n. 1-2 gennaio/febbraio 2010

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l’immagine di ordine e di pulizia, mica una sciattona. Era una bambina? Una giovane? Una madre? Non è più e non è mai stato importante. Ma ci dice che quella donna non era trasandata, per quanto le era permesso, nemmeno in quegli ultimi giorni che mai avrebbe pensato sarebbero arrivati così, strappata a tutto ciò che le era caro e in cui tutto veniva a cadere. Le foto sul muro

vittime dell’Olocausto: erano persone come noi non numeri tatuati o cifre in un lugubre interminabile elenco. Di ognuno che è passato di qui, anche per pochi giorni o poche ore, prima di svanire nel nulla. Ma non sono numeri, non lo erano, erano persone e il loro sguardo è anche il mio, il nostro sguardo. Anche gli oggetti hanno in sé la parte di una vita di cui scandivano la quotidianità e che erano cari a qualcuno, di cui ci raccontano frammenti di piccole storie: quello scarpone semirovesciato di cui vedo la suola chiodata e il tacco rinforzato da una piastra metallica mi dice di inverni freddi, di strade ghiacciate e di lavoro all’aperto e del gelo tenuto lontano. Il bricco smaltato, verde pallido con una decorazione a fiori ha ancora il profumo del latte caldo appena versato che si mescola al crepitare del fuoco nella stufa. Una spazzola per pulire le stoviglie, di forma inconsueta, con il corto manico tornito in legno, mi parla di fiere di paese, di bancarelle dove scegliere proprio questa spazzola perché già la vedo ornare la cucina della mia casa che curo con l’amore e con l’orgoglio di una brava massaia; posso ancora udire il tintinnio delle stoviglie mentre si rigovernano nella penombra fresca di una cucina nel primo pomeriggio, mentre fuori splende un caldo sole estivo e tutto intorno tace, nella quiete di un pomeriggio qualsiasi di un giorno e di un anno che non so. E quelle due trecce mozzate, ancora strette con cura dopo più di mezzo secolo, che cosa mi possono sussurrare se non il desiderio di farsi bella, ordinata, curata, con attenzione e magari con il piccolo sacrificio che comporta tirare bene i capelli perché la treccia non si sciolga, e tanta pazienza. Ma alla fine la chioma è in ordine e c’è da essere orgogliose di presentarsi al mondo senza un capello che sfugga per dare 40

E poi il muro delle fotografie, quelle di prima, quando il mondo girava senza fretta e senza strappi, e ogni cosa sembrava dovesse fluire come sempre. Quanto sono simili a quelle che raccolgono gli album nelle nostre case, dove i nostri cari, le persone che vivono nella memoria della famiglia e nella nostra hanno voluto fermare proprio quel momento della festa, della gita, dell’allegria dell’emozione che era importante ricordare insieme magari anni dopo. Ecco, Auschwitz può e deve restituirci con forza queste vite spezzate: niente di umano ci deve essere estraneo se vogliamo che l’orrore non si ripeta. Vite macinate da quella macchina dello sterminio ma che si alzano ancora più forti dei loro carnefici e sono la nostra forza, ci danno forza: queste persone sono qui, con noi e in noi, non sono perse o svanite per sempre ci accompagnano ora e saranno nostre compagne nel nostro viaggio di ogni giorno a venire. Questo è il compito per i ragazzi del treno: portare avanti e diffondere questa fiamma di vita, come se partecipassero ad una gara di staffetta: ora il bastoncino del testimone è nelle loro mani lo devono stringere forte e poi passarlo ad altri. Al crepuscolo, al termine della breve cerimonia quando tanti nomi sono stati scanditi dalle nostre voci ed hanno ripreso ad essere, nella luce incerto e nel vento gelido, la nostra lunga fila che cammina sul marciapiede della selezione verso l’uscita dal campo, verso la porta spalancata attraverso la quale entravano i treni della morte, appare come una folla di persone che abbandona il Lager da cui si usciva solo attraverso il camino e che supera il cordone degli aguzzini con i fucili spianati, non viene trattenuta da fili spinati e riflettori. In un attimo il tempo non esiste più e le vittime di allora tornano, tornano alle loro case, ai luoghi che li hanno visti crescere e ad una vita che era. Questo attraverso di noi e attraverso il treno della memoria; ce li porteremo a casa come un dono prezioso. Adriano Tomasi n.1-2 gennaio/febbraio 2010


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