Edel abstract n 5

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edel

STR ACT

SEMESTRALEDI PRATICACRISTALLINA

I

ANNO 4 APRILE 2016

in rete con

08 - 17

07 / 2016

RACCONTI DEL NOTTURNO SILVIA BOTTIROLI

NIGHT TRIPPER In uno spettacolo di qualche anno fa, Night Tripper, la coreografa norvegese Ingri Fiksdal invitava il pubblico a salire su di un autobus che lo avrebbe accompagnato, poco prima del crepuscolo, in una foresta. Qui, seduti su pietre e tronchi attorno a una piccola radura, gli spettatori avrebbero assistito alla danza di due figure femminili che, unite per la schiena e con i capelli lunghissimi a coprire il volto, avrebbero dato vita a un movimento ritmico ripetitivo, come fossero un unico essere bicefalo, mostruoso e bellissimo. La luce sarebbe calata lentamente, come accade ogni sera, fino alla completa oscurità; dentro alla quale – questo l’elemento più sorprendente, e forse più spaventoso, della serata – alle sue spalle il pubblico avrebbe sentito avvicinarsi un canto, che lentamente si sarebbe rivelato essere un coro e che avrebbe accompagnato l’ultima parte di questo viaggio nella notte. È un invito a immergersi nella zona indeterminata tra luce e tenebre anche quello del prossimo Festival di Santarcangelo, che propone un’idea di notte programmaticamente aperta alla dimensione dello sconosciuto, all’incontro con ciò che non esiste (ancora). Una notte di mostri più che di fantasmi: se il fantasma è una forma perturbante di presenza/assenza, un “non più” che non riesce a farsi “non ancora”, un soggetto che non appartiene al regno dei vivi ma mantiene un’identità e talvolta un nome, una storia e una nostalgia, il mostro, al contrario, non ha identità ed è inquietante proprio per l’impossibilità di riconoscerlo, dargli un nome, collocarlo in un ambito dell’esperienza. Il mostro è sempre nuovo, in questo senso, perché mette in discussione la nostra conoscenza dell’esistente e in un attimo, con la sua sola apparizione, spezza e ridisegna i confini del possibile. Alcuni di questi mostri li si incontra nella grande letteratura fantastica, da Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne alla Caccia allo Snark di Lewis Carroll. Due storie – tra le tante – dove il mostro si

rivela come una presenza che sospende l’incredulità e lascia senza fiato; e dove per incontrarlo occorre dotarsi di strumenti non abituali, perché non è con una mappa del mondo conosciuto che ci si potrà imbattere in una creatura misteriosa. Ed è un incontro al quale non si può essere preparati, per definizione: il mostro apparirà nel momento in cui non lo si aspetta, e avrà una forma che non si può ricondurre a categorie già note. Non sarà per metà toro e per metà pesce, non sarà simile a una balena ma molto più grande, ma sarà radicalmente altro, provocando uno spavento che è insieme una forma di irritazione e di curiosità, di paura e di fascinazione, e che risiede nel veder cadere tutte insieme le coordinate di orientamento e di lettura dell’esistente, e nel non averne di nuove. (E naturalmente, il mostro resterà tale fino a che non si sarà in grado di dargli un nome. Poi ci sarà bisogno di altri mostri se si vorrà ancora provare l’orrore e l’eccitazione di stare di fronte a qualcosa che non si sa dire). [...]

GIANCARLO PONTIGGIA

UNA SERA Se provo a ritornare a ciò che ero, prima di sapere cos’ero, e mi tuffo nell’acqua del tempo – non l’oceano del Vasto Tempo, ma la pozzetta minuscola della mia prima infanzia – una delle immagini che rivedo è la cucina di casa che affonda, poco a poco, nel grande buio della sera d’estate. Metter piede anche per un solo attimo sulla soglia dove il lume della stanza precipitava nell’inghiottitoio scuro della corte, dare un’occhiata al fico, al nespolo, al ciliegio – ombre frondose e selvatiche, mosse indolentemente da una brezza misteriosa – mi faceva sussultare: le ombre lunghe dei miei cugini, dall’altra parte della corte, comparivano e scomparivano nella fiamma calda e fiottante di un rustico camino di pietra. Quei pochi metri che ci separavano, erano popolati di qualcosa di remoto e arcaico contro cui, se avessimo tentato la traversata, avremmo rischiato di urtare, sbattendo contro i primordi della vita, contro tutto ciò che non era più e che pure continuava a vi-

vere, nelle fessure d’aria più densa della notte. Toccare le cose, sbatterci contro, urtare ed essere urtati, fuggire a perdifiato, ritornare dove eravamo già stati, era il nostro modo di fare esperienza del mondo, di sentirne il peso, il soffio frusciante e odoroso. Affondavamo nella materia delle ore, come cacciatori sulle orme di animali fantastici, inauditi e temuti. Camminare nel fuoco di un meriggio d’estate, era come sentire la vita che preme con le sue stoffe di ombra e di luce: lì, un grappolo d’uva era già Dioniso; le cose, in quel momento, parevano tutte sul punto di spaccarsi come un melograno, di sprigionare succhi e erbe magiche. Un uccello che spiccava il volo, era un segno propizio, una promessa di felicità. La notte, invece, quelle stesse cose – becchi, fronde, pietre, cielo – si metamorfosavano in qualcosa di ostile, di insidioso: pareva che partecipassero di un’altra vicenda, eguale e parallela, di cui non sapevamo nulla, e che forse era bene non sapere. Formule, scongiuri, nenie – che ripetevamo, spesso con il conforto di un cuscino sugli occhi, di una coperta salvifica – ben poco potevano contro le zaffate di materia scura, grezza, che salivano dal fondo della terra. Se fossimo stati più coraggiosi, avremmo cercato di dare un volto a quelle forme che gremivano l’aria della notte, e s’infiltravano nei cavedi delle stanze, nelle cantine della mente. Ma sapevamo – inconsciamente – che esiste un confine tra ciò che è bene conoscere e ciò che può solo ferire, sconvolgere. L’alba, con la sua luce argentea, già dissolveva ogni ombra, e noi rinascevamo ogni volta alla vita, alla potenza fisica e simbolica di un grappolo d’uva, di un fico dolcissimo e rugiadoso. Una sera, mio padre mi portò a vedere un film girato nella profonda, ancestrale campagna della Spagna franchista: un mondo in cui la fede cristiana pareva ancora impregnata di forze selvatiche, demoniche. Lì, tra le pieghe di quel film ruvido, tra le ombre di un povero monastero di provincia, in una soffitta dimenticata, un bimbo della mia stessa età parlava con Cristo sulla croce; e quel Cristo ligneo muoveva il suo braccio, si accostava a quello del bimbo che gli offriva del vino, del pane. Altro vino, altro pane. [...]

NUMERO 5

AB

SANTARCANGELO DEI TEATRI


DANIELE TORCELLINI

COSMETIC SURGERY, O DELLA APPROSSIMAZIONE ESTETICA DELL’ESSERE UMANO ALLA QUASI-COSA Mi accade, talvolta, aggirandomi annoiato nei territori più popolari del web, di imbattermi in carrellate di fotografie in cui sono impietosamente messi alla ribalta, e spesso alla berlina, volti e corpi di personaggi più o meno famosi il cui ricorso alla chirurgia estetica ha dato esiti di lirica intensità. Non è mio proposito stigmatizzare tali pratiche, se condotte in autonomia di giudizio e consapevolezza. Credo che ogni individuo possa disporre del proprio corpo liberamente fino anche alla trasfigurazione della propria immagine in quella di un quasi-vivo, quasiumano, frutto dell’ibridazione tra animato e cosa, tra natura ed artificio. Obiettivo delle riflessioni che seguono è proporre una contestualizzazione dei risultati estetici che tali pratiche - e forme affini della gestione del corpo umano - possono permettere di raggiungere, sulla scorta del concetto di perturbante, per come delineato in particolare da Ernst Jentsch. Volti femminili, per lo più, ma non esclusivamente. Dall’apparenza - sì - turgida, ma anche tumefatta. Con una fissità nello sguardo che è anche fissità di ciò che lo contorna, arcate sopracciliari, angoli degli occhi, fronte, profilo della bocca. Sproporzioni sgraziate o troppo aggraziate, espressioni attonite ed esplicite contraddizioni con un’età stimabile perché trasparente ai tentavi di ringiovanimento. Labbra troppo carnose, zigomi troppo sporgenti, colorito troppo abbronzato. Estremizzazioni iperboliche di un immaginario visivo e linguistico che ci viene trasmesso attraverso la promozione pubblicitaria di prodotti e trattamenti di bellezza. Quel contorno occhi che la crema presunta miracolosa non riesce poi realmente a preservare, non può altro che essere cementato, e dunque privato di vita - o diminuito di vita quanto meno - chirurgicamente, con conseguenze irrimediabili sulle espressioni facciali che a seguito dell’intervento potranno essere assunte. Perturbanti. Perché non più riconoscibili come naturali, tali da smorzare drasticamente la familiarità che un volto, tanto più se sorridente, trasmette. Il web narra le vicende della giovane Valeria Lukyanova e dell’altrettanto giovane Justin Jedlica. Questo, balzato alla notorietà per essersi volontariamente sottoposto a numerosi interventi chirurgici al fine di somigliare, quanto più possibile, al

bambolotto giocattolo Ken. La prima, attiva da anni in un percorso analogo verso la mimesi della bambola Barbie. Persone, umane, che, aspirando a divenire cose, assumono il perturbante aspetto della quasi-cosa, per una teatralizzazione compiuta della propria, ormai, quasi-vita. Se i due spiccano per la facile risonanza che il traguardo rappresentato da icone consolidate dell’immaginario collettivo ha garantito loro e per l’ossessiva perseveranza mostrata, altrettanto dirompente e perturbante è l’esercito di adulti, giovani e talvolta giovanissimi che quotidianamente riducono chirurgicamente le singolarità delle proprie forme. I volti così operati generano un doppio di se stessi in maschere, non più teatrali, che si moltiplicano, di persona in persona, in una ripetizione ossessiva di uno stereotipo a cui gli attuali canoni di bellezza suggeriscono di conformarsi. Siamo sull’orlo dell’abisso dell’uncanny valley, teorizzato da Masahiro. [...]

ALBERTO ZANCHETTA

ADVOCATUS DIABOLI Nel contraddittorio concetto di Un/Heimlich ritroviamo quell’indissolubile legame tra il perturbante e il piacere, la repulsione e l’attrazione, il patimento e il godimento, di cui l’arte pare essersi nutrita in modo compulsivo. Altrettanto incongrui sono i concetti di Bello e di Brutto che nel corso del XX secolo possiamo riassumere in alcune delle seguenti citazioni. André Malraux: «La gloria della parola Bellezza cessa con Delacroix. Courbet, perfino Corot, non diranno più: è bello. Diranno: va bene». John Berger: «Come mai le opere d’arte originali sulle prime ci danno spesso l’impressione di essere rozze e goffe e difficili da classificare?». Honoré de Balzac: «Un’opera importante suscita una sensazione sgradevole. Come se ci fosse qual­cosa di sbagliato». Clement Greenberg: «Tutta l’arte profondamente originale all’inizio sembra brutta». Armando Testa: «La legge del “se ti fa schifo è bello” la conosco da moltissimi anni e l’ho vissuta in pro­prio». Giorgio de Chirico: «È brutto! È moderno!». Arturo Martini: «Bisogna avere il coraggio del creduto cattivo gusto che diventerà poi opera d’arte». Le opere d’arte del passato si sono interrogate a lungo sulla bel­lezza, ma mai come nel Novecento si è principiato il discorso dal suo opposto. È come se nell’avvicendarsi del secolo scorso il Bello fosse stato frainteso a tal punto da convertirsi in Brutto; di contro, molta arte contemporanea muove i suoi passi proprio da ciò che è sgradevole, perverso, triviale, osceno. E poiché non è solo il Bello ma

persino il Brutto ad assecondare il gusto di un’epoca, tutti noi avremmo bisogno di un maggior numero di Écoles du Regard che ci insegnino a indirizzare lo sguardo (dopotutto ogni atto di visione è un giudizio intellettuale), e molte più Écoles du Sujet che ci aiutino a distinguere tra un buon soggetto e uno cattivo; ovviamente si dovrebbe trattare di scuole di pensiero, non di accademie. Questo accade perché gli artisti non sono tenuti a educare né a sedurre lo spettatore, han­no tuttavia il dovere di creare degli exempla, non certamente degli excreta. Sarà poi vero, come dice Jean Clair, che la nefandezza è considerata «la catego­ria privilegiata dell’arte di oggi»? La sentenza spetta sempre ai posteri. E talvolta ai postumi. Negli anni Quaranta del XX secolo, lo sfiduciato Cyril Connolly affermava che «oggi l’artista non può far altro che scrivere sull’acqua e costruire sulla sabbia». Ma se di nichilismo vogliamo proprio parlare, dobbiamo ricordarci che Friedrich Nietzsche individuava nella tensione creativa un recondito desiderio di distruzione. Ecco quindi riproporsi quella carica di ambiguità e ambivalenza che investe (ancora una volta) l’opera d’arte. La distruzione – non più soggetta all’ira incondizionata, al travasamento biliare cui gli antichi imputavano la parziale demenza – viene inclusa tra le sue forme di ri-generazione. Ad esempio, la vessazione dell’Erased De Kooning di Robert Rauschenberg o della übermalung di Arnulf Rainer non sono altro che un atto di “perfezionamento” anziché di “occultamento” o di “affossamento”. Costruire, decostruire e distruggere sono riconducibili a una matrice comune che non possiamo ignorare, e sarebbe alquanto pleonastico ribadire l’imperativo per cui nulla si crea e nulla si distrugge. Totum et nihil direbbero i latini, todo y nada gli spagnoli. Tutto e niente, ma la copula ambisce al Verbo sicché tutto è niente allo stesso modo in cui niente è tutto. Di questo l’arte ne risulta sempre in-formata. Una massima biblica ammonisce: ogni opera corruttibile scompare; chi la compie se ne andrà con essa [Ecclesiastico 14,19]. Assioma ribadito anche da Wyndham Lewis in tempi più recenti: «la MATERIA, se non vi è DENTRO una certa percentuale d’intelligenza, decade e marcisce». Questa Materia, di cui si serve l’artista e che il mercato dell’arte riduce a merce, è destinata a deteriorarsi in ogni caso, lentamente ma inesorabilmente, secolo dopo secolo. Malgrado ciò, Achille Bonito Oliva continua a ripetere che «l’artista spesso è un errore biologico rispetto all’arte che cerca immortalità nelle opere di turno». De facto, la creazione incarna un tentativo di durata – mai assoluto – misurabile secondo un elementare rapporto di spaziotempo, dualismo che George Kubler ha saputo esprimere con proverbiale acume: «Le cose occupano il tempo in una varietà di modi probabilmente non meno limitata dei modi in cui la materia può occupare lo spazio». [...]


MASSIMO G. EUSEBIO

IL DOPPIO PERTURBANTE TRA LETTERATURA, CINEMA E PSICOANALISI Il tema del «perturbante» trova una suggestiva e acuta trattazione nel celebre saggio Das Unheimliche, scritto da Sigmund Freud nel 1919, nelle cui pagine l’«inventore» della psicoanalisi passa in rassegna alcuni motivi, o eventi, capaci di ridestare nell’individuo il senso del perturbante, a cominciare da un caso esemplare individuato da Ernest Jentsch, nel suo Zur Psychologie des Unheimlichen (1906), in quella situazione di incertezza di fronte a oggetti inanimati che paiono animarsi. Ciò che corrisponde allo Unheimliche è l’ambiguità tra qualcosa che non è né completamente vivo né completamente morto, in cui la soglia tra la morte e la vita appare indefinita. In particolare, in questo studio che risulterà fondamentale per i successivi sviluppi dell’estetica psicoanalitica, Freud sottolinea come il termine unheimlich venga per lo più collegato a esperienze emotive non nettamente definibili, angosciose, inquietanti, «estranee» nel senso di insolite, e al tempo stesso familiari, intime: la parola tedesca unheimlich (in italiano «perturbante») è infatti l’antitesi di heimlich (da Heim che significa casa, e heimisch che vuol dire patrio, nativo), termine altrettanto ambivalente che dal significato di natale, domestico, familiare, passa talvolta a quello di celato, nascosto. Freud evidenzia altresì il legame del perturbante con l’angoscia infantile di perdere gli occhi e la vista, ben rappresentato nel racconto di Hoffmann L’uomo della sabbia (Der Sandmann, 1816), al centro del quale ricompare più volte un essere demoniaco che cava gli occhi ai bambini gettandovi dentro della sabbia. Il timore del protagonista Nathaniel di perdere il proprio sguardo viene interpretato da Freud come un sostituto dell’angoscia di castrazione posta in relazione al desiderio incestuoso che ne è alla base; e nel sostenere ciò il padre della psicoanalisi chiama in causa l’auto-accecamento di Edipo, atto che rimanda simbolicamente alla pena dell’evirazione. Ciò che rende ancor più palese il perturbante è il fenomeno dell’ambivalenza emotiva: il desiderio incestuoso mantiene intatta la sua fascinazione, ma scontrandosi con la proibizione si trasforma in elemento traumatico che segnala il «rimosso che ritorna». A questo punto si può comprendere perché l’uso della lingua permette al termine Heimliche di trapassare nel suo contrario Unheimliche: perturbante è «un che di familiare alla vita psichica [...]

estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione». Un rapporto, quello tra il perturbante e la rimozione, che chiarisce la definizione attribuitagli da Schelling, «secondo la quale il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato» (Freud, 1919, trad. it. p. 102), diventando così un’inquietante fonte d’angoscia. E, come scriverà di lì a poco Martin Heidegger in Essere e tempo (1927, trad. it. p. 236), «nell’angoscia ci si sente “spaesati”. [...] Ma sentirsi spaesato significa, nel contempo, non-sentirsi-a-casa-propria». Nel perturbante infatti vengono «a mediarsi due esperienze opposte: quella della familiarità più prossima e quella dell’estraneità più radicale» (Recalcati, 1996, p. 68). Questo, forse, spiega perché il nodo centrale del lavoro di Freud è costituito dal motivo del «sosia», o «doppio», che egli riprende dalle analisi sviluppate dall’allievo e collaboratore Otto Rank in Der Doppelgänger (1914). Una figura, quella del sosia, che nelle sue diverse conformazioni e gradazioni esercita più di ogni altra un’azione perturbante. Di fronte a esso il soggetto giunge a dubitare «del proprio Io o lo sostituisce con quello della persona estranea; un raddoppiamento dell’Io, quindi, una suddivisione dell’Io, una permuta dell’Io» (Freud, 1919, trad. it. p. 95). I[...]

sappia farlo con gesto diverso da quello con il quale si compra un oggetto. L’elemosina, quando non è soprannaturale, somiglia a un’operazione d’acquisto. Con essa si compera lo sventurato». Ancora dalla Weil: «La parola di Dio è silenzio». La funzione del marito si esaurisce nel momento in cui diventa padre. Complesso di Edipo rovesciato. «E un poeta non è un apostolo: non fa che esorcizzare i demoni con la potenza del diavolo». (Kierkegaard, Timore e tremore). Nell’epoca in cui trionfa la figura del parvenu non poteva che affermarsi la politica del Grande Piazzista. Quale felicità deve aver provato Pablo Casals suonando l’Andante della Sonata n. 1 in Sol per violoncello e pianoforte BWV 1027 di Bach, originariamente composta per viola da gamba e clavicembalo!

PASQUALE DI PALMO

«La letteratura è tutta una porcheria» asseriva Artaud. A quasi un secolo di distanza le cose sono sensibilmente peggiorate. Bisognerebbe mandare al macero la maggior parte dei libri che quotidianamente vengono pubblicati da editori che conoscono soltanto le regole del profitto applicate a un mercato che chiede di lèggere parole scritte con inchiostro color dello sterco.

VITA LARVARUM

Mi hanno massacrato. Devo accontentarmi di questi pensierini.

Gli uomini si dividono i due categorie: quelli che dividono gli uomini in due categorie e quelli che si disinteressano del fatto che ci siano uomini che dividono gli uomini in due categorie. Kierkegaard: «la fede comincia là […] dove la ragione finisce». «Alla fine del XVIII secolo sarà ormai evidente – anche se non in modo dichiarato – che certe forme di pensiero “libertino” come quella di Sade hanno qualcosa a che vedere col delirio e la follia; si ammetterà anche facilmente che la magia, l’alchimia, le pratiche profanatrici, e anche certe forme di sessualità, sono direttamente apparentate alla sragione e alla malattia mentale. Tutto ciò sarà considerato come uno dei più importanti indizi della follia e prenderà posto tra le sue manifestazioni più essenziali. Ma affinché si costituissero queste unità significative ai nostri occhi, è stato necessario che il classicismo sconvolgesse i rapporti tra la follia e tutto il dominio dell’esperienza etica». Foucault, Storia della follia nell’età classica. Trascrivo questo brano di Simone Weil da Attesa di Dio: «Non stupisce che un uomo provvisto di pane ne dia un pezzo a chi ha fame. È invece stupefacente che

Adula esclusivamente quelli che lo possono aiutare a raggiungere una posizione che gli permetta di farsi, a sua volta, adulare. Il mendicante sorridente a cui fai l’elemosina proprio perché non chiede nulla. Perché accontentarsi di questo stillicidio di parole? La fotografia dello studio di De Pisis in cui si vede, oltre al pittore, un pupazzo seduto con le sue fattezze. Materiale per autoritratto? Bisogna svincolare il pensiero della creazione dal pensiero della pubblicazione. La vita approssimativa delle larve. Ogni pensiero è strappato per i capelli al mulinare vorticoso dei giorni. Disquisisce contro l’inanità del mondo. Poi, per vendere una manciata di copie in più, spaccia i propri saggi per romanzi. Costretto a muoversi nell’angustia di un bassorilievo, sotto il peso opprimente di cieli di marmo. [...]


Usai come binocoli le vertebre di Boris Paternak – pervadendo di ombre la sua intima, intimata felicità. Un ramo di albicocco trapuntato di fiori. Sembrano occhi. Può essere più importante dell’uomo che proprio ora, dal Mediterraneo è arrivato alla meta della morte, lasciando case sumere, assire, luoghi dedicati alla regina di Saba? Il poeta osserva le ere su quel ramo. Ed è lì – tutto – lì. Quando pensa di dover impegnarsi nel mondo, bagnandosi le labbra con parole di salvezza, si smarrisce. Lo scrittore che pensa di poter salvare una vita raccontandola non è perturbante – è un cretino. L’artista deve ostinatamente restare ancorato al proprio compito – a costo di essere preso per un cretino. Negli occhi di un migrante, di uno scampato, vede lo stesso ramo di albicocco. Non c’è freno alla ferocia – la pietà è un atto estetico, necessario ai soli fini della riuscita dell’opera. Quando l’opera è compiuta, l’indifferenza plana sugli indifesi. Un’opera degna chiede in dote una vita – quella di chi la opera. Per questo lo scrittore è inerme di fronte ai giudizi, agli aggettivi, a chi lo adopera. Può sembrare cattivo, innocente, provocatore – è semplicemente altrove.

DAVIDE BRULLO

HO VISSUTO DUE VOLTE LA VITA DI PASTERNAK Dal perturbante – purtroppo – siamo passati al conturbante. Ogni categoria è sconfitta, ogni sano giudizio è sopraffatto. Secondo Leopardi, due secoli fa, la fortuna di un’opera d’arte era determinata soltanto dal caso – ora, dal profitto, e da proficue amicizie. Cosa è “buono”? Non lo sa l’artista – gettato oltre i giudizi di questo millennio che gli appaiono come archibugi glassati di miele nell’era delle sonde aereospaziali e delle gite nei buchi neri – non lo sa lo spettatore – che è prono a tutte le promesse – non lo sa l’intellettuale – che ha spacciato la propria libertà per uno stipendio e un trono in Parlamento. Il perturbante ci ha penetrati – non perturba più. Gli artisti non vogliono il riconoscimento – premio per i fantocci. Cercano l’irriconoscente.

Questo numero nasce in rete con

Edel è il bollettino di

SANTARCANGELO DEI TEATRI

Calligraphie (con)temporary art&books www.calligraphie.it calligraphie@calligraphie.it

08 - 17

S E M E S T R A L E D I P R AT I C A C R I S T A L L I N A

ANNO 4 I APRILE 2016

07 / 2016

Hanno collaborato alla realizzazione

ISSN 2385-0094

© Tutti i diritti riservati

di questo numero Claudio Ballestracci, Roberta Bertozzi, Francesco Bocchini, Silvia Bottiroli, Davide Brullo, Pasquale Di Palmo, Massimo G. Eusebio, Paolo Febbraro, Giancarlo Pontiggia, Massimo Proli, Daniele Torcellini, Alberto Zanchetta

Si ringrazia Ferramenta Moreno & Co. – Gambettola

Progetto grafico e impaginazione

NUMERO 5

RACCONTI DEL NOTTURNO

Boris Pasternak soffriva di insonnia da un anno – perciò la Cvetaeva lo fissò come si guarda un albero. Il 25 giugno del 1935, al patetico ‘Congresso per la difesa della cultura’, disse che la poesia “giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee; essa rimarrà sempre la funzione organica dell’uomo”. Abituati a gesti cubofuturisti e a proclami avanguardisti, i convenuti non capirono perché le parole di Pasternak fossero perturbanti. Naturalmente, nacquero occhi di Sciti e pianure adatte ai ghepardi nel loro cuore. Secondo Pasternak, l’arte proviene dalla felicità. Ma è la felicità, allora, a perturbare. Pasternak continuò a coltivare la propria felicità, imperturbabile come un dio, mentre tutti intorno a lui morivano. Un uomo restò ad ammirare lo svolgersi della fioritura, lungo il ramo, simile al movimento di un serpente, mentre altri uomini intorno a lui, chiedendogli aiuto, morivano. [...]

L’opera manifesto è di Denis Riva Per questo numero di Edel l’artista ha realizzato inoltre 5 manifesti originali e 10 carte stampate a mano da matrice in linoleum

LampeStudio – Cesena lampestudio@calligraphie.it

Euro 5,00


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