Nicola Pesce
Il fiato
di Edith
La palla di pezza rimbalzò discendendo la collina.
Jonathan la inseguiva sbattendo i piccoli piedi contro il prato scuro. Alle sue spalle, le grida dei bambini che lo incitavano sbiadivano di già, mentre lui si attardava.
La palla s’era fermata in un punto e aveva spezzato lo stelo di un lungo, piccolo fore. Si chinò per raccoglierla e, ancora seduto sui calcagni, sbirciò la collina.
Cos’era l’Irlanda?, un’ora di crepuscolo che invece di scurire imbianchiva; una sorta di nebbia che si poteva respirare, e soff di vento nella brughiera, cortecce d’alberi e perline di precoce rugiada.
Jonathan, nove anni e una palla di pezza sottobraccio, aveva paura. Forse gli altri bambini
s’erano già avviati a casa, vista l’ora. Forse quel bianco tumore che scendendo dal cielo o salendo dalla terra prendeva tutto per sé, o forse quel silenzio, l’avevano messo per la prima volta dinanzi a sé stesso. Percepiva il battito del proprio cuore.
E vide la casa, a pochi metri da lui, e le faccole accese e la penombra dentro. Attraverso quei vetri antichi percepiva un immobile fervore.
Vide la porta socchiusa e, senza discostarla, la varcò.
Un altro mondo, questo pensò, un’altra aria si respirava lì dentro. Il buio era interrotto soltanto dalla famma di un camino e da alcune candele. Le mura, le credenze e i visi si tingevano di bagliori rossastri.
Quattro persone fervevano con gli occhi apprensivi sopra una bambina distesa su di un letticciuolo rialzato. Una donna giovane e piena di rughe, un uomo, una vecchia cameriera con il grembiale e una persona che scappò in una stanza, forse a prendere qualcosa.
Jonathan perse i propri occhi nel camino che ardeva e respirava, scandendo il tempo nella penombra, dando luce e negandola a scaffali di libri, alambicchi e boccette, a un lampadario spento sul sofftto basso. Jonathan perse i propri occhi nel fuoco che lo dominava.
Sul letticciuolo stavano una coperta scura, piena di ricami, e il volto bianco di una bimba. Un proflo esattamente d’avorio, un piccolo naso all’insù e lunghi capelli rossastri e ondulati, abbandonati sul cuscino.
Tutti alzarono gli occhi verso di lui, e non gli dissero nulla.
Edith respirava a piccoli sorsi interrotti. Jonathan si scosse dall’incantamento e percepì quel suono.
Fu come se una fotografa color seppia prendesse vita. Ecco di nuovo il fuoco, ecco di nuovo il peso della palla sotto il braccio, ed ecco di nuovo la coperta di Edith.
Non era lui a muovere quei passi che lo portarono a poca distanza dal letticciuolo. Cristallizzate in un dolore che le strappava come carta velina, quelle persone lo lasciarono passare. E lui vide, vide quelle piccole labbra rosa che sapevano di nebbia, vide quei capelli al crepitare del fuoco, vide la coperta gonfarsi a brevi spasmi sopra quel piccolo petto.
Lei voltò la testa verso di lui, e quell’immagine – lo appercepì chiaramente – quella scena gli sarebbe rimasta impressa per sempre, e quella voce.
«Come diavolo fate a riprendere fato?» disse Edith, e subito una mano le coprì la fronte.
«È calda,» disse l’uomo dai grandi occhi, e subito gli altri dissero tante frasi, ma Jonathan avrebbe ricordato soltanto quelle due.
Edith singhiozzò, due volte soltanto, e un rivolo di sangue le scorse dall’angolo della bocca, come una goccina di inchiostro rosso dall’orlo di un calamaio di avorio.
Jonathan restò incantato a guardarla, poi distolse lo sguardo perché provava dolore nel vedere il suo dolore. Cercò di fssare lo sguardo su qualcosa, e gli cadde su di un libro in pelle, dall’aspetto antico ed elegante, la cui chiusura era un lacciuolo di cuoio che ne faceva il giro più e più volte.
Poi una voce, che non si aspettava, gli arrivò all’orecchio come una carezza troppo leggera.
«Ritornerai?» aveva chiesto Edith, e dopo era caduta in uno svenimento prima ancora che lui potesse risponderle.
Jonathan si sentiva cambiato quando uscì da quella porta e ritornò all’Irlanda. Fuori, la nebbia aveva ormai respirato su ogni cosa. Il suono del proprio cuore andava affevolendosi ai suoi orecchi.
Circondato dal bianco del cielo si sentiva immenso e piccolissimo, confnato in quel poco che poteva vedere. Era bastato uno sguardo, una frase, ed era stato come inghiottire la perla di una sensazione sconosciuta. Con un brontolio dello stomaco, essa prendeva spazio dentro di lui, ingigantiva, schiacciava, soffocava.
Cos’era dunque quella bambina?, un talismano, una chiave verso modi di essere differenti?
Una magia!, ecco cos’era avvenuto: un crepitare di camino, un visetto d’avorio ed ecco che lui era un altro.
Quella palla di pezza era ormai un corpo estraneo a lui, un che di troppo, di infantile, forse meno infantile di quel fore che fermandosi aveva reciso. Senza una ragione precisa, lo cercò nella nebbia, sospirò e lo raccolse. Si scoprì a pensare alle grosse mani dure di sua madre: era tardi.
«Un malefcio!» diceva il padre di Edith allargando le braccia e poi chiudendole. «Un malefcio!» ripeteva.
Seduto su quel divano con una tazza di cioccolata calda, Jonathan si sentiva un adulto. Parlavano. Il fore che qualche giorno prima aveva raccolto era sforito e aveva perso i petali, così aveva dovuto cogliere un altro fore, per portarlo alla bambina.
Erano cose che bisognava imparare se si voleva voler bene ad una ragazza. E lui l’aveva imparato. Rifettendo, assorto in lunghi silenzi, molte cose aveva imparato.
Ma Edith, al suo arrivo, dormiva. Stavolta era giorno pieno, e un sole pallido fltrava intorno a lui ed a quell’uomo; e le parole, i silenzi, i sospiri erano tutti presi in quell’atmosfera di pallore e legno, di cioccolata calda ed erba bagnata.
«Una strega… una volta…» erano parole vaghe, spaventose, di un malefcio che colse Edith alla nascita come un battesimo, impedendole la vita, il respiro, i sorrisi, chiudendola in un morbo.
Camminando verso casa, Jonathan pensava alle parole dell’uomo. Calpestava un terreno umido lungo le miglia che aveva da percorrere, e il sole calava.
Il sole, in Irlanda, ha un suo modo di andare via. Quegli stessi colli e quegli stessi monti che di mattino si ammantano di luce per primi, a sera famelici generano una rapida notte.
E questa scendeva, lungo la schiena di Jonathan. Gli pareva, in quei giorni, che la gente avesse l’abitudine di lasciarlo solo. Dov’erano ora i suoi compagni rossi in viso, dove la sua famiglia?
Di certo la madre a casa, con le sue grandi mani per dar schiaff; il padre forse a bere in una taverna; ognuno dei suoi amici preso in una sua cosa.
Col buio che gli sorrideva intorno mostrando i denti, con i tronchi degli alberi che si facevano
neri, Jonathan si scoprì a correre verso casa, tra urli di civetta, senza più fato.
Se nei giorni luminosi, in cui si era attardato troppo con gli amici dietro uno scherzo o un pallone, aveva avuto paura delle percosse di sua madre – ché lui col corpo aveva giocato e quelle il corpo umiliavano – stavolta correva diversamente, perché quelle umiliavano il corpo, e a lui pareva di aver giocato con l’anima.
Mentre il buio mangiava il terreno ai suoi piedi, come le onde di un mare nero che avanzasse incessante senza mai ritirarsi, mentre il buio gli gettava via i respiri, lui si sentiva un gioiello dentro al petto, si sentiva fatto di luce.
Jonathan. A letto senza cena e nel letto mille pensieri. Se il pensiero era una cosa che trovava il proprio esistere dentro la sua testa, e non altrove, perché pensare gli riusciva diffcile chiudendo gli occhi?
Edith non poteva correre, non poteva camminare a lungo, non poteva ridere, poiché un malefcio le aveva tolto il fato.
Rinovellando queste parole pareva a Jonathan di sentire l’odore di quella tazza di cioccolata, il rumore del camino. L’uomo non sapeva, non sapevano precisamente; certo è che le batteva il cuore, come una moneta di valore in un salvadanaio di porcellana scosso con vigore. E rimaneva lì, ferma, accaldata, poi ghiacciata, con delle goccioline di sudore che le brillavano sul viso come una pioggia estiva sopra una rosa color crema.
Le mani stringevano le coperte, poi più niente, il dolore era sparito; rimanevano rabbia, furibonda rabbia, guardarsi intorno, la paura di morire e l’angoscia di essere ancora viva.
«Ti sarei molto grato,» gli aveva detto al commiato il padre, «se tu volessi tornare ogni tanto a parlare con mia fglia. È sempre sola; amici non ne ha mai avuti, e se pure qualcuno venne, la abbandonarono uno ad uno. Anche quando tu non volessi più, per favore, torna».
Jonathan vedeva il proprio corpo muoversi; vedeva la scuola, i compagni, il padre. Jonathan vedeva la propria madre, ma la sua mente era altrove.
A quella casa, al legno delle sue pareti, a quel camino cui il pensiero arrivava solo tramite una nebbia ed il ricordo di un fore dal gambo reciso, di un fore deperito.
Ecco allora il portone, ecco Edith, ecco il camino e infne le quattro persone di quel primo ingresso. Ed i molti scaffali, le credenze appesantite ed incurvate dall’eccessivo numero di alambicchi, di bottiglie, di faconcini di vetro, fale, ampolle.
Ognuna con un suo liquido, di un proprio colore, densità, granulosità proprie, mezze piene o semi-vuote; tutte quelle cose, insomma, quel sovrannumero che aveva mosso la sua prima domanda
all’uomo, al padre, di fronte a una cioccolata calda.
E l’uomo aveva risposto, con qualche indugio ma senza omettere niente, raccontando di una strega… una volta…
Quei contenitori erano tutti pieni di veleni, meno uno, materializzatisi il giorno del malefcio, anzi la notte tra quel giorno ed il successivo, tutti insieme, sui tavoli, sui comodini, per terra; senza parlare delle credenze di legno antico, che da sole erano sbocciate dai muri come un’edera vorace.
Una sola, una di quelle bottiglie conteneva l’antidoto per Edith, tutte le altre veleni e malefci potentissimi, cosicché la malattia della fglia risultasse loro tanto più odiosa quanto più forte era la consapevolezza che lei viveva a pochi passi dalla sua salvezza. Ma la speranza era soggiogata dal terrore, e le probabilità assolutamente schiaccianti.
E così, quella era la storia di una intera famiglia, che nel terrore di morire non viveva, ed il simbolo, l’emblema di tutto questo era un corpicino di bambina, disteso, bianco come una statua d’avorio, una rapsodia di capelli rossi, mani piccole e piccoli piedi.
Presto quei lunghi pomeriggi trascorsi accanto al letto di Edith divennero un’abitudine. Una volta Jonathan pensò a quel meccanismo di cui gli avevano parlato a scuola: il dagherrotipo.
C’era un obbiettivo, e da quello fltravano la luce e con essa le immagini. Queste poi si imprimevano lentamente su di una pellicola, e con la pellicola si potevano riprodurre su carta tanti e tanti quadri uguali fra loro, color seppia, identici alla realtà tranne che per una cosa: le ombre.
Per ottenere un dagherrotipo bisognava tenere l’obbiettivo aperto anche per dieci ore, nelle quali il sole si spostava, spostando le ombre in una danza geometrica. Tutti gli oggetti parevano avere un alone di tenebra. Similmente, pensò Jonathan, doveva avere scolpita negli occhi l’immagine di
Edith. Per troppo tempo l’aveva fssata ogni giorno, e per troppe settimane. Ne era la prova il fatto che quando chiudeva gli occhi lei restava lì; la sera, nel letto, il suo viso era lì e non se ne andava.
Similmente, pensava, doveva avere impresso dentro di sé il suo viso, perché aveva levato ogni otturatore, ogni panno. La luce era fltrata attraverso l’obbiettivo dei suoi occhi e il suo cuore era stato esposto a lei ormai in modo ineluttabile. Col passare del tempo, entrando dalla fnestra socchiusa sempre diversi climi, diversi orari, diversi giorni, mutando le stagioni, Jonathan doveva avere in sé un ben variopinto alone di scene, un caleidoscopio di odori e di sensazioni.
La sera, nel letto, gli piaceva dire ad alta voce il nome di lei, con un flo di voce, e intanto la fredda primavera scioglieva le sue prime gocce di luce in giro sui sentieri e sulle cose, e l’erba cresceva. Il sole scendeva e vestiva i rosai, come la lana veste gli arcolai, come i sorrisi di Edith vestivano le sue parole.
Lei si voltò a guardarlo.
Le opere di questo autore vengono adesso pubblicate dai seguenti editori:
Burno Edizioni:
Le cose come stanno, nov. ’19
Il fato di Edith, ago. ’20
La cura del dolore, gen. ’21
La volpe che amava i libri, apr. ’21
I Fiori del Bene, lug. ’22
In uscita a maggio 2025 per Burno Edizioni:
Il piccolo principe delle tenebre
Mondadori:
La volpe che amava le piccole cose, nov. ’22
Il sapore dell’albicocco, nov. ’23
La biblioteca dei libri dimenticati, nov. ’24