clandestino.Milano Moreno Cedroni, ha fatto scintille! Quattro le inedite ricette realizzate per festeggiare San Valentino, quattro esperienze gustative racchiuse nel cofanetto Moskit Pink Lady® Limited Edition, proposte nel menu del ristorante di Maison Moschino, da gustare in occasione della cena del 14 febbraio 2012. Protagonista indiscussa, Pink Lady viene celebrata con il dolce e con il salato: "La mela Pink Lady® entra nei piatti in maniera importante e decisiva, grazie alla sua fragranza e piacevole acidità – ha dichiarato Moreno Cedroni –. Per quello che riguarda le ricette di San Valentino ho cercato di creare un menù vero e proprio, dall’antipasto al dolce, coinvolgendo e stimolando tutti i sensi, realizzando piatti con viole del pensiero, gamberi rossi e frutto della passione, ingredienti seducenti che insieme alla mela Pink Lady® ci stregano con promesse d'amore”. L'overture con ricciola e mozzarella con zuppa di porro, Pink Lady Nature, viola del pensiero e basilico, lascia spazio alla prima portata, un risotto con gamberi rossi e burrata, e Pink Lady in sorbetto. La leggerezza del secondo, composto da carpaccio tiepido di spigola con purea di patate acidulato con Pink Lady, salmoriglio e salsa rucola, si completa con un dolce irresistibile: marmellata di Pink Lady e frutto della

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L’azienda vinicola veronese La Collina dei Ciliegi ha inaugurato il primo punto vendita a Milano, in Via Melchiorre Gioia 45. Una location studiata ad hoc per esaltare gli spazi in base alle esigeze della clientela: il vero e proprio negozio al piano terra, lo showroom al secondo piano – uno spazio più intimo dedicato alle degustazioni su appuntamento guidate da esperti sommelier –, e una terrazza. Nelle parole di Massimo Gianolli, presidente dell'azienda, i contenuti del progetto de La Gioielleria del vino: “L’apertura

showroom La Collina dei Ciliegi della boutique a Milano è un passo davvero importante per il nostro business. La location è stata individuata al centro dell’area Garibaldi-Repubblica, (...) una zona di grande interesse, crocevia di importanti arterie cittadine, di linee metropolitane e ferroviarie. La scelta di Milano non è stata casuale rispetto ad altre città, oggi Milano è considerata la capitale nazionale del Turismo d’affari, si contano oltre 5 milioni di visitatori l’anno con un potere di acquisto che genera un fatturato complessivo annuo di circa 2 miliardi di euro. Milano quindi offre una grande opportunità per 'catturare' quel preciso target di consumatori, nazionali e internazionali, a cui si rivolge l’azienda nel suo processo evolutivo, offrendo un prodotto di qualità in uno spazio esclusivo ed elegante".

Pino Cuttaia e Gennarino a New York con GVCI Torna anche quest'anno l'International Day of Italian Cuisines, la gironata internazionale delle cucine italiane volta a promuovere i prodotti alimentari made in Italy e le autentiche ricette, mobilitandosi contro i 'taroccamenti' e 'manipolazioni'. Protagonista di questa edizione l'Ossobuco in Gremolata, uno dei piatti italiani più conosciuti al mondo, ma anche uno dei piatti più rivisitati e mixati con altri ingredienti, che nulla hanno a che fare con la ricetta autentica. La IDIC, promossa da itchefs-gvci.com, forum che fa capo a un network di oltre 1800 cuochi, ristoranti e culinary professional che lavorano in 70 paesi nel mondo, è stata lanciata in anteprima e contemporaneamente lo scorso 12 gennaio a New York, Mosca e Milano, patria del famoso Ossobuco. Pino Cuttaia, del ristorante La Madia di Licata (Ag), e Gennaro Esposito (Torre del Saracino, Vico Equense) hanno aperto le danze a New York per la tradizionale anteprima di due giorni, riservata a media e operatori del settore. Pino Cuttaia ha inoltre diretto una Master Cooking Class sulla cucina siciliana, presso l’International Culinary Center, diretto da Cesare Casella, leader di itchefs-GVCI negli USA.

Pino Cuttaia

Feudo Antico e Niko Romito: viticoltura di montagna Porta la firma di Feudo Antico e Niko Romito il progetto tanto arduo che vede protagoniste le meravigliose terre d'Abruzzo, in particolare Castel di San-

gro. Una sfida che può sfociare in un modello di sinergia imprenditoriale tra realtà diverse, finalizzato a valorizzare il territorio. Nello specifico Andrea Di Fabio, direttore di Feudo Antico, prima azienda produttrice della doc Tullum, e Niko Romito, chef patròn di CasaDonna, hanno deciso di realizzare un vigneto sperimentale a quasi 1000 metri d'altezza, un 'esperimento' seguito dallo staff del professor Attilio Scienza dell’ Università di Milano. “Da sempre,

ciclicamente, la terra è stata oggetto di grandi cambiamenti climatici. Oggi si assiste ad una progressiva desertificazione – afferma Attilio Scienza –. Per questo ci troviamo a gestire problemi di eccessiva maturazione, di scarso sviluppo degli aromi e alta alcolicità dovuti a temperature troppo calde, nel momento in cui il mercato cerca invece vini più eleganti e profumati. In montagna invece le condizioni si stanno dimostrando potenzialmente interessanti per produrre vini moderni. L’altitudine, quindi, diventa un’opportunità”. Castel di Sangro, nonostante la viticoltura difficile, potrebbe diventare presidio territoriale per le potenzialità qualitative del terreno, offrendo alla comunità locale un’interessante attività economica. “Feudo Antico è una piccola azienda con radici che affondano nella tradizione abruzzese – afferma Andrea Di Fabio –. Siamo stati i primi a produrre la doc Tullum, una delle più piccole d’Italia. Siamo ora orgogliosi di aver appoggiato questo progetto innovativo nato su basi di amicizia e di aver dimostrato che l’Abruzzo sa fare sinergia in un mondo tendenzial-



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Nobile - le vetrine mente individualista”. Per realizzare il progetto sono state scelte condizioni estreme: un’altitudine di quasi 1000 metri, un clima freddo, un vigneto esposto a ovest su terreno franco argilloso, varietà internazionali come Pinot nero, Riesling renano, Sylvaner verde, Traminer e Veltliner e l’autoctono Pecorino. Su quest’ultimo vitigno Feudo Antico ha puntato molto, anche grazie al progetto di zonazione realizzato nell’areale della Tullum. Durante l'evento che ha battezzato il progetto, sono stati presentati anche i nuovi vini Feudo Antico, il Rosso Riserva e il Passito, spiegati dal degustatore Paolo Lauciani, cui è seguito l’abbinamento con la cucina di Niko Romito, patron del progetto CasaDonna a cui presto si affiancherà un centro di formazione professionale per chef e una locanda gourmet.

Gusto in Scena torna a Venezia La IV edizione della manifestazione, ideata e curata da Marcello Coronini, trasformerà Venezia nella capitale del gusto italiano, un momento di incontro tra le cantine, i produttori gastronomici e il mondo della ristorazione di alta qualità. Il 15, 16 e 17 aprile 2012 la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, un complesso architettonico fondato nel 1261, ospiterà tre importanti eventi: Chef in Concerto - Il congresso di alta cucina, i Magnifici Vini di Mare Montagna, Pianura e Collina, e Seduzioni di Gola, dedicato alle eccellenze gastronomiche. Tema di Chef in Concerto sarà 'Cucinare con… Cucinare senza... Sale', e anche il vino avrà un ruolo importante: sul palco, ad ogni piatto presentato dagli chef relatori, sarà suggerito l’abbinamento con i vini di alcune delle cantine presenti a I Magnifici Vini, creando così una forte relazione fra i due eventi. A I Magnifici Vini si potranno infatti degustare una selezione di 300 vini di circa 100 cantine italiane ed estere suddivisi nelle quattro categorie di

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mare, montagna, pianura e collina. Seduzioni di Gola proporrà invece una selezione di oltre 40 specialità gastronomiche a cura di Lucia e Marcello Coronini. Ma non solo. Per l’edizione 2012 Gusto in Scena si arricchisce di un nuovo appuntamento, il Fuori Di Gusto: ogni sera, alla chiusura di Gusto in Scena, una trentina tra ristoranti, alberghi e 'bacari' di Venezia proporranno menu speciali.

Le Ricette del Buon Ricordo per l’Unità d’Italia In occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, i Ristoranti del Buon Ricordo dedicano alla commemorazione 122 ricette ispirate all’Unità d’Italia. “Per partecipare a una celebrazione in cui si crede, quello che ciascuno può fare è offrire al meglio quello che sa fare – dice il presidente dell’URBR Ovidio Mugnai –. E noi, ristoratori associati all’Unione dei Ristoranti del Buon Ricordo, questo facciamo: proponiamo cibi, secondo ricette con le quali ci esprimiamo, per creatività e tradizione". Un tributo che è anche un percorso storico, un lavoro importante che ha implicato notevoli sforzi per recuperare un piccolo affresco delle tradizioni gastronomiche regionali, legate alla conoscenza di personaggi ed episodi autentici o leggendari. Ciascun ristorante ha scavato nella propria storia, riscoprendo piatti e cibi popolari ora in disuso: si va dai passatelli tricolori al carpaccio di pesce spada all’italiana, dai lingotti tricolori con papera muta alla pappa al pomodoro patriottica, al piatto tre colpi tricolore. Ecco il

ciuppin allo scoglio dei Mille, gli agnolotti alla Cavour, il risotto alla Giuseppe Verdi con culatello di Zibello, lo stoccafisso in umido con patate (prediletto da Garibaldi). A ogni ricetta viene abbinato un vino, e naturalmente uno sfizioso aneddotto. A fare da sfondo, il saggio 'L’Unità d’Italia da Garibaldi all’Artusi', in cui Francesco Soletti ripercorre le tappe dell’unificazione a tavola dell’Italia. Il risultato è un piacevole e curioso 'sussidiario' della cucina italiana, uno spaccato di un'Italia così eterogenea per usi, costumi e ovviamente ricette.

Il primo bistrò meneghino Claudio Sadler, chef milanese pluristellato, e Silvano Allambra, 'padre' della famosa insegna Panino Giusto, hanno unito forze e competenze in una nuova società, la Sadler Ristorazione. La quale gestirà tutti i locali di Sadler (i due sui Navigli a Milano e quelli al polo fieristico di Rho-Pero), insieme al nuovo nato, Nobile bistrò de Milan, in corso Venezia 45. “Abbiamo scelto di battezzarlo così pensando alla nobiltà del cibo”, racconta Claudio Sadler. Il locale apre alle 8 del mattino per la colazione, per poi passare al pranzo con piatti veloci ma ben curati, mentre nel pomeriggio i tavolini sono a disposizione di chi voglia bere una buona tazza di tè. Per finire con un menu serale classico a un prezzo medio di 40 euro – ad esempio risotto giallo al salto, cappelletti emiliani in brodo di cappone, ossobuco alla milanese ecc. – 'firmato' da Sadler in persona, il quale sovraintende all’operato dello chef Christian Fuccido e della sua brigata composta da quattro elementi. “Ho sempre trattato alta ristorazione, e in questo momento ho capito che è giusto dare spazio anche a proposte più semplici, ma con prodotti di alta qualità”, spiega Sadler. Aggiungendo che questo bistrò meneghino vuole essere il primo di una lunga serie.

Illy entra in Grom Il Gruppo Illy entra nella compagnia Gromart, la società che controlla la catena di gelaterie Grom, il marchio del 'gelato come una volta' che campeggia su 46 gelaterie in Italia e dieci all’estero. A convincere Riccardo Illy, presidente dell’omonimo gruppo, a partecipare con un investimento di 2,5 milioni di euro è stato il rigore e l’impegno con cui i due giovani ideatori della catena, Federico Grom e Guido Martinetti, tengono fede all’idea che è alla base del successo di Grom: proporre un gelato genuino a partire da materie prime d’assoluta qualità. Metà della frutta impiegata è prodotta secondo il metodo dell’agricoltura biodinamica nell’azienda agricola Mura Mura di Costigliole d’Asti, di proprietà della stessa Gromart, fattoria dove è stato allestito anche un frutteto sperimentale. La stessa attenzione dedicata alla frutta, si ritrova nella selezione degli altri ingredienti: dal latte fresco intero di alta qualità alle uova biologiche per produrre le creme, all’acqua di montagna di Lurisia per i sorbetti. Per garantire inoltre la stessa qualità in ogni gelateria, tutto il gelato è prodotto centralmente presso il laboratorio della catena e poi spedito in forma liquida in contenitori sigillati ai negozi cui spetterà soltanto il compito di mantecarlo. All’estero Grom punta a svilupparsi stipulando accordi di partnership con soci interessati a creare piccole catene di gelaterie: “Miriamo a trovare partner di cui poterci fidare”, puntualizza Guido Martinetti, “e che s’impegneranno a riprodurre fedelmente il nostro concept”. In questo primo 'step' sarà quindi fondamentale l'esperienza del Gruppo Illy, già presente in 140 paesi al mondo.

Guido Martinetti e Federico Grom



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VINO e FOOD, mercato vivace Soave Classico Rocca Sveva conquista la Germania Seguire una strategia ben precisa, puntando sui mercati tedeschi: è questa la strada intrapresa da Cantina Soave. Il progetto rientra in una serie di azioni finalizzate a far conoscere e apprezzare le eccellenze dell'azienda veronese ai consumatori tedeschi, un mercato che si conferma la piazza principale a livello europeo. Ed è il Soave Classico Rocca Sveva a conquistare le nordiche terre, diventando il protagonista italiano nella carta dei vini del ristorante più rinomato di Baviera, il Schuhbeck Restaurant di Monaco. Alfons Schuhbeck, patron dell’omonimo ristorante e chef blasonato, propone fino a marzo un'originale sposalizo con le iniziative del Teatro Schuhbeck: una proposta artistico-gastronomica che ogni sera vede la partecipazione di oltre 400 persone le quali, oltre ad apprezzare il menù proposto dal ristorante Schuhbeck, assistono a uno spettacolo di contorsionisti, comici, prestigiatori. Il Soave Classico Rocca Sveva, unico vino bianco veneto presente in carta, è stato scelto dal ristorante quale vino rappresentativo dell’eccellenza enologica veronese. Una strategia già confermata lo scorso anno: l'accordo con Air Dolomiti prevedeva il Soave Classico Rocca Sveva come unico vino veronese nella carta vini sui voli che collegano Monaco di Baviera con numerose città italiane, oltre alla presenza nella carta vini della compagnia aerea finlandese Finnair, e a bordo delle navi del-

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la Tallink Silja e della Viking Line, compagnie specializzate nelle tratte navali nord europee.

Calvisius: nuovo packaging Il pregiato Caviale Calvisius, prodotto da Agroittica Lombarda, si presenta sul mercato rinnovato nel packaging e con una unificazione di brand: le quattro varianti dell'Original Caviar Malossol sono ora riunite sotto l'unico brand Calvisius. Le nuove confezioni – solo una delle numerose novità che l’azienda proporrà per l’anno 2012 – riportano il logo dorato su fondo nero e oro, bianco e oro, e metallo, simbolo del valore prezioso delle piccole uova di storione, e l’antico profilo coronato di alloro che rimanda alle leggende legate al territorio di nascita di questo prodotto. Calvisius era infatti la denominazione latina di Calvisano, comune della provincia di Brescia, nonchè nome di un nobile vissuto nell'antica Roma che si trasferì nella cittadina di Calvisano, ricca di acque risorgive, per allevare storioni e avere sempre a disposizione caviale fresco per le sue feste. Calvisius Tradition, Calvisius de Venise, Calvisius Oscietra Classic e Calvisius Oscietra Royal, tutti rispettivamente in papaline da 30, 50, 100, 250 e 900 grammi, rappresentano i fiori all'occhiello di Agroittica Lombarda, società leader di settore con una produzione di oltre 20 tonnellate annue di uova di storione e un'esportazione del 95% del suo caviale in tutto il mondo.

Il Fresco di Villa Sandi ancora ‘on the top’ Grande soddisfazione a Villa Sandi. Il Prosecco doc Il Fresco anche quest'anno è risultato il migliore Prosecco nella speciale classifica di Weinwirtschaft, conquistando per la sesta volta consecutiva il titolo di Prosecco dell’anno. A premiarlo la rivista specializzata Weinwirtschaft nell’annuale classifica dei migliori 100 vini presenti sul mercato. Nella categoria Prosecco, Il Fresco è stato ancora una volta scelto dagli esperti e dai consumatori per una qualità che si conferma al top, primeggiando sul mercato estero dove Villa Sandi ha registrato anche nel 2011 una crescita a due cifre. Un riconoscimento che continua a confermare una delle etichette di maggiore successo e diffusione di Villa Sandi, con un significativo trend di crescita anche sul mercato italiano. L'azienda di Crocetta del Montello ha accolto il riconoscimento con particolare soddisfazione: una continuità qualitativa che fa del Prosecco Villa Sandi una garanzia per i consumatori.

Riso Gallo: 3Cereali si fa in due Riso Gallo presenta una novità dedicata al periodo invernale. Da oggi con un solo prodotto si potrà scegliere se preparare un risotto o una zuppa, grazie a 3Cereali Risotti e Zuppe. Pronti in pochi minuti un primo piatto o una zuppa fumante, con il gusto si sempre: riso, farro e orzo sono disponibili con il condimento Fior di Verdure o Zucchine-Gamberetti, due ricette versatili, ma soprattutto veloci. Per il risotto è sufficiente aggiungere 450 ml d’acqua e lasciar cuocere per 12 minuti; per realizzare la zuppa sono necessari 750 ml di brodo. 3Cereali Risotti e Zuppe contiene solo il 2% di grassi, è senza coloranti, conservanti e glutammato, ed è privo di grassi idrogenati. Confezione da 175 grammi, ideale per due porzioni.

La Sopressa Vicentina Dop va in vaschetta La Sopressa Vicentina ha radici antiche e trova la sua origine nei terriroti della provincia di Vicenza. Unico salume in Veneto a ottenere dall’Unione Europea la Denominazione di Origine Protetta, si riconosce per la forma caratteristica, cilindrica e leggermente arcuata, e dall’impasto compatto, ma tenero. E per gustare la Sopressa Vicentina come appena affettata, nascono le pratiche confezioni in vaschetta da 120 grammi. Prodotto dalle quattro aziende aderenti al Consorzio di Tutela Dop, la Sopressa Vicentina verrà venduta nella formula 'in vaschetta' principalmente nella grande distribuzione,


come alternativa pratica al taglio al banco, mantenendo la freschezza e il sapore naturale del prodotto. “La Sopressa Vicentina Dop in vaschetta – spiega Andrea Monico, direttore del Consorzio di Tutela – nasce come sintesi di più fattori: innovazione di servizio, qualità certificata, rispetto del gusto della tradizione. La comodità della nuova confezione, rafforza la promozione di una tipicità tutta vicentina: una priorità per il nostro consorzio”. La bontà della Sopressa Vicentina Dop è dovuta al rigoroso disciplinare di produzione, che impone di usare i tagli migliori della carne di maiale: spalla, coppa, lombo, pancetta, guanciale e coscia, quest'ultima normalmente destinata

solo ai prosciutti. Ma soprattutto i maiali devono essere allevati e macellati esclusivamente in provincia di Vicenza, una scelta di rigore che viene riconosciuta e apprezzata dai consumatori: la produzione di Vicentina Dop è infatti aumentata nel 2011 del 37%.

2011: boom di premi per Cesarini Sforza La Cesarini Sforza Spumanti trae il suo nome dalla omonima, storica famiglia, che oltre due secoli fa da Parma si trasferì nell’allora Principato Vescovile di Trento. Come tutte le nobili casate dell’epoca, i Cesarini Sforza acquistarono vigneti di gran

pregio, un'eredità raccolta nel 1974 da un gruppo di imprenditori del settore vitivinicolo trentino, i quali fondarono l’attuale Cesarini Sforza Spumanti, distribuita oggi da Fratelli Rinaldi Importatori. La collocazione sul mercato rivela da subito grandi soddisfazioni, confermate da numerosi riconoscimenti, come quelli assegnati nel 2011 ricevuti in Italia e nel mondo. In dettaglio: Brut Riserva, Decanter World Wine Awards: Commended; IWC: Commended; IWSC: Medaglia di bronzo. Brut Rosé, Decanter World Wine Awards: Commended; IWC: Commended; IWSC: Medaglia di bronzo. Tridentum: Sommelier Wine Awards: Medaglia di bronzo; Mundus Vini: Medaglia d’argento;

Concorso Enologico Vinitaly 2011: Diploma di Gran Menzione. Tridentum Brut Rosé: Mundus Vini: Punteggio 83; Effervescents du Monde: Medaglia d’argento. Tridentum Riserva Extra Brut: Mundus Vini: Punteggio 83; Euposia: Punteggio 90. Aquila Reale: Annuario di Luca Maroni: Miglior metodo classico italiano; Sparkle Bere Spumante 2012: 5 sfere; Bollicine nel Mondo – Euposia: Top 30.


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Paola Jacobbi, Marta Brivio Sforza e Marta Marzotto

G.H. Mumm, il nuovo millesimato 2004

Vigna Dogarina

Vigna Dogarina, il lato femminile ‘on air’ Eleganza e femminilità sono gli elementi chiave della nuova campagna pubblicitaria di Vigna Dogarina, l’azienda di Campodipietra (Tv), portabandiera del Prosecco Doc. Attraverso la nuova immagine, sulle principali testate trade e consumer, italiane ed internazionali, racconta esperienze, emozioni e sogni al femminile. La protagonista della campagna pubblicitaria, Romina Tonus, direttrice dell'azienda, si racconta attraverso le foto scattate dal fotografo Andrea Pancino, rivalutando il vino attraverso il filo conduttore della femminilità. La creatività della campagna vuole infatti spiegare il lato femminile del vino legato anche alla stagionalità: le immagini della campagna cambiano in base alle stagioni, dalla maturazione dell’uva in vigna, alla vendemmia, al vino che riposa in barrique. La campagna pubblicitaria rappresenta il primo step nell’ambito di un più ampio piano di comunicazione che include la riformulazione di un progetto grafico globale, dall’immagine coordinata al restyling di alcune linee ed etichette, al sito internet aziendale. L’azienda esporta attualmente in più di 20 Paesi tra i quali Brasile, Giappone, Cina e Russia di recente acquisizione, e l’export rappresenta il 60% del fatturato globale.

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Quello che porta la data del 2004 è il 55esimo millesimato firmato G.H. Mumm. Espressione di un’annata d’eccezione, unisce il carattere potente e intenso del Pinot Noir (70%) delle Montagne de Reims, alla finezza dello Chardonnay (30%) della Côte des Blancs: il prodotto finale è uno champagne che sprigiona profumi di frutta gialla con accenni di miele e torrone, mentre in bocca gli aromi di pesca molto profumati all’inizio si aprono sulle note di scorza d’arancia. Il nuovo millesimato della Maison è stato presentato alcune settimane fa a Milano, nel corso di un vero e proprio percorso sensoriale presso il neostellato ristorante panoramico Unico di Milano. Attraverso un’esperienza olfattiva, gli ospiti hanno in primis potuto scoprire e apprezzare gli aromi che compongono il bouquet del Millésimé 2004, per poi passare nella cucina a vista e collaborare con lo chef, Fabio Baldassarre, e la sua brigata, alla preparazione del menu della serata, studiato ad hoc per esaltare il prestigioso vino: risotto mantecato al-

la prugna mirabelle, pepe e vaniglia; involtini di spigola e zucchine con composta di albicocche, coriandolo e sesamo, gratin di frutta con zabaione allo champagne e verbena.

L’onda del mare in un piatto

Si chiama NewWave Nature Inspired, ed è una nuova gamma che va a completare la già esistente New Wave, pensata da Villeroy & Boch per i professionisti del settore gastronomico e alberghiero. Presentata qualche settimana fa a Milano, nel corso di una serata organizzata appositamente nel ristorante di alta cucina cinese Bon Wei, questa linea molto particolare e accattivante si ispira alle onde del mare: come testimoniano le linee morbide e i bordi in movimento, che contribuiscono entrambi a formare una superficie ondulata e unica, ideale per dare risalto alle preparazioni dei professionisti. Di color bianco puro, questa nuova gamma è in Premium Porcelain, una pregiata porcellana trasparente e leggera, resistente alle alte temperature e lavabile in lavastoviglie. La linea è ampia ed è composta da piatti rettangolari, quadrati e triangolari, insieme a insalatiere, vassoi, scodelle, coppette dessert, tazze, tazzine, salsiere e altro ancora. È distribuita in Italia da Boggi 1818.

La Maison Perrier-Jouët insieme a Damiani La boutique Damiani in Via Montenapoleone a Milano ha fatto da sfondo alla presentazione del libro 'Sotto i tre carati non è vero amore' di Paola Jacobbi, scrittrice e firma di Vanity Fair. Un party tra le bollicine più pregiate, come quelle dell’Anniversary Edition Perrier-Jouët by Omas, lo champagne nato per celebrare il bicentenario della Maison. File rouge dell'evento l'aforisma di Oscar Wilde 'Possiamo fare a meno di tutto. Tranne che del superfluo', citato nell’introduzione del libro di Paola Jacobbi a suggello della passione delle donne per i gioielli, un aforisma scritto da uno dei più grandi estimatori della Maison di Epernay. Ogni creazione della Maison Perrier-Jouët è infatti cesellata come un diamante, la nascita di ogni Cuvée è frutto di grande impegno e genialità: lo chef de Cave, Hervé Deschamps, realizza i propri Champagne come un pezzo unico. L'epoca dell'Art Nouveau segna la storia della Maison PerrierJouët, portata al successo anche grazie al celebre bouquet di anemoni disegnato nel 1902 da Emile Gallé che ha contribuito a rendere la Cuvée de Prestige Belle Epoque una vera opera d’arte. Anche Damiani ha concepito la collezione Belle Epoque, una delle più rappresentative, ispirandosi proprio all’atmosfera che ha caratterizzato quel periodo storico. Così la Maison Perrier-Jouët si unisce a Damiani per festeggiare il libro 'Sotto i tre carati non è vero amore', uno sposalizio fatto di affinità artistiche capaci di creare capolavori senza tempo.

Gruppo Cevico, crescita in doppia cifra Più 10% di fatturato, con un incremento dell’export del 59%. Questi i numeri del bilancio 2010/2011 illustrati del Gruppo Cevico nell'As-



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Bord Bia - granchio irlandese semblea svolta a Palazzo Astolfi (già to HoReCa, la Tenuta Masselina, il Palazzo Giliendi) a Poggio Berni (Rn). 'laboratorio' del Gruppo per la speriBen 4.500 famiglie di viticoltori asmentazione e la realizzazione di vini sociati, 9 grandi cooperative di contop, e il brend Galassi (‘Un sorso di duzione terreni, e un vigneto di Romagna”’ con il suo Sangiovese di 6.600 ettari, a Denominazione di Romagna D.O.C, miglior vino EmiliaOrigine Controllata o a Indicazione Romagna 2011 secondo la Guida Geografica Tipica, che si estende vini per il mass market ‘Berebene dalle Colline Romagnole confinanti Low Cost’ di Gambero Rosso). Da con la Toscana, fino ai terreni sabbiosi sottolineare il successo della linea del parco del Delta del Po e al terriGdo con il Sancrispino il vino in torio di Rimini, sulla costa del mare brik. L’Assemblea ha poi eletto i Adriatico. Il Gruppo (Cevico, Le Rocomponenti del nuovo Consiglio di magnole, Cantina dei Colli Romagnoli, Amministrazione del Gruppo Cevico, Le Romagnole Due, Due Tigli, Sprint confermando Presidente per il prosDistillery, Winex e Tenuta Masselina) simo triennio Ruenza Santandrea, ha evidenziato un fatturato consolialla Vice Presidenza Carlo Frulli (Predato di 102,265 milioni di euro, residente della Coop Le Romagnole) gistrando un incremento del 10% rie Silvano Dalprato (Presidente della spetto all’esercizio precedente: nello Coop Cantina dei Colli Romagnoli). specifico l'export del prodotto confezionato è aumentato del 59% as- Bord Bia Irish Food Board, sestandosi a 6.700.000 € grazie l’Irlanda a Milano anche alle performance nei paesi L’Irlanda per molti fa rima con birra asiatici ed est europei. Tra rossi (Sane whisky. Ma non sono queste le unigiovese, Cabernet Sauvignon, Merlot, che specialità locali a varcare i Fortana, Cagnina, Barbera) e bianchi confini dell’isola per arrivare sulle (Albana, Trebbiano, Rebola, Pignoletto, tavole e nelle cucine della migliore Pagadebit, Sauvignon, Pinot Bianco, ristorazione all’estero. QueChardonnay, Malvasia), il punto di sto è reso possibile grazie forza del Gruppo è rappresentato anche al Bord Bia Irish dalle diverse linee di produzione e s Food Board, organiche coprono ogni segmento e land r i smo governativo che di mercato. Fra queste o icat m si occupa della Romandiola u aff ne o promozione e del(Antica Roalm lo sviluppo delmagna) desti- s le esportazionata al segmen-

Bord Bia - pascolo irlandese

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ni di tutti gli alimenti e delle bevande irlandesi. Il quale ha di recente organizzato un pranzo a Milano, presso il Grand Hotel et De Milan, per permettere alla stampa di assaporare alcuni tra i principali prodotti irlandesi disponibili sul mercato italiano, sia per l’Horeca sia per il consumatore finale. A cominciare dal sidro di mele e di pere, per passare alle cappesante, salmone, agli scampi, al granchio (polpa e chele) e alla carne. Quest’ultima in particolare proviene da animali allevati nei pascoli naturali, per poi essere lavorata con il proce-

dimento brevettato Ultra-Tender che la rende tenerissima, migliorandone consistenza e qualità.

Dalla Rossi&Rossi un rum ‘especial’ Sette anni fa la Rossi&Rossi, importatore e produttore trevigiano, fiutò un clamoroso affare scoprendo in Perù una distilleria inattiva che conservava buona parte degli stock di botti di rum invecchiato. Rilevata da Fabio Rossi, la vecchia distelleria riprese a funzionare, dedicandosi alla produzione di rum nel pieno rispetto dei metodi tradizionali locali utilizzando la canna da zucchero del territorio, così da ottenere una melassa ricca di zuccheri. La lenta distillazione e l’invecchiamento secondo il metodo Solera, hanno portato alla ribalta il

famoso rum: per due anni consecutivi, nel 2008 e 2009, il Ron Millonario Riserva Especial Solera 15, ha conquistato la medaglia d’oro nella categoria Premium rum invecchiati più di 15 anni, al Polished Palate International Rum Festival, il più grande Festival del rum degli Stati Uniti, e nel 2009 è stato insignito anche del Best of the Show Award. Accanto al Ron Millonario Riserva Especial Solera 15, anche il Ron Millonario XO: sempre un metodo solera, questa volta di rum invecchiati da 6 a 20 anni. Interessante il rapporto qualità-prezzo.

‘Invecchiato sopra le nuvole’ Questo il claim pubblicitario del rum guatemalteco ultrapremium Za-


capa invecchiato a 2300 metri d'altezza, conosciuto in Italia anche grazie a un tour di promozione iniziato lo scorso maggio a Torino, passato poi a Milano: in scena alla Zacapa Room di Brera, dal 23 novembre al 4 dicembre, la degustazione di due dessert, Terra di Cioccolato, preparato da Andrea Berton (chef 2 stelle Michelin de Il Ristorante Trussardi Alla Scala), e il dessert Tierra y café di Mario Sandoval, giovane chef spagnolo del ristorante stellato Coque di Madrid . E Roma sarà la prossima città a ospitare il tour. Per l'occasione Diageo, distributore del rum Zacapa, allestirà una temporary lounge dedicata alle degustazioni, da Zacapa 15 Solera Reserva 40°, un blend di rum invecchiati dai 5 ai 15 anni, a Zacapa 23 Solera Gran Reserva 40°, fino al più vigoroso Zacapa 23 Etiqueta Negra Solera Gran Reserva 43°, all’ancor più pregiato

Zacapa XO Solera Gran Reserva Especial 40°, blend di rum invecchiati dagli 8 ai 25 anni, che trascorrono un ulteriore periodo in botti d’acero precedentemente utilizzate per il cognac, oltre a quelli in botti di bourbon prima, di bourbon bruciato poi, e in barrique di Jerez Pedro Jiménez a seguire. Un’attenzione, quella del Ron Zacapa per il mercato italiano, che si spiega con il fatto che proprio il nostro paese è il principale mercato europeo dei rum superpremium.

Kimbo alla Scala di Milano Kimbo, marchio storico di caffè creato da Cafè do Brasil S.p.A., è stato eletto partner e fornitore ufficiale del Teatro alla Scala di Milano per tutta la stagione artistica 2012 (e già presente durante la stagione 2011). Nei quattro bar dei Foyer del Teatro, il gusto di Kimbo Prestige accompagnerà gli spettatori in una piacevole pausa: la miscela di caffè è infatti ottenuta da una lavorazione e una tostatura molto accurate, e il caffè viene servito in tazzine realizzate ad hoc per la Scala di Milano. Un partner scelto per la qualità del prodotto, perseguita attraverso una rigorosa selezione delle materie prime, il controllo costante di tutta la filiera produttiva e una metodologia di lavorazione all’insegna dell’innovazione. Nel percorso che ha portato Kimbo alla Scala, un ruolo importante è stato svolto anche dall’innovativa campagna pubblicitaria 'Kimbo Coffee Hour', che mette l’accento sull’esperienza sensoriale e relazionale: Kimbo Coffee Hour diventa un'occasione d'incontro.


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Vite APPASSIONATE

È questo il nome dell'evento oreganizzato da la Gerardo Cesari per festeggiare il suo 75° compleanno. Location d'eccezione l'Associazione Culturale Officina Contemporane a Verona, dove è stato protagonista il noto Amarone dell'azienda, oltre agli altri vini Cesari. Ogni vino è stato abbinato ai prodotti d'eccellenza del territorio veronese, ma soprattutto a diverse cucine e ricette internazionali realizzate dallo chef Kumalè, alias Vittorio Castellani, abbinate anche alle opere d'arte esposte nella sede dell'Officina Contemporanea. La scelta dell'Amarone come protagonista dell'evento è stata dettata dalla considerazione di un prodotto simbolo del territorio veronese, capace di dialogare con le espressioni culinarie di diverse nazioni, caratteristica che ha reso l'Amarone un vino di successo in tutto il mondo. La Gerardo Cesari, fondata nel 1936, è stata una delle prime aziende che ha contribuito a

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questo successo internazionale, esportando la Valpolicella nel mondo con le prime bottiglie di Amarone, già negli '70, soprattutto in America. Oggi la Gerardo Cesari esporta in 44 paesi, con l'obiettivo di proporre vini 'moderni' sempre nel rispetto della tradizione, abbracciando quelle che sono le direttive per produrre in modo so-

stenibile per l'ambiente garantendo ottimi risultati al consumatore. Così commenta Franco Cesari, presidente della Gerardo Cesari: “Per far apprezzare un vino lo devi raccontare con passione e poi lo devi far assaggiare, degustare. Nei mercati in cui siamo presenti storicamente – ad esempio gli Stati Uniti, il Canada, l’Inghilterra, la Germania – sono andato di persona a portare i nostri Amaroni e i nostri Ripassi. Nel ’75 sono partite alla volta degli Usa le prime 100 casse di Amarone Cesari, e oggi tra i nostri clienti ci sono ancora quelli di trentadue anni fa. Ormai sono di famiglia. Ho creduto da subito nelle potenzialità della Valpolicella e dei suoi vini. L’impegno, e un po’ di fortuna, come in tutte le cose, hanno fatto il resto”. Grazie all'esperienza maturata in settant'anni di attività, Gerardo Cesari ha selezionato quattro cru, destinati a dare le produzioni di punta, rappresentate dai quattro vigneti Bosan, Bosco, Jèma e Cento Filari, controllati e gestiti fino alla scelta dei grappoli durante la vendemmia, operazione effettuata rigorosamente a mano.



ristorazione

De.Al - Pac Food, il PRESIDIO del territorio

“Un modello di business che prevede il presidio del mercato attraverso una rete capillare di agenti presenti sul territorio delle regioni in cui operiamo”. Questo l’elemento cardine nell’organizzazione di De. Al – Pac Food, centrale acquisti nata nel 1990 a Elice, in provincia di Pescara, volta al presidio capillare del territorio, grazie a una rete di automazione di processi, ricerca di mercati e prodotti nuovi. Mauro Mascaretti, direttore dell’azienda abruzzese che vede impiegati 300 dipendenti con un fatturato di 60 milioni di euro, così ci illu-

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stra il progetto dell'organizzazione: “Le aree geografiche vengono accuratamente analizzate attraverso strumenti di geo marketing per valutarne il potenziale e calibrare la presenza della rete vendita. I nostri 100 agenti vengono coordinati da capi area, che fungono da livelli intermedi di management e si interfacciano con la direzione commerciale, che ne programma e ne controlla le attività ed i risultati”. Sono 4mila le referenze a catalogo: dalla carne al pesce, dall’ortofrutta ai salumi e formaggi, dai prodotti in scatola a quelli per l’igiene arrivando alle attrezzature per la cottura delle carni alla brace. L’ampiezza di questa offerta, valorizzata dal continuo sforzo di adesione alla realtà della ristorazione, ha suggerito di costruire, come avvenuto a Roma e come sta avvenendo a Napoli, filiali che fungono da presidio avanzato dell’azienda sul territorio e che facilitano il flusso di comunicazione e di coordinamento con la sede centrale. Tra Elice e le piattaforme logistiche di Roma, Pomezia, Santa Maria Capua Vetere e Napoli, fanno la spola 6 autoarticolati, parte di un sistema di distribuzione proprio che si avvale altresì di una flotta co-

stituita da altri 60 automezzi dedicati alle consegne: tutti i mezzi sono dotati di rilevatore satellitare, al fine di avere traccia in tempo reale della loro posizione, delle consegne effettuate e delle temperature del frigo, con memorizzazione dei dati fino a due anni. “L’innovazione tecnologica è un nostro fiore all’occhiello”, riprende Mascaretti. “Infatti, abbiamo realizzato importanti investimenti nel campo dell’automazione del processo di raccolta e gestione dell’ordine. Tutti i nostri agenti sono dotati di dispositivi mobili (palmari, tablet, smar-

tphone) per inviare direttamente in azienda le richieste del cliente presso il quale si trovano. A ciò si aggiunge la possibilità d’inserimento dell’ordine attraverso più tradizionali personal computer o notebook, utilizzando un portale web dedicato alla rete vendita. Per quanto concerne il magazzino, abbiamo un software sviluppato internamente che gestisce il lotto di produzione (tracciabilità), la allocazione dei prodotti ed il ripristino dei posti picking, mediante la segnalazione di presa della pedana a stock con scadenza più breve”.


la foto di Cioffi

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L’orgoglio di Jeff Carne inglese a gonfie vele

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di Alberto P. Schieppati Se in Italia il consumo di agnello continua a crescere, il manzo aumenta in tutto il mondo le proprie performance e, grazie a un accordo con il nostro Ministero dell’Agricoltura, presto le carni inglesi saranno certificate, a garanzia di un consumatore sempre più esigente in materia di origine, alimentazione, frollatura. Jeff Martin, il volitivo rappresentante di Eblex, che valorizza e promuove il consumo di carne inglese in Italia, è molto soddisfatto. E pensa che alla crisi economica si reagisca solo con la qualità delle materie prime e con un price for value ottimale. Sprizza gioia da tutti i pori, Jeff Martin: “Non saremo più ritenuti solo degli hooligans! Semmai, saremo considerati dei vicini che disturbano, magari un po’ chiassosi, ma con le carte in regola sotto tutti i punti di vista”. L’allusione di Jeff è riferita al recente decreto del Ministero per le politiche agricole che, finalmente, prevede la possibilità per le carni inglesi di potersi ‘dichiarare’, ovvero di vedere indicate su ogni confezione posta in vendita i tanto attesi ‘pack claims’. Dal prossimo mese di marzo, infatti, il consumatore italiano saprà tutto della carne inglese, anche quello ‘che non aveva mai osato chiedere’. Origine, provenienza, tracciabilità, razza, caratteristiche, ma soprattutto periodo di frollatura (il mitico ‘dry aging’), saranno dichiarati in etichetta. “Così la concorrenza si troverà di fronte a prodotti in grado di competere, Artù n°48

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oltre che per la qualità delle materie prime, anche per la chiarezza della tracciabilità”. Ho incontrato Jeff Martin in una vecchia trattoria toscana di Milano, un luogo della memoria per lui, dove si gustano semplici piatti regionali, dalla ribollita alla pappa col pomodoro, proposte all’insegna di una genuinità molto schietta, se rapportata alle proposte della ristorazione milanese, sempre molto ‘per benino’ e talvolta anche un po’ impostata e impiallacciata. Ed a prezzi non sempre corretti se rapportati alla qualità dell’esperienza. L’entusiasmo di Jeff Martin si percepisce ad occhio nudo, fiero com’è dei risultati raggiunti da Eblex in Italia negli ultimi anni. “Era ora che i nostri sforzi venissero riconosciuti. Oggi Aberdeen Angus, Yorkshire beef, Welsh lamb, Aged beef sono definizioni che possono vantare pubblicamente una storia, una qualità intrinseca, un gusto e una caratterizzazione particolari, in cui la perfezione della materia prima fa rima con salute e benessere. Carne perfetta, carne salutare, in sostanza”. E i mercati recepiscono il messaggio: nei primi nove mesi del

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2011 sono state esportate complessivamente 103.000 tonnellate di carne di manzo, contro le 75.000 circa esportate nello stesso periodo del 2010, con un incremento del + 36%, e 67.000 tonnellate di carne di agnello rispetto alle 63.000 dell’anno precedente, con un incremento del 6% circa. Risultati da capogiro, che registrano – per quanto riguarda specificamente l’agnello, in Italia – un sorprendente +39%. Jeff Martin spiega così l’eccellente performance: “La carne di agnello ha un ottimo rapporto fra qualità e prezzo. Si tratta di un prodotto naturale e genuino, controllato e garantito in tutta la filiera, che possiamo offrire a un prezzo realmente competitivo e con tutte le carte in regola sotto il profilo organolettico”. Non dimentichiamo che il consumatore che decide di cucinare carne ovina è spesso alla ricerca di una valida alternativa alle altre carni comunemente consumate: “L’agnello”, sostiene Jeff Martin, “può offrire molto di più, può essere mangiato da grandi e piccini perché ha un elevato valore nutritivo, è facilmente digeribile ed è ben tollerato da chi soffre di allergie alimentari. È una carne dal gusto caratteristico e prelibato, fresca e molto tenera, che può essere preparata secondo i gusti del consumatore e, nella ristorazione di qualità, assecondando l’estro creativo degli chef”. D’al-


tronde, è vanto di Eblex quello di assicurare un gusto unico ai propri prodotti, garantendo tutti i passaggi della filiera e offrendo al consumatore eccellenti qualità organolettiche, tenerezza e sapore estremamente caratterizzato: criteri fondamentali nella scelta delle carni da parte del consumatore, sia di agnello che di manzo. Razza, ambiente, macellazione e maturazione sono le quattro componenti fondamentali che influiscono sulla qualità finale della carne: elementi che concorrono tutti insieme ad un risultato ‘perfetto’. Sottolinea Jeff Martin: “Una qualità eccellente è data da un buon animale (25%), dall’ambiente sano in cui cresce (25%), dai metodi di macellazione (25%), dal processo di maturazione o frollatura (25%)”. Gli allevatori di bestiame QSM (vale a dire Manzo Quality Standard) hanno una fortissima tradizione e una vasta conoscenza dei metodi di allevamento e di produzione: “il loro è un costante lavoro di incroci fra razze diverse, alla ricerca di una sempre maggiore qualità. I manzi QSM crescono in un paesaggio verdissimo, ricco di dolci colline e prati, caratterizzato da un clima favorevole alla crescita e al mantenimento di pascoli sempre rigogliosi. “Questo ambiente sano e pulito che si trova in Inghilterra è l’ideale per il nutrimento degli animali, diviso fra pascolo e silato”, aggiunge Jeff Martin. Altri fattori, come la macellazione e la stimolazione elettrica (che apporta benefici all’animale in termini di tenerezza, stimolando i muscoli alla contrazione e incidendo direttamente sulla struttura delle fibre), concorrono a fare del manzo inglese un prodotto dalle caratteristiche uniche. Anche per quanto riguarda l’agnello, va detto che l’intera produzione – dall’allevamento fino al pro-

dotto finale – è soggetta ad un sistema di controllo molto rigido che garantisce qualità e tracciabilità totale. Gli animali vengono allevati per la quasi totalità del tempo all’aria aperta: in primavera e in estate sono liberi di pascolare nei prati, mentre d’inverno, per preservare la loro salute, vengono radunati nei pascoli più bassi e nutriti con le radici dei raccolti come, ad esempio, il cavolfiore o la barbabietola da zucchero. La geografia, la topografia, le condizioni climatiche sono fattori fondamentali e contribuiscono in modo determinante alla unicità di questo prodotto, di cui Eblex si è fatta garante assoluta, di fronte ai consumatori ma anche agli chef e ai ristoratori.

Le frollatura è fondamentale Dopo la macellazione, ogni mezzena deve essere sospesa nuovamente per l’anca. Tale operazione deve avvenire entro un’ora dalla macellazione. Poi le mezzene devono essere raffreddate il più rapidamente possibile evitando però la surgelazione. La maturazione (o frollatura) è quel processo che dona alla carne quella particolare tenerezza. Esistono tre diversi livelli di frollatura del manzo inglese, che vengono applicati sulla base delle richieste della clientela. Ecco i tre diversi livelli di dry aging (maturazione o frollatura): 1: Sette giorni in una cella frigorifera normale 2: Dai 14 ai 21 giorni in un ambiente piccolo con temperatura fra 0,5° e 1°, con luci ultraviolette che evitano la formazione di batteri 3: Dai 21 ai 28 giorni, nelle stesse condizioni ambientali citate nel punto 2.

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protagonisti

Cassoeula e bolliti Rivive la BRIANZA d’antan ricerche non soltanto delle materie prime migliori che il mercato locale può offrire, Gilberto Farina ha riaperto a Carate, ma anche e soprattutto delle ricette a metà strada fra Milano e Lecco, un d’un tempo, dei piatti dimenticati, di ristorante di pura tradizione, che punta cui sarebbe un peccato si perdesse la su materie prime dimenticate e ricer- memoria. Un esempio? La cassoeula cate. Una cucina di stagioni e sapori, d’oca, una versione più leggera della rianche decisi, a cui lo chef abbina vini cetta classica, perché sostituisce con carne d’oca tutto quanto è maiale, mual bicchiere e in mezza bottiglia. setto, piedini e cotenna inclusi. La tradizione fa la forza del ristorante La «La propongo ogni novembre da una dePiana da Gilberto di Carate Brianza. cina d’anni», spiega ad Artù Farina. «È Sono d’altronde proprio i piatti tipici ormai un’abitudine per me ripresentarla della gastronomia milanese e brianzola, in occasione di una serata a tema dedicome il riso al salto, gli ossi buchi, i cata all’oca. Poi la inserisco nel menu mondeghili, la torta paesana, i nervetti, per tutto il mese. È un piatto ultradimenla cassoeula, la trippa, quelli che fanno ticato. Chi se la ricorda ha i capelli grigi da traino all’accogliente ristorante dello e spesso mi confida che non la mangiava chef patron Gilberto Farina. Che generano da anni. Purtroppo non compare in il passaparola fra i clienti e spesso fra molti menu. Spero comunque di non esbuongustai di lungo corso e nuovi adepti sere l’unico a proporla. Sarebbe un pecdel ben mangiare. Una cucina del terri- cato che andasse perduta». torio, quella di Farina, frutto di certosine A garantire che certe ricette continuino a essere proposte si spera possano essere in futuro i giovani in stage presso la cucina del ristorante di Farina, che all’attività di ristoratore affianca quella di docente presso la scuola di Carate Brianza e di collaboratore del CFP Alberghiero di Casargo. «In cucina», racconta Farina, «mi avvalgo di due collaboratori esperti. Ho poi due persone in sala e, periodicamente, accolgo giovani in stage: al massimo due alla volta, una per reparto». Tornando agli atout del Ristorante La Piana, accanto alle ricette dimenticate, ci sono i grandi classici della gastronomia brianzola e milanese. «La mia cucina è strettamente legata alla stagionalità dei prodotti», spiega Farina, «e quindi vario il menu ogni 6-7 settimane, pur mantenendo alcuni punti fissi. Fra i miei primi, per esempio, non manca mai un risotto, piatto molto amato dai brianzoli, una zuppa e della pasta fresca. Di recente ho proposto il riso Carnaroli mantecato con radicchio di Castelfranco e taleggio della Valsassina. Un piatto che è in menu quasi tutto l’anno sono le tagliatelle con la borroeula, ossia con pasta di salame. Fra le carni, un mio cavallo di battaglia, è lo stracotto d’asino al Barbera, che servo con della polenta integrale che compro da un’azienda agricola di di Luisa Contri

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classico sono i missultitt del Lario, ossia gli agoni essiccati, che d’inverno presento grigliati e accompagnati da una polenta rustica integrale. Soltanto i lavarelli nei mesi freddi a volte escono dalla carta, perché quando s’abbassano le temperature questi pesci si spostano in acque più fonde e pescarli diventa difficile». Va da sé che le materie prime impiegate da Farina per i suoi piatti sono tutte d’alta qualità e provengono per lo più Vimercate. È una farina di mais macinata dal territorio circostante. «Lo scounting a pietra, dal sapore particolare: ha un dei prodotti migliori», afferma Farina, retrogusto leggermente amarognolo. «m’impegna parecchio. Le aziende proPunto molto anche sui taglieri di salumi duttrici vanno individuate e visitate di e di formaggi della Valsassina, delle persona, occorre assaggiarne i prodotti valli bergamasche e della Val Taleggio e provarli in cucina. Partecipare a maniche vado a comprare di persona». festazioni, degustazioni e incontri di Altro elemento fisso del menu de La settore prende tempo». Piana sono i pesci di lago: agoni e Fra le chicche de La Piana figurano gli lavarelli in primis, per i quali Farina si ri- asparagi rosa di Mezzago, proposti soltanto fornisce da un pescatore lariano. Pesci fra marzo e maggio, e la vera brisaola di che l’attuale clientela del ristorante La Madesimo. I salumi e tutti gli insaccati Piana sembra gradire ancora di più ri- da cuocere provengono da un’azienda spetto a quella che frequentava il locale agricola di Roncello che aderisce al quand’era nella sede originaria di Castello circuito del gran suino padano. Le aziende Brianza, a ridosso del lago di Como. vitivinicole lombarde rappresentano i tre Allora la location era forse più suggestiva: quarti delle etichette presenti nella carta in collina in mezzo al verde, ma gli dei vini, che ne comprende ben 400. interni del locare erano più anonimi. «Nel vino», puntualizza Farina, «presto L’attuale sede, in via Zappelli 15 a molta attenzione al rapporto qualità/prezCarate Brianza, è decisamente più co- zo perché con la crisi la clientela è più reografica. Il ristorante s’inserisce in attenta a quello che spende e le bottiglie un’antica corte lombarda, adibita a sopra i 20 euro non si vendono quasi dehors con 35 sedute d’estate, e dispone più. Nella mia carta ci sono dunque di due salette interne, arredate in modo molte etichette di piccoli produttori retrò con inserti in pietra a vista alle locali. Una particolarmente azzeccata pareti e sottiffi con travi in legno, per 35 come rapporto qualità/prezzo è quella coperti complessivi e di un locale enoteca del Valcalepio della Locatelli-Caffi, un con altre dieci sedute. rosso taglio bordolese cabernet-merlot «Normalmente propongo i pesci di lago che propongo a 12,5 euro la bottiglia e tutto l’anno», racconta Farina. «Un mio che va molto nel ristorante». Artù n°48

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Ai bevitori moderati Farina consiglia la mezza bottiglia piuttosto che i vini al calice (pure presenti). «Ormai quasi tutte le cantine propongono almeno un paio d’etichette nel piccolo formato», spiega Farina, «e si tratta di vini di cui curano la qualità». L’attenzione al rapporto qualità/prezzo si riscontra a livello complessivo nel ristorante La Piana. A mezzogiorno Farina propone un menu business, da due portate più acqua, calice di vino e caffè a 15 euro circa, che viene scelto normalmente dall’80% della clientela. «A pranzo», dichiara lo chef patron, «abbiamo un’affluenza abbastanza limitata. Facciamo dai 20 ai 30 coperti. Ritengo comunque sia importante mantenere l’apertura a pranzo, per dare un servizio alla clientela e per fidelizzarla. Molti avventori del mezzogiorno tornano da noi la sera o durante il fine settimana con la famiglia». Per cena, mangiando à la carte, il conto s’aggira sui 30 euro, vini esclusi, se ci si limita a scegliere due portate più il dolce. La proposta è ampia: nel menu figurano infatti normalmente cinque antipasti, altrettanti primi, quattro secondi a base carne, tre a base pesce, il tagliere dei formaggi ne conta 30-40 varietà di provenienza esclusivamente italiana. E si può terminare in dolcezza scegliendo fra sette o otto dessert dalle diverse consistenze e sapori. «Spaziamo dalla crème brulé ai dolci caldi», racconta Farina, «e in mezzo ci sono la torta del giorno, i sorbetti, i dolci con

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la frutta fresca. In autunno i miei cavalli di battaglia sono il tegamino gratinato alle castagne con cuore di cioccolato, e d’estate il tegamino gratinato ai frutti di bosco». Il menu degustazione da quattro portate (antipasto, primo, secondo e dolce) s’aggira sui 38-40 euro a persona, vini esclusi. Ma scende a 33 euro, vini inclusi, quello da tre portate, proposto solo il giovedì e il venerdì sera, di cui è attualmente protagonista il bollito misto. Una proposta nuova del locale, che sta riscuotendo molto successo. La spesa s’aggira di nuovo sui 30 euro a testa, vini esclusi, se si è in gruppo e si sceglie di cenare nel locale enoteca. «In questa sala il servizio è più informale», spiega Farina, «e la proposta si focalizza sui piatti della tradizione brianzola. Normalmente la prenotano gruppi d’amici che vogliono sentirsi da noi come se fossero a casa loro. Essendo poi l’enoteca separata dal resto del ristorante, possono anche permettersi d’essere un po’ chiassosi». A primavera e in autunno Farina organizza delle serate a tema (cinque o sei l’anno) intese a far conoscere specialità alimentari tipiche minori e piccoli produttori di vino. In questo caso il conto è di 3840 euro a persona, vini inclusi, per un menu da quattro portate. «Protagonisti di queste serate», sottolinea lo chef patron, «possono essere d’autunno la pecora brianzola, l’oca, il maiale o la selvaggina, e in primavera il pesce azzurro, quello di lago, il baccalà, gli animali da cortile, i legumi».



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Villa Crespi Il percorso di Tonino 30

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di Theo Smith Antonio Cannavacciuolo detto Tonino, lo chef che ha portato nel Novarese la forza e il genio della migliore partenopeità, continua nella sua ricerca verso la cucina dell’eccellenza. Le due stelle Michelin, non a caso, premiano già da alcuni anni un impegno costante nell’utilizzo corretto delle migliori materie prime, destinate ad essere protagoniste di una grande cucina in eterno divenire, pronta a stupire, ma anche a rassicurare. Se Jacques Brel fosse stato ancora tra di noi avrebbe probabilmente immaginato una delle sue celebri canzoni, “Quand on n’a que l’amour”, come ideale colonna sonora, nonché spiegazione ultima, al percorso lavorativo che ha portato un cuoco napoletano del calibro di Antonino Cannavacciuolo a lasciare la radiosa e vivace costiera di Vico Equense, una dozzina di anni fa, per approdare sulle pacate rive del Lago d’Orta, in Piemonte, dove si trova tuttora. Nel 1956 lo chansonnier belga, che ha conosciuto i grandi successi e raggiunto l’immortalità esibendosi sui palcoscenici parigini, cantava con grande trasporto: “Se avremo solo l’amore e nient’altro, avremo nelle mani il mondo intero”. E Antonino Cannavacciuolo, dietro la scorza di cuoco tutto di un pezzo, con lo sguardo capace di celare ironia e fatalismo, ma anche una determinazione e un Artù n°48

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in una location davvero straordinaria e inaspettata; che dietro il nome padano del suo originale proprietario, quel Cristoforo Benigno Crespi cotoniero giramondo rimasto affascinato nei suoi viaggi dal lusso dei palazzi mediorientali, ancora oggi rivela in pieno le sue origini moresche nell’architettura e la passione del proprietario per gli esotismi del mondo arabo. La storia del palazzo, datato 1880, racconta che Cristoforo Benigno Crespi tornò in patria da uno dei suoi viaggi di lavoro deciso a replicare sulle rive del lago natio uno dei palazzi visti e ammirati a Baghdad. Così arrivarono ben presto i damaschi, i soffitti color turchese, il minareto, dal quale si gode una vista pragmatismo insospettabili, nasconde impagabile del lago, e gli archi a ferro da sempre una sensibile anima ro- di cavallo in un edificio imponente e mantica. Ed è proprio quella che lo unico diventato, negli anni, un’ambita ha indotto a seguire la moglie Cinzia, meta di soggiorno per poeti, principesse la direttrice di Villa Crespi, verso nord e capitani d’industria. Dopo molteplici vicino alle montagne, a Orta San vicissitudini nella proprietà, cambiata Giulio, in diverse occasioni nel corso del secolo scorso, Villa Crespi dal 1999, dopo un appropriato restyling, è gestita dalla famiglia Cannavacciuolo, che dirige l’hotel (la cui destinazio-

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ne ad uso alberghiero risale agli anni Ottanta) e cura con grande attenzione tutti gli aspetti legati alla ristorazione. La cucina, inutile dirlo, è diventata ben presto il punto di forza di Villa Crespi, grazie alle qualità e alla storia professionale di Antonino. Il trentaseienne cuoco napoletano ha portato i sapori e i profumi della costiera sorrentina nel cuore del Piemonte ma prima di arrivare a Orta, va detto, si è districato con successo nelle cucine di molti ristoranti di prestigio in giro per il mondo. Ha ereditato la passione e la dedizione del padre, a sua volta cuoco, per una cucina fatta di emozioni, per il rispetto della materia pri-

ma, alimentando le proprie conoscenze con la sosta in pochi ma significativi ristoranti, come quello di Gualtiero Marchesi quando il Maestro reggeva le sorti gastronomiche dell’hotel Quisisana, dell’Auberge de L’Ill a Illhausern e del Beurehiesel a Strasburgo. Sono stati trascorsi fondamentali nella formazione del giovane Antonino, che hanno portato a un rigore e a un’attenzione per i dettagli facile da riconoscere oggi nei piatti che

Orta San Giulio

Lago d’Orta

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escono dalla cucina, ma anche all’acquisizione di tecniche sopraffine, all’affinamento di una mano ben riconoscibile che, nel corso dell’ultimo decennio, non ha mancato di scrutare con curiosità e senza eccessi nella cucina e nelle sensazioni proposte dall’avanguardia. Una scelta sempre calibrata dove l’estetica, la costruzione del piatto e la sua presentazione offre grandi piaceri non solo al palato, ma anche all’occhio. E dove il cuore partenopeo è sempre presente. Il pesce è l’elemento che dietro le quinte Cannavacciuolo ama manipolare e proporre ai suoi ospiti: ecco quindi che tra le pieghe di un menù ricco (e dalla pregevole

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copertina in pelle…) spuntano soavi gnocchi di baccalà con alghe marine e tartufi di mare, le cozze con aglio dolce e conserva di pomodoro San Marzano, il ricco crudo di gamberi con caviale e crema di tuorli d’uovo di Paolo Parisi, il delizioso, e perfetto nel suo equilibrio, spiedino di capesante e scampi con cipollotti al limone, infuso di mela verde e sedano rapa. Oltre a qualche commistione sabauda, come nel caso del riso Carnaroli “Cru Dosso” allo zafferano con salsiccia di Bra e ricci di mare. E la carne? Certo non manca e ha il suo peso tra rognoni, trippa di agnello, maialino in porchetta e piccione, dando la cifra della statura e della preziosità di una cucina a tutto tondo, non solo mediterranea. Antonino Cannavacciuolo, da un paio di anni, si diverte anche a curare una personale scuola di cucina, in una cascina di charme ubicata ad Alba nelle Langhe: la Locanda del Pilone della famiglia Boroli (i produttori, fra l’altro, del Barolo Villero). Ancora una volta il sud che incontra il nord, dando ottimi frutti, visto che la scuola è anche un ristorante premiato con una stella Michelin. Due invece sono le stelle detenute con grande merito da Villa Crespi.



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Una vera e propria “centrale” del GUSTO di Alberto P. Schieppati La Leggenda dei Frati della famiglia Saporito, dallo scorso luglio all’interno della tenuta che fa capo ai fratelli Cecchi, si sta imponendo per la caratterizzazione della sua linea di cucina. Ma anche per la eco-sensibilità che contraddistingue tutta l’attività di Filippo, Nicola e Ombretta Saporito: “Ricicliamo il più possibile e preferiamo i prodotti a basso impatto ambientale”, si legge in menù. L’attenzione si rivolge al meglio della produzione enogastronomica del territorio, le cui materie prime vengono sapientemente proposte in menù. Il luogo (o la location, come ormai si usa dire) è d’eccezione: Casina dei Ponti, frazione di Castellina in Chianti, è serenamente distesa fra l’azienda vinicola dei fratelli Cecchi e la cantina di Villa Cerna, che fa capo alla stessa famiglia di imprenditori vitivinicoli, dove si produce un grande Chianti Classico. Ma l’attività della struttura è completamente autonoma dalle strategie della celebre famiglia di viticoltori: ottimi ispiratori, migliori clienti, sanno semmai di poter contare su una “vicinanza” di grande spessore creativo e di acuminata attenzione al gusto degli ingredienti: valori cui la contiguità ha certamente dato ulteriore impulso.

Castellina in Chianti

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Adagiata fra ricchi, storici vigneti, la Leggenda dei Frati (www.laleggendadeifrati.it) ha spostato qui - in questo luogo magico - la propria sede da Abbadia a Isola, vicino a Monteriggioni, il paese poco lontano dove era rimasta per anni (e dove continua l’attività dell’Osteria Futura). I fratelli Saporito hanno dato alla “nuova” Leggenda un’impostazione che non lascia spazio alla minima improvvisazione: ogni scelta, dai piatti proposti in menù, fino alla splendida serie di pani preparati all’insegna delle tradizioni più vere, indica grande professionalità ed attenzione verso il cliente. Il sorriso orgoglioso di Filippo, l’executive chef, è emblematico: a capo di una struttura dal design elegante e raffinato, in grado di comunicare il valore del tempo ma anche la proiezione verso il futuro, Filippo Saporito con la moglie Ombretta lavora quotidianamente alla creazione di piatti che esprimano concetti profondi, basati sui gusti della tradizione, ma attenti ai bisogni contemporanei del cliente gourmet. La spaziosa, ampia cucina, a ridosso della piccola, suggestiva corte antistante le sale del ristorante, è presidiata da una brigata di professionisti il cui impegno è pari alla meticolosità con cui trattano gli ingredienti. E, se è vero che “ingrediente” è maschio e “materia prima” è femmina, la coppia


Filippo-Ombretta tiene alto questo assioma e consegna al cliente il meglio che possa uscire da una cucina contemporanea. Alla faccia di quanti, da sempre, discettano se il miglior chef sia uomo o donna. Quisquilie, pinzillacchere, avrebbe detto Totò. Perché la cucina deve essere innanzitutto buona. Lo dico consapevolmente e senza indulgenze di maniera: i piatti di Filippo e Ombretta esprimono rara pienezza di gusto, non lambiscono i sapori, né li fanno immaginare leopardianamente, ma li concretizzano senza ipocrisie e li consegnano al commensale senza mielosità manieristiche: una sorta di uppercut che riesce a fare piazza pulita di concetti triti e ritriti (spesso autoreferenzialmente figli di retaggi culturali e paure alimentari). E che, soprattutto, arriva direttamente al centro delle aspettative più autentiche. Piatti come l’insalata di polpo di scoglio con zuppa di fagioli e farro, il baccalà mantecato con crema di cardi e cracker al cavolo nero, la – mitica – terrina di fegatini riportano al gusto originario dei prodotti in modo imperioso, senza se e senza ma. Per non dire della crostata di cipolle rosse di Certaldo, con la burrata di Vicchio del Mugello e olive nere. È poi nei primi che la Leggenda dei Frati prosegue il suo percorso primordiale e moderno allo stesso tem-

po, un mix di tecnica e passione che fa dire “ooooh!” ai commensali di qualunque ordine e grado. Gnocchi di patate, salsiccia, sugo di moscardini, cozze e vongole, risotto Carnaroli fritto, crema di broccoli e mazzancolle, pici tirati a mano, sugo di capretto della Montagnola, ricotta salata arrostita, tortelli di capriolo con brodo di zucca gialla, cialda alle nocciole, ravioli malfatti di mamma Rita al ragù delle vacche maremmane del parco dell’Uccellina: sapienti alternanze di culture e sapori, che nonostante i contrasti (in alcuni casi), esprimono una idea piena e tonda di grande cucina. I secondi di Filippo

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Saporito seguono in modo ancor più netto i gusti e le ricette della tradizione, ma si comprende bene come Ombretta abbia saputo mitigarne le spesso violente e mascoline sapidità. Piatti come depurati da ogni ruvidità, resi eleganti e ricchi di stile proprio da una attenta e profonda analisi di singole materie prime e modalità di cottura. La tagliata di manzo della Macelleria Beccatelli di Greve in Chianti, con carciofi e acciughe sotto pesto alla Senese, il pollo biologico di San Bartolomeo (petto farcito alle casta-

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gne, coscio in polpetta): piatti simbolo di un territorio, capaci di esprimerne gusto e cultura. Personalmente, ho ricordi molto vivi della pancetta croccante del Grigio di Siena cotta a bassa temperatura, cipollotti all’aceto balsamico, e della spalla di agnello del casentino arrosto al fiore del finocchio selvatico, servita con patate “rifatte”, ovvero saltate. L’intelligenza dei Saporito ha saputo accostare ai piatti in carta un menù di tradizione, ricco e semplice, in cui sono presenti: la terrina di fegatelli, i pici, la pancetta, il formaggio erborinato dio Paolo Piacenti, il “neccio” di castagne ripieno di ricotta, zucca gialla e clementine. La sala è sapientemente guidata da Nicola, fratello di Filippo: condottiero di lungo corso, approccia i clienti dovutamente, supportato da un giovane brillante e da una brigata di servizio all’altezza. Capitolo a parte meritano i vini che, custoditi in ampia e suggestiva cantina, esprimono il meglio della produzione toscana e nazionale. Per amor di verità dirò qui che la cena più recente che ho avuto l’onore di consumare in questo luogo ha avuto come partner indiscusso Coevo 2007, deliziosamente perfetto su ogni singola portata.



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EUGENIO POL pane amore e coraggio di Luisa Contri Prelibati pani a lievitazione naturale, realizzati interamente a mano a partire da cereali biologici e biodinamici di varietà antiche. È con una piccola produzione – non più di 500 kg di pane la settimana – che Eugenio Pol, in arte Vulaiga (termine che nel dialetto della Valsesia indica la neve quando scende leggera come farina), è diventato il fornaio più corteggiato da grandi chef e gestori di selezionate gastronomie. A rendere super ambiti i pani di Eugenio Pol sono la fragranza, il profumo, il gusto unico che danno loro i cereali di cui sono fatti e la sapiente lavorazione tutta naturale e manuale con cui sono prodotti. Sintetizzando pani che sono protagonisti in tavola e comprimari in cucina. Ma c’è dell’altro. Questi pani hanno un’anima. Portano in sé dei valori. Sono, infatti, il frutto della ricerca di Pol del significato profondo dell’alimentarsi (siamo o non siamo quello che mangiamo?), attraverso la riscoperta dei cibi d’un tempo. Quei cibi ottenuti da cultivar di cereali non modificati nella loro essenza con le moderne tecniche del miglioramento varietale, e lavorati senza l’impiego d’artifici. Le micche di montagna, il pane di segale, quello di frumento monococco o di grano del faraone (il «kamut» italiano), quello col grano arso o col grano saraceno e il fieno o con le erbe montane, sono insomma frutto della sua minuziosa e tenace ricerca e riscoperta d’ingredienti del tutto naturali e di qualità eccelsa, con una lunga tradizione alle spalle. Ingredienti semplici e genuini che Vulaiga dosa e miscela sapientemente per poi lavorarli rispettando i tempi della natura, in un’epoca in cui la fretta pervade l’esistenza dei più. Anche il processo d’avvicinamento di Pol al pane ha richiesto del tempo. È il risultato d’un percorso esistenziale che l’ha distolto dalla sua professione originaria, il perito chimico, portandolo a diventare cuoco. All’inizio degli anni Ottanta, infatti, Pol abbandona l’impiego a Milano per prendere in gestione un’osteria a Rima, piccolo borgo della val Mastallone all’interno del Parco

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naturale dell’Alta Valsesia. Un territorio incontaminato, fatto di boschi, di fiumi, di montagne, di piccoli paesi e di case sparse, che aveva imparato a conoscere e ad amare da bambino, accompagnando il padre appassionato di pesca. «Allora Rima era un paesino con cinque abitanti effettivi», racconta ad Artù Pol, «che s’animava d’estate, ma che d’inverno restava spesso isolato per la neve, il ghiaccio, le valanghe. Per 4 anni nella bella stagione ho cucinato per la clientela di vacanzieri che frequentava l’osteria. D’inverno scendevo a Milano e andavo a lavorare da macellai e pescivendoli per conoscere bene le materie prime. Già allora non m’accontentavo di quanto potevo apprendere sui libri». A Rima Pol faceva una cucina territoriale. «Ero comunque alle prime armi», ammette, «e facevo quello che potevo. In tempi in cui non s’era ancora affermata la moda della cucina del territorio, proponevo come pesce trote pescate localmente e le cucinavo senza pomodoro, perché a Rima i pomodori non crescevano». Rientrato a Milano, Pol ha lavorato come cuoco in un paio di locali (La Vittoria in via Anfiteatro e la Cà di Matt in zona Canonica), ma agli inizi degli anni Novanta è tornato in Valsesia a Varallo, chiamato da un’amico a dirigere la cucina di una mescita di vino con degustazione di salumi e formaggi. «È proprio a Varallo», dice Pol, «che ho iniziato a fare il pane, perché quello che compravo non mi piaceva. E, avendo sentito parlare di lievitazione naturale, ho cominciato a sperimentare, fino a che son riuscito a fare un pane che piacesse a me e anche ai miei clienti. Dopo aver mangiato al ristorante, in molti mi chiedevano di poter comperare una pagnotta da portarsi a casa. Già allora mi rifornivo di farine biodinamiche da Renzo Sobrino di La Morra, nelle Langhe. È il mio attuale mugnaio, quello che considero uno dei migliori del settentrione, se non di tutt’Italia». La passione di Pol per il pane intanto cresceva e, quando la sua futura moglie, Federica, originaria di Fobello, gli propose d’affittare dai suoi parenti un piccolo appartamento che avrebbe potuto trasformare in laboratorio, quasi per scherzo accettò, lasciando il ri-


storante di Varallo. Da allora, in collaborazione con Sobrino, Pol ha organizzato una filiera garantendo agli agricoltori che coltivano grani antichi, secondo i precetti dell’agricoltura biologica e bodinamica, l’acquisto del loro raccolto. I grani che richiede sono d’altronde tutti di varietà antiche a bassa resa (il 50% se non meno rispetto a quella del frumento moderno da coltivazione intensiva) perché a forte rischio d’allettamento e coltivati senza ricorrere alla chimica. Il frumento monococco che Pol usa, per esempio, è l’antenato dei farridi coltivati già ai tempi di Gesù nella Mezzaluna fertile. È un grano dal chicco quattro volte più piccolo rispetto all’omologo moderno, con una spiga diploide, cioè con due sole file di granelli, e con un fusto alto due metri. «Per i miei pani», spiega Pol, «utilizzo varietà di grani teneri che risalgono tutte a prima della fine dell’Ottocento, come il Gentil rosso, il Marzuolo, il Gambo di ferro, l’Autonomia, l’Abbondanza, perché non sono stati modificati con le moderne tecniche di condizionamento per farli reagire meglio durante la panificazione con il Saccharomyces cerevisiae. Il lievito di birra è infatti un toccasana per i bovini, ma un veleno per noi uomini, in quanto dà carichi renali, favorisce l’osteoporosi, può causare il rachitismo nei bambini, alimenta la candida. È insomma veramente nocivo, soprattutto se assunto in quantità elevate, come può capitare a chi consuma pane fatto da impasto diretto». L’avversione per il lievito di birra di Pol è assoluta, atteggiamento che lo vede in polemica con l’associazione di categoria. Convinto delle sue ragioni, però, Vulaiga tira dritto, forte anche dell’apprezzamento che la clientela dimostra contendendosi i suoi pani. Poiché i grani teneri sono spesso troppo deboli per essere panificati in purezza, Pol ha sperimentato fino a trovarne il giusto mix con grani duri come il Senatore Cappelli del Podere del Pereto, nel senese. «Beninteso», evidenzia, «quello che utilizzo è il Senatore Cappelli originario, condizionato dal padre della cerealicoltura italiana, Nazzareno Strambelli, dal fusto alto 180 centimetri, non il Creso, che è stato bombardato con le radiazioni nucleari per farlo diventare basso. Dal Podere del

Pereto acquisto anche il grano del faraone, ossia il kamut coltivato in Toscana, che è migliore di quello americano. Mentre al Podere Forte della val d’Orcia, che mi fornisce l’Abbondanza, ho chiesto di seminare del farro dicoccum, di dimensione media». Pol ha contatti anche con altri agricoltori e mugnai che ritiene abbiano voglia di fare le cose come si devono: uno di questi è il siciliano Giuseppe Lirosi, da cui ha acquistato di recente della Timilia nera e dello Stratavisat, un farro lungo, e da cui comprerà due varietà di grano duro, il Margerito e il Russell, di cui sta facendo il condizionamento in campo, non in laboratorio, in collaborazione con l’università di Caltanissetta. Senza se e senza ma, Pol per far lievitare i suoi pani impiega dunque soltanto pasta madre, ossia un impasto d’acqua e farina lasciato fermentare naturalmente a temperature

Rima

Val Mas tallo ne

Varallo

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comprese fra i 20 e i 24°C, perché abbia il giusto grado d’acidità (un ph troppo basso renderebbe indigesto il pane). «La pasta madre migliore», spiega Pol, «è quella che si prepara in primavera, arricchendola anche di pollini di fiori». La rinfresca costantemente con l’aggiunta d’acqua e farina in parti uguali e di tanto in tanto la rinforza con nuova pasta madre. «Il pane», prosegue Pol, «è l’alimento più slow che ci sia. La madre va infatti lasciata maturare. E, prima di poter incominciare a lavorarla, devono trascorrere almeno una decina di giorni. Il segreto di un buon pane a lievitazione naturale sta tutto nel dosaggio fra pasta madre, farina, acqua e altri ingredienti. Dosaggio che varia in funzione delle caratteristiche della pasta madre stessa, della temperatura in laboratorio e dell’umidità dell’aria. Io normalmente inizio a far fermentare l’impasto nel primo pomeriggio, 12 ore prima di mettermi a lavorarlo. Preparo la massa con un passaggio iniziale di 10 minuti nell’impastatrice e poi tutto il resto lo faccio a mano. Finisco d’impastare, spezzo l’im-

Alcune fasi della produzione del pane di Eugenio Pol. Per la sua linea di pani, Pol utilizza farine biodinamiche, che arrivano dalle Langhe, dove opera il mugnaio Renzo Sobrino.

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pasto grosso e, dopo la prima puntata di tre ore, faccio le forme e le metto nei cesti di salice foderati con lino delle Fiandre che compro da un artigiano di Villaines-les-Rochers, a sud di Tour in Francia, la cui famiglia fa cesti da 450 anni. Qui in valle, purtroppo, l’antica abitudine d’intrecciare i ramoscelli di salice selvatico che crescono lungo le sponde del Sesia s’è persa. Lascio poi proseguire la lievitazione e verso le 2 del mattino comincio a preparare i diversi pani e a cuocerli in forno, procedendo così fino alle 11 di sera». Non avendo aiuti, un po’ perché il suo laboratorio è piccolo, un po’ perché trovare un aiutante disposto a lavorare ininterrottamente per 20 ore non è facile, Pol fa soltanto due panificazioni la settimana (la domenica e il mercoledì) e, in funzione della disponibilità delle diverse varietà di grani, ogni volta produce 200-250 kg di pane. Ne realizza normalmente 6-7 tipi scegliendoli fra il suo re-


pertorio di una ventina di ricette. Per la cottura ha optato per un forno elettrico, alimentato però con energia da fonti rinnovabili. Da solo non riuscirebbe a gestire un forno a legna. «Non riesco a fare più di 500 kg di pane la settimana», spiega Vulaiga. «Dal sabato pomeriggio a domenica notte e da martedì pomeriggio a mercoledì notte panifico, il lunedì e il giovedì sono impegnato dalle consegne: una volta scendo fino a Gravellona Toce e l’altra faccio il giro verso Biella. Talvolta poi devo andare di persona a ritirare alcune materie prime. Non sempre, per esempio, il mio fornitore d’olio extravergine d’olive taggiasche di Apricale, riesce a consegnarmelo. Sono libero solo di venerdì, giornata che impiego per sbrigare faccende personali o per partecipare a eventi». Pur pagando le farine antiche a prezzi ben più cari di quelle di grani moderni (1,3-4 euro/kg contro 0,20 euro/kg), Pol non applica un grosso ricarico: vende i suoi pani a 6,5-8,5 euro/kg. La sua priorità, d’altronde, è fare del buon pane che ognuno possa abbinare ai cibi a seconda del suo

gusto. «Alcuni dei miei pani», dice Vulaiga, «come la pantofola di grani teneri, la micca di montagna fatta col farrum dicoccum, il pane di monococco e Senatore Cappelli o quello di grano del faraone, sono universali. S’accompagnano bene sia col dolce che col salato, con formaggi, pesci o carni. Il pane di segale, invece, lo vedo bene con alimenti un po’ grassi, sia di mare che di terra, perché è più acido e pulisce la bocca. Un mio cliente lo utilizzava in una salsa per le linguine con i calamari. Il pane col patè d’oliva si sposa con verdure, panzanelle, coniglio o pesce, mentre quello al fieno c’è chi l’ha utilizzato per una zuppa di piccione o per un dolce col cioccolato affumicato. Io lo abbino con burro e acciughe o ci faccio degli gnocchetti piccoli come i pizarei piacentini che metto in una zuppa di fagioli, verza, rapa rossa e bianca e orecchie e piedini di maiale bolliti e poi arrostiti». Spazio all’estro dunque…

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Ottimo Massimo

di Luisa Contri Punta in alto, in tutti i sensi, Ottimo Massimo, bar gourmet milanese che intende affermarsi non solo come locale per una pausa pranzo o un aperitivo serale di qualità a prezzi accessibili, ma anche come caterer di riferimento per imprenditori, professionisti e impiegati della zona centro, bloccati in ufficio da riunioni o anche da un semplice attacco di pigrizia. Di prestigio, anche se impegnativa, la localizzazione: all’angolo fra via Spadari e via Victor Hugo, letteralmente due vetrine più in là rispetto alla pescheria dei milanesi e di fronte al grande store di Peck. Un po’ pretenzioso, anche se mantiene la promessa, il nome scelto. A chiamarsi Ottimo Massimo è il bassotto di Cosimo, il protagonista de «Il Barone rampante» di Italo Calvino che aveva scelto di ritirarsi a vivere sugli alberi. Non per niente l’elemento d’arredo caratterizzante del locale è la scultura d’un albero di castagno, i cui rami raggiungono il soffitto e sfiorano la balconata. Nome, dicevamo, che è al contempo una dichiarazione d’intenti e un messaggio in codice per il target di riferimento: una clientela metropolitana colta o che ama

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apparire tale, golosa, ma non di grande appetito, modaiola e, in quanto tale, ecologically correct, danarosa ma attenta al value for money. Trattandosi di un locale senza cucina, il menu salato s’incentra sui panini, per la cui realizzazione sono impiegate materie prime selezionatissime. Un esempio per tutti: il tonno bianco del vizcaíno (di Bermeo) José Serrats. Veramente un altro pianeta rispetto a un pinne gialle da supermercato. La scelta è fra una ventina di panini diversi, che cambiano ogni tre mesi seguendo la stagionalità (pur con qualche variazione infrastagionale per non annoiare gli abitué). Un numero volutamente non troppo ampio, per consentire una scelta rapida. Poco meno di una decina i panini classici (fra questi il francesino alla mortadella Dop con crema al pistacchio o il morbidino al salmone irlandese affumicato, limone e misticanza), altri cinque i gourmet (per esempio francesino con certosa al kefir, rucola e melograna o con tartare di manzo profumata alla menta con cristalli di sale Maldon e zucchina croccante oppure ancora con luganiga brianzola, brie e zafferano) e altrettante le focacce liguri (con lardo di Colonnata e crema di castagna o con peperoni di Piquillo, certosa e polvere di capperi). Completano il menu salato due toast (con prosciutto cotto spalla San Secondo e fontina Dop oppure con cotto riserva, mozzarella Dop e acciughe del Cantabrico) e sei insalate (fra queste la misticanza con bocconcini di robiola

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di Roccaverano, pere Igp dell’Emilia-Romagna e noci, oppure lo spinacino con veli di manzo affumicato, scaglie di ricotta salata e mele golden delicius). Volutamente ridotte le dimensioni dei panini, mediamente da 40 grammi. L’idea è infatti quella di stimolare la clientela a provarne più d’uno e fare così un viaggio gastronomico. Le piccole dimensioni consentono inoltre di rendere accessibili a tutti i portafogli anche i panini con gli ingredienti più preziosi. I prezzi sono compresi fra da 1,80 e 4,50 euro al pezzo. Soltanto le insalate più ricche raggiungono i 6 euro. Più che abbordabile anche il prezzo d’entrata degli aperitivi del martedì sera (un appuntamento fisso che a breve diverrà bisettimanale), sempre a base di panini, accompagnati da un calice di vino mosso o fermo e da un dessert. Si parte da 6-7 euro. Completano l’offerta di Ottimo Massimo un ricco menu dolce con mousse, torte, gelati, smoothies, cen-


trifughe, frullati, macedonie di frutta di stagione, brioche e biscotti. E ovviamente le bevande: da quelle calde (caffè, tè, latte, ecc.) alle fredde: soft drink, vini e bollicine al calice, birre, cocktail e aperitivi. A parte le tazzine in porcellana e i calici in vetro cristallino, tutte le stoviglie di servizio e i contenitori per l’asporto sono realizzate in materiali ecosostenibili di design. Ampio ricorso al legno e ai materiali riciclati anche negli arredi. Ancora in evoluzione e in via d’ulteriore miglioramento il concept di questo bar gourmet, concepito da un gruppo d’imprenditori e professionisti (cinque i fondatori, altri dieci quelli aggiuntisi in corsa) accomunati dalla passione per la gastronomia d’alta qualità. Fra i fondatori, i due fratelli Alberto e Tancredi Alemagna, tornati nel solco della tradizione familiare da alcuni anni con la creazione del marchio di cioccolateria fine T’a Sentimento italiano, e Mario Malocchi, ex presidente

e direttore generale di Metro Italia Cash & Carry, ora passato alla guida della catena Unieuro (grandi negozi di elettrodomestici ed elettronica di consumo). Fra le priorità: produrre in proprio il pane, per poterlo personalizzare ancora di più, mettere a punto dei piatti freddi da servire per l’aperitivo e sviluppare il servizio di consegna a domicilio (sarà effettuata con scooter rigorosamente elettrici), grazie all’apertura della pagina web per gli ordini on line. Per primavera è previsto il potenziamento della ricettività del locale allestendo mensole e relativi sgabelli anche esternamente al locale. Oggi le sedute sono 45-50 in gran parte in balconata (per la verità alquanto angusta come spazi) per non sovraffollare la sala e riservare spazio al via vai dei camerieri e alla clientela che consuma in piedi. Considerato che l’affluenza massima è per la pausa pranzo, proprio in questa fascia oraria si sovrappongono i turni di lavoro (mattutino e pomeridiano) degli otto addetti. La giornata per Ottimo Massimo s’apre comunque alle 7,00 del mattino con le colazioni e prosegue fino alle 20,00 dal lunedì al venerdì. Il sabato l’orario d’apertura va dalle 8,00 alle 21,00.

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Il doppio lavoro del

macellaio Motta

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di Luisa Contri Un grande professionista dell’offerta di carni, ben conosciuto dai ristoratori di qualità, fa il grande salto, con l’apertura di un locale totalmente a tema carne. Ed è già successo.

Bellinzago Lombardo ● Inzago

Macellaio per vocazione. Ristoratore per amore della carne e per garantire continuità alla sua macelleria a Inzago, poco fuori Milano. È il percorso di Sergio Motta – fra i più quotati macellai nel nord Italia, fornitore di chef stellati e non, comunque attenti alla qualità delle materie prime – che ha aperto, il 10 ottobre 2010, il Ristorante Macelleria Motta. Il locale, a Bellinzago Lombardo non lontano dalla sua macelleria, è stato realizzato in uno stabile che fin dal 1850 ospitava un ristorante, quello dell’Antico albergo con stallazzo, primo posto di cambio dei cavalli per chi nei secoli passati da Milano andava a Bergamo, e gode di una posizione stategica

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di forte passaggio: dà sulla strada Padana Superiore. Questo ristorante, con una cinquantina di coperti, è oggi tempio del bue di razza piemontese. Paradiso per gli amanti della carne, dove la celebrazione sia di quella bovina, sia di quella suina, ha inizio fin dal momento in cui si varca la soglia. All’ingresso, ad accogliere i clienti, sulla destra una cella frigorifera con parete in vetro fa da vetrina a mezzene intere e tagli anatomici di fassone piemontese, e a prosciutti e insaccati vari, tutti appesi ai classici ganci da macellaio. Di fronte, dietro un banco da macellaio, costate, fiorentine

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e cosce intere pronte per essere tagliate e cotte alla brace nel grande camino retrostante, ara delle performance serali di Motta. E sulla sinistra, una gigantografia che ritrae Sergio piccino accanto al fratello maggiore, al padre Giuseppe (che tuttora gli dà una mano in macelleria, affiancato anche dalla moglie e dalla nuora) e al bue di razza piemontese con il quale vinsero il primo premio alla fiera del bestiame di Inzago del 1971. Premio che i Motta si aggiudicano spesso e volentieri. Completano l’ambientazione della sala d’ingresso mucche della Cow Parade che occhieggiano da diverse nicchie e, dietro la cassa, il simulacro di Sergio: il suo grembiule e il suo cappello da macellaio. Addentrandosi nel ristorante, nell’ambita saletta da 1012 posti, diverse foto ritraggono Sergio e il padre accanto a esemplari di buoi fassone piemontesi portati a più o meno recenti edizioni della fiera del bestiame d’Inzago. Solo nella sala principale del ristorante, dall’arredamento sobrio e raffinato, non c’è traccia di riproduzioni bovine di sorta. Qui il ruolo di protagonista è lasciato alla carne vera e propria, fulcro di tutti i piatti che compongono il menu, salvo un primo, i contorni e i dolci. E d’estate c’è la possibilità di mangiare all’aperto, sotto l’ampio porticato che divide in due l’ampia corte, oppure sotto i due gazebo riservati ai fumatori nella corte più interna. Quello di Sergio Motta è insomma un ristorante con una personalità spiccata e che si fa ricordare per le sue peculiarità. Coerentemente con la passione del proprietario, ma diversamente dagli altri ristoranti, nel menu i primi non seguono gli antipasti, bensì sono relegati in quinta posizione, preceduti dai piatti a base di frattaglie, dai secondi ‘del camino’, ovvero cotti alla brace, e da quelli dalla cucina. Altra trovata che conferisce originalità


al locale è la scelta di far a meno della classica carta de vini in forma cartacea. Motta l’ha sostituita con un’esposizione delle bottiglie disponibili, che occupa l’intera parete di fondo della sala principale. Le bottiglie sono coreograficamente infilate per il collo nei buchi che costellano una serie di supporti verticali in plexiglass trasparente inseriti in una cornice in legno scuro. Per comprendere l’architettura del menu del Ristorante Macelleria Motta va premesso il perché della nascita del locale. «Ho aperto questo ristorante», spiega ad Artù lo stesso Sergio Motta, «espressamente per vendere gli anteriori e il ‘quinto quarto’, ossia le interiora, che in macelleria devo spingere, mentre al ristorante, magicamente, si vendono. Gli italiani, d’altronde, concepiscono il bovino come una schiena con le gambe posteriori e noi macellai non possiamo certo mangiarci tutto il resto delle bestie. Più seriamente parlando, per poter praticare dei prezzi sostenibili, a maggior ragione nell’attuale congiuntura ed essendo la nostra una macelleria di paese, dovevamo trovare il modo di valorizzare tutti i tagli». Valorizzazione che a Motta riesce benissimo. Un po’ perché i bovini per lui, grazie agli insegnamenti del padre e alla continua sperimentazione che porta avanti con passione, non hanno quasi più segreti. Modulando opportunamente la frollatura dei diversi tagli, oltretutto, riesce a ottenere da ciascuno il meglio. E un po’ perché i fassoni piemontesi che propone sono di qualità eccelsa e sono macellati al momento

giusto. Li fa crescere e ingrassare in base a specifiche che lui stesso stabilisce, in due allevamenti di proprietà in Piemonte dove si reca ogni domenica per verificare di persona quali bestie sono mature per la macellazione. C’è insomma una grande passione, un grande rispetto per la carne e un’attenta valutazione delle potenzialità di ogni taglio, nei piatti che Motta propone ai clienti del ristorante. La finissima tartare di bue piemontese ai tre sapori che propone come antipasto, per esempio, oltre che presentata in maniera originale, in una piramide formata da tre coppette di vetro sovrapposte, è intesa a esaltare la qualità della materia prima lavorata il meno possibile. Nella coppetta superiore, la carne tagliata al coltello è infatti proposta tal quale perché se ne possa apprezzare il gusto. In quella intermedia è servita con la sola aggiunta di un ottimo olio extravergine d’oliva e di qualche scaglia di sale di Maldon. E in quella di base è disposta su un letto di crema d’acciughe e capperi ed è sormontata da un tuorlo d’uovo intero. Dei primi, nel Ristorante Macelleria Motta, si può benissimo fare a meno. Chi li ordina vi ritroverà protagonista la carne: i tagliolini all’uovo sono presentato in menu come ‘Il nostro ragù con i tagliolini all’uovo’. Grande cura è riservata a rendere allettanti e adatte ai palati meno avvezzi le frattaglie. La guancia e la testina, dopo essere state cotte a puntino, per esempio, sono fatte dorare in padella e sono servite con una riduzione al Franciacorta che smorza la percezione Artù n°48

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prezzo decisamente conveniente se paragonato con il classico filetto o con la costata o la fiorentina. Tagli ‘questi ultimi’ che si vendono bene in macelleria e che Motta non ha particolare interesse a spingere al ristorante. Molto interessanti i prezzi del menu business di mezzogiorno: 15 euro per uno dei secondi alla brace o dalla cucina accompagnati da un calice di vino, acqua e lo stuzzichino d’entré (fra cui compaiono anche la tartare o il rettangolo di bisteccone) e 20 euro per la cotoletta di vitello alla milanese. «Ci sono ancora tante cose di grasso e della scarola stufata. «Per che vorrei migliorare», ammette Motta. far si che la gente ordini le frattaglie», ri- «Gestire bene un ristorante significa vela Motta, «bisogna comunque fare at- d’altronde tenere sotto controllo un bel tenzione al modo in cui le si racconta po’ di cose. È certo un lavoro gratificante, nel menu». Il ‘tenerissimo bisteccone perchè il complimento è immediato. È della coscia di bue piemontese frollato altrettanto vero però che la critica è minimo 40 giorni’ cotto alla brace nel ancor più immediata. Non avevo torto camino è la proposta più esclusiva di quando dicevo: ‘dalla testa alla coda Motta. Servito in una porzione decisa- del bue ce la posso fare, ma ristoratore mente abbondante, è proposto a un no’. Invece ci sono cascato ed eccomi qui». In effetti la decisone d’impegnare almeno altre cinque ore al giorno all’attività di ristoratore non era così scontata per una persona come Sergio Motta che già lavora una dozzina d’ore al dì fra macello (dove inizia alle 5 del mattino) e macelleria. Oltretutto la scelta di proporsi come ristoratore non ha mancato di suscitare gelosie da parte di alcuni ristoratori clienti della sua macelleria. «Poco male», minimizza Motta, «oltre a continuare a soddisfare le richieste della clientela privata, ciò che m’interessa in prospettiva è concentrarmi sul servizio ai grandi chef». Quello di ristoratore, per Sergio Motta, rimane comunque un secondo lavoro ove si ritaglia il ruolo di protagonista soltanto la sera e limitatamente alla zona del camino. L’accoglienza l’ha delegata quasi in toto alla moglie Tamara, mentre protagonisti in cucina sono due giovani ma talentuosi chef cui Motta ha svelato i segreti della carne. Sono Vittorio Manzoni e Luca Del Barba, ovvero l’ex brigata del ristorante La Lucanda, non confermata dalla proprietà del Devero Hotel di Cavenago di Brianza dopo l’uscita chef Luca Brasi. Giovane ma professionale il personale di sala.

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Stessa terra, stessa passione 54

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l’unitarietà degli spazi moltiplicando però le occasioni d’uso del ristorante e sfruttando il concetto della 'separazione momentanea' delle singole aree. L’arredo, semplice, realizzato con materiali tradizionali, che ricopre una nuova funzione d’uso, si eleva all’estetica e alla qualità dei piatti dello chef Raffaele, già conosciuti per l’ottimo livello. Questi elementi, in sinergia tra loro, fanno assumere al locale una nuova connotazione, evoluta e funzionale, ma pur sempre in linea con l’eleganza e l’attenta cura per il dettaglio, prerogative dei padroni di casa - Michela Berto e Raffaele Ros -, insieme all’innato amore per la cucina. Michela e Raffaele sono avvezzi alle novità e ai cambiamenti; dal 1992, ogni giorno si impegnano per soddisfare e stupire i propri clienti con cortesia, innovazione e rivisitazione della tradizione in cucina in modo creativo, stagionalità nel piatto, attenzione alla materia prima, carta dei vini ben fornita e aggiornata, in un contesto accogliente e raffinato. Il Ristorante San Martino mira ora al design e allo stile in di Monica Zani chiave moderna per caratterizzare, anche Due luoghi dove appagare i propri de- visivamente, la sua equilibrata - e apsideri enogastronomici, accomunati prezzata - filosofia enogastronomica. dalla stessa terra, dalla stessa pasLa storia sione, dalla stessa semplicità... La storia della famiglia Berto parte da lontano, da ben quattro generazioni, Il ristorante San Martino Situato nei pressi di Scorzè (Ve) ha ria- ma sempre legata a un territorio che perto i battenti, dopo un intervento di ri- crea socialità, luoghi di ritrovo, tradizione. strutturazione a cura dello studio TA Ar- Ed è proprio la 'schiettezza delle genti chitettura dell'architetto Alberto Torsello, venete' il miglior carattere del San Marin collaborazione con Davide Lorenzon, tino, un luogo della memoria tenuta direttore dell’Accademia delle Arti Grafiche viva dalla volontà dei suoi proprietari. di Venezia. L'intervento ha avuto come L’incontro di Michela nel 1978 con il oggetto la riorganizzazione degli spazi, marito Raffaele Ros, chef creativo con originata da un’analisi filologica a cui si esperienza maturata nelle migliori cucine è dato il titolo di 'Cura', che ha mantenuto in Italia e all’estero, è un momento im-

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Il ristorante Perbacco La stessa terra, le stesse tradizioni venete, ci portano al il Perbacco, ristorante 'a misura d’uomo' di proprietà di Stefano e Monica Tosato. Anche qui ci si sente 'a casa', una casa accogliente, con travoni di legno, il tipico fogolar, i colori naturali del legno che trasmettono calore. Gli arredi del Perbacco, poi, curati personalmente da Monica, fanno sentire subito a proprio agio: ogni Il menu Il nuovo menu del ristorante è declinato tavolo è stato pensato come se dovesse in tre versioni. La prima 'dinamica', di- accogliere un amico. Colori tenui, mise sponibile a pranzo dal martedì al en place informale ma con stile, bicvenerdì, descritta da un buon rapporto chieri in cristallo di Murano. qualità/tempo/prezzo, adatta a business lunch o a pranzi veloci; la seconda, La storia 'gourmet', con un menu alla carta che Stefano Tosato, 46 anni, nasce in una combina specialità del territorio con in- famiglia la cui cultura per la buona gredienti della cucina internazionale e tavola scorre nel sangue. I genitori per infine quella 'banqueting', in risposta oltre trent’anni hanno seguito la carriera di pasticceri, scegliendo poi di dedicarsi a particolari esigenze della clientela. all’ospitalità negli anni Settanta con l’acquisto dell’antico mulino e la creaLa cantina La Cantina del San Martino è oggi un zione dell’hotel Piccolo. Prima di decidere luogo importante nell’attività del Risto- di dedicarsi a questa attività, Stefano rante. Più che conservare vini italiani e ha però girato il mondo come manager. internazionali, piccoli formati e vecchie Un’esperienza che ha permesso di annate selezionate con cura da Michela, unire due anime: quella romantica delè in sé un progetto in continua evolu- l’oste e quella razionale del manager. zione. Questo ambiente posto al di Perché la scelta di lasciare una carriera sotto del locale è stato oggetto di una di manager in un’azienda di rilevanza rivalutazione architettonica che lo ha internazionale per dedicarsi al lavoro trasformato in uno spazio del silenzio di ristoratore? “Scelta difficile, dettata e della memoria del gusto, legato però un po’ dal cuore e un po’ dalla necessità armonicamente alla sala, al piano di di misurarmi con me stesso. A 33 anni ero giunto ai vertici della carriera comsopra, da 'un’aurea scala' ovoidale. merciale della Pepsi Italia e mi proposero www.ristorantesanmartino.info

portante per il mantenimento della 'memoria'. L’aggiunta della professionalità e la capacità innata per la ricerca di Raffaele hanno contribuito nel tempo a rendere internazionale la cucina del ristorante, mentre la dedizione per i vini di Michela si aggiunge a tutto ciò, rendendo ancor più particolari gli abbinamenti e il senso dell’accoglienza.

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di fare un'esperienza di country manager in Israele e Palestina, esperienza che fu importantissima sia dal punto di vista professionale, sia umano. Dopo un paio d’anni in Medio Oriente la prospettiva era la gestione di un paese Europeo con sede operativa e logistica a Londra. A quel punto dovevo decidere cosa fare da grande: sposare l’azienda e continuare un percorso di crescita internazionale, con famiglia al seguito, in continuo movimento senza stabilità e legami con la propria terra, o provare a misurarmi con me stesso. All’epoca avevo 35 anni, una discreta conoscenza delle dinamiche aziendali, un patrimonio di famiglia tutto da valorizzare e la consapevolezza, data l’età, di rimettermi in gioco qualora fosse andata male”.

storante. Un 'classico' tra gli antipasti è la cappasanta grigliata con millefoglie di patate con olive e peperoncino, accompagnata, in primavera, da una julienne di asparagi crudi. Tra i piatti forniti vi è anche il crudo 'Damare', che Riccardo prepara seguendo la tecnica dell’abbattimento di temperatura per garantire la massima sicurezza al cliente. Tra i primi piatti, i risotti con i prodotti di stagione, dal campo alla tavola, sono la specialità di Riccardo, accanto alla pasta fatta in casa come ravioli, tagliolini o tagliatelle. Vi sono poi carne e pesce: a quello azzurro e povero, in particolare, Riccardo dedica Il menu La cucina del Perbacco è autentica, ca- attenzione. Tra le carni, invece, la Sorana pace di sfruttare i sapori del territorio è l’unica eccezione a 'Km zero'. Una interpretandoli in modo talvolta originale menzione particolare meritano i dolci, grazie alla mano dello chef Riccardo Pi- primo fra tutti il T.S. Express, in onore stolato. I fornitori sono i produttori alla tradizione di pasticceri della famiglia locali, primi fra tutti quelli di ortaggi. Tosato. T.S. Express suona come un Non dimentichiamo, infatti, che siamo piatto esotico ma è, in realtà, un 'aua Scorzè, cuore dell’area di produzione toctono' Tiramisù in formato espresso. del Radicchio Rosso di Treviso, vicina Un vero e proprio gioco, che viene reaal distretto dell’asparago bianco. Il lizzato in diretta davanti agli occhi del menù cambia frequentemente e ogni cliente, grazie all’abilità dello chef che giorno trovano spazio piatti nuovi, ispirati assembla i diversi prodotti: i savoiardi dai prodotti della spesa del giorno. Tra fatti in casa, la crema, il caffè. le specialità vi è tutto ciò che viene dalla farina, in onore dell’antico mulino. La cantina Pane, pasta fresca e ripiena sono pro- In onore al nome del locale, Perbacco, dotti rigorosamente nella cucina del ri- una voce a parte merita la cantina, capace di soddisfare le esigenze degli intenditori e dei curiosi così come di chi predilige la produzione locale. La carta dei vini ospita ben 500 etichette con attenzione particolare al territorio e alla Francia, presente con circa 50 referenze tra Champagne, Bordeaux e Borgogna. Per chi deve guidare, il Perbacco propone ogni sera una selezione di vini al calice, dalle bollicine ai bianchi, fino ai rossi strutturati. E poiché nella famiglia Tosato la 'passione per il dolce' scorre nelle vene, non poteva mancare un’ampia selezione di passiti, proposti anche al calice. www.hotelanticomulino.com Artù n°48

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Maharajà L’indian bar di Milano

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di Alberto P. Schieppati Il “maragià”, per dirlo all’italiana, è lui, Angelo Carpentieri: 54 anni, pugliese, barman storico della Milano dei tempi d’oro, quella in cui i professionisti dell’Aibes (e non solo) erano protagonisti di mega-eventi a base di concorsi e cocktail classici, internazionali e creativi, dopo avere gestito locali di successo (come il Caffè della Pusterla) ed essere stato drink-consultant delle aziende più prestigiose del beverage internazionale, oggi Angelo è dietro al bancone del Maharajà (www.maharajaindianbar.com), indian bar in zona Navigli, ovviamente a Milano. Il locale ha un’ambientazione particolare, indianeggiante e esotica: nato come cocktail bar a metà del decennio scorso, ha poi seguito intelligentemente le tendenze del momento, arricchendosi di un’offerta food decisamente fuori dal comune e reinventando il rito (spesso trito e ritrito) delle cosiddette happy hours in modo dinamico e creativo. “Tutto comunque parte dal drink”, sottolinea accorato Angelo Carpentieri, un omone alto e grosso dal cuore d’oro, famoso per avere vinto più volte ai concorsi nazionali e internazionali

Maharajà

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organizzati negli anni Novanta da Franco Zingales, compianto guru della cultura del bere miscelato, inventore del CCC (il Cocktail Classic Club che ancora vive e si nutre dell’impegno di bravi professionisti dello shaker). “Il cibo arriva in un secondo momento, l’importante è che si abbini perfettamente alle note alcoliche o fruttate dei drink che nascono dalla creatività del barman”, dice il pluripremiato Angelo mentre sta shakerando un Bellini destinato a una giovane coppia, attratta dall’atmosfera esotico-soft del locale di Viale Gorizia (tra Via Vigevano e la Stazione di Porta Genova). “La clientela, soprattutto giovane, predilige i cocktail classici, anche se il moijto (versione “magic”, con ingrediente segreto) va sempre fortissimo-sottolinea Carpentieri. Ma la tendenza, qui da noi, va verso il bere moderato e responsabile: tante le richieste di drink alla frutta, di cocktail ‘creativi’ poco alcolici, che diano soddisfazione e gusto al palato e che, soprattutto, consentano ampie pause di relax. La mia clientela vuole stare bene, rilassarsi, evadere dallo stress. Non a caso, la domanda di long drink analcolici è sempre molto forte. Perché chi viene al Maharajà non vuole certo sballare…” Carpentieri, aiutato nella conduzione del cocktail-bar dal figlio Eros, è molto attento alle esigenze della clientela: “I milanesi restano bevitori esperti e, nonostante la crisi, sanno distinguere i drink e spesso ne conoscono le ricette: e io mi baso sui loro gusti per creare i miei cocktail, nella certezza che il drink su misura è sempre quello più gradito”. Il suo cocktail preferito? “Quello che piace ai clienti”, sorride ironico Carpentieri. Ma è impossibile non ricordare il celebre “Long drink della Pusterla” che lo rese famoso nei primi anni Novanta: era, se non andiamo errati, a base di tequila, Cointreau, succo di fragola, spremuta di mandarino… ma anche il Cocktail Carpentieri non scherzava affatto: un quarto di gin, un quarto di Bitter Campari, un quarto di apricot brandy, un quarto di Cointreau. Il locale, suddiviso in tre aree, propone

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zona bistrot composta da circa venti posti a sedere, più la sala del Maharajà, altrettanti posti, intima e riservata (volendo si può riservare per incontri e feste private). Al secondo livello, soppalcato, una prima sala decorata e arredata con grande gusto, intima e esclusiva, ideale per coppie e piccoli gruppi che amano la tranquillità (40 posti riservabili). Al terzo livello, una seconda sala, disponibile per feste, compleanni, eventi aziendali. Il Maharajà è locale soprattutto serale (e notturno), anche se sperimentalmente Angelo Carpentieri ha iniziato ad aprire luci soffuse e toni caldi, colori che ri- alle 13, per pranzi veloci, ma fortemente chiamano l’Oriente, profumi di spezie caratterizzati. Dalle 18 viene servito che si disperdono nelle sale, in un rin- l’aperitivo: punto focale dell’offerta è corrersi di marmi, scale e ringhiere in il ricchissimo buffet, allestito fino alle ferro battuto. L’ambientazione è di 22.30 (una vera eccezione alla media grande fascino, non c’è dubbio: e chi degli orari dei locali similari, che chiufrequenta il locale lo fa soprattutto dono l’happy hour intorno alle venti e per l’atmosfera, prima ancora che per trenta). Tra le proposte, viene data le proposte di food e di beverage, pe- priorità alle verdure, al riso basmati, raltro molto allettanti e caratterizzate. al cous cous, sempre presenti in menù. Al primo livello, appena entrati, un Ancora, pollo e agnello al curry, molte banco bar dei primi del ‘900, con proposte tandoory, stuzzichini medi-

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terranei, formaggi stagionati ed erborinati, salumi italiani e internazionali. Un buffet ricchissimo e gustoso, in cui è realmente possibile spaziare da specialità di impronta indiana a materie prime e specialità dei territori regionali italiani. Oltre al buffet, e nella fascia oraria più tarda (dalle 23 alla chiusura, intorno alle due del mattino), si possono ordinare panini “speciali”, piadine, crepe e primi piatti della tradizione. La carta dei drink propone oltre 100 cocktail fra classici e creativi, fra i quali la parte del leone la fanno i drink a basso contenuto alcolico. E, per chi non si vuole muovere da casa, Carpentieri ha pensato al servizio di “Bartender a domicilio”: una sorta di bar-station allestita dove vuole il cliente (dalla propria abitazione privata fino a show room, fiere, aziende ecc). Una conferma dell’orientamento di Angelo Carpentieri, secondo il quale la “teoria del bisogni” va fatta seguire da azioni, gesti e strategie estremamente concreti. In linea con quanto desidera il cliente, sempre più esigente e, diciamolo, pretenzioso.

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tendenze

Il ritorno di Luca Brasi

Lo stile a domicilio

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di Elio Ghisalberti come altrove, a casa o in ufficio, attraverso quello che secondo gli obiettivi dichiarati sarà un efficiente servizio di asporto e consegna a domicilio. Per riprendere lo slogan che accompagna la comunicazione studiata dalla NokNok di Bergamo, e che campeggia a caratteri cubitali all’interno del locale, Civus vuole dunque essere il ‘cibo a modo mio’, secondo cioè l’interpretazione del Si chiama Civus, ed è un modello di ri- cuoco-autore, ma ‘come e quando lo storazione tutto nuovo, la nuova impresa vuoi tu’, ovvero nei modi e nei tempi gastronomica firmata da Luca Brasi, stabiliti dal cliente. Direttamente da cuoco bergamasco già protagonista af- Civus si scelgono i piatti dalla vetrinafermato alla Lucanda, locale che si era guadagnato i consensi della critica arrivando ad ottenere l’ambita stella Michelin nel 2003. Circa tre anni or sono, con l’obiettivo di fare un ulteriore salto di qualità, Brasi aveva spostato l’insegna dalla sede che l’ha visto nascere ed affermarsi in quel di Osio Sotto, in provincia di Bergamo, all’interno del nuovissimo Devero Hotel di Cavenago (MB) di proprietà di una società di imprenditori brianzoli attivi nel settore delle costruzioni. Un sodalizio che, a causa di diverse vedute gestionali, si è interrotto piuttosto bruscamente e non senza qualche strascico polemico (ora negli stessi ambienti vi è la firma di un altro giovane cuoco ‘stellato’, Enrico Bartolini). S’è preso un po’ di tempo per riflettere Luca Brasi, ed ecco che a distanza di un paio d’anni si cimenta con questa nuova sfida che nasce da un’attenta lettura dei cambiamenti avvenuti nel frattempo nel mondo della ristorazione nel suo complesso, ed in particolare nel settore a cui sente di appartenere, quello dell’alta cucina. Civus non stravolge il suo stile che deriva dall’applicazione sistematica dei principi di base come la scelta delle materie prime, l’attenzione nell’elaborarle, la ricerca dei giusti abbinamenti, ma ridisegna il modo di proporre le pietanze in maniera più informale e senza le sovrastrutture del ristorante classico. Civus è un bar-pasticceria con cucina che propone pietanze salate e dolci sul posto (i coperti sono una sessantina), Lo chef bergamasco, dopo l’esperienza stellata di Osio e di Cavenago, torna sulla scena dell’offerta di ristorazione con una formula caratterizzata e innovativa. Siamo andati a trovarlo per capire se il suo ‘nuovo corso’ può essere seguito anche da altri ristoratori, che hanno la necessità di adeguarsi a un mercato che cambia.

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tendenze

bancone, in dose classica o in quella più economica d’assaggio, si fa lo scontrino, ci sia accomoda al tavolo e dopo pochissimi minuti (ma proprio duetre) si viene serviti senza fronzoli, ma in un bell’ambiente senza tanti formalismi, mangiando direttamente nel piatto in plastica - ma bello, niente a che vede con quelli che si spiegazzano – che poi è lo stesso utilizzato per la vendita d’esposto e la consegna a domicilio. Sulla qualità delle pietanze, quasi indistinguibili per portata come ormai è consuetudine nella cucina di alto livello, non si discute: è naturalmente al vertice del codice di ‘autoregolamentazione’ che si è dato Luca Brasi in questa nuova avventura che condivide con la moglie Cinzia e con il giovane sociopasticciere Corrado Denti. Per cominciare i piatti più ‘cucinati’ in questi giorni sono lasagnette ai porcini e zucca; pasta e ceci di Spello con merletto all’extravergine; coniglio senza osso cotto a bassa temperatura al rosmarino con gnocco alla romana; polipetti in umido con polenta, verdure passite con scaglie di Branzi e bignè. Tra i dolci crostatina

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Gavetta di classe Dentro ad un fagotto, come s’usava un tempo, ma di gran classe. Così arrivano direttamente a casa i piatti ordinati da Civus. Li si possono ordinare telefonando oppure direttamente dal sito www.civus.it con pagamento online. L’ape-car, appositamente attrezzato, parte e raggiunge il destinatario all’ora desiderata. Si scioglie il nodo e il fagotto si trasforma in una pratica tovaglietta usa e getta. I piatti quadrati, in plastica, sono chiusi uno ad uno e sovrapposti così da evitare la fuoriuscita del cibo. Igienico e comodo. A seconda della distanza e del tempo di percorrenza, le pietanze da consumare calde possono giungere già alla giusta temperatura, oppure possono essere velocemente (1 minuto o poco più) riscaldate con il microonde di casa. Prezzi? Per essere piatti freschi e di qualità, ideati e realizzati da uno dei cuochi di grido della ristorazione bergamasca, certamente non alti: una portata salata (non c’è praticamente distinzione tra antipasto, primo e secondo), tra i 6 e gli 8 euro; un dolce tra 4 e 5. Vale a dire un pasto completo tra 20 e 30 euro. Consegna 3 euro; gratuita per ordini superiore ai 30 euro. Civus è a Bergamo in via Verdi tel.035.242093; aperto tutti i giorni dalle 8 alle 20,30; chiuso la domenica.

con crema di mandorle e sottobosco; pera cotta al cioccolato con cialda croccante; cremoso alla vaniglia, mousse al cioccolato e lampone. Ma il menu sarà in continuo divenire, secondo stagione naturalmente, richieste ed esigenze che man mano verranno studiate ed assecondate per arrivare a mettere a punto un format che secondo le ambiziose intenzioni di Luca Brasi potrebbe diventare un modello da riprodurre altrove, secondo una formula che potrebbe ricalcare, se non essere specificatamente, quella del franchising (il primo replicante, forse già entro l’anno, dovrebbe aprire a Milano). La linea coordinata dell’immagine e di tutto quel che viene elaborato e veicolato da Civus è stato infatti studiato nei minimi dettagli, personalizzato perché diventi un marchio riconoscibile, compresi alcuni prodotti selezionati da artigiani produttori (viste le prime scelte, su questo aspetto si potrà far di meglio). Infine, perché Civus? “Nasce dalla mia curiosità - dice Brasi - nei confronti della lingua da cui trae origine la nostra cultura. È una combinazione di parole tra cibus, citus e civis, che richiamano il cibo, il cittadino, il movimento”. Per estensione l’evoluzione del gusto e dei bisogni alimentari della gente che con Civus ha ora una opzione in più per soddisfare il desiderio di buon cibo.

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Focaccia di RECCO L’Europa se ne accorge

di Davide Bernieri Dalle Crociate alla ribalta nel mercato globalizzato il passo nel tempo è davvero lungo. Eppure la focaccia con il formaggio tipica di Recco, paese della riviera ligure di levante in provincia di Genova, ha saputo fare questo salto temporale con nonchalance, anzi cambiandosi d’abito, da preparazione figlia delle tradizioni rurali di quelle zone a vero e proprio brand, conosciuto dai gourmet di tutto il mondo e, com'era inevitabile, anche bistrattato e umiliato dai molti tentativi di imitazione, più o meno truffaldini.

Recco

Abbazia di San Fruttuoso

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È tanto che l’Europa l’ha classificata tra i prodotti alimentari da tutelare, fregiandola dell’Igp, Indicazione Geografica Protetta, che lega l’utilizzo della denominazione alla produzione in quest’angolo di Liguria. D’ora in poi, quindi, sarà impossibile vedere simil “fugassa de Réccu”, negli Usa o in Australia, seguendo le rotte dell’emigrazione ligure, oppure le contorte traiettorie dell’agropirateria internazionale. Le prime tracce della produzione di focaccia con il formaggio a Recco risalgono addirittura all’epoca della terza Crociata: un documento descrive i preparativi che i crociati liguri affrontarono nella Pentecoste del 1189 nella cappella dell’Abbazia di San Fruttuoso. Qui, dopo un solenne Te Deum propiziatorio per la partenza imminente destinazione Terra Santa, i crociati trovarono una sontuosa tavola imbandita di tante pietanze, tra le quali “…una focaccia di semola e giuncata appena rappresa…” da molti considerata la progenitrice della focaccia così come la intendiamo oggi. Più tardi nel tempo, la focaccia tornò protagonista, quando la costa ligure fu meta di scorribande di pirati saraceni, che razziavano e distruggevano i paesi costieri, costringendo gli abitanti a rifugiarsi nell’entroterra montuoso. Recco non sfuggì da questo destino nefasto, ma gli intraprendenti “rechelini” colsero questa occasione per sfamarsi con un cibo umile, una focaccia con


formaggetta fresca, condita con olio e cotta coperta, su una pietra d’ardesia rovente. Uso che gli abitanti riportarono al paese, una volta ritornati alle proprie dimore: la notorietà della focaccia col formaggio iniziò a diffondersi, tanto che molti forni locali si specializzarono in questa preparazione. Compiendo un salto temporale in avanti, nell’800 tutti i forni di Recco realizzavano la celebre focaccia, ma anche le trattorie con cucina presero a produrla in modo continuativo, non solamente nel periodo di celebrazione dei morti a novembre. Una circostanza, questa, che contribuì ulteriormente al successo della fugassa de Réccu, ormai nota ben al di fuori della Liguria: i nomi delle principali famiglie di panificatori e ristoratori locali, spesso conosciute con il solo nome di battesimo, a sottolineare come bastasse l’accostamento con la focaccia a delineare il personaggio (Manuelina, Vittorio,

Vitturin, le famiglie Moltedo e Tossini), si intrecciarono ai tanti clienti prestigiosi, da Guglielmo Marconi all’Infanta di Spagna, che si recarono a Recco proprio per mangiare quella specialità. I commessi viaggiatori ritornavano ai propri paesi e alle proprie città decantando la qualità di quella fumante focaccia col formaggio fresco addentata sotto una pergola con un bicchiere di vino a fianco, mentre sempre più spesso da Genova piombavano al paese clienti fino a tarda notte, desiderosi di bisbocciare con focaccia e vino, magari dopo uno spettacolo teatrale. Anzi, finiti i lunghi spettacoli, intere compagnie si trasferivano armi e bagagli a Recco, portando in paese una ventata di allegria e diffondendo il verbo della focaccia lungo la Penisola durante le tournèe. La Seconda Guerra Mondiale, come in altre zone d’Italia, portò morte e lutti a Recco: il paese venne distrutto dai bombardamenti, ancora una volta nella loro storia, i rechelini dovettero scappare dalla proprie case, ma, ostinatamente, poterono ricostruirlo facendo leva su ciò che di più prezioso avevano: la tradizione della focaccia con il formaggio. Gli anni ’50 videro la nascita del turismo di massa: la bontà della Focaccia di Recco, con un tam-tam, si diffuse ancor più tra i turisti italiani e stranieri che venivano in quest’angolo di Liguria a soggiornare per periodi brevi o scegliendolo come dimora d’elezione. Anche big dello spettacolo, attori, registi, cantanti, piombavano a Recco attirati dal profumo che fuoriusciva dai forni. Con l’apertura dell’autostrada, Recco divenne una delle capitali del neonato turismo gastronomico: viste le scarse attrattive monumentali e culturali, tutto Artù n°48

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il paese si aggrappò alla focaccia, capace di rendere unici pochi e umili ingredienti, uniti in una preparazione magica nella sua semplicità, conviviale e simbolica come poche altre. Con la nascita della prima “Festa della Focaccia”, datata 26 giugno 1960, i rechelini hanno stipulato un patto d’amore con il proprio prodotto simbolo, un patto che, con alti e bassi come accade in tutti i lunghi rapporti, ancora oggi va avanti e promette di avere un futuro roseo. Svanita la magia degli antichi mae-

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stri della focaccia, delle famiglie che gelosamente custodivano i segreti per una perfetta preparazione, oggi la ricetta della “vera” Focaccia di Recco è subordinata a un disciplinare, che stabilisce quali ingredienti possano essere utilizzati per fregiarsi dell’Igp. Obiettivo del Consorzio Focaccia, nato per preservare la vera focaccia dai tanti tentativi di imitazione e di usurpazione della denominazione, è riportare la purezza della ricetta originale, eliminando tutti i tentativi di ibridazione che in questi anni sono fioriti, nei dintorni di Recco ma anche nei posti più disparati, in giro per il pianeta. Uno degli aspetti più controversi è quale formaggio inserire tra i due sottili strati di sfoglia: nel corso degli anni si è affermato l’uso di stracchino o analogo formaggio molle di latte vaccino, ma i puristi storcono il naso di fronte a questa eventualità. Nel disciplinare della Focaccia di Recco Igp, infatti, il Consorzio ha previsto di utilizzare formaggio fresco realizzato con latte ligure che i caseifici accreditati dal Consorzio Focaccia acquistano dagli allevatori locali e trasformano in Formaggio Fresco L.L.T., dopo attente ispezioni da parte del Consorzio e del Laboratorio di Analisi della Regione Liguria in merito alla provenienza, ai pascoli, alle stalle e ai parametri di alta qualità che il latte deve garantire. Una tracciabilità chiara ed inequivocabile è un forte sostegno per l’ottenimento della tutela europea Igp della Focaccia di Recco e assicura ai produttori di focaccia della zona di produzione di poterla difendere dagli innumerevoli tentativi di imitazione, al contempo valorizzandola in un’ottica di marketing territoriale.



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La famiglia Zanon

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“Noi lavoriamo nelle tenebre, facciamo quello che possiamo, diamo quello che abbiamo. Il dubbio è la nostra passione e la passione è il nostro compito. Il resto è la follia dell’arte.” Henry James Esattamente qui. All’ombra della storica abbazia cistercense di Santa Maria a Follina, nella pace di luoghi ammantatati da magiche forze invisibili, si è rifugiato il nostro. Ci siamo arrampicati fra le dolci colline del Prosecco, la musica di Keith Jarrett, Sun Bear Concerts a penetrare l’aria screziata dal sole, per ritrovarlo. L’avevamo lasciato a Badoere, sempre in provincia di Treviso, con quella sua piazza metafisica, nel ristorante fondato con tanto entusiasmo nel 2004 e chiuso quest’anno. Da Dal Vero, così si chiamava quella fucina gastronomica meta di appassionati gourmet, il fuoco sacro dell’autodidatta Ivano Mestriner si esprimeva al meglio con materie povere, il ‘quinto quarto’. Lo nobilitava, rendendo ogni boccone un’esperienza gustativa intensa e memorabile. Lui, figlio di un macellaio, fin dall’infanzia sogna la toque: esperienze in pizzeria, poi da Gualtiero Marchesi, da Aimo Moroni e via, ‘seconda stella a di Alessandra Piubello destra questo è il cammino e dritto, fino al mattino’ ad arrivare alla sua isola, da ‘Ricevuti a corte’, verrebbe da dire dove ti guardava dietro il vetro (vero, in quando si varca la soglia del Relais dialetto, da qui il nome) con il suo & Chateau Villa Abbazia, nella Marca sguardo fanciullino. Un talento di rara Trevigiana. L’ospitalità perfetta, l’ac- classe l’ha portato in circa tre anni alla coglienza raffinata, gli spazi eleganti, rossa stella (prima ancora di entrare nei tutto qui mette in evidenza gli sforzi J.R.E.) e ai palcoscenici de lo Mejor de la fatti da una grande famiglia entrata Gastronomia, di Identità Golose, di Squisito. a pieno titolo nell’albergheria di ec- Ma Ivano è un cuoco vero, di quelli cellenza. Ed ora, dopo mesi di “col- capaci di restare per giorni al lavoro laudo”, è partita a pieno ritmo l’offerta senza dormire, di quelli che il giorno di ristorazione, che si avvale di uno libero lo passano ad inventare nuovi chef giovane e coraggioso, ma già piatti, di quelli che rifuggono le luci della ben affermato, Ivano Mestriner. ribalta e il circo mediatico. La sua vita è Artù n°48

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e non viceversa, comprendendola per estrarne l’anima”. Vent’anni di lavoro in cucina alle spalle, con un calibro 38 ancora tutto da giocare, Mestriner accetta nel maggio di quest’anno una nuova dimora per il suo immutato amore di gioventù, una nuova corte per il suo talento. Il suo viaggio lo porta al Relais & Châteaux Villa Abbazia di Follina, nelle sale affrescate del ristorante La Corte. La famiglia Zanon, proprietaria della struttura, lo corteggiava da tempo. “Finalmente, dopo anni di cambi continui - sono le parole di Giovanni Zanon - la certezza di uno chef di meritata fama. Ivano è un grande professionista, che stimiamo profondamente. L’abbiamo accolto nella nostra famiglia con tutti gli onori di cui è degno.” Le strade del dotato chef e dei quattro fratelli Zanon si incrociano dunque nello sposalizio di un palazzo nobile del XVII secolo e di una villa Liberty dell’Ottocento, circondati da un lussureggiante giardino di profumati limoni, colorate ortensie, pervinche, rododendri, magnolie, nel quale troneggia un antico pozzo… dei desideri? Un sussurro, per la cucina e nella cucina, natìa bottega e chissà che presto non si specchi sul artigiana che vive della passione concreta fondo la fulva stella! Ma qual è la storia di opere manuali e creative di antica me- della famiglia Zanon? Giovanni e le sorelle moria. ‘Non c'è amore più sincero di Ivana, Maria Giovanna e Rosy, non nascono quello per il cibo’ chiosava George Bernard albergatori. Ereditano la struttura e con Shaw. Non a caso per Mestriner andare molta passione, passo dopo passo, la a fare la spesa è un’appassionante caccia trasformano nell’attuale dimora di lusso. al tesoro, alla ricerca della miglior materia Partono con un bar, poi con una boutique prima, che non va mai tradita nel piatto. di antiquariato e brocantage, successivaLa sua gastrosofia? “Dare etica al prodotto, mente decidono di aprire l’albergo iniziando pur interpretandolo con la mia sensibilità. con quattro stanze (che sono arrivate a Sono io che mi adatto alla materia prima diciotto, di cui sei nella villa, aperta solo

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nel periodo estivo), per poi creare il ristorante. Nel 2003 entrano nelle cinque C (cortesia, charme, calma, carattere, cucina) di Relais & Châteaux, l’associazione esclusiva che annovera i migliori hotel di charme e ristoranti gastronomici presenti in sessanta paesi. Ognuno di loro ha compiti diversi (Giovanni segue l’albergo e la cantina vini, Ivana supervisiona con passione l’andamento generale, Maria Giovanna lavora nel negozio, Rosy si occupa della caffetteria e della sala), ma con un fil rouge che li accomuna: classe, profondo senso dell’ospitalità, impegno sincero, savoir faire. Ivana, volitiva primogenita, ha curato personalmente gli arredi delle stanze, creando un ambiente diverso per ognuna di loro, in un modo personalissimo, originale, unendo stili ed epoche differenti, con grande attenzione ai ricercati tessuti e all’armonia dei colori. Dagli Zanon si respira un lusso fatto di molteplici dettagli, si varca la soglia di un fiabesco e ovattato mondo in perfetto equilibrio fra familiarità e intimità, tra formalità e affabilità e soprattutto, coccolati da molte premure, si vive la confortante sensazione di ‘casa’. Anche Ivano qui ha trovato casa. Se l’ardore adolescenziale è un po’ sopito, il suo fulgido estro sta ora calibrandosi su uno spazio-tempo diverso. La cifra stilistica è intatta, con un cambio di direzione: niente più frattaglie, chiuso con il ‘quinto quarto’. Un’epoca è terminata e ne inizia un’altra, e il nostro si affranca dal sigillo di cuoco delle frattaglie: “cucinare è come la vita, dall’adolescenza si entra nell’età adulta e necessariamente si cambia. La gastronomia è cambiamento ed evoluzione, non può restare ferma a se stessa, bloccata da codici. È intuizione, istinto, dinamicità. Ed è per tutti, non può essere appannaggio di una ristretta cerchia di appassionati”. E allora in menu troviamo, per esempio, fra gli antipasti le capesante arrostite con vellutata di cavolfiore e piccola tempura (di delicata armonia), le mazzancolle al profumo di timo, i cicchetti veneziani, le variazioni al foie gras; fra i primi la zuppa di gulasch, gli straccetti con cefalo e ceci, gli gnocchi ripieni di baccalà alla vicentina, i ravioli ripieni al Saporito delle valli, vellutata di zucca, zenzero e chiodini e… il piatto del

viaggio, il ‘riso’ di seppia. Sublime creazione (ideata quattro anni fa) di intensa emotività, un quadro gastronomico che colpisce sia la vista sia il palato, un gioco divertente per affascinare con l’essenza. Il riso non è riso, ma una purea di amido di riso, frullato e mantecato con la seppia e tagliato in dadini a ricreare l’effetto chicco, sulla quale si adagiano dei petali di uova di seppia e, al centro, un buco nero di inchiostro seppiato nel quale perdersi… un sogno che va assaporato. Proseguendo, fra i secondi ecco il trancio di rombo alla mediterranea, il filetto di branzino con puré di sedano rapa, indivia belga e patate, la quaglia al guanto (dai sapori integri), il piccione in due cotture, il carré di agnello al forno. Avviandoci alla conclusione, del menu con un florilegio di dolci e della nostra visita, alcune parole di Ivano tornano alla mente: “la passione mi vibra dentro con il coraggio di essere ciò che sono: leader di me stesso, pronto a migliorare ancora il mio percorso”.

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Il Bottaccio dignità d’entroterra

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di Fiorenza Auriemma Per arrivarci, si lascia la costa tirrenica per salire verso i monti, anche se di poco. E poi, dopo un paio di centri abitati e alcune curve, ecco il ponticello sulla destra e subito dopo la stradina che conduce al Relais&Chateaux. Chi si aspettasse un edificio maestoso e imponente, potrebbe restare deluso. Ma il fascino de Il Bottaccio di Montignoso sta anche e proprio in questo: essere una villa di charme poco appariscente e molto concreta. Questo anche perché è situata nella stessa costruzione che nel Settecento ospitava un frantoio, come testimoniano diversi elementi originali, molto ben conservati e restaurati, tra cui la grande ruota esterna che muoveva le macine e le antiche vasche di decantazione

dell’olio. Quindi, il primo consiglio è affidarsi ai sensi e ai sentimenti: il secondo è abbandonarsi alle sapienti arti di chi ha saputo trasformare questo luogo in un angolo di quiete, bellezza e ospitalità. Di proprietà della famiglia D’Anna e diretto fin dall’inizio – il 1983 - da Sossio Mosca, Il Bottaccio si trova appunto a Montignoso, antico borgo in provincia di Massa-Carrara e tutt’ora dominato dagli imponenti ruderi del Castello degli Aghinolfi, che ne furono signori fino al 1376. In altre parole, da queste parti l’aria è intrisa di storia e di terra, di mare e di forza. Senza per questo perdere in gentilezza o accoglienza. E così è anche all’interno de Il Bottaccio. Basta un’occhiata alla Royal Suite – non a caso, la preferita da molti ospiti – per rendersene conto: qui sono conservati gli originali ingranaggi in legno e le antiche macine per la produzione dell’olio, da una delle quali è stata ricavata una vasca da bagno a pavimento del diametro di due metri, decisamente affascinante nonché scenografica. Ma anche senza andare nell’intimità delle varie stanze, già l’ingresso, la grande cucina, la scalinata parlano da soli. E, più di tutti, lo fa la Sala della Piscina: nel centro di questo ampio locale – con il pavimento in cotto e il soffitto ricamato da travature di legno - spicca infatti un vasto specchio d’acqua, mentre tutt’intorno antichi tappeti, dipinti, sculture realizzate da celebri artisti contemporanei, contribuiscono a conferire all’ambiente un’atmosfera esotica e unica. Affacciata Artù n°48

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sul giardino, dal quale è separata da ampie vetrate, questa sala è una delle più sorprendenti del Bottaccio e ospita il ristorante gourmet guidato dallo chef Nino Mosca. E qui si apre un altro, interessante capitolo che rende Il Bottaccio un luogo unico. A cominciare dal fatto che lo chef è nelle cucine di questo piccolo gioiello fin dall’inizio. Anche se definirlo “chef” può essere riduttivo, visto che – ad esempio – Nino Mosca suona la chitarra e canta molto bene, come sanno quegli ospiti che, a fine di una serata a tavola, hanno avuto l’occasione di poterlo ascoltare. Nato a Napoli, Nino negli anni ‘70 era il “road manager” dei Napoli Centrale, gloriosa e valida formazione jazz-rock di James Senese. “Era il 1975, e con loro suonava un ancora sconosciuto Pino Daniele, come bassista, mentre io facevo un po’ di tutto, compreso guidare il furgone nel quale viaggiavano tutti insieme”, ricorda lo chef. Che deve la sua abilità e passione ai fornelli a una nonna che lo ha educato alle basi della cucina, nonché alle fondamenta della saggezza popolare;

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e al fratello maggiore e pittore, che, come racconta lui stesso, lo ha istradato lungo la via della creatività: “Gli ingredienti sono la mia tavolozza di colori, sono il mezzo per creare combinazioni di sapori”, racconta Nino. Che non nasconde – e nemmeno nei suoi piatti – una particolare attrazione per la filosofia orientale. E così, da una saggia combinazione tra solide radici culinarie partenopee e una visione aperta del mondo del gusto, nasce una cucina molto personale e interessante. Studi classici e una laurea in scienze biologiche alle spalle, Nino Mosca è salito poi a Massa con la famiglia, per aprire una gastronomia-rosticceria e poco dopo una pizzeria dove un pizzaiolo doc di nome Domenico preparava la vera pizza napoletana. Fino all’apertura de Il Bottaccio, dove Nino si sente oramai come a casa sua. “Sono un’autodidatta in cucina”, racconta, “e a parte alcuni piatti storici a base di pesce e carne, preferisco seguire la stagionalità. Perché sono convinto che chiunque voglia fare buona cucina deve partire da buoni ingredienti, rispettandoli


e cercando, per quanto possibile, di recuperarli nelle vicinanze. L’altra componente è poi la creatività”. Ed ecco allora che si spiega come possa nascere un piatto particolare come la Zuppa speziata con cavolo cappuccio, funghi e pesce: assaggiarla è comprendere qual è il concetto di cucina di Nino Mosca. “La zuppa è un ‘must’ della cultura orientale, dove l’utilizzo delle spezie è la chiave del successo. Ho sempre amato le spezie, e avendo buoni contatti con la Turchia, riesco ad averle freschissime. Il tutto poi sta nel trovare il giusto bilanciamento, che è anche un principio spirituale; senza trascurare la tecnica di cottura, in modo da creare una struttura sulla quale inserire sapori e dare

complessità. La base di questa zuppa in particolare è il cavolo insieme ai funghi, ed è adatta sia alla carne, sia al pesce; nel secondo caso, uso il pescato come sarago, gallinella, nasello, palombo, quasi fosse una zuppa livornese. Innanzitutto, preparando con tutte le teste del pesce fresco il fumetto, che poi arricchisco con una miscela di spezie dosata in base alla ricetta”. Insomma, è un’esperienza che lascia il segno gustare questa zuppa di pesce speziata che, però, ha un deciso sapore nostrano. Così come la Rana pescatrice in crosta di Lardo di Colonnata e gratin di porri, la Tartare di scampi al lime con riso nero selvaggio, o la Crema di verdure con gamberi croccanti, per citare alcuni dei piatti di Nino. Che si presta volentieri anche al ruolo di insegnante, per gli ospiti che lo desiderano. Infatti, un’altra delle caratteristiche de Il Bottaccio sono i corsi di cucina della durata di uno a più giorni, disponibili tutto l’anno e per tutti i livelli.

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Gambrinus storia di famiglia

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di Marta Lai A San Polo di Piave, nella campagna trevigiana, Parco Gambrinus fa rima con Zanotto. Perché è la famiglia Zanotto che lo gestisce dalla metà circa del Diciottesimo secolo. Infatti, dove ora c’è il ristorante, il parco e l’osteria, nel Diciottesimo secolo carrozze e relativi cavalli e cavalieri trovavano ristoro nel borsò circondato da una natura rigogliosa. All’epoca, le acque sorgive del fiume Lia venivano utilizzate per tenere in fresco le bevande, mentre oggi ospitano cigni, gamberi, anguille e storioni; tutti – cigni a parte - destinati a diventare ingredienti di punta del menu del locale e della cucina dove, nel corso degli anni, si sono alternati varie generazioni di Zanotto. Fino all’attuale, che vede in prima fila il 35enne Pierchristian. Chi pensa si tratti di un banale “cambio di guardia”, si sbaglia. Perché ogni cambio di guardia ha lasciato il segno nell’impresa familiare. “La cantina è nata con mio bisnonno, ed è sua la ricetta dell’Elisir Gambrinus, ”, spiega Pierchristian. E allora, per raccontare il passato e il presente di questo microcosmo trevigiano, partiamo proprio da questo vino liquoroso rosso a base di Raboso Piave, cui viene aggiunto zucchero di canna, grappa invecchiata tre anni e aromi naturali (inutile chiedere ulteriori particolari: è un segreto degli Zanotto). Questo vino particolare - tanto che Barack Artù n°48

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Obama lo ha scelto per festeggiare il suo insediamento alla Casa Bianca - è nato pare per errore, complice una damigiana dimenticata dietro al bancone: “Mio bisnonno, pur di non buttarne via il contenuto, ci mise dentro vari altri ingredienti, e la cosa piacque molto. Così è iniziata la carriera di questo vino, che poi mio padre Adriano ha reso famoso in tutto il mondo, quando negli anni 70 girava l’Italia per presentare la cucina del Gambrinus”. Già questa bella storia basta a dare un’idea di quale sia la stoffa degli Zanotto, che nel corso del tempo ha reso Parco Gambrinus più che un semplice risto-

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rante; dove ci si ferma anche, ma non solo per gustarne la cucina, a cominciare dai mitici gamberi rossi d’acqua dolce – dal corpo allungato con zampette e antenne anteriori, testa prominente con occhi laterali, corazza grigiastra o dorata che diventa rosso corallo dopo la cottura - che costituiscono oltretutto il “logo” dell’insegna. La ricetta tradizionale vuole che subito dopo essere stati pescati nelle acque del parco, vengano sbollentati con odori e quindi adagiati su fette di polenta accompagnati da una speciale salsina. Esiste però anche il risotto a base di questi gamberi: “Lo prepariamo con una miscela di erbe e


una salsa che è il segreto della casa”. Non si sbottona più di tanto, Pierchristian, che dopo un’adeguata gavetta in giro per l’Italia (compresa una tappa molto importate nelle cucine di Paolo Lopriore) da oltre cinque anni ha preso in mano le redini della cucina, mentre il padre continua a seguire l’Elisir e il suo invecchiamento di almeno sei anni in botte di rovere, insieme al fratello Gianmaria, che si occupa anche del marketing; accanto a loro, mamma Rosa e l’altra sorella, Marianna, seguono e coccolano i clienti, compresi quelli dell’Osteria-Enoteca annessa al ristorante vero e proprio, e coloro che soggiornano nella piccola e accogliente Locanda che completa l’ospitalità del Parco Gambrinus. In altre parole, approdare qui vuol dire entrare in un vero e proprio microcosmo dell’ospitalità, tutto da scoprire: ad esempio, arrivando per l’ora di cena (nei mesi invernali, i tavoli sono apparecchiati all’interno del grande ed elegante edificio principale, mentre in quelli più caldi si cena sul piccolo pontile che attraversa il fiume Lia e guarda il parco), dormendo poi nella locanda, per passare la mattinata successiva nel parco di proprietà o a Treviso, Oderzo ecc.; e tornare in tempo per l’ora dell’aperitivo, da dedicare a uno Spritz del Gambrinus, a base di prosecco della casa, acqua tonica e ovviamente Elisir, servito nell’Osteria che ha un arredo più informale, ma non per questo meno meritevole del ristorante vero e proprio. Nel quale – oltre ai mitici gamberi – si possono assaggiare tra l’altro l’originale porchetta di storione, servita con pane abbrustolito e misticanza; le alici, messe sotto sale in casa e poi marinate per essere accompagnate da verdure di stagione; l’anguilla che, lasciata purgare per duetre mesi in modo che perda un po’ del suo grasso, viene preparata alla griglia e portata in tavola con chips di polenta bianca alla liquirizia e gelatina di birra. Per poi concludere la cena con uno degli indimenticabili dolci estrosi di Pierchristian, chef a tutti gli effetti pur avendo iniziato la carriera occupandosi della pasticceria del locale (che tuttora

supervisiona). Nonché artista per vocazione, come dimostra la sua “carriera parallela”: nel 1996, insieme ad altri artisti friuliani e veneti, ha fondato il gruppo artistico La Cremeria, che oltre a diverse collaborazioni con aziende ha due mostre al suo attivo; cui si aggiunge una personale di Pierchristian – Sugartfull – ospitata nel

2010 nella Chiesa di Sant’Orsola del complesso Castello di Conegliano: una serie di dolci firmati che si prestavano sia a essere contemplati a distanza (come il dolcissimo quadro che ritrae una madre con il suo bebè, il tutto a base di cacao, zucchero, farina), sia a essere assaggiati. “Al Parco Gambrinus ospitiamo anche eventi e soprattutto matrimoni, così alcuni anni fa ho proposto una tela dolce agli sposi perché potessero portare a casa il ricordo della loro festa”, spiega la genesi di quest’opera lo chef-artista. “Insomma, una mezza via tra un quadro e un dolce: che lascia spiazzato e che nasce da mie riflessioni di quando facevo i primi passi in pasticceria e, portando soddisfatto le torte ai matrimoni, mi rendevo conto che le persone non si stupivano dei miei tentativi artistici. Così, ho deciso di esagerare…”. Tentativo pienamente riuscito.

Thinkin’of You, opera dedicata alla maternità (cacao, zucchero e farina) 2010. Artù n°48

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COTTURA, se d’avanguardia soddisfa di più una cucina di alto livello. Poiché se è vero che l’alta gastronomia coniuga Semplificare le strategie in cucina e alla propria realizzazione un elevato non solo è la regola della ristorazione grado di raffinatezza, è ancora più vero del futuro. MBM lo ha già capito e il fatto che essa debba partire assolutapropone soluzioni tecniche per la cot- mente dalla tecnica di base”. Sarà tura che permettono di essere con- allora per questo che il famoso cuoco cretamente innovative. Con quella mar- stellato modenese, patron dell’Osteria cia in più che fa la vera differenza. Francescana, è stato uno degli chef scelti da MBM per essere protagonisti La semplicità è la vera innovazione. di apprezzati show cooking che, andati Vista nel senso di mettere a disposizione in scena durante l’ultima edizione di soluzioni semplicemente realizzabili a Host, sono serviti all’importante azienda, problemi complicati. Come racconta il da quarant’anni attiva nel settore delle grande chef italiano Massimo Bottura, apparecchiature per la ristorazione pro“la riscoperta della semplicità è oggi fessionale, per raccontare il suo nuovo l’ingrediente base per dare forma a corso. Dal 1972 nota sul mercato italiano e internazionale per la qualità e l’affidabilità dei propri prodotti, come pure per la capacità di proporre soluzioni tecniche innovative, tutte volte a migliorare la qualità del lavoro dei professionisti della ristorazione, MBM vive infatti oggi una stagione di profondo rinnovamento, ma che, come sempre, mette al centro delle attività aziendali gli utilizzatori finali. Ai quali viene proposta una gamma davvero completa di strumenti per la cottura orizzontale e verticale, provenienti – tra l’altro – prevalentemente dalle società del gruppo mondiale ITW – Illinois Tool Works, al quale la MBM fa capo dal 1998. E per capire un po’ più approfonditamente il senso di questo rinnovamento nella continuità, abbiamo chiesto direttamente al direttore generale dell’azienda Gianluca Pardini indicazioni sulle strategie di sviluppo. In tempi di crisi economica, i ristoratori cercano risposte all’avanguardia, ovvero strumenti di nuova generazione, come cucine professionali tecnologicamente innovative, per mezzo delle quali unire miglioramento dei conti e qualità in cucina. Pensa che l’innovazione debba essere percepita come un investimento per il futuro e non come un costo nel presente? “Si tratta di un’idea che è da sempre il nostro cavallo di battaglia, e le spiego perché. Siamo un’azienda storica da tanti anni sul mercato e quindi con un ampio bagaglio di informazioni sulle necessità più importanti dei ristoratori. di Davide Deponti

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In più facciamo parte di un grande gruppo americano e possiamo anche sfruttare i precisi strumenti di marketing che così ci vengono messi a disposizione per sondare ancora meglio di cosa ha davvero bisogno il nostro pubblico. Da questo percorso virtuoso perciò abbiamo da qualche tempo tratto proprio la conclusione che l’innovazione tecnologica è oggi importantissima ma soprattutto quando si traduce in un vero aiuto per chi la usa. Insomma l’innovazione è un vero vantaggio quando, ad esempio, aumenta le performance di preparazione riducendo i tempi di lavoro. Tutto ciò si deve quindi sempre riflettere sullo studio di soluzioni meno complesse possibili per l’utilizzatore finale: soluzioni che derivano da studi integrati e che si traducono nell’essere strumenti capaci di facilitare la vita di tutti i giorni di chi fa l’imprenditore nella ristorazione. Per il presente e ancora di più per il futuro allora l’equivalenza da usare sarà quella che dice che l’innovazione non è solo tecnologia ma anche comodità e performance. E questi sono già da ora i tre pilastri sui quali costruiamo la proposte all’avanguardia targate MBM”. Sicuramente, economicità e alta funzionalità sono qualità richieste dagli chef di oggi agli strumenti tecnologici della loro cucina: ma la tecnologia deve essere usata nel modo giusto. Co-

me si dovrebbe fare una giusta formazione ai cuochi? “A mio avviso il link tra la proposta di prodotti innovativi e la formazione all’uso degli stessi deve essere oggi di due tipi. Innanzitutto a un livello professionale, come noi di MBM facciamo quotidianamente in azienda per mezzo di prove pratiche per i nostri clienti. Secondariamente anche a livello gestionale, sforzandoci di fare capire allo chef che al giorno d’oggi un cuoco deve essere, gioco forza, anche un imprenditore; anzi un bravo imprenditore. E che per questo un fattore come quello della riduzione dei costi di gestione dell’impresa ristorante è importante tanto quanto la qualità del cibo proposto. Senza oculatezza nella conduzione degli affari non è più possibile fare strada neanche se si è uno chef multi-stellato, ed è ovviamente anche colpa di questa stagione di grande crisi mondiale. Ma da questo percorso virtuoso non si prescinde. Ecco allora che MBM fa formazione ai propri clienti anche nel senso di mostrare loro come portare a termine una riduzione dei costi che si configuri come una vera gestione economica Artù n°48

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dell’attività ristorativa e che non sottovaluti nulla, nè dal punto di vista gastronomico, nè da quello finanziario”. E una realtà come MBM, che produce forni innovativi per la ristorazione da molti anni, come ha sviluppato la propria attività industriale e come è riuscita a conquistare questo importante mix di tecnologia e qualità? “Il forno è ancora una macchina da scoprire da parte dei cuochi, soprattutto nella misura in cui può dare risparmio sia in termini di spazio che di tempo. E soprattutto sempre in positivo rispetto ai conti di un ristorante-azienda. Continueremo perciò ad agire seguendo le analisi di mercato dettagliate che ci permettono di scoprire sempre in tempo reale quali sono le caratteristiche tecniche più importanti intorno alle quali progettare sistemi che diano grandi vantaggi ai nostri clienti. Ecco perciò che ci prefiggiamo l’obiettivo di fornire una gamma forni completa, ma che viene sempre rivista in base alle richieste più attualizzate degli chef, perché possa permettere loro di creare un prodotto gastronomico che sia in grado di fare la differenza”. Abbiamo detto come ad Host 2011 abbiate organizzato sessioni show con grandi chef stellati come Massimo Bottura, Ilario Vinciguerra e Luigi Taglienti, che hanno utilizzato i vostri sistemi; nel futuro prossimo perciò ritenere che il rapporto tra tecnologia all’avanguardia e cucina di altissimo livello

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sarà sempre più stretto? Voi lavorate in questo senso? “Certo, lo abbiamo fatto e lo faremo ancora, per due motivi. Il primo è ovviamente quello di valorizzare le prestazioni dei nostri prodotti facendoli utilizzare da maestri che ne amplifichino le peculiarità, ma non solo. Grazie alla loro perizia unica, noi, di ritorno al loro uso negli show cooking, possiamo guadagnare innumerevoli informazioni sulle doti di affidabilità e robustezza dei nostri sistemi, che sono messi così alla prova ai massimi livelli di professionalità. Il secondo è che grazie all’intelligenza creativa in cucina di questi grandi interpreti ci è più semplice scoprire sempre più aspetti innovativi da introdurre in cucina. Come nel caso, ad esempio, dell’implementazione nel nostro modello 1100 del sistema di cottura a bassa temperatura, nata grazie all’interazione ‘sul campo’ con Massimo Bottura. Insomma, alla MBM vogliamo stare sempre al passo con la tecnologia che ‘nasce’ dai cuochi e in cucina e non smettiamo di esplorare questo nuove vie anche attraverso le collaborazioni di prestigio con gli chef. Per il futuro, quindi, prevediamo la predominanza tecnologica della cottura verticale, anche se sempre mixata nel giusto modo a soluzioni di quella orizzontale. E siamo già al lavoro per predisporre le nuove soluzioni innovative come pure la formazione adatta a sfruttarle”.



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La luce del futuro si chiama LED di Davide Deponti Come ottenere una migliore qualità dell’illuminazione, fuori e dentro il proprio locale, oltre ad assicurarsi un risparmio energetico garantito? Con i led, grazie ai quali è iniziata per la luce una vera e propria rivoluzione, sia in ambito privato che nel pubblico. Che la tecnologia rivesta una parte sempre più importante della nostra vita quotidiana, anche e soprattutto di quella lavorativa, è ormai un dato di fatto ineluttabile. E che questa rilevanza sia destinata ad aumentare sempre di più col passare del tempo lo scopriamo tutti noi in ogni occasione. Certo, siamo portati a pensare all’evoluzione tecnologia come maggiormente connessa ai sistemi elettronici o informatici e agli elettrodomestici, ma non dobbiamo dimenticare che c’è un’altra, importantissima, area di applicazione di questo genere di novità che è anch’essa, da qualche tempo, in costante espansione. È quella legata alla luce e all’illuminazione. E l’importanza di questo fattore all’interno di un ristorante o di un locale pubblico è superfluo sottolinearla. È invece più determinante oggi chiedersi: esiste già la lampada del futuro? Quella che ci consentirà di risparmiare energia, ma allo stesso tempo di garantire un impatto estetico gradevole all’ambiente? La risposta c’è ed è contenuta in una piccola parola: led. Pochi ancora ci pensano, ma la rivoluzione che nell’arco di pochi anni ha stravolto la produzione di

apparecchi di illuminazione con l’introduzione dei led prima, e le progressive messe al bando di alcune sorgenti luminose – come le classiche lampadine a incandescenza – poi, è pari alla differenza che esiste tra un iPod e le antiche radio a transistor. Insomma, non ci sono più dubbi di sorta: il futuro è del led. Anche perché, non bisogna dimenticare che, secondo i dettami dell’Unione Europea, entro il 2016 sarà eliminata la produzione di lampade ad alto consumo energetico, come quelle a incandescenza e le alogene, e l’uso dei led diventerà indispensabile. Perciò bisognerà essere quanto prima pronti a sfruttare la tecnologia di questi ‘diodi a emissione di luce’ (definizione che in inglese suona come ‘Light Emitting Diode’, da cui proprio la sigla led). Tecnologia e diodi? Ma di cosa stiamo parlando? Tecnicamente ogni led funziona proprio grazie a questo diodo, che altro non è che un piccolo componente elettronico che contiene due terminali attraverso i quali passa la corrente elettrica che poi dà forma alla luce. La caratteristica principale dei led è di poter essere anche molto piccoli, quindi pratici in innumerevoli situazioni. Non bisogna dimenticare che poi, nel prossimo futuro, anche il fattore di risparmio energetico sarà fondamentale. Ed anche in questo caso i led sono e saranno al top. Le lampade realizzate con questa tecnologia, infatti, consumano tra il 50 e il 75% di energia elettrica in meno rispetto a quelle tradizionali e hanno una resistenza all’uso almeno quattro volte superiore, sempre in confronto ad esse: oltre 50mila ore di accensione continua, pari a circa 15 anni di utilizzo. L'ecosostenibilità della tecnologia led non riguarda solo il risparmio energetico, ma anche il minore impatto ambientale dovuto all’uso di materiali non inquinanti. Progettare gli ambienti Grandi vantaggi pratici che, oltretutto, si sommano a innumerevoli vantaggi creativi, poiché, grazie al fatto di utilizzare bassi flussi di energia e di sfruttare piccoli ingombri spaziali, i led, che si usano anche in moduli o gruppi, danno a un architetto

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la libertà di poter concepire, caso per caso, la quantità di luce che è davvero necessaria per ogni illuminazione. Tante sorgenti di luce danno flessibilità di posizionamento e di uso: anche per questo cresce nel campo della progettazione l’importanza del lighting designer, figura professionale che lega la propria competenza proprio all’impostazione della luce negli spazi. Così, a proposito di creatività e di uso della luce nei locali pubblici, abbiamo chiesto un parere a un illustre esperto, Andrea Ingrosso, lighting designer di Lecce, architetto titolare dello Studio Ingrosso e autore di progetti di illuminazione di diverse mostre, tra cui gli allestimenti scenografici di Franco Zeffirelli, e di numerosi spazi pubblici in Italia ed Europa, nonché docente all’Università del Salento. Sta finendo l’era delle classiche luci a incandescenza (anche per legge) e inizia quella dell’illuminazione più tecnologica, a led: quali sono le grandi novità che questa tecnologia porta a chi lavora con la luce? “Il led è la vera innovazione che in poco più di dieci anni ha letteralmente rivoluzionato il mondo della luce perché è stata in grado di incidere non solo sul design degli apparecchi, ma anche sul rendimento energetico e, ancora, sulla possibilità di modificare significativamente un ambiente grazie a tecnologie relativamente semplici”. Quali plus può dare allora utilizzare questi nuovi sistemi a led nell’illuminazione di spazi speciali come i ristoranti e i locali pubblici in genere? “Si parte dal concetto che ogni luogo ha un’anima. Un ristorante, o comunque un luogo pubblico, crea relazioni tra le persone e stabilisce, anche, un rapporto sinestesico con il cibo. Scegliamo un locale perché vogliamo vivere un’esperienza unica con ciò che mangiamo, con chi lo crea, condividendo le nostre sensazioni, accostando non solo i sapori ma anche gli odori e i colori, in modo che il percorso percettivo rimanga un elemento da ricordare, esaltando tutti i nostri sensi insieme. I led aiutano i progettisti proprio a semplificare tutto ciò per il loro minimo impatto visivo, ma

anche perché li mettono in grado di scegliere, grazie alla tecnologia, la possibilità di correggere dominanti cromatiche ed esaltare i colori dei cibi, piuttosto che concentrare, con suggestivi effetti teatrali, la luce solo dove serve, e quanta ne serve. Penso a ristoranti dove le sensazioni sono esaltate come il Felix Restaurant di Kowloon, a Hong Kong, disegnato da Philippe Stark, o il cafè SHU di Fabio Novembre a Milano, nel quale cucina fusion, design e relazioni umane sono accompagnate da illuminazioni che si modificano a seconda delle fasce orarie, rispettivamente legate a happy hour, dinner, disco”. Aumenta la tecnologia e diventa ancora più essenziale il ruolo di un professionista come il lighting designer: come si sviluppa un progetto di luci per un ristorante? “Con le premesse sopra descritte, alle quali occorre aggiungere un significativo ruolo per il committente, che deve sapere quale tipo di viaggio sensoriale poter co-

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municare ai suoi clienti. Un lighting designer sa costruire un progetto con la luce che sappia esprimere non solo un’architettura, ma che faccia viaggiare in un mondo alla scoperta di emozioni. Come nel caso del Mix Restaurant del Mandalay Bay di Las Vegas in Nevada (Usa), nel quale il professionista ha progettato un locale evocante l’interno di un lampadario da cui sgorgano bolle di cristallo. Nel rispetto del ristorante, le bolle riflettono la luce come le gocce d’acqua in una nuvola. Tutto viene realizzato poi anche seguendo parametri energetici legati non solo ai consumi ma anche al ciclo di vita dei prodotti: in questo, i led, sono di nuovo un utilissimo aiuto, affiancato dall’uso sempre più ampio di sistemi di gestione della luce che consentono di controllare effetti cromatici, livelli di energia e manutenzione”. Conviene davvero È insomma sempre più semplice, anche nella realtà italiana, avere la possibilità di utilizzare questi sistemi di luce led per pensare di creare un ambiente unico e

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speciale per il proprio ristorante, senza per questo dovere mettere in budget spese folli per materiali, mantenimento e manutenzione. E se, come ci ha spiegato l’architetto Andrea Ingrosso, la collaborazione di un lighting designer è fondamentale per poter tradurre la propria idea di atmosfera luminosa nella realtà di un impianto di luce per il pubblico, non è difficile neppure trovare i materiali adatti alla bisogna. Una grande azienda come Osram, infatti, ha cataloghi ricchi di proposte che sono gli ingredienti necessari per costruire una perfetta illuminazione di un ristorante. Un’altra, come Philips, ha contribuito a realizzare strutture ‘ibride’, ma anche per questo più complesse e affascinanti da un punto di vista dell’illuminazione, come quella dell’Eataly a Genova, che integra un punto vendita di prodotti alimentari e uno spazio per la ristorazione. Quale la conclusione allora? Che possiamo già oggi elencare ben dieci buoni motivi per scegliere i sistemi a led come base di una scelta di luce per un locale. Il primo, molto importante per ogni imprenditore, è quello legato al risparmio, poiché si tratta di installazioni che permettono di ridurre i costi fino all’80% rispetto a quelle di illuminazione tradizionale. Quindi c’è la durata media di queste lampade, che consentono un’accensione continua, anche di 24 ore al giorno, per un totale di almeno 50mila ore. Altri due fattori poi sono molto legati: il primo è che i led non ‘scaldano’ e non emettono Uv, come le luci a incandescenza, e il secondo è che, proprio per questo, il loro uso diminuisce i costi di condizionamento di un locale. Tecnicamente, ancora, i led non vogliono costi di manutenzione, non obbligano a fare particolari modifiche tecniche a impianti già esistenti, hanno una compatibilità pressochè totale con le strutture di corpi lampada già esistenti e vengono alimentati in modo standard (12-24 Volt). Infine, per la loro natura elettronica, permettono contenute emissioni di CO2 e – in generale, ma soprattutto se combinate con il sistema RGB – permettono un uso molto creativo fatto di illuminazione dinamica e giochi di luce multicolore. Il futuro è già qui.



libri

La filosofia VERDE di Pietro Leemann

Titolo: In Verde. La filosofia vegetariana di Pietro Leemann Autore: Giovanni Panzarotto Editore: Reed Gourmet Anno: 2011 Pagine: 210 Prezzo: 70,00 €

Titolo: Il mestiere del padre Autore: Valerio M.Visintin Editore: Terre di Mezzo Anno: 2011 Pagine: 48 Prezzo: 4,00 €

Titolo: Salse Autore: Michel Roux Editore: Guido Tommasi Anno: 2011 Pagine: 306 Prezzo: 25,00 €

Titolo: L’uva nel bicchiere Autore: Teresa Severini Zaganelli Editore: Gribaudo Anno: 2011 Pagine: 72 Prezzo: non indicato

Concretezza biologica Un volume, essenzialmente fotografico, che percorre l’attività professionale dello chef svizzero Pietro Leemann (patron del milanese Joia) attraverso i suoi grandi piatti. Ricette e colori si alternano in una sequenza formidabile, che permette di capire la cultura alla base del lavoro dello chef stellato Michelin. Una visione, quella di Leemann, che assume un ruolo molto complesso che va al di là del semplice concetto di alimentazione o di piacere gustativo. La cucina rigorosamente vegetariana di Pietro nasce infatti dall’incontro fra culture diverse, orientale ed occidentale, rappresentate da altrettante scuole di pensiero, nelle quali alle emozioni deve corrispondere anche un senso lucido e razionale. Con l’obiettivo di nutrire, offrire piacere, regalare emozioni, ma anche e soprattutto di salvaguardare corpo, anima e salute complessiva.

Intensità della memoria Un libello intenso ed emotivamente coinvolgente, ma anche agile e di pronta lettura, questo di Valerio M. Visintin (critico gastronomico milanese del Corriere della Sera). Le pagine raccontano i ricordi di un’infanzia vissuta a fianco di un genitore importante e del conseguente, delicato rapporto fra Valerio e il padre, giornalista “storico” del Corrierone, ma anche collaboratore di diverse testate gastronomiche. I testi sono di rara delicatezza e raccontano, fra l’altro, l’iniziazione giornalistica del giovanissimo Valerio, a cui il padre lasciò troppo presto il “testimone”. Valerio M.Visintin è conosciuto per la chiarezza delle proprie valutazioni su molti locali milanesi. Ha raccolto i suoi punti di vista in numerose guide e pubblicazioni, che hanno scandagliato nel profondo la ex Milano da bere e che offrono interessanti chiavi di lettura sull’offerta cittadina di ristorazione.

I consigli di un grande chef Michel Roux è forse lo chef più famoso al mondo: noto per l’apertura del Gavroche, il locale-mito londinese, ha poi condotto il tristellato Waterside Inn di Brey on Berkshire, sul fiume Tamigi, per oltre vent’anni, prima che ne rilevasse la gestione il giovane Alain. Diretto dall’italiano Diego Masciaga, il Waterside Inn è il locale gourmet più celebre dell’area londinese, un riferimento indiscusso per migliaia di chef, emergenti ed affermati. Il volume dedicato alle “salse” propone oltre 200 ricette, con relative immagini di alta qualità, di dressing che si possono abbinare a ogni tipo di piatto: ricche o leggere, semplici o più elaborate, salate o dolci. Con il suo approccio, grafico e testuale, molto moderno, il volume è destinato a lasciare un segno importante nella vostra attività di cucina. E, forse, a farvi compiere una piccola rivoluzione culinaria.

Una guida ragionata sul vino Accostarsi al vino, soprattutto per i più giovani, non è facile. Proprio per questo Teresa Severini, enologa da anni impegnata nell’azienda di famiglia, a Torgiano, ha deciso di creare una “guida”, destinata ai più piccoli, in grado di farli avvicinare all’universo vinicolo in modo graduale, semplificato e accattivante. Qui troverete risposta a centinaia di quesiti sul vino, sui vitigni, sulla vinificazione, sull’affinamento, sul servizio e su tutto quello che, soprattutto i non addetti ai lavori, “non hanno mai osato chiedere”. Di facile lettura, adatto per scuole ed educatori. Ma anche per corsi di sommellerie che vogliano partire dai “fondamentali” per assicurare una corretta cultura di base in materia vitivinicola.

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secondo Artù

Bocchia, la ricerca estrema E altri esempi ragionevoli L’OFFERTA RAGIONEVOLE

MISTRAL

Continua la pubblicazione delle schede sui ristoranti italiani che la redazione di Artù monitora grazie a un attento lavoro di verifica e di visite, in alcuni casi anonime e non programmate. L'obiettivo non è certo quello di allinearsi all'attività delle guide gastronomiche: ce ne sono già abbastanza e, nel bene e nel male, svolgono una funzione che ha sicuramente delle motivazioni rispettabili, sulle quali non intendiamo intervenire in questa sede. "Secondo Artù" vuole essere un momento di riscontro dell'evoluzione della scena ristorativa, in tutti i suoi segmenti, in grado di delineare sinteticamente le caratteristiche, positive o meno, che vengono riscontrate durante la visita. A questo fine abbiamo creato una simbologia - le corone e i cervelli - che intende evidenziare lo "stato dell'arte" dei locali italiani di ristorazione. Le corone hanno la funzione di indicare il livello complessivo della cucina, mentre i cervelli segnalano la coerenza dell'offerta, la rispondenza a un price for value intelligente, la sensibilità e la conoscenza dei propri mercati di clientela. In una parola, quella che noi di Artù chiamiamo la RAGIONEVOLEZZA, ovvero la capacità di sintonizzarsi con le esigenze di una clienela che cambia nel tempo. Ovviamente, sono proprio i cervelli che manifestano il buon senso e la correttezza, attraverso la quale la clientela della ristorazione può essere fidelizzata su basi nuove e contribuire, quindi, a un rilancio dell'economia. All’assegnazione dei simboli contribuiscono quindi, oltre all'eccellenza delle materie prime e alla qualità del servizio, anche elementi di attenzione per la clientela, come un ricarico corretto sui vini, la presenza di menu degustazione o menu del giorno particolarmente interessanti sotto il profilo del rapporto qualità-prezzo, la volontà di ridurre al minimo i profitti e di allargare la base numerica della clientela. E, siccome non siamo buonisti ad oltranza, abbiamo anche introdotto, nella simbologia dei punteggi, anche corone e cervelli "neri": in questo caso, la valutazione negativa sta ad indicare che troppi errori vengono commessi e che, per sopravvivere, è necessario cambiare registro e migliorare la propria professionalità. APS

GH Villa Serbelloni, via Roma 1 220121 Bellagio (Co) 031 956435 - 031 951529 www.ristorante-mistral.com

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di continuare per la propria strada, immune filati all’oro ai missoltini del lago di Como da ogni forma di condizionamento. Bravo sono un vero inno alla tradizione locale. Ettore, anche quando servi la brisaola (con la “i”) di Madesimo (affinata da Ste- LOCANDA MOSCAL fano Masanti), o i gamberi rossi di Sicilia Via Pigna 1 con gelato al guacamole e cialde al nero 37010 Affi (Vr) di seppia, o la straordinaria cagliata 045 6260309 d’uovo ripiena di erbe fini con tartara di www.moscal.it fassone al pepe rosa, dimostri che il tuo Un vero outsider, un “signore degli anelli” percorso, in apparenza solitario, è cosmiche tiene alto il nome della ristorazione camente figlio della ricerca del meglio. d’autore italiana. Lui è Ettore Bocchia, Da provare: la variazione di fegato grasso E bravo Leandro Luppi. Quatto quatto, classe 1965, parmense di San Secondo ripieno con mandorle di Noto e fichi senza troppi rulli di tamburo, ha aperto (dove nasce la famosa “spalla cotta”): secchi, fritto in olio extravergine con mo- la sua “locanda popolare” proprio lì, ad fine conoscitore dei prodotti del territorio, starda di pere e insalata di germogli, il ri- Affi, dove l’autostrada di Venezia si trastudioso della fisica della materia, difensore sotto con caprino, rapa rossa ed erba ci- sforma nella rotta verso il Brennero. A esasperato delle microrealtà di eccellenza. pollina, i tortellini di pasta fresca ripieni due passi dal lago di Garda, infatti, Lidia Ne seguiamo il percorso da anni e abbia- di pavone con brodetto di volatile e e Corinne Luppi, rispettivamente moglie mo avuto modo di capirne le aspirazioni, funghi di stagione (assaggiati alla SudTirol e figlia dello stellato Leandro di Malcesine, la sensibilità, l’intelligenza creativa. Da Chef’s Cup 2011), il rombo assoluto propongono una cucina semplice, segoltre dieci anni è executive chef al ristorante cotto nello zucchero con spuma di patate, mentata per occasioni (e tempi) di conMistral, la creatura gourmet del Grand verdure al vapore e salsa ai porri. Ma sumo. Tre le fasce orarie, per altrettante Hotel Villa Serbelloni, il cinque stelle anche sul fronte della tipicità comasca, tipologie di menu: ore 12, pranzo, dalle lusso di Gianfranco Bucher. Bocchia, da Bocchia non scherza: i suoi spaghetti tra- ore 15, spuntini e merende, dalle ore vero apripista, ha portato sul Lario con le sue minestre Celestine e selle di vitello al forno, una ventata di autentica genialità LEGENDA culinaria, portando in breve tempo il ristorante bellagino alla stella Michelin. AfferCervello incoronato = Memorabile, mitico, matosi inizialmente come guru della ineccepibile per qualità, coerenza, cucina molecolare (numerosi i trattati serietà e ragionevolezza dell’offerta sull’argomento scritti a quattro mani con Tre corone = Cucina eccellente e geniale, il professor Davide Cassi), è stato anche perfetta esposizione delle voci in menù, sottovalutato dalla critica ufficiale proprio ambiente e servizio all’altezza per la sua attrazione (fatale, secondo alcuni) per l’azoto. Ma la preparazione di Ettore, in realtà, è a 360° e la sua conoscenza delle materie prime è innanzitutto un fatto di cultura, di stile, di personalità. Di lui ammiriamo la costanza e il coraggio e – dote rara fra gli chef - la ferma volontà

Due corone = Ottimo per qualità dell’offerta Una corona = Cucina corretta e affidabile Corona nera = C’è ancora molto da fare Tre cervelli = Il massimo della ragionevolezza Due cervelli = Molto ragionevole Un cervello = Abbastanza ragionevole Cervello nero = Scarsamente ragionevole


19, aperitivi rinforzati e cene all’insegna dei migliori piatti della tradizione. Il giovane chef è lungimirante e sa infatti creare dei piatti di rigorosa impostazione “ortodossa” veronese ma sapientemente ammodernati in veste creativa. Ottima la testina di vitello croccante, generose le tagliatelle di pasta fresca al ragù, gustoso il baccalà in umido con polenta, memorabili i formaggi del Monte Baldo, personalmente selezionati da Leandro. La scelta dei vini è molto intelligente, con un ricarico vicino allo zero: si deve a Lidia, esperta sommelier, la gestione di una cantina semplice ma completa delle chicche necessarie. Prezzi sotto la media, in linea con le aspettative di consumatori affamati, ma attenti alla qualità e alla ragionevolezza. Camere dignitose a disposizione degli ospiti per evitare controlli polizieschi e rientri fra le nebbie.

ER PIÙ Via Castellini 21, 22100 Como Tel 031 272154 www.erpiucomo.com

Salvatore Marino in cucina, sua moglie in sala. La forza dell’unione e della semplicità vincono sempre. Er Più, ristorante cittadino, non lontano dall’Ospedale comasco di Sant’Anna, è un esempio eloquente di ottima cucina di pesce (di mare) proposto a prezzi da leccarsi i baffi. Ma la carta elenca anche piatti di terra, perfettamente eseguiti, che non hanno nulla da invidiare a quelli di locali dai nomi più altisonanti. Sembra incredibile l’onestà di questo posto che, non a caso, ha ottenuto il Bib Gourmand dagli ispettori della guida rossa. Il menu alla carta è di impronta creativa, con piatti che valorizzano il pesce fresco in ogni sua possibilità, dal crudo al fritto di paranza. Ma è nelle proposte di mezzogiorno che Er Più offre ai clienti una opportunità unica: primo, secondo, contorno, dessert, mezzo litro di vino per 18.50! I consigli dello chef sono tutt’altro che banali: gnocchetti al taleggio e speck, spaghetti alle vongole veraci, degustazione di pesci gratinati, zuppetta di cozze vongole e ca-

lamari, filetto di orata con verdure fresche e altre proposte semplici e gustose. Sotto i 20 euro a pranzo, sotto i 30 la sera, per un’esperienza da imitare.

DELICATESSEN Viale Tunisia 14, 20124 Milano 02 29529555 www.delicatessen.eu

Lodevole l’iniziativa di portare a Milano un ristorante di impronta altoatesina. In città sono parecchi gli estimatori della cucina del lembo più settentrionale d’Italia, quella provincia autonoma di Bolzano che ha tanti estimatori fra gli enoappassionati e i gourmet. La cucina del Delicatessen è decisamente tipica, con l’indicazione dei piatti in lingua italiana e tedesca. Buoni gli schlutzkrapfen della Val Pusteria (anche se lontani da quelli che si gustano, per esempio, al Durnwald, in Valle di Casies: i migliori di tutto il Tirolo), ottime le costolette di agnello Brillenschaf della Val di Funes, interessanti i filetti di trota di ruscello marinata al finocchietto selvatico e pepe rosa, serviti con mousse di carciofi. Suggestivo l’ambiente, reso intrigante dai toni cromatici del legno e dalla ottima distanza fra i tavoli. I prezzi sono abbastanza in linea con le aspettative, il servizio subisce la lentezza della cucina, soprattutto quando quest’ultima è oberata dalla quantità di comande, non sempre di facile gestione. Complessivamente un’esperienza da rifare, anche se si può dare decisamente di più.

locale di gran successo, aperto ogni sera fino a tardi, propone pizza a volontà, compresa la prima consumazione di drink, per 12 euro e 50. Le successive bevande si pagano. Giovani camerieri volonterosi servono in continuazione ai tavoli (da prenotare parecchi giorni prima, neanche fossimo al D’O’ del mio amico Oldani) porzioni di pizze ai gusti più disparati (napoletana, pugliese, gamberetti e rucola, prosciutto, gorgonzola, pancetta ecc ecc) fino a che, in preda allo sfinimento, il cartellino verde presente su ogni tavolo, da verde viene posizionato dal cliente sul rosso. Basta, fermatevi, non ce la facciamo più! A detta dei consumatori intervistati, la pizza “è di ottima qualità”. Noi rimandiamo il giudizio all’amico Gabriele Ancona, che scrive su un giornale dedicato proprio alla pizza. Di certo se ne intende più di noi. Sulla ragionevolezza dei prezzi, comunque, non si discute. Chapeau.

dai primi (tagliolini agli scampi, spaghetti al cartoccio, risotto ai frutti di mare) che prediligono l’utilizzo di pescato giornaliero (siamo a un’ora di strada dal mercato ittico di Milano, ma anche Lecco è una buona piazza). La gestione del locale punta sulla qualità, anche per le carni: da provare la cotoletta alla milanese cotta nel burro chiarificato (costa un terzo di quanto la paghereste a Milano, ed è sorprendentemente buona). Ristretta ma mirata la selezione dei vini. Corretto il servizio. Incredibili i prezzi: sotto i venti euro per un pasto corretto e ragionevole. (P.F.)

LA LOCANDA DI MR BROWN Via Cadore, 928041 Seregno (MB) 0362 1788199 www.locandamrbrown.it

Locale multifunzione, con offerta segmentata: enoteca, ristorante, pizzeria. Ma è riduttivo relegare a questi pochi LA FONTANELLA Via Piave 8, 22030 Magreglio (Co) format l’attività del locale, nel cuore 031 965611 della Brianza: in realtà Mr Brown è molto di più. Potremmo definirlo un www.ristorantelafontanella.net luogo di aggregazione enogastronomica, vista la quantità (incredibile) di opportunità che vengono offerte alla clientela. Chi vuole capire bene cosa significa il Pensate al menu: prima della classica concetto di “prezzo-qualità” deve assolu- elencazione delle voci dei piatti, c’è tamente entrare in questo locale. Alla una lunga serie di “microesperienze” Fontanella ci si rende conto dell’impegno che, per soli 5 euro, consentono di prodi uno chef che esordì, trent’anni fa, vare diversi gusti e differenti materie come membro della brigata del Villa prime (carni crude, carni cotte, pesce d’Este di Cernobbio, il mitico 5 stelle sul crudo, salumi, formaggi, pasta). Un lago di Como. Qualcuno obietterà che di modo di valorizzare la propria cucina, lì ci sono passati in molti e che la scuola ma anche un biglietto da visita che del grande Parolari (l’executive dell’hotel può poi preludere ad esperienze più inche proprio quest’anno andrà in pensione) teressanti: non mancano i piatti-banTROPI & CO. Viale Ortles 31, 20146 Milano assicura porte aperte dovunque. È vero. diera, simbolo di una linea di cucina www.tropi-co.com Ed è altrettanto vero che Alfonso Catania, tutta italiana, trasversale alle più note chef de la Fontanella, propone piatti sem- cucine di impronta regionale. plici e curati, con attenzione estrema alle Da provare fra gli antipasti il polpo alla materie prime e con un occhio rivolto al brace in crema di ceci e patate, fra i Un nuovo modo di mangiare la pizza, se- contenimento dei profitti. Per questo il primi le orecchiette con i friarielli, pocondo quanto dicono sul loro sito web locale ha successo, soprattutto fra i modori confit e pane grattugiato crocgli imprenditori che hanno dato vita a milanesi che, soprattutto nei fine-settimana, cante, fra i secondi le ottime carni (di questa catena di successo con locali a popolano il paese di mezza montagna, a razza Limousine) proposte in molte vaRovato, Brescia, Treviglio, Brembate di dieci chilometri da Bellagio. I piatti proposti rianti. Prezzi micro per un’esperienza Sotto, Osio Sopra. Tropi & Co. è la non sono necessariamente del territorio: interessante e, a suo modo, molto “raclassica pizzeria da “adunata oceanica”: qui c’è molto pesce di mare, a cominciare gionevole” (C.R.) Artù n°48

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