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VITADAMANAGER L'ALTRA FACCIA DELLA FORMAZIONE
by Economy
Dal metodo Toyota allo Structogram fino allo yoga della risata: manager ed executive ricorrono sempre più spesso a metodi alternativi per completare il percorso accademico e acquisire skill trasversali
Èl’assillo di tutti i formatori professionali. L’adulto, a differenza di un giovane studente, vuole sempre sapere l’obiettivo immediato per il quale sta seguendo un corso, spendendo tempo e denaro. Messa così magari è un po’ brutale, ma senz’altro è sincera. Quando affronta un corso di formazione, infatti, il manager lo fa per risolvere un problema specifico, soddisfare una esigenza immediata, colmare una lacuna ben definita. E, avendo esperienza del pro- prio lavoro, può verificare in tempo reale (o comunque ritiene di poterlo fare) se ciò che gli viene insegnato gli serve realmente. «Ciò che caratterizza la formazione per adulti, spiega Andrea Bet, consulente aziendale e formatore, Ceo della LeanBet di Bologna, è proprio questa differenza di paradigma: l’adulto vuole capire fin dall’inizio come trasformare ciò che impara in azioni concrete, da utilizzare in tempi brevi. Quindi occorre segmentare l’insegnamento su tre livelli: in primo luo-
I COLORI DEL METODO "STRUCTOGRAM"
Come strumento, si presenta come un semplice disco diviso in tre zone eguali: una blu, una verde e una rossa. Ma dietro a questa tripartizione si schiude tutto un mondo, ossia il nostro sistema biologico di percezione, individuazione e gestione dei nostri bisogni profondi ricorrenti e stabili. «Il disco, simbolo del metodo Structogram, è parte iniziale ed essenziale del percorso didattico-formativo realizzato dall’antropologo tedesco Rolf Schirm e dal pioniere della didattica Victor Bataillard, fondatori dell’Istituto di Analisi Biostrutturale elvetico Ibsa (Structogram International) operativo in tutti i continenti», spiega Guido Di Martino, a.d. di Structogram Italia. «Structogram si basa sul principio che, dal nostro sistema encefalico (biostruttura cerebrale) dipendono le strategie biologiche che influenzano in modo persistente il comportamento.
Lo scopo del metodo, la cui applicazione deve essere guidata esclusivamente da trainer specializzati e autorizzati, è semplice: differenziare ciò che siamo predisposti a essere da ciò che abbiamo imparato a essere. Comprendere i principi e gli ordini di funzionamento che più rispondono alle nostre esigenze di autenticità significa non solo disporre consapevolmente di istruzioni relative alla gestione delle nostre forze innate, ma anche di classificare correttamente indizi che riguardano le relazioni con gli altri e con i loro moventi celati dietro le maschere sociali».
Una volta classificati i fattori rilevanti delle diverse biostrutture, partendo dalla conoscenza della propria specificità, le interazioni con gli altri, a livello di relazione professionale o affettiva, assumono la rilevanza che dovrebbero avere, sul piano della fiducia e della reciprocità. go, cosa fare, in secondo luogo come farlo e infine (soprattutto) perché farlo».
«Le basi di questo metodo sono volutamente semplificate per consentire a chiunque l’accesso alle informazioni con cui i comportamenti connaturati (spesso diversi da quelli abituali) possono essere rintracciati», prosegue Di Martino. «Le esigenze di sicurezza, di gratificazione e di prospettiva accomunano tutti gli esseri umani, ma in misura diversa. La semplificazione attraverso i colori permette di fissare concetti molto complessi in modo rapido. Ogni ambito cerebrale è responsabile di specifiche strategie. Il tronco cerebrale è rappresentato dal colore verde, associabile all’armonia, alla semplicità, alla quiete, alla socialità, all’integrazione. Il diencefalo e rappresentato al rosso, colore delle pulsioni, dell’esuberanza, della fattività, dell’energia. La neocorteccia, infine, al blu, colore della logica, dell’astrazione, del distacco, dell’analisi. Il temperamento umano è il frutto dell’interazione di tutte le forze collegate a questi tre ambiti e la sua influenza è rintracciabile proprio in funzione di questa combinazione. Così si spiega, per esempio, il fatto che persone diverse danno risposte diverse a uno stesso stimolo, concetto». Attraverso l’esecuzione del protocollo di autoanalisi, si ottiene il profilo della propria biostruttura, fondamentale per comprendere il rapporto con sé, con gli altri e con i propri obiettivi, a ogni livello: «per negoziare, convincere, risolvere o evitare potenziali conflitti, il punto di partenza è la corretta valutazione della nostra e dell’altrui soggettività. Noi siamo unici e così anche gli altri».
Peraltro, oggi, forse più che in passato, l’esigenza di formazione e aggiornamento, a tutti i livelli, è molto sentita. Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno indotto, e in certi casi accelerato, forti dinamiche evolutive nel mondo del lavoro e non solo, senza contare l’irruzione sulla scena delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale. Tutte sfide che mettono ogni giorno a dura prova anche i manager più navigati ed esperti, che sentono quindi il bisogno di dotarsi di strumenti adeguati a gestire e governare il cambiamento, partendo prima di tutto da se stessi. Ed ecco allora che entrano in gioco metodologie di training che si pongono l’arduo compito di rispondere alle richieste espresse dal manager-allievo, ma anche di soddisfare esigenze che, a volte, il manager stesso non sa di avere.
Per questo motivo, molte tecniche di formazione prevedono il ricorso a strumenti che esulano dalla docenza tradizionalmente intesa, mescolando sapientemente diversi livelli di intensità didattica, alternando momenti più densi di contenuti con fasi di leggerezza e di divertimento, che scarichino il senso di fatica e agevolino l’acquisizione dei contenuti. «La formazione ideale, aggiunge Bet, deve essere essenziale, agile. O, come si dice: lean. Un risultato che si ottiene eliminando quanto più possibile gli elementi che non possono essere messi a valore».
Un altro fattore importante è il collegamento della formazione teorica con l’esperienza. Non si tratta peraltro di un approccio nuovo, anche se naturalmente è stato via via adeguato alle esigenze del nostro tempo. Le sue radici risalgono infatti da un lato al metodo americano Training Within Industry, concepito e messo in pratica addirittura durante la Seconda Guerra Mondiale e poi ripreso e arricchito da Toyota negli anni Sessanta, e dall’altro nel cosiddetto cono dell’apprendimento di Edgar Dale Ma qual è l’atteggiamento dei manager di fronte a metodi di formazione non convenzionali? Sono disponibili a fidarsi e affidarsi? «La domanda invita a una risposta non proprio scontata», spiega Guido Di Martino, amministratore delegato di Structogram Italia (vedi riquadro), Iabi Istituto Analisi Biostrutturale Italia di Affi (Verona), «poiché più che gli strumenti è la percezione della dimensione umana e soggettiva a essere cambiata negli ultimi decenni. In piena era industriale, che io definisco l’era del processo e della cultura organizzativa, era molto presente un approccio strutturato ai compiti, con una predilezione per la funzionalità piuttosto che per la produttività personale. La produttività era per lo più intesa come risultato di un processo. Oggi, la produttività integra anche una condizione dell’essere che influenza anche la qualità e la quantità della produzione».
«Uno dei primi compiti del formatore», aggiunge Giorgio Carnesecchi, trainer inter- nazionale, titolare di Aria Studio di Arese (Milano), «è proprio quello di fare capire ai manager che l’obiettivo aziendale da perseguire può essere raggiunto in modo più efficace intervenendo sulle cause invece che sugli effetti, ossia sul benessere delle persone invece che sugli aspetti più specificamente legati alla professione. Se suppor-
E POI C'È LO "YOGA DELLA RISATA"
C’è anche chi, per formarsi, sceglie un’altra strada, divertente ed efficace. Si chiama Yoga della Risata e la sua pratica consente di aumentare la creatività, l’attenzione e la resa sul lavoro, oltre a creare un ambiente positivo, costruire un buon spirito di squadra con i collaboratori, prevenire e sciogliere i conflitti. E come si ottiene tutto questo? Attraverso una serie di tecniche yoga che, partendo dalla respirazione diaframmatica profonda e dal rilassamento, arrivano a costruire una vera e propria tecnica della risata.
«Noi partiamo dal concetto che, per quanto ben strutturato», spiega Sonia Morgese, counselor professionista avanzato aziendale e famigliare, titolare del Centro “Armonia del Giglio” di Muggiò (MB), «il nostro cervello non è in grado di distinguere tra risata indotta e risata volontaria e perciò entrambe possono produrre gli stessi benefici». Quindi, se è vero, com’è vero, che il riso fa buon sangue, la pratica di questa tecnica, ideata a Mumbai da un medico indiano, Madan Kataria, porta notevoli giovamenti alla salute psicofisica: in una risata, tutto l’organismo è coinvolto: arriva più aria nei tate da una adeguata consapevolezza delle proprie capacità, infatti, le persone hanno un rendimento migliore in qualunque ambito si impegnino e in ogni settore. Per ottenere questi risultati, occorre quindi una combinazione di strumenti, che tengano conto delle richieste del cliente e delle sue reali esigenze». cellule del corpo, rafforzando le difese immunitarie”. Acquisire la capacità di ridere fuori dagli schemi comici, tuttavia, non è semplice, perché è necessario imparare a scollegarsi dal mondo razionale in cui viviamo, soprattutto in ambito lavorativo. «Ecco quindi che il teatro diventa grande maestro di questa attività, prosegue Morgese, con esercizi ispirati proprio alle tecniche di improvvisazione polmoni e la circolazione sanguigna trasporta il nuovo ossigeno a tutte le teatrale». La risata viene quindi indotta e praticata come un esercizio fisico, anzi come un vero e proprio esercizio aerobico, visto che si attivano profondamente i muscoli addominali e si alternano le risate con esercizi di respirazione profonda, tipici dello yoga (pranayama): «Poiché la pratica dello Yoga della Risata è collettiva, attraverso il contatto visivo e la riscoperta della giocosità, la risata in poco tempo si trasforma e diviene autentica. Si comincia per finta e si finisce con il ridere per davvero e la risata diviene un mezzo grazie al quale si liberano le emozioni, si sciolgono i blocchi psicologici ed emotivi e, soprattutto, si smette di essere giudicanti aprendosi all’accettazione dell’altro e del proprio cambiamento positivo».