Il Piccolo Principe delle Tenebre

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Il piccolo principe delle tenebre di Nicola Pesce © 2025, Burno Tutti i diritti riservati. Collana Himself, 7

Progetto grafco di Nicola Pesce Impaginazione e cover design: Sebastiano Barcaroli e Nicola Pesce

Ordini o informazioni: ordini@burno.it Informazioni sulla distribuzione: promozione@burno.it

Stampato in Slovenia – maggio 2025

Burno

è un marchio in esclusiva di Solone srl Via Aversana, 8 – 84025 Eboli (SA) burno.it @burnoedizioni

L’autore ringrazia Paola Savinelli per la magnifca settimana ad Amalf, dove ha corretto le bozze del volume.

Scritto dal 26 luglio al 14 novembre 2024

NICOLA PESCE

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CAPITOLO 1

Non era vero, il cielo non era sempre lo stesso. Bluetta lo guardava, seduta sul sedile del passeggero, nascosta dietro ai suoi piccoli occhi neri.

Non diceva una parola da più di un’ora, mentre la macchina aveva abbandonato Edimburgo e vagava tra le colline verde scuro della Scozia.

Non aveva mai smesso di piovere quel giorno. Si vede che il cielo ha bisogno così, pensò.

Al lato della strada vide una di quelle che con sua madre aveva sempre chiamato «le mucche pelose». Era bufa e di un bufo color caramello. Aprì la bocca in un sorriso e fece per parlare, ma poi lo spense subito, come certe volte aveva visto spegnere la famma

delle candele. Non voleva dare a suo padre l’impressione che il litigio fosse fnito, non voleva che lui si sentisse meglio.

A pensarci bene, le faceva piacere che piovesse. Del resto, lei era una che amava l’autunno, quando tutto il mondo e le piante sembravano dispiaciuti per qualcosa. Non era vero, il cielo non era sempre lo stesso. Se ne accorse nei giorni successivi. La nuova casa era più grande: una villa fuori mano, nella periferia di un paesino che contava mille anime o poco più.

Lì la gente sorrideva più che a Edimburgo; le dicevano «Buongiorno» e «Buonasera» anche se non la conoscevano. Ma c’erano pochi bambini della sua età, e tutti i pomeriggi veniva lasciata sola a sé stessa, perché suo padre lavorava ancora.

Era allora che vagava nei dintorni della villa. Tutto era una avventura e poteva capitare che i suoi occhi stanchi si accendessero per qualche minuto e lei – dimentica di sé – inseguisse uno scoiattolo o si perdesse in un intricato labirinto di rovi.

La natura si era presa ogni cosa. E Bluetta adorava sentirsi una intrusa, ascoltare – ma di nascosto – il

canto degli uccelli, essere sorpresa da una pioggia troppo forte troppo lontano da casa.

Nonostante fosse ancora così piccola, aveva preso a mettere un trucco nero pesante intorno agli occhi.

L’acqua glielo rovinava tutto e – quando tornava a casa completamente fradicia – adorava vedersi allo specchio tutta rovinata.

Spesso si perdeva apposta, e sognava di non essere più trovata. Correva abbastanza da seminare la malinconia, poi si fermava e si lasciava raggiungere.

Prendeva una grossa foglia secca fra le mani, pensava «È bellissima» e poi la faceva a brandelli piano piano, dispiacendosi, quasi scusandosi di essere stata spensierata per un minuto.

E si ricordava di sua madre che si spazzolava i capelli allo specchio, e dell’odore dei suoi capelli appena asciugati. E ripensava a quel padre che si rendeva conto se lei non aveva lavato un piatto, ma non se aveva pianto tutta la notte.

Fu in una di quelle gite pazze sotto la pioggia che la vide. Il trucco le colava lungo le guance. L’aria era fredda. Il fato le si faceva fumo.

Davanti a lei – inghiottita dall’edera – c’era una enorme chiesa diroccata. Le mura erano nere e le fnestre appuntite.

I cardi e le erbacce si addossavano fn sul portone – segno che nessuno vi entrava da lungo tempo. Un’edera rossa vi si arrampicava come un incendio.

Grossi nuvoloni scuri sembravano volersi appoggiare sui suoi tetti, sopra l’alto campanile, sopra le sue guglie spezzate.

Con gli scarponi mezzi slacciati, Bluetta si fece strada a fatica fno a una porta secondaria, cui gli anni e l’umidità avevano succhiato via la forza. Così le bastò spingerla, e spingerla ancora: uno stridore raccapricciante riempì le navate.

Alcuni corvi si erano riuniti nei pressi dell’altare e volarono via in un frullare di ali, facendole alzare gli occhi fno a quelle magnifche vetrate colorate. Da lì i raggi del Sole lanciavano fori geometrici di luce sui lastroni del pavimento, sulle panche impolverate, sui tendaggi e gli arazzi che i ragni avevano intessuto in ogni dove.

Siccome sentì che era proibito, Bluetta avanzò tra le panche fno al corridoio centrale.

Ovunque poggiasse le dita, il legno degli schienali tornava lucido sotto alla polvere. I lacci degli scarponi sbattevano qua e là contro gli inginocchiatoi. Abbassò la testa per guardarli: erano pieni di ortiche e forasacchi.

Alzò lo sguardo là dove un santo sconosciuto la fssava e la giudicava dai vetri a mosaico del rosone. I lunghi raggi obliqui del sole, dall’alto, le si scagliavano in petto silenziosi – come per farle del male – e un pulviscolo vi danzava dentro, indiferente a tutto.

Allora pensò, distintamente: «Perché sono diversa da tutti? Perché nessuno è come me?». E le venne da piangere. Sapeva farsi del male, nelle ore in cui era sola, come solo i bambini sanno fare.

Avanzò, lungo il corridoio centrale, verso l’altare.

I suoi passi di plastica moderna mandavano una eco che si rincorreva contro tutte le pareti.

Non credeva più in niente da tempo, ma il modo in cui i suoi piccoli piedi rompevano il lunghissimo silenzio di quella chiesa sconsacrata le sembrò sacrilego. E così si sentì in presenza di qualcosa di sacro. Una religione di ragni, di corvi, di ortiche, di polvere, la circondava da tutte le parti.

Una religione che lei non comprendeva, e che perciò le sembrava più vera. Si sentì travolta dal sentimento di un Dio, di qualcuno che vedesse il suo cuore, di qualcuno che sapesse pesarglielo, che comprendesse tutti i suoi dolori, tutte le sue piccole cose.

Quando arrivò ai piedi dell’altare, guardò di nuovo i suoi scarponi sciolti, cosparsi di erbacce, e le sue ginocchia bianche grafate in più punti dalle spine.

Allargò le braccia e fssò la luce che penetrava dal rosone. I corvi erano tornati ad accomodarsi poco più in là.

«Quanto deve durare questa cosa che ho dentro?» domandò alla luce. «Quand’è che se ne va?».

Non ci fu risposta. Per fortuna c’era già stata la pioggia sul suo viso a guastarle il trucco, così, se pure fosse scesa una lacrima, avrebbe potuto negarlo persino a sé stessa.

Tornò sui suoi passi trascinando i piedi, senza soffermare più il suo sguardo su nulla. Non ne valeva la pena.

Rivide le scie di legno liscio lasciate poco prima sulle panche dalle sue dita come da tante lumache; pensò

qualche pensiero profondo e se ne dimenticò subito. Si dimenticò anche della chiesa. Non ci pensò più fno a sera, quando uscì nel porticato con un po’ degli avanzi di cibo della cena e qualche crocchetta per i gatti randagi.

Uno di loro era cieco da un occhio. Una grossa cicatrice gli attraversava il viso.

Lei aveva sempre provato un misto di schifo e paura, ma quella sera si riconobbe. Sentì che quel gatto sfregiato era lei stessa. Era diverso da tutti e nessuno era come lui.

Le parve di intravvedere qualcosa nel buio, un animale, forse una volpe. Poi non ci pensò più.

Provò ad accarezzare il gatto guercio ma era difdente. Nonostante lei gli ofrisse da mangiare, lui le sofava contro.

La sera era fresca, e aveva smesso di piovere. Suo padre la chiamava dall’interno, da un mondo illuminato, pieno di tepore. Là fuori era la notte, senza nome e senza riparo.

Bluetta si piegò per tentare un’ultima carezza. Il gatto la grafò e fuggì nel buio sconfnato.

Suo padre la sgridò. Le disinfettò la mano, mentre era seduta sul tavolo della cucina.

Lei si lavò i denti come una brava bambina. Lo specchio nel bagno della nuova casa era molto alto e doveva alzarsi sulle punte. Ciononostante, osservò a lungo in penombra i propri capelli blu, e a lungo si fssò negli occhi. Poi andò a stendersi nel letto.

La ferita aveva smesso di sanguinare. Adesso erano solo dei piccoli solchi nella pelle. Ci passava le dita senza smettere mai.

Adesso sì che voleva bene a quel gatto. Adesso gli somigliava in tutto e per tutto, anche nella ferita. Poteva fdarsi di lui. Almeno il dolore non sapeva mentire. Il dolore era sincero.

CAPITOLO 2

Bluetta si svegliò al mattino con troppa serenità: evidentemente non aveva sentito la sveglia. Ma quanto aveva tardato: un’ora o solo un minuto? Restò tra le coperte assaporando la dolcezza del senso di colpa.

Sperò che fosse troppo tardi, che la sua colpa fosse maggiore, che la scuola fosse saltata. Ma il rumore del rasoio elettrico del padre sgrondò dal suo cuscino le ultime gocce di poesia lasciate dalla notte.

Si alzò e si guardò allo specchio del suo bagno alzandosi sulle punte. Svolse i riti del mattino, cercando di non pensare a quella chiesa nera mangiata dalle piante, così come avrebbe potuto cercare di non respirare.

Poteva riuscirvi anche per mezzo minuto, ma poi il cuore cominciava a batterle all’impazzata nelle tempie. Quel posto era il tiroasegno dei suoi pensieri. La chiesa la chiamava.

Non era lei che si spostava e andava a fare le cose quel giorno. Era più come se le cambiassero la sedia sotto al sedere e lei invece restasse ferma: il sedile dell’auto del padre, la sedia del banco a scuola, quella del tavolo da pranzo.

«A cosa pensi?» le domandò suo padre vedendola così assorta.

«A niente,» rispose lei. Era sempre a niente per lui.

Non gli dava mai una briciola di afetto, nemmeno un sorriso per elemosina.

Quando lo vide mettersi il cappotto per tornare a lavoro, quando sentì la macchina che partiva, Bluetta ebbe quasi paura: adesso era libera di andare alla chiesa.

Lo desiderava così tanto che le si piegarono le gambe. Finì di lavare i piatti non perché fosse una bambina responsabile, ma perché voleva torturarsi. Voleva vedere quanto a lungo avrebbe saputo negarsi un piacere, così come avrebbe potuto negarsi di respirare.

Fu mentre asciugava l’ultimo cucchiaio che il suo battito si fece assordante, e corse fuori aferrando il cappotto mentre la posata rimbalzava per terra.

I suoi piedi conoscevano la strada. I lacci le sbattevano sugli stivaletti come impazziti. Poi la natura cominciò a opporsi, le erbacce si fecero più alte e i rovi più taglienti. Arrivare in quel posto richiedeva un po’ di soferenza.

E il cielo tuonò. Alle prime gocce sul viso Bluetta sorrise, senza accelerare il passo: sarebbe stato molto bello arrivare in quella chiesa completamente fradicia. E così fu.

Tutte le cose, che le era capitato di desiderare nella vita, l’avevano sempre delusa subito in un modo così forte e chiaro che non aveva dato adito a fraintendimenti.

Ad esempio, quando era piccola si era interrogata a lungo su cosa andassero a fare i suoi genitori fuori di casa. Si era immaginata mille mondi, mille avventure. Quando aveva scoperto che andavano a lavorare, che il lavoro era per i soldi e che i soldi servivano per mangiare e per comprare i vestiti, Bluetta

aveva sentito una profonda amarezza e tutto il genere umano aveva perso ogni fascino. Non potevano stare tutto il tempo con lei per via dei soldi. Il cibo aveva perduto ogni sapore e lei aveva cominciato a volere soltanto vestiti neri.

Così, spingendo quella porticina secondaria per entrare nella chiesa, era sicura che non avrebbe trovato più nessuna di quelle sensazioni che l’avevano stordita il giorno precedente.

I cardini e il legno stridettero con violenza e quel suono riecheggiò tra le navate, rotolò contro le mura, contro il rosone e i suoi vetri colorati, quindi, ormai stanco, planò come una foglia sopra il velo di polvere che copriva ogni cosa.

Un tribunale di corvi, sorpreso da quella intrusione, si era sollevato dall’altare e si era disposto sugli aggetti più alti, a osservare la scena.

Ogni tanto, un corvo più irrequieto degli altri si spostava di lato un artiglio alla volta per osservare quella bambina dai capelli blu che avanzava lasciando piccole pozzanghere dietro di sé.

Ciò che aveva stregato Bluetta il giorno prima era

stata la sensazione di fare qualcosa che non andava fatto, e di farlo in un luogo sacro. Aveva sentito di non essere stata solo maleducata, ma anche sacrilega, sebbene non conoscesse la parola. In quel sacrilegio c’era stata tutta la sua rabbia. Ma nella chiesa abbandonata era accaduto un fatto nuovo: c’era stato il silenzio.

Nessuno l’aveva sgridata o punita per aver forzato una porta, per essere entrata dove non doveva e per aver gridato davanti all’altare. E così, mentre il cuore le batteva come un tamburo contro le tempie, si era sentita accettata. E perdonata. E compresa.

Nulla di tutto questo c’era invece in quel momento.

Bluetta si era così preparata a essere delusa, che se non fosse stata delusa ci sarebbe rimasta male.

Ecco perché aveva fnito di lavare le stoviglie con lentezza: per allontanare nel tempo quel dispiacere.

Si era talmente preparata ad essere delusa, talmente ofesa con sé stessa per aver provato qualcosa, che non era stata davvero presente.

Il corvo irrequieto decise di svolazzare da una trave all’altra rompendo il silenzio.

Lei ebbe un sussulto, e lo rimproverò ma, dal tono della sua voce, il corvo capì che era un rimprovero bonario.

Quando riabbassò lo sguardo, fnalmente, cominciò di nuovo a notare le cose.

La polvere aveva spruzzato ogni mobile, ogni superfcie, come lo zucchero a velo sulle torte che cucinava sua madre.

Là dove aveva camminato tutta inzuppata, i suoi passi avevano lasciato una scia. La chiesa odorava di pioggia e di mufa. La pioggia accarezzava il tetto e i fnestroni come un milione di dita.

Bluetta si sedette su una panca e chiuse gli occhi godendo di ogni piccola cosa. Le sembrò che quel posto fosse suo. Anzi, le sembrò di appartenere a quel posto, a quell’odore, e che i corvi sulle travi fossero la sua vera famiglia.

Quando si rialzò vide un oggetto che non aveva notato fno ad allora: poco davanti a lei c’era un libro antico, in pelle, con un lacciuolo che ne faceva il giro più e più volte.

Non era molto grande. Lo prese e tornò a sedersi.

La pelle non era lucida ma un po’ martellata. In copertina non recava titolo. Era piacevole da sforare.

Lo strinse così forte che cominciò a sentire le sue rughe che le si imprimevano nelle dita.

Senza aprirlo vi afondò il naso e inspirò profondamente. Non era mai stata una grande lettrice. Nei suoi pochi anni le erano passati sotto al naso almeno diecimila libri. Molti li aveva odiati. Qualcuno lo aveva scelto di suo gusto e lo aveva letto. Ma era la prima volta che un libro sceglieva lei.

Lo liberò dal lacciuolo lentamente, come se fosse stata la sacerdotessa di un rito antico. Vide che alcune pagine erano strappate. Mancava l’inizio, così cominciò a leggere dove poteva.

Le piacque molto che il libro fosse rovinato, e vecchio, e fragile. Dopo quel giorno, non avrebbe saputo mai più apprezzarne uno moderno. Persino l’odore era diverso. Era sottolineato in alcuni punti. Il linguaggio era antico, quasi arcaico. Alcune frasi doveva rileggerle più volte per comprenderle. E in questo modo le pareva di farle sue, di conquistarle.

Non era un romanzo, non era un libro di poesie.

Era scritto in versi sciolti ma era lunghissimo. Voltando una pagina ne cadde un meraviglioso segnalibro di stofa. Lo prese fra le mani, soprafatta dalla sua bellezza, e lo ripose con cura. Lì le sottolineature si facevano più ftte.

«È questa la regione, questo il suolo, questo il clima,» recitava il testo, «questa è la sede che ci tocca avere in cambio del cielo? Questa triste oscurità invece della luce celestiale?».

Il corvo non si dava pace. Spiccò un balzo e planò gofamente davanti a lei. Una grande piuma nera staccatasi da un’ala prese a volteggiare fno ad adagiarsi sulla panca dove era seduta la bambina.

L’uccello la guardava storcendo il collo, con i suoi occhi di antracite e gli artigli su di uno schienale.

Lei prese la sua piuma e la usò come segnalibro, riponendola fra le pagine poco più avanti di quello di stofa.

«Grazie, signor Corvo,» gli disse.

Si guardarono negli occhi senza aggiungere niente. Bluetta piegò il collo di lato per imitarlo. Lui gracchiò come per sgridarla e volò via, ma dal tono lei capì che era un rimprovero bonario.

Posò il libro là dove lo aveva trovato, già pregustando di riprendere la lettura l’indomani.

Al mondo c’erano libri con copertine colorate, luccicanti e persino fosforescenti – che cercavano di attirare la sua attenzione per via dei soldi. Non potevano competere con quel libro. La sua copertina era un giorno di pioggia, i rovi sulle caviglie, l’odore di antico, il sapore del proibito, un lacciuolo che ne faceva il giro più e più volte.

Bluetta si accorse che i colori della chiesa erano cambiati. Il violetto della malinconia era calato lungo le pareti come una tenda, era sceso tra le panche come l’ombra di un mostro, le respirava sul collo. Era sera.

Il cuore prese a batterle forte. Presto la notte l’avrebbe inseguita tra i cespugli e lei, scappando, le sarebbe corsa incontro.

Si afacciò sulla soglia. Aveva smesso di piovere. Anche le nuvole nere stavano rincasando.

Stava per chiudere la vecchia porta secondaria, ma sentì qualcosa che la terrorizzò e la fece correre via senza ragionare.

Mentre correva già riusciva a convincersi: no, non aveva sentito suonare un violino nelle viscere della terra!

Quando si sentì abbastanza lontana, si voltò a guardare la chiesa un’ultima volta. La luna splendeva nel cielo quasi bianca, ma lei non avrebbe saputo dire se fosse grande o piccola. Sembrava un puntino sopra la “i” del campanile diroccato.

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