Enciclopedia dei Serial Killer

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Enciclopedia dei Serial Killer di Flavia Forestieri © 2025 Burno per questa edizione Tutti i diritti riservati. Collana Saggistica, 10

Progetto grafico, impaginazione e cover design: Sebastiano Barcaroli Illustrazione di copertina: © Shutterstock.com

Correzione bozze: a cura della redazione Stampato in Cina – SETTEMBRE 2025

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La casa editrice e gli autori con questa opera intendono assolvere a una funzione di informazione.

Avvertenza: Si informa il lettore che il presente volume contiene materiale che per la sua natura esplicita (violenza, linguaggio forte, temi adulti, ecc.) è considerato non adatto alla lettura da parte di persone di età inferiore ai 18 anni. La casa editrice e l’autore declinano ogni responsabilità per eventuali reazioni negative dovute alla fruizione di tali contenuti da parte di un pubblico non adulto.

Flavia Forestieri

300 SCHEDE CORREDATE DA IMMAGINI, CURIOSITÀ E RIFERIMENTI POP PER UN INQUIETANTE E PRECISO QUADRO DELL’EFFERATEZZA

DELLA MENTE UMANA

INTRODUZIONE

Non tutti i serial killer sono uguali, così come non lo sono in assoluto le persone, verrebbe da dire. Una considerazione, questa, che può risultare incredibilmente banale, ma che sembra sempre necessaria per non cedere alla tentazione che noi tutti abbiamo avuto almeno una volta nella vita: pensare di aver capito cosa passa nella loro mente.

Ebbene, se mai abbiamo creduto di sapere cosa spinge un assassino seriale a fare quel che fa, sarà meglio smontare fn da subito le nostre sicurezze. Se abbiamo pensato che le parole “serial killer” potessero identifcare un determinato tipo di carattere, con specifche inclinazioni sessuali e non e altrettanti traumi infantili, fantasie o problemi mentali, è meglio abbandonare la nostra defnizione prima di iniziare a leggere questo volume.

In queste quasi 1000 pagine di impropriamente detta “enciclopedia” essendo, nonostante la mole, ben lontana dall’aver raccolto esaurientemente l’enorme quantità di informazioni su questo argomento ci sarà diffcile trovare un serial killer uguale all’altro. Dei 327 criminali raccontati opportunamente schedati riportando il loro modus operandi, il numero delle vittime, la cattura e le varie curiosità sul loro conto nessuno è totalmente sovrapponibile alle defnizioni dei “tipi” studiate per anni dall’fbi.

Madre del termine che utilizziamo tutt’oggi, l’fbi conia la defnizione di “assassino seriale” negli anni Settanta, dando fnalmente un nome a uno specifco fenomeno che si stava verifcando negli Stati Uniti in quel decennio. Uomini sociopatici, privi di qualsiasi empatia, avevano iniziato a uccidere compulsivamente vittime, spesso donne, per motivi quasi sempre esclusivamente sessuali. La defnizione “serial killer”

aveva lo scopo di dare un nome a qualcosa di misterioso e terrorizzante, ma soprattutto di indentifcare un movente, un punto di partenza su cui imperniare le lunghe e complicate indagini legate a quel tipo di criminali.

In questo volume vengono analizzati serial killer di 51 nazionalità, che hanno operato dal 1400 il francese Gilles De Rais, il killer più antico riportato, futura ispirazione per il Barbablù di Perrault al 2020 l’indiano Maina Ramulu, autore di 1 omicidi nello stato di Telegana. Vengono raccontati i casi di 2 donne, non incluse nell’iniziale categorizzazione, e di 22 serial killer che hanno agito in coppia, 10 dei quali marito e moglie. Senza contare la presenza di 4 gruppi di serial killer, come ad esempio quello delle Bestie di Satana.

I modus operandi, le motivazioni più o meno consce , i luoghi del delitto, le armi utilizzate, il sesso, l’età, l’etnia delle vittime: tutto questo è tanto vasto e tanto vario che riuscirebbe a far perdere la bussola al più valente agente profler americano, così come al più competente psichiatra criminologo.

Con questo non si voglia intendere che l’obiettivo del volume è scardinare ogni impianto metodologico di analisi esistente o demolire decenni di studi realizzati da professionisti di prim’ordine in tutto il mondo (cosa che l’autrice di questo lavoro non è). Bensì la volontà ultima è quella di complessifcare ciò che si tende troppo facilmente a semplifcare, dare giusta luce alle contraddizioni, a quanto c’è ancora di indefnito, misterioso, inafferrabile nelle storie di questi criminali così particolari.

Mai come in questo periodo storico i rifettori sono stati puntati su questo macabro, tristemente affascinante argomento, e mai come ora c’è stata tanta confusione e sensazionalistico pressappochismo nel raccontarlo. In questo volume non si vuole né banalizzare, né spiegare, né categorizzare nulla. Tutto ciò che si vuole fare è raccontare, ragionare, riportare, quanto più fedelmente possibile, fatti che ancora oggi continuano a lasciarci profondamente turbati, sconvolti dalle sconfnate possibilità criminali della mente umana.

Tra i serial killer citati corrispondenti a 300 schede, essendo le coppie e i gruppi sopradetti raccolti in un’unica voce ve ne sono tra i più celebri a cui è stato dedicato un sostanzioso approfondimento. Gli statunitensi che hanno coniato la defnizione stessa del termine: Ted Bundy, ohn Wayne Gacy o “Killer Clown”, Ed Kemper, effrey Dahmer e Dennis Rader “BTK”, oltre all’antesignano H. H. Holmes il russo Andrej ikatilo noto come “Il Mostro di Rostov” il franco-vietnamita Charles Sobhraj o “The serpent”.

In questi approfondimenti vengono raccontate le storie dei rispettivi criminali dall’infanzia fno alla cattura e al processo, ricostruite attraverso le loro stesse confessioni, le testimonianze di amici e parenti e i documenti prodotti dalla polizia. Tutti casi molto diversi tra loro, che bene riescono a esemplifcare la natura multiforme del fenomeno serial killer e che, ebbene sì, portano alla luce l’unica vera ricorrenza effettivamente riscontrabile: la fallacità dell’apparenza. Uomini che sembravano assolutamente comuni, affabili, ben inseriti nella società, prodighi di attenzioni per la comunità in cui vivevano. Uomini buoni, generosi, amati da tutti, padri, mariti, amici di una vita, colleghi, vicini di casa sempre disponibili a dare una mano. In alcuni casi rassicuranti per la loro bellezza, in altri per la loro mitezza. Tutti, però, con un gigantesco, inconfessabile, torbido segreto. Tutti, insospettabilmente, efferati serial killer.

NOTA: il numero di vittime riportato per ciascun serial killer è quello ufficiale accertato dalle indagini. In alcuni casi, il numero di vittime totali sospettate è riportato tra parentesi. Questa cifra comprende le vittime accertate e quelle attribuite al killer ma non confermate dalle indagini.

ABUELAZAM, ELIAS

(Ramla, 29 agosto 1976)

israeliano

Vittime: 5, dal 2009 al 2010, in Virginia.

Modus operandi: le vittime uomini afroamericani di bassa statura, che camminavano soli per strada venivano avvicinate mentre era alla guida della sua auto, con la scusa di chiedere indicazioni stradali. Dopodiché venivano accoltellate allo stomaco e al petto.

Cattura: grazie alle testimonianze di alcune vittime di aggressione e ai video delle telecamere di sorveglianza su alcune scene del crimine, la polizia riuscì a creare un preciso identikit. Venne fermato casualmente a un posto di blocco, identifcato come il killer e arrestato l’11 agosto del 2010, mentre tentava di fuggire a Tel Aviv. Nel 2012 è stato condannato all’ergastolo.

Curiosità: data la grande quantità di prove a suo carico, durante il processo la difesa tentò di dimostrare l’incapacità di intendere e di volere di Abuelazam, che però non gli venne riconosciuta. In passato aveva lavorato come operatore in un centro di salute mentale a Leesburg, fno al 200 .

ADAMS, JOHN BODKIN

(Randalstown, 21 gennaio 1899 – Eastbourne, 4 luglio 1983)

irlandese, anche noto come Dottor morte

Vittime: accertate 0 (163 sospettate), dal 1935 al 1956, nel Regno Unito.

Modus operandi: è sospettato di aver ucciso i suoi pazienti con misteriose iniezioni, al fne di truffarli e derubarli.

Cattura: a seguito della denuncia di una parente di una vittima morta all’improvviso e in circostanze sospette la polizia si rese conto che dei 310 atti di morte frmati da Adams, 163 erano di persone dalle quali lo stesso aveva ricevuto donazioni testamentarie. Le infermiere con cui aveva lavorato riferirono di averlo visto fare ai pazienti “iniezioni speciali” e fu colto in casa sua dalla polizia mentre nascondeva dosi di morfna. Tuttavia, non furono trovate prove suffcienti per incriminarlo, se non di uno solo degli omicidi, per il quale comunque venne giudicato non colpevole il 9 aprile del 1957.

Curiosità: pur non essendo stato condannato per omicidio, venne accusato per falsifcazione di certifcato medico e falsa testimonianza, e condannato a pagare una multa di 24.000 sterline, più le spese processuali. Inoltre, il 27 novembre del 1957 gli fu revocata l’autorizzazione a prescrivere farmaci pericolosi e venne poi radiato dall’albo dei medici.

AKINMURELE, STEPHEN

(Nigeria, 16 marzo 1978 – Manchester, 28 agosto 1999)

britannico, anche noto come The Cul-De-Sac Killer

Vittime: 5, dal 1995 al 199 , a Blackpool nel Regno Unito.

Modus operandi: le vittime tutte persone anziane venivano aggredite nelle proprie case e picchiate o strangolate a morte, oppure bruciate vive.

Cattura: su una delle scene del crimine era stata ritrovata l’arma utilizzata dal killer, una specie di manganello ricavato da due batterie. Su questa, furono rinvenute delle impronte digitali, subito connesse ad Akinmurele, che era già stato schedato in precedenza. Il 1 agosto del 199 venne arrestato e dopo aver confessato alcuni degli omicidi si suicidò in cella nell’agosto del 1999.

Curiosità: sospettato inizialmente di essere un gerontoflo, interrogato dalla polizia Akinmurele aveva invece affermato di provare un particolare divertimento nell’uccidere le persone anziane. Il suo soprannome “Cul-DeSac Killer” deriva dalla scelta dei luoghi dei suoi delitti: quartieri suburbani, che non lasciavano via di scampo.

ALBRIGHT, CHARLES

(Amarillo, 10 agosto 1933 – Lubbock, 22 agosto 2020)

statunitense, anche noto come The Dallas Ripper, The Dallas Slasher e The Eyeball Killer

Vittime: 3, dal 1990 al 1991, a Dallas in Texas.

Modus operandi: le vittime tutte giovani prostitute venivano uccise a colpi di pistola alla testa. Dopodiché, dopo averle spogliate, cavava loro gli occhi e abbandonava i corpi in luoghi isolati.

Cattura: grazie alle evidenti prove lasciate sulle scene del crimine, ed essendo Albright già stato schedato e arrestato anni prima per violenza sessuale, venne arrestato il 22 marzo del 1991 e condannato al carcere a vita nel dicembre dello stesso anno.

Curiosità: nel 19 4 aveva fatto domanda per diventare un capo scout, ma senza successo. Diceva di sé stesso di essere un vero e proprio uomo del Rinascimento, dato che parlava fuentemente il francese e lo spagnolo, e sapeva dipingere, suonare Chopin e recitare le poesie di ohn Keats. In prigione divenne allenatore di softball.

ALCALA, RODNEY

(San Antonio, 23 agosto 1943 – Corcoran, 24 luglio 2021)

statunitense, anche noto come The Dating Game Killer

Vittime: accertate 7 (più di 100 sospettate), dal 1977 al 1979, in California.

Modus operandi: le vittime tutte giovani donne venivano aggredite a colpi di martello e poi soffocate fno a far perdere loro coscienza, ma senza ucciderle. Quando rinvenivano, le soffocava di nuovo, ripetendo il processo fno alla loro morte.

Cattura: grazie alle testimonianze raccolte, la polizia era riuscita a ricostruire un identikit del killer. Essendo Alcala già stato arrestato per stupro, fu proprio il suo agente di libertà vigilata a identifcarlo. Grazie alle prove forensi e alle tracce di dna rinvenute su una delle scene del crimine, venne arrestato il 27 luglio del 1979 e condannato a morte l’anno successivo.

Curiosità: il suo soprannome “The Dating Game Killer” deriva dalla sua partecipazione nel 197 al gioco a premi televisivo The Dating Game (nella versione italiana Il Gioco delle coppie), quando aveva già compiuto 2 dei 7 omicidi. Dopo il servizio militare si era laureato alla ucla School of the Arts and Architecture a Los Angeles e successivamente aveva studiato cinema a New ork sotto falso nome con Roman Polanski.

Cultura pop: nel 2017 la storia di Alcala venne raccontata nel flm di Peter Medak Dating Game Killer. Nel 2023 è uscito anche Woman of the Hour, diretto e interpretato dall’attrice statunitense Anna Kendrick.

KELLER, YVAN

(Wittenheim, 13 dicembre 1960 – Mulhouse, 22 settembre 2006) francese, anche noto come Le tueur à l’oreiller (Il killer dei cuscini)

Vittime: 23, tra il 1989 e il 2006, in Francia.

Modus operandi: le vittime – tutte donne anziane – venivano aggredite in casa propria, durante la notte, soffocate con un cuscino e derubate.

Cattura: Keller fu denunciato tre volte tra il 1993 e il 2003, da un suo complice, una sua ex compagna e l’ultima da suo fratello. Le prime due denunce non portarono a niente, ma la terza, dopo tre anni di indagini, condusse al suo arresto nel 2003. Sotto custodia, confessò subito i suoi crimini, dichiarando anzi di aver ucciso 150 persone anziane in Francia, Germania e Svizzera. Incriminato solo di cinque omicidi, il 22 settembre del 2006 si suicidò nella cella detentiva del tribunale di Mulhouse, impiccandosi con i lacci delle scarpe.

Curiosità: nel 1984 era stato già arrestato per rapina a mano armata all’età di 17 anni. All’epoca dei fatti era un giardiniere paesaggista, conosciuto e stimato nel suo quartiere. Agli occhi dei suoi vicini di casa era un uomo mite e gentile, di basso proflo con il denaro ricavato dai furti, in realtà, pagava gli ingenti debiti di gioco e le lussuose vacanze all’estero.

NOME, COGNOME

(Luogo) nazionalità

RODRIGUES DE BRITO, FRANCISCO DAS CHAGAS

Vittime: testo

(Caxias do Sul, 1964) brasiliano, anche noto come il responsabile del Caso dos meninos emasculados no Maranhão (Caso dei ragazzi evirati del Maranhão)

Modus operandi: testo

Cattura: testo

Vittime: accertate 30 (42 sospettate), dal 1989 al 2003, nello stato di Maranh o in Brasile.

Curiosità: testo

Cultura pop: testo

Modus operandi: le vittime – tutti bambini e preadolescenti dai 10 ai 14 anni – venivano violentate, soffocate o uccise con oggetti appuntiti e infne mutilate ed evirate in alcuni casi, il killer bruciava i corpi o li decapitava.

Cattura: nel 2003, una delle ultime vittime, prima di scomparire, aveva riferito che si sarebbe recato proprio da de Brito. Arrestato come principale sospettato, fu lui stesso a confessare l’omicidio del ragazzo e di altri 15, mentre nel terreno di casa sua venivano ritrovate le ossa di due corpi umani. In seguito, de Brito confessò altri omicidi, per arrivare ad un totale di 42. Venne condannato nel 2006 a 20 anni di carcere, ai quali se ne aggiunsero molti altri negli anni successivi, fno ad arrivare ad un totale di 580 anni e 10 mesi.

Curiosità: il caso divenne di rilievo internazionale, in quanto la presunta negligenza dello stato di Maranhão circa i crimini portò l’Organizzazione degli Stati americani (OAS) a citare in giudizio il Brasile, sostenendo che il paese non aveva protetto i diritti umani delle vittime e delle loro famiglie. In seguito, il governo brasiliano dovette risarcire le famiglie delle vittime.

TED BUNDY

Bello, affascinante, carismatico. Un aspirante avvocato con una cerchia di amici importanti, impegnato in politica, religioso, un compagno premuroso e amorevole. Come potrebbe un uomo del genere, il “ragazzo della porta accanto”, essere l’autore degli atti più turpi e degli omicidi più efferati che l’America avesse mai visto? È proprio grazie al suo aspetto rassicurante che Theodore Robert Bundy ha potuto agire indisturbato per quattro lunghi anni picchiando, stuprando, uccidendo, mutilando e violentando post mortem almeno 30 ragazze dal 1974 al 1978. Il primo vero e proprio serial killer americano, tristemente famoso in tutto il mondo, che rimane ancora oggi un mistero parzialmente risolto.

Per molti secoli l’umanità è rimasta legata a un’espressione dicotomica del mondo, diviso tra bene e male, bianco o nero, buono o cattivo, brutto o bello.

Mentre la luce, il sole, la natura e la creazione sono concetti sempre assimilati al bene, a tutto ciò che vi è di positivo, il buio, l’ignoto, ciò che non poteva essere capito, venivano legati invece a qualcosa di non buono, di malvagio.

Ciò che sfuggiva alla comprensione umana, dunque, fniva per essere considerato qualcosa da evitare, o peggio qualcosa da temere.

Allo stesso modo, col passare dei secoli, due concetti fondamentali di questa troppo superfciale se non invalidante dicotomia si sono sovrapposti, creando in noi uno dei maggiori inganni dell’umanità: il brutto e il maligno.

Già a partire dai greci, promotori dei concetti matematici di cui ci serviamo ancora oggi per codifcare il mondo, della geometria e dei canoni fsici di bellezza e di armonia come quelli di Policleto, il buono si è subito identifcato col bello.

Il cristianesimo, poi, ha defnitivamente ratifcato il concetto, grazie alla rappresentazione di un bellissimo Gesù contro un diavolo multiforme spaventoso alla vista.

Insomma: nel sentore comune i belli sono buoni e i brutti cattivi. Questa estrema semplifcazione di due dei concetti più complessi dell’uomo se da un lato ha aiutato in passato a dare ordine al mondo, in epoca moderna ha avuto modo di mostrare tutta la propria fallacia. Per fare solo un banale esempio, tutte le maggiori dittature hanno basato la propria propaganda sulla bellez-

Ted Bundy

za fsica come virtù da perseguire, eliminando dalla società ogni tipo di difformità e bollando l’handicap come un errore della natura da epurare.

Ancora oggi, anche se siamo lontani da questo estremismo, per molti di noi, più o meno consciamente, il bello inteso in tutte le sue forme, diffcilmente si associa a qualcosa di negativo.

La forma fsica perfetta, il vestiario curato, i movimenti misurati, gli accessori costosi, la pulizia e l’educazione continuano ad essere dei valori che polarizzano l’essere umano verso il positivo, anche se di quella persona non conosciamo nient’altro che la sua forma esteriore.

Quando poi ci troviamo di fronte a un uomo o a una donna belli e anche ben inseriti nella società, con un buon lavoro, una stabilità economica, facenti parte di un gruppo sociale accettato e apprezzato, ci rimane pressoché impossibile credere che dietro a quella forma si possa nascondere qualcosa di brutto.

È precisamente questo il motivo per cui Theodore Robert Bundy ha potuto agire indisturbato per quattro lunghi anni uccidendo almeno trenta ragazze dal 1974 e il 1978.

Ted era bello, affascinante, con una buona carriera universitaria e aspirazioni da avvocato, un uomo di cultura, interessante e appassionato, con una cerchia di amici importanti.

Chiunque venne in contatto con

lui prima dell’incarcerazione e del processo rimase totalmente sconvolto nel sentire che l’uomo che avevano conosciuto, il dolce e premuroso Ted, potesse aver compiuto dei simili atti.

La brutalità delle testimonianze delle ragazze scampate alla morte, la malignità che si evince nelle tecniche utilizzate da Bundy per attirare tali ragazze nella sua trappola mortale sono qualcosa di talmente estremo che continuano a sembrare troppo per un’unica persona, per quel tipo di persona.

Attratte con gli inganni più subdoli, come il fngersi in diffcoltà attraverso la famosa tecnica del “braccio ingessato” resa celebre dal flm Il silenzio degli innocenti, poi violentate, picchiate, stuprate, uccise, mutilate, abusate sia da vive che da morte.

Un killer spietato, il primo vero e proprio killer seriale (prima ancora che la defnizione venisse coniata) incredibilmente famoso in tutta America e in tutto il mondo, tanto da diventare un caso mediatico di proporzioni eccezionali.

Sempre professatosi innocente nel corso del processo, estraneo ai fatti, risulta diffcile capire ancora oggi quali fossero le motivazioni alla base di una simile violenza e brutalità.

Per quanto psicologi, psichiatri e medici di ogni tipo abbiano tentato di scavare nella mente di Ted e tro-

vare la spinta che lo ha portato a fare ciò che ha fatto, senza l’esplicita volontà di Ted stesso di raccontarsi i risultati sono sempre stati deludenti. Traumi familiari? Violenze subite dai genitori? Il trauma dello scoprire a vent’anni che quella che fno a quel punto aveva creduto essere sua sorella in realtà era sua madre?

La poca volontà di Bundy di raccontare i suoi atti turpi (contrariamente a molti altri serial killer ai quali ripercorrere le proprie gesta sembra galvanizzarli) unita alle sue abilità manipolatorie e alla sua scaltrezza hanno fatto sì che per molti anni il suo operato fosse avvolto dal mistero.

Ad oggi, come vedremo, grazie ad alcune testimonianze e interviste successive dello stesso Bundy, si riesce parzialmente a trovare il bandolo della matassa della sua lucida follia omicida. Tuttavia, molti aspetti della vita oscura di Ted sono e rimangono avvolti nel mistero, tenendoci sempre in bilico tra l’incapacità di intendere e di volere e la brutalità senza fne di chi invece è completamente presente a sé stesso.

Il killer che tutti conoscono, il nome che tutti mormorano, rimane ancora oggi un mistero parzialmente risolto, una valanga di terrore bloccata nell’effetto, ma non intimamente compresa nella causa.

Un killer che operava nel periodo storico di massima diffusione del fenomeno di serialità omicida in

America, gli anni Settanta, scossi di per sé da un livello di disordini e di criminalità che fecero tremare per la prima volta l’intero paese.

Charles Manson, il fglio di Sam, Ed Kemper, John Gacy e altri a livello locale avevano già suscitato paura e scandalo nelle grandi e piccole comunità, ma ciò che Ted Bundy rappresentò per gli americani fu decisamente senza precedenti.

Dietro allo scalpore di Ted, ancora una volta, c’è l’enigma della sua personalità e l’impossibilità di accettare che un uomo bello, curato e brillante come lui potesse essere lo spietato assassino che emergeva nel corso del processo.

Il trauma collettivo dell’essere stati ingannati dal modello del bravo ragazzo americano creato dagli americani stessi fu qualcosa che turbò e cambiò profondamente la popolazione, portandola a fdarsi sempre meno del famoso “ragazzo della porta accanto”.

1. Il ragazzo della porta accanto

La storia di Ted Bundy è ammantata di torbido mistero ancora prima della sua nascita.

Siamo nel 1946 a Burlington, nel Vermont, quando la ventiduenne Eleanor Louise Cowell partorisce un bellissimo bambino nell’ospedale Elizabeth Lund Home For Unwed Mothers il 24 novembre.

Non si tratta di un ospedale comune, bensì di una struttura riservata specifcatamente alle ragazze madri, come infatti è Louise.

Suo padre Samuel e sua madre Eleonor, quando hanno scoperto che la loro fglia era incinta e che non vi era nessuna traccia del padre, hanno convenuto fosse meglio farla partorire il più lontano possibile da casa sua a Philadelphia.

Nessuno sa con certezza chi sia il vero padre. Louise racconta di aver incontrato subito dopo il liceo un militare in congedo, un tale di nome Jack Worthington, del quale però non si ha alcuna traccia nei registri.

All’epoca essere ragazze madri signifcava dover subire uno stigma sociale talmente potente da rischiare di perdere tutto: amici, lavoro, famiglia. Dunque i coniugi Cowell, in accordo con Louise, avevano deciso che il piccolo Theodore sarebbe stato cresciuto come fglio loro e lei sarebbe stata per lui una sorella.

Già molto prima che Ted venga alla luce, quindi, il segreto, la menzogna e il dubbio fanno parte della sua vita, tantopiù che i parenti più stretti dei Cowell dichiareranno in seguito qualcosa di ancora più sconcertante.

Sebbene non sia stato mai effettivamente dimostrato, in molti puntarono il dito contro Samuel Cowell stesso, accusandolo di aver violentato sua fglia e che Ted sia il frutto di un rapporto incestuoso. Saranno in molti a raccontare sul si-

gnor Cowell una verità molto diversa da quella del padre/nonno amorevole che tenne sempre a ricordare Bundy. I vicini e i conoscenti lo additeranno come un violento, razzista e antisemita, che picchiava moglie e fglia.

Ciononostante, per i primi tre anni della vita di Ted questa soluzione sembra funzionare a gonfe vele. Ted cresce bene, circondato dall’affetto dei suoi nonni/genitori e nessuno sembra sospettare niente o, quantomeno, nessuno ha il coraggio di dire niente.

Tuttavia, non si può impedire a una madre di essere tale troppo a lungo. Poco prima del quarto compleanno di Teddy, Louise lascia la casa dei suoi genitori a Philadelphia e porta con sé suo fglio a Tacoma, nello stato di Washington.

I due vivono per un po’ a casa di uno zio di Louise, Jack, un professore di musica del liceo di Tacoma, gentile, elegante e acculturato, che diverrà ben presto un modello per Ted. All’inizio però il trasferimento è traumatico. A quanto dice lo stesso Ted, le cui dichiarazioni andranno sempre e comunque prese con le pinze, Tacoma rappresentava la fne dell’idillio di Philadelphia e l’inizio della vita in una grigia città di palazzoni.

Tuttavia, non era certo questo il vero shock del trasferimento. La cosa che più tormentava Ted era il fatto di non capire il reale motivo dietro questo spostamento.

Perché sua sorella avrebbe dovuto portarlo in un’altra città, lontano dai propri genitori, per vivere a casa di uno zio che, sebbene gentile, aveva davvero poco a che fare con lui?

Nonostante se lo domandasse, non poteva certo avere la risposta. Per tutta la prima parte della sua vita, fno all’adolescenza, Ted sarà convinto che sua madre Louise sia davvero sua sorella, e sua nonna sia sua madre.

In questa inconsapevole confusione, in realtà, vive un’infanzia e un’adolescenza non dissimile da quella di molti suoi coetanei dell’epoca.

Sua madre inizia presto a lavorare come segretaria per il concilio ecumenico di Tacoma e inizia a frequentare la chiesa metodista, dove incontra quello che sarà l’uomo della sua vita: John Bundy. John è un uomo molto semplice, quasi illetterato, con poche ambizioni nella vita: trovare un lavoro stabile e sistemarsi. Quando incontra Louise è un modesto cuoco in un ospedale per veterani e nulla più, ma questo a lei non importa. La cosa davvero importante è che John accetta Ted senza farle domande.

Così, nel 1951 i due convolano a nozze e Louise e Ted lasciano casa dello zio. Si tratta di un ulteriore cambiamento che scombussolerà ulteriormente il piccolo Ted, causandogli una insana gelosia nei confronti di Louise.

A peggiorare le cose sarà la nascita di una sorellina piccola, Linda, che causerà a sua madre una grande sofferenza fsica durante il parto. Questo non farà che peggiorare la percezione di Ted nei riguardi del suo patrigno, inconsciamente accusato di tutto quel dolore infitto a sua madre/sorella.

Inoltre non sopporta il tenore di vita di questa sua nuova famiglia.

All’arrivo di una seconda sorella i Bundy si trasferiscono in una casa più grande e in un quartiere più povero su Sherdian Street. Il vicinato è multiculturale e accogliente e tutto intorno c’è un grande bosco in cui i bambini possono giocare a lungo senza correre pericoli. Tutto sommato, non è un brutto posto in cui vivere e Ted si trova spesso in compagnia di coetanei con cui giocare. Da subito, però, dimostra un certo attaccamento per gli oggetti materiali, i vestiti costosi e tutto quello che lo differenzi dagli altri. Sua madre fa di tutto per compiacerlo e per permettergli di adattarsi a quella che sa essere una vita completamente nuova per lui. Compra per lui i vestiti più alla moda e cerca di non fargli mai mancare niente, nel limite delle scarse fnanze della famiglia.

Nonostante il grosso segreto che si porta dentro, Louise fa di tutto per far vivere a Ted una vita normale. Lo segue nelle attività scolastiche, si assicura che si integri con gli altri

bambini, lo iscrive ai boy scout e lo educa secondo i principi cristiani.

Così cresce Ted, apparentemente un bambino normale, come tanti altri della sua età e del suo quartiere, ma con dentro tante domande e tanto futuro risentimento.

Durante i colloqui e le interviste Ted racconta la sua infanzia, superati i traumi iniziali, come spensierata e piacevole. Si ricorda i pomeriggi trascorsi a giocare con gli altri bambini, a catturare le rane nel fume.

I suoi insegnanti hanno una buonissima opinione di lui. È uno studente modello, intelligente, uno dei primi della sua classe, sempre calmo e tranquillo, forse fn troppo. Ted sta principalmente sulle sue. Anche se non si sottrae del tutto alla socialità e si trova spesso a giocare con vicini di casa e compagni di scuola, non sembra mai completamente adattarsi al contesto in cui vive.

Quando interagisce con gli altri raramente prende iniziativa e sembra

avere qualche diffcoltà nell’esprimere le emozioni. Raramente sembra davvero contento e spensierato. Capita invece a volte che Ted abbia dei forti scatti di rabbia. Il suo amico di infanzia Warren racconta di un episodio in cui, durante un gioco, colpì Ted in un occhio e questo si scaraventò come una furia su di lui, atterrandolo e mettendogli le mani al collo.

Altri raccontano di come quelle rare volte in cui si arrabbiava cambiasse completamente faccia, le sue pupille si dilatavano e nei suoi occhi si potesse leggere una collera adulta e inquietante.

Insomma, Ted è un bambino tranquillo e sulle sue fn tanto che qualcuno o qualcosa non lo interessi in prima persona. Allora le sue reazioni si fanno decisamente spropositate e spesso violente. L’impressione generale è quella di un bambino che non riesce a essere fno in fondo come gli altri bambini. Durante le attività scout ha diffcoltà con le cose più semplici, dal fare i nodi a giocare in squadra, a sparare col fucile ad aria compressa: non c’è una cosa in cui sembra davvero bravo o per cui sembrava portato. Una sua compagna di giochi racconta che in un’occasione, durante un campo scout, lui e un suo amico avevano costruito nel bosco una trappola, scavando una fossa e riempendola di bastoni appuntiti, per poi ricoprirla con foglie secche.

Ted da bambino

Se venisse la tentazione di ridurre quest’episodio a un gioco tra ragazzini, una leggerezza in buona fede, si dovrà specifcare che la trappola non era stata pensata per gli animali, ma appositamente per gli altri bambini del campeggio, tanto che una delle bambine presenti si procurò un brutto taglio proprio cadendovi dentro.

Il piccolo Ted si era divertito a creare una trappola e ad aspettare di vederci cadere qualcuno, nella fattispecie una bambina, probabilmente iniziando a esercitare quel sadismo che tanto lo contraddistinguerà in età adulta.

Crescendo, il suo carattere va stabilizzandosi verso quella precaria quiete dai tratti inquietanti che aveva iniziato a mostrare già da bambino.

Con l’arrivo della preadolescenza

Ted inizia col tempo a isolarsi sempre di più rispetto a quanto non facesse da bambino. Per quanto lui si sforzi e provi a integrarsi non sembra che gli altri vogliano più passare del tempo con un tipo strano come lui.

Inizia così a rifugiarsi nella sua mente, nei suoi sogni. Prima sogna di abitare in un altro quartiere, di essere adottato da Roy Rogers e Dale Evans e avere così tanti soldi da potersi permettere un pony.

Poi si ritrova da solo, in cameretta, ascoltando i programmi radiofonici notturni in cui vengono fatte le inter-

viste e sogna di essere uno degli intervistati. Si fa da solo le domande e si risponde e immagina un futuro in cui sarà davvero il numero uno, ricco e famoso, un uomo importante. Quando arriva al liceo il suo obiettivo è ormai chiaro: vuole riscattarsi da quella vita misera e banale che gli hanno dato i suoi genitori e diventare l’uomo ricco e rispettabile che sente di essere.

Peccato che, ancora una volta, si tratti solo di fantasie. Benché Ted sia cresciuto e sia diventato un bel ragazzo, affascinante e atletico, il suo carattere continua a non aiutarlo nei suoi progetti di scalata.

Si impegna molto per uniformarsi agli altri, si iscrive alla squadra di football ma è troppo magro e non è mai stato portato per il gioco di squadra. Quindi inizia ad allenarsi da solo: scia per lo più e si dedica all’atletica.

A parte queste attività, però, Ted è ben lontano dall’essere un adolescente popolare e ben integrato. No-

Ted durante un’attività scout

nostante lui menta su chi conosce e chi frequenta, nessuno può davvero dire di essere suo amico.

Non esce mai, non va al cinema, non si lascia andare alle tentazioni alcoliche degli adolescenti e non è minimamente interessato alle ragazze, nonostante sia davvero un bel ragazzo. Come dirà in seguito in un’intervista, non è che le ragazze non gli piacessero, piuttosto lui delle ragazze non sapeva proprio “che farsene”.

Quando gli altri ragazzi in classe o nello spogliatoio raccontano delle proprie esperienze con le ragazze o esprimono apprezzamenti sessuali spinti, Ted ascolta senza capire davvero che cosa intendono. Per lui il sesso, così come lo intendono quei ragazzi, è completamente un mistero.

Sciatore, atleta, candidato a rappresentante di classe: il ragazzo modello, il tipico ragazzo americano della porta accanto, sono solo una fnzione che Ted racconta agli altri e a sé stesso nelle sue ore solitarie.

Il liceo rappresenta una battuta d’arresto molto importante a livello sociale, diventando per lui un vero e proprio muro che non sarà mai in grado di abbattere.

Anche il suo rendimento scolastico, nonostante tutto il suo impegno e la sua diligenza, non è affatto brillante come si sforza di far credere a tutti. Quando gli anni del liceo volgono

al termine nel 1966 la sua media è una B scarsa, cosa che gli permette a malapena di guadagnarsi una piccola borsa di studio nell’università della zona.

Tutto quello che si era impegnato a nascondere così bene stava inesorabilmente venendo a galla e Ted in prima persona cominciava a percepirsi come un vero e proprio fallimento.

È esattamente in questo periodo, di per sé già molto duro, che Ted subisce uno dei più grossi colpi della propria vita.

La dinamica degli eventi non è chiara, in quanto esistono due versioni della storia in cui Bundy venne a conoscenza della sua vera identità.

La prima versione è quella raccontata da Bundy stesso, in cui dice di essersi imbattuto per caso, cercando tra i documenti, in un certifcato di nascita in cui si leggeva che quella che credeva sua sorella in realtà era sua madre e che suo padre era “sconosciuto”.

A quanto disse lui, questa rivelazione non lo sconvolse più di tanto: per lui Louise era sempre stata come una seconda madre e non aveva importanza il ruolo o il nome con cui l’aveva chiamata, ma solo l’affetto e l’amore che aveva ricevuto da lei. Inoltre, questa scoperta non era stata tanto uno shock quanto un’occasione per scoprire un nuovo sé stesso e ricominciare da capo con la sua vita.

La versione di Ted, tuttavia, non può

che apparirci come inverosimilmente stucchevole. Tanto che, come accennato nell’introduzione, una delle fdanzate di Bundy, Liz Kloepfer, ha fornito una versione totalmente diversa raccontatale da Ted stesso.

Secondo questa versione sarebbe stato suo cugino, il fglio dello zio John di Tacoma, a mettere Ted di fronte alla verità. Bundy dapprima avrebbe rifutato di credergli con tutte le forze ma poi era stato costretto a ricredersi una volta visto il certifcato di nascita.

Ted a quel punto avrebbe avuto un moto profondo di rifuto e risentimento nei confronti tanto di sua madre che del suo patrigno John, che ormai era chiaro che non fosse nulla per lui se non un uomo che lo aveva adottato.

Sebbene Bundy non lo ha mai dichiarato apertamente, questa rivelazione sarà un trauma profondo che si porterà dietro per tutta la vita, incistandosi su una situazione psicologica e emotiva già di per sé precaria.

I suoi anni di liceo fniscono così, con una serie di speranze deluse e fantasie disattese da una realtà troppo dura per essere sorretta da un ragazzo problematico e isolato come Ted.

Non ci vorrà molto prima che il giovane Bundy fnisca in una spirale di bruta violenza, che lo porterà alla creazione di quella tanto sanguinosa doppia identità di bravo ragazzo della porta accanto di giorno e terribile e brutale assassino di notte.

2. Sogni di gloria

Uno dei tratti caratteristici del modello umano del serial killer – tra i tanti che se ne possono citare come il delirio di onnipotenza, il disturbo narcisistico di personalità o gli ovvi (se non scontati) problemi con la fgura genitoriale femminile – è quello della doppia personalità.

La famosa doppia vita che hanno questi soggetti non ha solo a che vedere con l’esigenza di nascondere i propri crimini e continuare a commetterli senza essere catturati. Si tratta anche di qualcosa di più profondo, che ha radici nella mente del serial killer e nel suo modo di ragionare.

In molti casi, nel corso dei vari processi e dei trattamenti psichiatrici, i serial killer dichiarano di non ricordare gli episodi legati agli omicidi o comunque di sentirsi totalmente distaccati da essi, come se non li avessero compiuti loro.

Questa dissociazione, benché spesso si possa trattare semplicemente di negazione ai fni del processo, è una delle parti fondamentali della psicologia di Ted Bundy. Si tratta di qualcosa che si porta dietro fn dall’infanzia, quando sogna e fantastica una vita che non ha, fatta di ricchezze e agi che non potrà mai avere e che si sviluppa in adolescenza e durante il liceo.

Se all’epoca si tratta semplicemente di una fantasia di fuga, comune a

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