Il suono dei giorni di pioggia

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Il suono dei giorni di pioggia di Manuel Bova © Manuel Bova

© 2025 Burno per questa edizione

Tutti i diritti riservati

Collana Narrativa, 4

Progetto grafico e cover design: Sebastiano Barcaroli

Impaginazione: Ruslan Viviano

Correzione bozze: Daniele Baroni

Stampato presso Rotomail Italia S.p.A. Vignate (MI) – DICEMBRE 2025 Burno

è un marchio in esclusiva di Solone srl Via Aversana, 8 –84025 Eboli (SA) burno.it @burnoedizioni #burno

MANUEL BOVA IL SUONO DEI

GIORNI DI PIOGGIA

Tutto questo non sarebbe possibile senza di te

Che mi leggi, che commenti, che mi mandi a quel paese.

Ci sono tante persone speciali che devo ringraziare ma un libro senza un lettore è solo un libro.

Invece tu ci sei, lo hai tra le mani e rendi questo cumulo di parole un viaggio che spero ti lasci qualcosa. Grazie.

- Sincera, niente giri di parole, dritta al punto come solo tu sai fare.

- Non saprei.

- Sei utile come un agapanthus per sconfiggere i vichinghi.

- Amedeo, ogni settimana la stessa storia: arrivi nel panico urlando che diventerai calvo e chiedi di controllarti la testa. Dopodiché ti siedi e io mi metto in piedi dietro di te a spulciarti come un macaco. Cosa ho fatto di male?

- Sei mia sorella, sangue del mio sangue, mi sembra il minimo.

- Non diventerai calvo.

- Non diventerò calvo… oggi.

- Nemmeno domani.

- Forse.

- Va bene, allora forse non diventerai calvo. Santa Brigida, ma si può vivere così?

- Diana, parliamoci chiaro, non è che hai tutta questa vita sociale, almeno ti do uno scopo.

- Lasciamo perdere, posso andare? Ho da fare.

- Immagino. Diana?

Niente, se n’è andata.

Ognuno ha le sue fisime, posso rinunciare allo stipendio, posso cedere il quinto, posso perdere a calcio balilla ma se mi immagino senza capelli mi sale l’ansia.

Non diventerò calvo.

Non oggi.

Nemmeno domani. Forse.

Mi prendo sempre qualche minuto prima di entrare in negozio. Una sorta di sala d’attesa o camera di decompressione, metto definitivamente da parte la colazione, il bagno e le confortevoli mura domestiche per buttarmi nella mischia di persone che non trovano il tasto d’accensione della televisione e restituiscono il router perché hanno perso la password.

Domiziana, il mio capo, definisce me e i miei colleghi l’ultimo baluardo prima del fallimento, la resistenza, la sottile linea rossa che demarca il confine tra un cliente felice e un cliente incazzato. Il cliente felice spende e sorride, il cliente incazzato urla e compra online.

Io trasformo il cliente incazzato in cliente felice, assisto, sorrido, accompagno e mentalmente mando a quel paese.

Alla MediaTech siamo tutti così, pusher di espressioni cordiali e campioni di cortesia apparente. Se un giorno scoprissero che i pensieri influenzano gli eventi metà dei nostri clienti passerebbe il pomeriggio con la diarrea.

Allora forza, Amedeo, indossa la tua miglior maschera di commesso gentile, imposta la voce, rilassa il viso e ricorda che per quei due spiccioli di stipendio non vale la pena rovinarsi il fegato. Via, si comincia.

- Scusi avrei bisogno di informazioni su…

- Non è il mio reparto.

Oppure faccio lo gnorri, che funziona sempre.

Mi piace la tecnologia, sono sempre stato appassionato e, da che ho memoria, smanetto con i computer.

Me la cavo anche come venditore, mi viene naturale, sono tra i migliori del reparto.

Non il migliore, ovviamente, troppa responsabilità essere un’eccellenza, meglio piazzarsi in una comoda alta classifica senza il rischio di risaltare troppo ma evitando il pericolo di incappare in malus e tagli di personale più o meno meritocratici.

Certo, negli anni il lavoro è cambiato, prima questo era un grande negozio indipendente, non facevamo parte di una catena, c’era una certa attenzione al cliente e si instauravano rapporti magari non di amicizia ma quantomeno cordiali.

Si guardava al fatturato ma si guardava anche alla persona e devo dire che, finché le cose viaggiavano di pari passo, mi sentivo decisamente a mio agio.

Poi siamo stati comprati, sono subentrate espressioni inglesi come know how e store manager e il fatturato è diventato meno importante in favore dell’utile, che banalmente è la differenza tra ciò che entra e ciò che esce e per aumentare l’utile possono salire le entrate o diminuire le uscite e il problema è tutto qua. Quando diminuisci le uscite sacrificando il servizio finisce che da qualche parte qualcuno è scontento, solitamente l’utente finale, se il cliente è scontento compra altrove e inspiegabilmente qualcuno ritiene che, quando succede, sia colpa mia o dei miei colleghi. Quel qualcuno spesso è un neolaureato assunto in una posizione apicale che non ha mai fatto gavetta ma forse l’ha studiata su un libro e si insedia pensando di aver capito tutto, facendo sesquipedali

minchiate, godendo in prima persona dei successi e scaricando le colpe dei fallimenti.

Dopo un po’ pure al più appassionato stacanovista, che comunque non sono io, passa la voglia.

Infatti, in buona parte, mi è passata ma devo lavorare ancora una trentina d’anni prima che qualcuno mi dia dei soldi per godermi quei pochi mesi di vita in cui mi è concesso svegliarmi senza orario e gestire il mio tempo tra cantieri e sale d’attesa di medici che mi devono rinnovare la prescrizione delle pillole per la pressione.

Però almeno l’amore va a gonfie vele.

No, non è vero, l’amore è una merda.

Superati i quaranta non sei più single, sei scapolo.

Che è parecchio diverso.

Eppure io credo nell’amore, sono innamorato e sono certo che anche lei, Beatrice, mi ami ma al momento è impegnata ad amare un altro e quindi aspetto: prima o poi tornerà da me. Beatrice.

Siamo stati insieme nove anni, eravamo perfetti, talmente perfetti che mi ha buttato via come si butta un fazzoletto di carta sporco nel bidone della plastica e tanti saluti.

Giusto un po’ di senso di colpa per aver sbagliato bidone.

Ricordo bene come le tremava la voce nel farmi il discorsetto.

- Amedeo, scusami, non ce la faccio più, non stiamo andando da nessuna parte, passiamo belle giornate insieme ma non vedo un progetto, un disegno, ho bisogno di una persona più concreta, che sappia quello che vuole, ho già trent’anni e non voglio che diventi troppo tardi.

- Ma io so quello che voglio, Bea.

- Ah, sì?

- Certo.

- Sentiamo, cos’è che vuoi?

- Io voglio te.

Un suo silenzio, seguito da un mio silenzio a cui sono seguiti altri silenzi di entrambi e Beatrice da quella sedia si è alzata, ha preso la sua roba e non si è mai voltata indietro. Da quel momento la nostra sedia è tornata a essere la mia sedia e così il tavolo, il letto, il divano, i muri e la casa.

Ho sofferto, non me l’aspettavo, sono stato male, non sono uscito per giorni nemmeno per andare a lavorare, volevo solo che tornasse da me, le ho scritto, l’ho chiamata, l’ho aspettata ma non mi ha quasi mai risposto e anche quando l’ha fatto non mi ha mai dato il benché minimo spiraglio per un possibile ritorno di fiamma che scaldasse nuovamente la minestra del nostro rapporto.

Mi ha salvato Diana, mia sorella, è venuta a stare da me, si è palesata alla porta e ha detto: “Ora ci penso io”.

In effetti ci ha pensato lei, mi ha aiutato a superare il dolore e insieme funzioniamo alla grande, la sorella maggiore protettiva e il fratello minore eternamente innamorato di una donna che non vuole più saperne.

Non è un equilibrio stabile ma almeno è un equilibrio, è qualcosa su cui non so sia possibile appoggiare fondamenta perché il rischio di crollo è alto, ma se la vivi alla giornata ti accorgi che, anche se instabile, sta comunque in piedi.

Quando Beatrice tornerà, perché tornerà, ci saranno anche le fondamenta e tutto sarà più solido, più equilibrato, più giusto.

Perché tornerà.

Forse.

- Amedeo?

- Diana?

- Dormi?

- Che ore sono?

- Le 4:08 del mattino, come puoi vedere dalla sveglia di Batman che proietta sul soffitto il Bat-segnale con l’orario, raccontando, allo stesso tempo, che i tuoi quarantuno anni sono solo anagrafici.

Ti ho svegliato?

- No, figurati, alle 4:08 del mattino pensavo di fare una lavatrice.

- Che sarcasmo graffiante.

- La notte mi ispira. Che hai?

- Non riesco a dormire.

- Perché?

- Penso a mamma e papà.

- E?

- E mi mancano.

- Questa è una novità. Da quando?

- Da ora, credo. Non so nemmeno perché ma è così. Almeno stanotte è così.

- Cosa posso fare per te?

- Come stai, Amedeo?

- Ho sonno.

- Sì, va bene, ma andiamo oltre. Sei felice?

- E che ne so, Diana? Non è mica un interruttore che è acceso o spento. Funziona più come un potenziometro che più lo giri e più la lampadina si illumina. Ecco, la felicità è un potenziometro.

- Manco Fabio Volo strafatto oserebbe tanto.

- Perché ancora è sottovalutato il potente e indissolubile legame tra sentimenti ed elettrotecnica. Ma sai cosa mi renderebbe davvero felice, sorellona?

- Cosa?

- Dormire, porco te. Voglio dormire. Sono le quattro e domani lavoro.

- Sei un insensibile.

- Dormi.

- Ti odio.

- Dormi.

- Sei un mostro.

- Dormi.

- Un mostro pelato.

- Dai oh, c’è un limite.

- Scusa.

- Vuoi dormire qua?

- Mi fai posto?

- Una volta ero io che mi infilavo nel tuo letto.

- I tempi cambiano, fratellino. Mi fai posto?

- E vieni, cosa ti devo dire? Tanto se non ti faccio posto passi la notte a fissarmi. Vieni.

- Eccomi.

- Ora possiamo dormire?

- Possiamo.

- Notte.

- Amedeo?

- Santo Mastrota protettore dei materassi, cosa diavolo vuoi?

- No. Niente.

- Dai, cosa vuoi?

- Niente.

- Niente?

- Niente.

- Notte.

- Notte.

Diana si addormenta.

Io no.

Guardo il soffitto per un tempo indefinito perché di notte cinque minuti somigliano tremendamente a quattro ore ma quattro ore non somigliano quasi mai a cinque minuti.

Mi giro, mi rigiro, cerco di fare piano per non svegliare Diana che si gode il sonno che mi ha impunemente sottratto.

La guardo e penso a quanto sia difficile per lei, la guardo e penso che meriti un posto nel mio letto e ha diritto a tutta l’insonnia del mondo.

Non capisco perché devo rimetterci io, però.

Niente, non funziona, sono le sei, ho ancora un paio d’ore, vado a zappare.

Ho provato a iscrivermi in palestra ma non ce la faccio.

Code interminabili per gli attrezzi, gente che urla, persone che passano il tempo a farsi selfie e chiacchierare con gli altri.

Vero è che quando esco dal lavoro mal digerisco le interazioni forzate con altri esseri umani, ma questi esagerano.

Alla fine una palestra è un luogo per allenarsi, sudare e stare in pace. Non riuscivo a fare nessuna di queste tre cose, credo che il motivo sia che quando stacco dal lavoro devo decomprimere.

Non c’è un giusto o uno sbagliato, passare ore a sorridere, parlare, consigliare, dimostrandomi affabile e gentile pure quando ho una brutta giornata talvolta è estenuante. Dopo due abbonamenti annuali andati sprecati ho scoperto le gioie dell’orto ma non nel senso della coltivazione di ortaggi, non sono per niente portato. Però zappare mi scarica.

Prendo la zappa e la sbatto sul terreno, all’inizio lentamente, poi prendo il ritmo, alterno la posizione delle braccia in modo da usarle entrambe allo stesso modo, accelero, un colpo dopo l’altro, inizio a sudare e non mi fermo finché non sento più le spalle.

Non esiste allenamento migliore di questo, mi libera completamente, mi disintegra la muscolatura, è una specie di reset fisico e mentale.

Non capisco come possano esistere persone che coltivano regolarmente ogni giorno per produrre qualcosa che magari serve al loro stesso sostentamento, come possano dipendere da quel gesto così faticoso.

Oggi probabilmente è tutto meccanizzato ma una volta no, ricordo nonno Anselmo quando coltivava da solo tutta la collina di Begato nella vecchia casa dove sono cresciuto.

Partiva alle sei del mattino, tornava per pranzo, riposino e poi via di nuovo a coltivare fino a sera, cena e divano dove si addormentava più veloce della luce.

Lo seguivo, andavo con lui, gli facevo compagnia e a lui piaceva tantissimo avere suo nipote intorno.

Nonno è morto felice, con la zappa in mano e un sorriso stereoscopico in volto come a dire: “Va bene così, sono pronto”.

Nonno era cintura nera di zucchine e ninja dei pomodori.

Portava a casa talmente tanta roba che avremmo potuto rifornire un alimentari di quartiere, ma nonna Carla non ci pensava neanche.

Conserve, salse, sciroppi, condimenti vari e tutto finiva in dispensa in quei barattoli che non serve descrivere perché chiunque ha in mente i barattoli dei nonni.

Non ho mai imparato a coltivare ma nonno Anselmo mi ha insegnato un sacco di cose sulle piante e sulla tradizione contadina. Il risultato è che ora quando sento il bisogno di sfogarmi, zappo come un ossesso.

Non credo che nonno lo avesse previsto, lui parlava di sostentamento fisico.

Io morale.

Ancora una zappata.

Mentre il mondo, piano piano, si sveglia.

Ancora una.

Non mi sento le spalle.

Sorrido felice e vado a fare colazione.

Ho uno stipendio adeguato con il quale posso permettermi più o meno tutto ciò che mi serve.

Certo, non ho molte spese, ho la fortuna di avere una casa di proprietà grazie a mamma che quando è stato il momento me l’ha lasciata.

Le spese restanti sono ampiamente compensate da quei 1.300 euro al mese con tredicesima, quattordicesima e premi vari che qualche volta riesco a vincere.

Mi tolgo i miei sfizi, ho un pezzetto di terra che funge da palestra e va bene così.

Non è la vita che avevo progettato, ma solo perché manca una persona al mio fianco e di sicuro non credevo che avrei vissuto con una coscienza che somiglia incredibilmente a mia sorella.

Me lo ricordo quel momento, se fossi religioso sarebbe il mio anno zero, la rinascita, anzi la nascita.

A Genova organizzano quelle che chiamano soirée, le serate: in luoghi variabili, solitamente all’aperto, piazzano una cassa gigante, musica forte più o meno da discoteca e le persone si accalcano a ballare o a strusciarsi cercando di non morire soffocate.

Un modo come un altro per ritrovarsi, passare del tempo, se ti piace il genere sono anche belle occasioni, ma a me il genere non piace, quindi mi interessava sopravvivere e tornare intero.

D’altra parte il gruppo che frequentavo a quei tempi non se ne perdeva una e ogni tanto mi univo.

Non stavo male a casa ma ho sempre sentito il bisogno di socializzare. Anzi, in realtà, ora che ci penso, lo sentivo più prima, ora mi interessa meno.

Saranno i quarant’anni compiuti, sarà il carattere, sarà la vita che ti porta a dare più valore al tempo, il che implica tagliare le cose che non ti interessano.

Sarà che in una di quelle serate ho visto Beatrice, e se vinci alla lotteria una volta non lo compri più il biglietto perché sai che è impossibile che sia di nuovo quello vincente. Sembrava illuminata da un occhio di bue gigantesco, c’era lei e poi tutti gli altri, c’era lei e poi nessuno, c’era lei e c’ero io e mi sembrava che la distanza tra noi fosse infinita perché infinite persone inutili e insignificanti si frapponevano tra noi.

Non ho mai avuto l’intraprendenza, né la sagacia o l’arguzia, non sono una persona di spirito, non ho la risposta pronta né la battuta estemporanea, ho sempre preferito sparire che apparire ma in quel momento, in quel preciso momento, avrei fatto qualsiasi cosa per parlarle.

Non so come sia l’imprinting delle anatre quando vedono la mamma per la prima volta e la seguono ovunque, ma me lo immagino più o meno come quando per la prima volta ho visto Beatrice, con la trascurabile differenza che il trasporto che ho sentito poco aveva a che vedere con il trasporto di un figlio verso un genitore. Mi sono fatto largo, l’ho raggiunta, avevo il fiatone, l’ho guardata, mi ha guardato, per fortuna ha iniziato lei a parlare altrimenti l’avrei fissata all’infinito sperando di convincerla con la forza della mente a sposarmi in quel preciso istante.

- Ciao.

- Ti amo.

- Come?

- Eh, ti amo.

- Ma non mi conosci.

- Non so cosa dirti, a te è uscito “ciao”, a me “ti amo”, prematuro dici?

- Per un’ordinanza restrittiva no.

- Premia l’onestà.

- Non puoi amarmi, non mi conosci.

- Non puoi saperlo, non mi conosci.

- Nessuno si innamora così.

- E il colpo di fulmine?

- Il cielo è sereno, niente fulmini.

- Non nel mio cuore.

- Ti do il numero di un cardiologo.

- Preferisco il tuo.

- Non posso curarti il cuore.

- A quanto pare sì.

- Senti, ricominciamo, ti va?

- Ok.

- Ciao.

- Ti amo.

-...

-...

- Sono indecisa se mandarti a fanculo o uscire con te.

- Non voglio uscire con te, ma ti prego non mandarmi a fanculo.

- Come non vuoi uscire con me?

- No.

- No?

- No.

- Ma mi ami.

- Nessuno si innamora così.

- Non puoi saperlo.

- Nemmeno tu.

- Perché non vuoi uscire con me?

- Perché dovrò sostituire ciò che penso di te con ciò che scopro di te.

- Non puoi pensare niente di me.

- Invece penso un sacco di cose di te.

- Vuoi parlarmene?

- No.

- Perché?

- Perché ti darei una precisa idea di quanto io sia innamorato di te.

- Non puoi amarmi.

- Non l’ho scelto.

- Allora esci con me.

- No.

- Perché?

- Perché dopo sarebbe un casino.

- Dai per scontato che vada male?

- Magari, ma metti che vada bene, sai che macello?

- Non capisco.

- Diciamo che usciamo, passiamo una serata piacevole, una pizza, due chiacchiere. Non ascolterò assolutamente nulla di quello che dirai ma adorerò il modo in cui me lo dirai. Poi ti accompagnerò a casa e inizierò a pensare a quando sarebbe opportuno scriverti. Dopo tre minuti inizieranno a sudarmi le mani, dopo cinque inizierò a piangere affogando i dispiaceri in una vaschetta di gelato industriale da tre chili. A quel punto spegnerò il telefono per evitare di sembrare troppo presente. Poi lo riaccenderò. Ti manderò un messaggio a cui non risponderai. Butterò il telefono giù dal balcone e mi arruolerò nella legione straniera dove passerò otto anni della mia vita per poi tornare a casa. Inizierò a bere. Un giorno io e te ci incroceremo per strada. Mi guarderai. Io guarderò te, tuo figlio e tuo marito, sembrerete felici. Capirò che starai per dirmi qualcosa, saremo al fatidico chiarimento, finalmente. “Scusi, sa come raggiungere Piazza Banchi?”, mi chiederai. Non mi riconoscerai, il mio cuore batterà forte. “Certo, da qui prende quel vicolo e dal panificio la prima a sinistra”. Ti guarderò mentre ti allontani. Allora finalmente potrò sorridere, mi sarò preso la mia rivincita. - Dove ti sei preso la tua rivincita?

- Per piazza Banchi è la prima a destra dal panificio, non a sinistra.

Beatrice esplode in una risata che mi riallinea i chakra, la musica forte è un lontano ricordo, la folla non esiste più.

Da quel giorno c’è stata lei e lei soltanto.

Da dodici anni c’è lei e lei soltanto.

Mentre finisco quel che resta di un cornetto al pistacchio con troppo poco pistacchio e decisamente troppo cornetto, realizzo che si sta facendo tardi.

Mi vesto in fretta, do un’ultima occhiata alla casa che mi sembra sempre più vuota. Chiudo dentro i ricordi.

Al mio ritorno saranno ancora qua.

- Amedeo, puoi venire un secondo in ufficio?

- Buongiorno, Domiziana, attacco tra dieci minuti.

- Non importa, al limite ti copre qualcuno, facciamo in fretta.

- Ho fatto qualcosa di male?

- Hai la coscienza sporca?

- No. Cioè, non più del solito.

- Allora non hai nulla di cui preoccuparti. Su, ti aspetto di là.

- Finisco di cambiarmi e arrivo.

I negozi di informatica MediaTech sono sempre piuttosto grandi. Gli ambienti sono ampi, progettati per far sì che i clienti si “perdano” all’interno e osservino tutti i prodotti in vendita prima di guadagnare l’uscita.

Ovviamente ci sono zone riservate, nel nostro caso abbiamo una piccola sala comune con tre macchinette per il caffè, le bibite e gli snack.

Inoltre ci sono due spogliatoi, i servizi riservati e, dall’altra parte del negozio, gli uffici dello store manager e di qualche pesce un po’ più piccolo ma comunque importante.

Domiziana Baitelli è una sorta di anello di congiunzione tra il personale e il direttore, Rosario Cartasegna, che abbiamo visto quando si è insediato e mai più perché segue altri tre negozi tutti più grandi di questo.

Inutile specificare che Domiziana vuole il posto di Rosario e, per ottenerlo, è disposta a tutto, financo a lavorare sul serio, che da queste parti è cosa rara.

La sua abnegazione si traduce in discorsi motivazionali infiniti, e-mail dove si illustrano brillanti e innovative strategie di vendita e costanti riunioni che finiscono con la promessa di ulteriori riunioni per aggiornare l’ordine del giorno, qualsiasi esso sia.

- Ti tocca, direi.

- Oh Fulvio, scusa, non ti avevo visto. Buongiorno.

- Buongiorno a te, Amedeo. Pronto a farti fare un bell’elmo pregno di paroloni che vogliono dire poco?

- Pronto e abituato. Tu come stai?

- Bene, per quel che vale. Credo che tra poco partirò.

- Partirai?

- Credo di sì.

- Da quanto hai iniziato il giro del mondo?

- Due anni.

- E in due anni hai fatto da Barletta a Genova.

- Esatto.

- Quindi Genova è la prima tappa.

- Già.

- In due anni hai fatto da Barletta a Genova e stop.

- Mi trovo bene.

- Allora stai.

- No. Ho uno spirito ribelle, un animo ramingo, un istinto che porta a spostarmi da un fuoco all’altro più che a cercare un focolare mio. Certe cose si hanno dentro.

- Eh, se le hai dentro allora è fatta.

- Le ho dentro.

- Fulvio…

- Amedeo.

- Ma va’ a cagare.

- Un giorno vi stupirò tutti.

- Ci aspettiamo grandi cose.

- Vai da Domiziana. Ti copro io.

- Sicuro? Magari il tuo animo ramingo ti porta a partire proprio adesso per andare, che so, a Imperia e finisce che se perdi l’attimo stai altri cinque anni.

- Sicuro, devo ancora mettere a posto i dettagli per la prossima tappa.

- Si può dire quale sarà?

- Assolutamente no. Metti che mi seguono.

- Ma chi?

- Non siamo mai soli, Amedeo. Ricordatelo. Mai.

- Va bene. Comunque prenditela comoda, che a fare le cose di fretta poi si fanno male e sono solo due anni che sei qua.

- Vai Amedeo, vai.

- Vado, Fulvio, vado.

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Il contrario di Benny

La ricetta di Luce nella Città di Fretta

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