Edel abstract n 3

Page 1

edel

STR ACT

SEMESTRALEDI PRATICACRISTALLINA

I

ANNO 3 APRILE 2015

in collaborazione con

MÀNTICA | Stele di Rosetta

LA LEGGIBILITÀ DELL’OPERA D’ARTE Un’opera d’arte ci dovrebbe far capire, sempre, che non siamo riusciti a vedere quello che vediamo. Paul Valéry

Questo numero di Edel è interamente dedicato alle riflessioni e ai contenuti emersi durante la settima edizione di Màntica, festival della Socìetas Raffaello Sanzio, per la direzione artistica di Chiara Guidi, tenutosi al Teatro Comandini di Cesena nel dicembre 2014. La scelta di raccogliere parte degli atti di pensiero della rassegna, che da quest’anno converte la sua natura in osservatorio sperimentale sulle arti e sulle dinamiche della loro ricezione, nasce nel solco di una urgenza teorica condivisa, che riguarda la questione della leggibilità dell’opera d’arte. Partendo dalla metafora della Stele di Rosetta, la cui decifrazione fornì la chiave interpretativa dei geroglifici, e dalla considerazione del filosofo Friedrich Schlegel, secondo il quale questa scoperta avrebbe determinato un impoverimento dell’arte combinatoria della fantasia, la domanda verte sulla possibile esistenza di una prassi critica alternativa, che scostandosi dal modello analitico – la pura e semplice decodificazione del messaggio – mette a fuoco un diverso perimetro, una modalità di avvicinamento al fatto artistico capace di preservare tutta quella complessità di segni e sensi che esso è in grado di sprigionare. Alcuni degli studiosi invitati, cui era stato assegnato il compito di proporre il lavoro di altrettanti artisti, hanno proseguito con noi il dialogo, ragionando sulla relazione che passa tra opera, interprete e spettatore, indagando quella soglia che si pone tra la percezione di una immagine e la sua dicibilità. In altri termini: come declinare l’impressione in struttura di pensiero, senza scadere in un bieco formalismo? È ancora necessaria una mediazione critica per incontrare l’opera?

ROBERTA BERTOZZI

DOVE SI ACCENDE UN FUOCO E se sì, in che termini dovrebbe esplicarsi la sua azione? Quale differenza passa tra la leggibilità dell’opera e la sua intelligibilità, tra lettura e interpretazione? Può l’opera farsi ascoltare indirettamente, entrando in un sistema di partecipazione, intercambiabilità, circolarità, senza tuttavia rinunciare alla sua distanza? [...]

CHIARA GUIDI

LA FORZA DELL’ANACRONISMO

Il tema di questa edizione di Màntica è l’interpretazione dell’opera d’arte. In che termini avviene questa esperienza rispetto ai linguaggi artistici contemporanei? Per risponderti mi colloco nel luogo a me più congeniale, il palco. E lì distinguerei interpretare un libro dal leggere un libro. Il titolo di Màntica parla della leggibilità dell’opera, della sua possibilità di essere letta, cosa diversa dall’interpretazione. Credo che nell’interpretazione avvenga un movimento, uno spostamento da una parte all’altra. Dallo spazio dell’opera a un altro spazio possibile dell’opera stessa. Nel mio caso dal libro al palcoscenico. Per farlo ho bisogno di aprire un varco e far uscire

qualcosa che abbia la consistenza dell’aria. Nulla di più. Ma quell’aria riguarda il presente che era nel passato di quel testo scritto. Quel passato aveva il mio presente. È la forza dell’anacronismo. Un presente che diventa inattuale perché mette in scena il passato tradito dalla messa in scena del presente. Tempi che si incontrano. Arie che si spostano e che la mia coscienza vigila, compone. Quando leggo un testo sul palco accade altro. Ad esempio lo spazio scenico può non essere apparecchiato. Non sostituisco le parole con una luce. Non le trasformo in un movimento del corpo, in un costume, ma consegno le parole al suono della voce e, in questo modo, affido il senso alla musica. Pur ripetendo esattamente ciò che l’autore ha scritto, attendo che nella voce qualcosa accada. Leggere ad alta voce un testo significa stare vicini a quanto si ascolta. La distanza tra la vista e le parole è breve. E le parole sono viste con la lente. Le sillabe si fratturano, si creano faglie e le singole lettere mi dicono dove collocare il respiro. Ho sempre la sensazione che quando leggo mangio parole succulenti. La mia voce porta un suono che assapora. La tua ne porta un altro. L’esperienza di questa differenza è la questione di Màntica: “Tu che cosa hai visto? Leggi e poi dimmi quello che hai visto. Descrivi ciò che hai avuto vicino. Cerca le parole per dirlo. Leggi e racconta”. La lettura viene prima del racconto. E’ una lettura silenziosa di quanto è accaduto in relazione a colui che ha visto. Màntica interpella lo sguardo dello spettatore. Lo fa lavorare. Io ho bisogno di un pubblico che si prenda la responsabilità del guardare, del leggere e del raccontare. Lettura e interpretazione hanno molte cose in comune. Forse, la più importante, è la scelta di un linguaggio e questo linguaggio diventa un modo di vedere il mondo, o meglio il mio modo di vedere la realtà, ciò che è estremamente adiacente e, per questo, invisibile. Per questo occorre cercarlo e leggerlo! [...]

NUMERO 3

AB

7ª edizione | dicembre 2014


GIOVANNI LEGHISSA

UNA ESPERIENZA EXTRAMETODICA DELLA VERITÀ Tu sostieni che l’arte si configura come una esperienza extrametodica della verità, una forma di conoscenza sui generis... Siamo stati abituati a pensare che la sola fonte di verità sia la scienza come insieme di conoscenze vere e giustificate, dove il participio passato “giustificate” è essenziale. Il punto è che noi viviamo con poche verità. È vero che abbiamo bisogno della scienza in tutta una serie di ambiti, soprattutto in quelli nei quali non siamo in grado di arrivare da soli alla verità. Ha senso poi parlare anche di verità nel campo delle scienze umane, con metodologie diverse. Dalla storiografia, dall’antropologia, dalla sociologia traiamo indicazioni decisive per sapere chi siamo, da dove veniamo, come si costruisce l’identità collettiva... Tuttavia noi viviamo con scarsi contenuti veritativi perché ne possiamo fare a meno. Le persone non s’interrogano sulla verità di ciò che fanno, e anche in tutta una serie di ambiti importanti della nostra vita facciamo a meno della verità. Qui entra in scena l’arte come esperienza extrametodica della verità, un’esperienza che ci fa accedere a una dimensione del reale che non è, come dire, ricavata da un metodo. Questo non significa che l’artista sia privo di metodo, assolutamente: in quanto artigiano deve padroneggiare gli strumenti tecnici della propria arte. Ma all’artista noi non chiediamo di essere un artigiano un po’ più bravo, gli chiediamo altro, di farci vedere cose che non si vedono. Un po’ tutta la riflessione novecentesca sull’arte, soprattutto nel periodo delle avanguardie storiche, concorda su questo: l’arte è una forma di straniamento, una forma di sospensione del reale per accedere a un altro modo di vedere il mondo, diverso da quello dello scienziato ma soprattutto, e questo è il punto chiave, diverso dal modo di vedere dell’uomo della strada. Noi tutti partiamo dal presupposto che alcune regole condivise siano rispettate per far stare in piedi un mondo in qualche modo sensato, abitabile. L’arte sospende questa ovvietà e ci fa accedere a un’altra dimensione. Nel tuo pensiero c’è una continuità tra conoscenza logica e analogica, quando affermi che non si dà teoria senza una mediazione di tipo simbolico. Tuttavia mi sembra che le arti contemporanee, o un certo tipo di arti, tendano a evitare la concrezione simbolica… Le arti si evolvono, ci sono state svolte epocali in questi ultimi decenni, e se guardiamo a tutte le avanguardie storiche l’idea dell’arte come critica sociale avveniva attraverso un uso pesante della metafora, dell’allegoria, della narrazione. Oggi mi pare ci sia un impoverimento del narrativo a favore di una presa diretta sul reale, tramite la perfomance, il video… Però credo che si continui a dare maggior credito

all’artista che comunque ci fa veder cose attraverso l’uso del simbolo, forse per un fattore antropologico, perché siamo naturalmente alla ricerca del simbolico. Ho visto di recente in una mostra a New York l’opera di un artista cinese: stava steso nella piazza Tienanmen e buttava il fiato per terra. È inverno, è freddo, il suo fiato forma la condensa e uno strato di ghiaccio, che però la mattina dopo verrà dissolto, così come quella volontà di costruire un altro mondo, quella debole resistenza al regime destinata a sparire. Fare questa operazione in quel luogo indica una dimensione metaforica molto forte. Non è un caso che noi siamo più attenti a questo tipo di espressioni artistiche che non al semplice video o alla performance che si risolve in se stessa e che ci lascia magari poco. Ma forse è un pregiudizio nostro…

ENRICO PITOZZI MARIA DONATA D’URSO

INTERROGARE LO SGUARDO

A partire dalla comune etimologia di theatron e theoria, le descrivi come “due forme che interrogano la visione”... E. P. Il punto di partenza il nostro modo in cui consideriamo la visione. Cosa si va a vedere a teatro? Siamo stati per troppo tempo abituati a pensare che lo “spettacolo teatrale” fosse una riproduzione della vita. Non è così: l’etimologia della parola teatro implica una visione altra, che richiama il mistero, proprio nel senso dei misteri eleusini – un vedere trasfigurato, che procede, ad esempio, per condensazioni. È interessante sollevare questa questione rispetto al lavoro di Maria Donata, dove il corpo è trasfigurato, dove ciò che vedi interroga il modo di guardare e l’idea di corpo. Perché, contrariamente a quello che ci viene detto, il corpo è un oggetto imprendibile. Pensiamo di comprenderlo nella sua totalità ma ne conosciamo solo il perimetro: ogni piega del corpo, ogni sua manifestazione, è sempre diversa. Mi sembra che qui ci sia il senso della dimensione teatrale concepita come dimensione del vedere qualcosa che è l’essenza, e sappiamo che l’essenza non si dà mai al primo sguardo, implica un viaggio. Quanto alla dimensione teorica, essa è l’individuazione attraverso uno sguardo allenato delle caratteristiche profonde di cui la materia è costituita. Una teoria è una forma di contemplazione: si contempla una dimensione che è celata dentro ciò che appare. Quindi è una forma di scavo. È un viaggio materiale perché ti sposti materialmente per vedere; tuttavia l’altro viaggio che compi è un viaggio metafisico, nel senso che ti conduce in profondità dentro le

cose. Giocare con le parole “teatro” e “teoria” mi sembra fondamentale, soprattutto in relazione a questa artista. Noi consideriamo la teoria come qualcosa di astratto, mentre è assolutamente concreta, perché prende in carico la possibilità di restituire una visione attraverso il linguaggio. M.D. D. Comunque é un viaggio sincronico, dato che non c’è separazione tra guardare e riflettere… Fra l’altro le nuove teorie scientifiche spiegano che Il cervello non é l’unico luogo privilegiato del pensiero. Quando si pensa ci sono zone corrispondenti agli organi digestivi ad esempio che si attivano, e questo rovescia tutto lo schema occidentale. Stiamo arrivando a delle conclusioni simili alla visione energetica cinese del corpo, dove le corrispondenze sono più complesse. La nostra tradizione ha invece scelto la specializzazione, separando le cose per oggettivarle, per dare rilievo all’oggetto e non alla funzione. Così si studia il cervello come organo, mentre nel cervello non c’è un archivio d’immagini, la memoria si ha solo nel momento in cui si collegano degli impulsi percettivi e questi formano un ricordo. E. P. Altra cosa fondamentale: ogni ricordo è proiettato in avanti, verso il futuro. Ogni ricordo si carica della tua condizione attuale, delle tue previsioni future, si colora in funzione di queste. Questo è un aspetto centrale dell’immaginazione, che permea qualsiasi cosa perché l’organismo non può non proiettarsi in avanti. È curioso come tutto questo trovi una condensazione nella forma del corpo. Qual è l’approccio di fronte a questo movimento? E. P. Quello di sentire che un processo è cominciato e solo in seguito viene orientato, controllato e ridiretto. Non a caso si è citata la Cina, il modello orientale è appunto quello di non fermare il flusso ma di orientarlo. La consapevolezza arriva in ritardo rispetto al movimento. Puoi decidere di inibire un’azione o di continuarla, ma non di farla partire. Questo rimette in equilibrio tutte le cose: ti fidi del corpo perché il corpo agisce indipendentemente da te, puoi solo seguirlo o fermare l’azione avviata. E a quel punto intervieni artisticamente, gli dai una forma. M.D. D. Durante il laboratorio parto da uno stato di ascolto, perché il movimento è già lì, bisogna solo levare quello che impedisce di metterlo in atto. Perché qualcosa di inedito possa apparire e avere una sua autonomia, tutto deve essere spogliato di ogni segno che codifichi la personalità, i condizionamenti, le differenziazioni... Spesso si cerca qualcosa di significativo per farne materia del proprio discorso, invece quello che mi interessa sono proprio gli elementi più contraddittori, che mi pongono delle domande: certi movimenti, certi legami... Solo partendo da là qualcosa si sviluppa. [...]


SANDRO PASCUCCI

DA UN PORTO A UN ALTRO

Nel presentare le tue scelte per Màntica sostieni che l’opera d’arte è simile a un viaggio, dove partenza e ritorno coincidono pur attraverso le modifiche date dall’interpretazione. L’interpretazione può essere dunque considerata come un’implementazione della realtà dell’opera? Se c’è un primato dell’opera d’arte esso tuttavia non garantisce la sua autosufficienza; è un primato relativo, e questa relatività è data dal fatto che l’opera ha sempre bisogno di una relazione. In questa relazione tra il sé e l’altro si pone il tragitto interpretativo, che è sempre strutturale, cioè è qualcosa che struttura l’esperienza di vita dell’opera. Le opere, come chi le crea e le percepisce, hanno una loro vita, hanno un percorso, hanno un tempo di vitalità e un tempo di letargo; oppure muoiono, per l’età o perché vengono distrutte, perché il loro senso di relazione si esaurisce o si interrompe… Nella Critica del Giudizio di Kant l’esperienza estetica si articola attraverso una componente conoscitiva, una emotiva e una di relazione e appartenenza: figure trascendentali contestuali e imprescindibili. In ogni percorso estetico c’è una dominanza affidata o alla componente concettuale, o alla componente sensibile emozionale o alla componente etica e morale. Tra le arti, la musica sembra essere quella che più si presta a questo tipo di dinamica, soprattutto perché l’interprete finisce per diventare in qualche misura il co-autore dell’opera. Convenzionalmente la musica appartiene a un linguaggio di tipo allografico: il compositore affida il “suo” spartito all’interprete/esecutore che lo affida all’interprete/ ascoltatore: c’è un transito interpretativo multiplo. L’esecutore ha una missione molto importante: raccoglie il testimone/ testamento del compositore e lo consegna, il più possibile fedelmente al pubblico; e paradossalmente più l’interprete è fedele allo spartito più è “autorevole” e “creativo” esso stesso. Direi che c’è una sorta di “extralocalità” tra il compositore e l’interprete, per citare un concetto centrale in Bachtin. Anche un’esecuzione che attraversa i generi – penso a Cathy Berberian che canta i Beatles come Monteverdi – alla fine è ricondotta sempre al suo spartito originario. La pittura, invece, è autografica:

il momento ricettivo di colui che guarda il quadro non ne mette in discussione la sua unicità sensibile e fisica. E la musica contemporanea, composta con gli strumenti elettronici e digitali abbandona il suo tradizionale status allografico e, per dirla con Nelson Goodman, sembra recuperare la sua originaria natura autografica; oggi si fa musica mentre la si compone e l’autore è, al tempo stesso, interprete; inoltre l’ingresso della tecnologia digitale ha annullato il “ponte” analogico che consentiva ampi margini interpretativi (gli strumenti tradizionali sono “solo” analogici). Torno ora alla metafora dell’interpretazione e fruizione dell’opera come viaggio, tragitto da un porto all’altro: se non avessimo cognizione di un porto dove arrivare, non riusciremmo a leggere l’opera e a interpretarla. In noi ci sono delle competenze che possono essere sedimentate dalla nostra formazione, dalla nostra storia, dalle nostre conoscenze specifiche, dai nostri ricettori sensibili, e tutti questi elementi rimandano a una abilità in questo viaggio ma anche alla possibilità di approdare di nuovo in un porto sicuro come quello della partenza, arricchito di tutti i rischi e le sorprese del viaggio. [...]

La tradizione può riemergere soltanto in ciò che ad essa spietatamente si nega. Th.W. Adorno

SIMONE MENEGOI ITALO ZUFFI PER DIVERSI GRADI DI AGONISMO

Nel vostro intervento l’opera d’arte viene definita come una risposta suscettibile di interrogazioni. Cosa viene chiesto all’opera? S. M. Che si dispieghi. L’arte è una risposta che aspetta la domanda, o meglio le domande, per dimostrare quanto è ricca, profonda e articolata. Senza quelle domande la risposta resta chiusa in se stessa. Non si rivela. Sono le domande che la rivelano come risposta. I. Z. Si pone il tema della qualità della domanda, dell’indirizzo che l’opera assume in

funzione di chi la interroga. La tesi che l’opera si presenti in sé già come una risposta è ardita ma la sostengo. Aggiungerei anche che l’opera riuscita non cessa di produrre risposte, quindi di auto-riprodursi: si lascia cioè sottoporre a una dinamica che non è in grado di esaurirla. La domanda che formulo funge allora da appagamento momentaneo, relativo a una specifica e circoscritta esperienza dell’opera. Si può parlare della presenza di una tensione agonistica sia per il momento creativo che per quello interpretativo? È una dimensione che ritrovate anche nel vostro lavoro? S. M. Ritrovo la dimensione di cui parli quando sono fortunato; quando sono alle prese con un’opera che chiede e merita di essere fronteggiata, cosa che non succede sempre. Per lo più le opere sono mansuete, addirittura addomesticate. Non capita spesso di sentire l’eccitazione che segnala l’avvicinarsi di un “agone” con l’opera, i tipici segnali che siamo di fronte a qualcosa che ci sfida. I. Z. Qui ci sono varie opzioni. Un primo grado di agonismo è riconoscibile nella pratica artistica stessa: quando un’opera entra nel mondo è già stata sottoposta ad agonismo in quanto i nostri processi interiori sono processi di scelta, fronti che si contrappongono per assegnare una forma. Un secondo grado sarà il fronteggiare l’opera, fisicamente, nello spazio: qualcosa che intenzionalmente si mescola al movimento e allo sguardo. (Un mio lavoro dal titolo Progetto per una barricata, consisteva in una serie di foto, in bianco e nero, di ragazzi in piedi, fermi in una stanza. L’evocazione della barricata era forse spiazzante poiché tra una foto e l’altra c’era uno scarto minimo, e niente nelle loro pose o atteggiamenti poteva suggerire uno scontro. La barricata pertanto stava quindi tutta nella possibilità di inciampo determinato dall’opera a parete, come qualcosa artificiosamente sistemato fra osservante e ogni altro possibile spazio). Riconosco infine un terzo livello di agonismo, che consiste in tutto ciò che ‘attende’ l’opera: le dinamiche a cui verrà assoggettata una volta uscita dallo studio – il modo in cui verrà maneggiata, posta in circolazione, letta. Si può dire: ciò che ne determinerà il destino. Sul grado interpretativo invece ho meno certezze, nel senso che è uno dei pochi luoghi in cui non avverto il bisogno di vincoli, corrispondenze o correzioni. [...]


DANIELE TORCELLINI

COMPUTER VISION, O DELL’AUTOMATISMO DELLA CRITICA ARTISTICA

Il mio computer vede. Sembra incredibile. E forse è solo l’inizio. Oppure è la fine? La pratica attributiva è un momento cardine dell’attività storico-artistica. Un processo cognitivo piuttosto complesso che ha origine dall’evoluzione della figura del conoscitore d’arte e che, con l’utilizzo della riproduzione fotografica della pittura, ha permesso la nascita della storia dell’arte quale disciplina scientifica. Il confronto. La riproduzione fotografica, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, diviene uno strumento essenziale nelle mani dello storico d’arte, consentendogli, con relativa facilità, di porre a confronto, le une accanto alle altre, opere note e opere sconosciute – o meglio, le immagini fotografiche delle une e delle altre – al fine di ricondurre le ignote sul più rassicurante binario di un nome, un pittore a cui attribuirle, o una scuola di appartenenza, un ambito storico

e geografico quanto meno. Già la stampa aveva permesso di fare qualcosa del genere. In tempi pre-fotografici si era soliti parlare – forse con più acuta consapevolezza – di traduzione, mettendo in campo un concetto che è l’ultimo anello di una catena che vede, prima, la lettura di un testo-opera e la sua interpretazione. L’incisore, dotato di occhio critico e raffinate capacità di analisi, poteva agevolmente sfruttare un codice condiviso con chi si sarebbe trovato a fruire le stampe da lui realizzate, per tradurre un’opera di Raffaello in una incisione da stampare in bianco e nero. Leggere un’opera di Raffaello – nei suoi valori dimensionali, compositivi, cromatici, di tessitura, di chiaroscuro – e tradurla con gli strumenti dell’incisore, ben lontani da quelli del pittore, nello spazio di un foglio, utilizzando un solo inchiostro. Il conoscitore avrebbe poi letto, a sua volta, la stampa ottenuta, per trarne informazioni sull’opera originaria, potendo – sì – anche mettere a confronto stampe di dipinti diversi, ma con tutte le incertezze di un procedimento manuale, che non avrebbero consentito di leggere – che so – l’impronta o il colore delle pennellate sulla tela originaria, limitando le informazioni desumibili all’iconografia, ai valori luministici, alla composizione e a qualche altro aspetto rigidamente formalizzato.

ANNO 3 I APRILE 2015

[...]

Questo numero nasce in collaborazione con

Edel è il bollettino di

MÀNTICA | Stele di Rosetta

Associazione Calligraphie www.calligraphie.it e-mail: calligraphie@calligraphie.it

7° edizione | dicembre 2014

© Tutti i diritti riservati

Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero Claudio Ballestracci, Roberta Bertozzi, Francesco Bocchini, Maria Donata D’Urso, Chiara Guidi, Giovanni Leghissa, Simone Menegoi, Sandro Pascucci, Enrico Pitozzi, Massimo Proli, Daniele Torcellini, Italo Zuffi

NUMERO 3

L A L E G G I B I L I TÀ DELL’OPERAD’ARTE ISSN 2385-0094

bravo, non può non mettere qualcosa di se stesso nell’operazione di traduzione, ma è uno strumento che risponde ad una stringente logica meccanicistica – quella dell’interazione fisico-chimica tra luce ed emulsione fotosensibile resa possibile dallo scatto della camera fotografica – a fornire un’immagine che lo storico d’arte può ora leggere con ottimistica fiducia. La fotografia è (appare) una fedele registrazione della natura: “Il pennello della natura”, titola un suo pionieristico libro fotografico William Henry Fox Talbot.

La fotografia appare sgomberare il campo da tutte queste incertezze. Non è più l’occhio critico di un incisore che, per quanto

Socìetas Raffaello Sanzio

S E M E S T R A L E D I P R AT I C A C R I S T A L L I N A

Un software può agevolmente confrontare, al nostro posto, un’immagine a noi ignota con altre e informarci sulla sua paternità. Non dobbiamo più leggere l’opera, il computer la legge per noi.

L’opera manifesto è di Claudio Ballestracci Della stessa opera sono state realizzate per Edel 10 varianti numerate e firmate dall’artista, incise su lastre in rame vetronite nel mese di marzo 2015

Con il patrocinio di Comune di Cesena Provincia di Forlì-Cesena Si ringrazia Ferramenta Moreno & Co. – Gambettola Progetto grafico e impaginazione LampeStudio – Cesena e-mail: lampestudio@calligraphie.it Stampa Sicograf – Cesenatico Euro 5,00


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.