Altrimenti mi arrabbio

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altrimenti mi arrabbio di Bud Spencer con Lorenzo De Luca. A cura di David De Filippi.

© 2024, Burno © Smile Production srl Tutti i diritti riservati. Collana Grandi, 2

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Progetto Grafco della Copertina: Sebastiano Barcaroli

Service Grafco: Ruslan Viviano © Allstar Picture Library Ltd / Alamy Stock Photo per la foto in copertina.

Stampato in Cina – febbraio 2025

Burno Edizioni

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BUD SPENCER - LORENZO DE LUCA

A CURA DI DAVID DE FILIPPI

ALTRIMENTI MI ARRABBIO

Prologo L’appuntamento

Fu l’ultima telefonata, in ordine di tempo, che ricevetti nel giorno del mio ottantesimo compleanno. Ero ritornato dalla festa al ristorante e mi ero attardato a giocare a pari e dispari col nipote più “piccolo”, alto uno e novanta e mio omonimo; poi, nonostante l’ora tarda, mi ero messo a girovagare inquieto per casa, come se stessi attendendo qualcosa. O qualcuno.

Se ne erano andati via tutti. Mia moglie si era già addormentata, così come fgli e nipoti, ognuno nella propria casa.

Io no. E lo squillo del telefono non mi aveva colto impreparato.

«Pronto?», risposi.

Dall’altro capo, una voce massiccia e familiare mi salutò.

«Auguri, Carlo».

«Ti ringrazio di cuore, oggi a me… domani a te!», ribattei, sicuro che l’altro avrebbe colto l’ironia.

«Hai ballato il charleston alla tua festa?» domandò la voce.

«L’ho fatto solo due volte in tutta la vita, una al cinema e una per davvero. Lo sai».

«Sorpreso di risentirmi?», chiese l’altro.

«Ti sopravvaluti: alla mia età è un po’ difcile restare sorpreso. La curiosità però mi è rimasta».

«Non ti sei dimenticato del nostro appuntamento, vero?», chiese befardo il mio interlocutore.

«Al contrario», lo stoppai, «non mi sono nemmeno spogliato. Sapevo che ci saremmo visti oggi. Dove ti raggiungo?»

«Se vuoi vengo io da te», mi propose.

«No, non è il caso. Se ti vedesse mia moglie le verrebbe un infarto oppure si farebbe ricoverare nel più vicino reparto di neuropsichiatria. Preferisco venire io da te».

Presi la penna, segnai l’indirizzo che l’altro mi dettò, poi riappesi la cornetta e uscii dall’appartamento senza il minimo rumore, nonostante la taglia extralarge. Tuttavia, anche se mia moglie mi avesse visto uscire a quell’ora, non sarebbe rimasta stupita più di tanto: da quando in tutto il mondo mi chiamavano Bud Spencer, in casa mi avevano ribattezzato il Marziano, per via della mia imprevedibilità…

La piscina coperta era vuota e buia, com’era logico che fosse, data l’ora. I rifessi della luna piena visibile dalle vetrate del softto danzavano sull’acqua piatta e immota come una lastra di vetro liquida. Entrai guardandomi intorno e respirai a pieni polmoni con un’emozione che non provavo più da molto tempo; l’odore del cloro mi ricordava un’epoca assai remota, della quale, per fortuna, non avevo dimenticato quasi nulla ma non sono mai stato un tipo nostalgico. Di colpo le luci si accesero e vidi l’uomo alto e bruno, poco più che ventenne, entrare in costume da una porta in fondo: un fsico vigoroso, statuario, accompagnava un’espressione del viso al contempo simpatica e un po’ strafottente. Faceva ciò che uno sportivo non dovrebbe mai fare prima di una gara, e che in verità nessuno dovrebbe fare comunque: fumava.

Con aria provocatoria gettò la cicca solo un istante prima di tufarsi, non prima di avermi fatto l’occhietto: poche e poderose bracciate e arrivò verso di me. Uscito dalla piscina, indossò l’accappatoio e mi raggiunse, sempre con quell’aria di sfda dipinta in volto.

«Ciao, Bud», mi disse scoccandomi un sorriso tutt’altro che fasullo: sotto l’aria smargiassa, era sinceramente contento di vedermi. L’emozione era reciproca e lo salutai, sorridendo a mia volta: «Ciao, Carlo».

«Ti trovo bene», osservò, «un po’ cambiato, magari. Quella panciona. E la barba… Però ti donano!», aggiunse, sedendosi accanto a me, mentre si asciugava i capelli col cappuccio dell’accappatoio.

«Io non ti trovo cambiato, invece», gli dissi. «Ne sono passati di decenni, ma sei rimasto sempre lo stesso stronzo che fuma prima di tufarsi, come se per te le regole del buonsenso non valessero».

Il giovane nuotatore scosse le spalle: «Non vorrai farmi credere che tu invece sei diventato un vecchio saggio, vero? Devo aspettarmi che ora attaccherai a scrivere trombonate come Socrate!».

«Non solo provocatore, ma anche ignorante. Socrate non scrisse una sola riga dei suoi pensieri. Semplicemente li tramandava, raccontandoli a voce».

«Lo so benissimo. Volevo solo vedere se ci cascavi. Non dimenticarti che io conosco l’Anabasi di Senofonte a memoria. Perciò, non darmi dell’ignorante!».

«Uh, certo: citi l’Anabasi ma non ne conosci il signifcato. L’hai assimilata grazie alla tua buona memoria: eri capace di riflarla ai professori tutta d’un fato, senza dar loro tempo di chiedertene il senso. Bel trucco ma puoi darla a bere agli altri, non a me», ribattei con gusto alla sua simpatica arroganza.

Carlo sorrise ancora, incrociando le mani dietro la testa: «Ah già, dimenticavo che sto parlando con uno che mi conosce bene!».

«Io invece so bene che sto parlando con Carlo Pedersoli, il campione di nuoto che ancora non ha scoperto di che pasta è fatto». Lo zittii per un istante, ma non durò troppo a lungo. Poi il giovane proseguì: «Dici? Io dico invece che la mia pasta è eccezionale: proprio oggi ho battuto il record dei cento metri stile libero, sono il primo italiano capace di scendere sotto la barriera del minuto. Una medaglia grossa così! Campione d’Italia!».

Lo smontai subito: «Bravo, ma se non fumassi, magari, a quest’ora saresti campione del mondo». L’avevo punto sul vivo, tuttavia dissimulò scoppiando in una risata tonante che non mi irritò, poiché era identica alla mia; io invece non andai oltre il sorriso, ma lui aveva capito benissimo che mi faceva davvero piacere rivedere me stesso da giovane. Se in quel momento ci avesse sorpreso qualche strizzacervelli, l’uno

o l’altro – o entrambi – ci saremmo ritrovati in camicia di forza con diagnosi da dissociazione di personalità o bipolarismo: nel mondo reale non sarebbe stato possibile che l’attore Bud Spencer, al secolo Carlo Pedersoli, dialogasse de visu col campione di nuoto Carlo Pedersoli, non ancora prestato al cinema. Se questo può sembrare bizzarro e schizofrenico, basti pensare che ci sono persone pronte a giurare che Dio è morto, ma che Elvis Presley è ancora vivo!

Dunque perché stupirsi se io, nel giorno della mia ottantesima primavera, ho accettato di incontrarmi con me stesso? In fondo, se ho fatto quel che ho fatto nella vita (poco o tanto che sia) è proprio per il tipo di flosofa assimilata durante la mia formazione sportiva. Mentre, infatti, il successo nel cinema mi è stato dato dal pubblico, che me lo toglierà quando riterrà di averne avuto abbastanza di me, il primato di un nuotatore è deciso dal cronometro, da un parametro oggettivo. L’opinione non conta. Questo era un concetto astruso al cervello del “fco da spiaggia” con cui stavo dialogando; inoltre, non volevo certo rinfocolare la sua grande autostima, col rischio di fargli montare ulteriormente la testa. Queste rifessioni durarono qualche secondo. Giusto il tempo di vedere il giovane Carlo aferrare un’altra sigaretta per inflarsela tra le labbra, che mi mossi verso di lui. Allungai la mano con una rapidità che lo colse di sorpresa, gliela tolsi e la disintegrai nel pugno, prima ancora che lui riuscisse ad accenderla.

«Hai paura che mi faccia male?» chiese, preso alla sprovvista.

«No, ma con me non serve che fai o’ spaccone, anche se hai vent’anni e pensi di essere Superman!» Il nuotatore si rilassò su una sedia in plastica a bordo piscina, distendendo e incrociando le due colonne che aveva al posto delle gambe. Poi mi parlò di nuovo: «Allora che mi racconti, Bud? Come ci si sente alla tua età?».

«Una meraviglia, solo che a volte il mio cervello da ventottenne si dimentica che il corpo ne ha ottanta e succede un casino! Tu, piuttosto?».

«Be’, oddio», ribatté, «io invece sono giovane e forte! E anche assai più bello di te, se permetti. Ti sei un po’ lasciato andare in questi anni».

Mi passai la mano sul viso in segno di esasperazione: un gesto che ho riproposto centinaia di volte nei miei flm, ma che in quel momento non c’entrava con il copione. Nemmeno il prurito alle mani, che quei tre minuti scarsi di conversazione con il mio giovane io mi avevano scatenato, faceva parte della fnzione cinematografca.

Per sedare l’impulso di menarlo, mi limitai a uno schiafetto amichevole sulla guancia, con molta meno forza di quanto avrei desiderato adoperare. Comunque cinque aloni rossi rimasero stampigliati sul suo bel viso napoletano.

«Guagliò», gli dissi a muso duro, prima di rivolgergli una domanda retorica, «hai mai pensato che, per quanto giovane, forte e bello, un giorno arriverà uno più giovane, più forte e più bello di te e nessuno ti si flerà più?».

Lui si massaggiò la guancia arrossata, rispondendo infastidito e con fare vagamente minaccioso: «Oh, io ti rispetto perché sei più anziano, ma non esagerare con questi bufetti, altrimenti potrei scordare che tu sei me e tirarti un destro come si deve».

«Non penso che tu abbia aspettato sei decadi solo per fare a pugni», ribattei con un sorriso eloquente. Non volevo la lite, ma se quel giovane proprio ci teneva, avrebbe dovuto assicurarsi di farmi fuori al primo colpo; perché, nonostante l’età, non gli avrei dato il tempo di assestarmene un secondo.

Carlo, però, che era strafottente ma non stupido, lo intuì e proseguì la chiacchierata: «Te lo ricordi come diceva nostra madre, no? “A Carlo fatelo lavorare; non fatelo pensare, che altrimenti combinerà dei guai”. Dunque, lo sai che non sono il tipo che porge l’altra guancia. Perciò giù le mani!».

Risposi di getto: «Io tengo giù le mani se tu alzi la saracinesca del cervello».

Per un istante ci fu un duello di sguardi, attraverso quelle fessure che la natura ci ha dato al posto degli occhi che il cloro delle piscine di mezzo mondo aveva contribuito a rendere molto miopi. Poi ci sorridemmo l’un l’altro, restando sempre un po’ distanti, sulla difensiva.

«Te lo ricordi come tutto è iniziato?», chiese il nuotatore con tono rabbonito.

«E come no? Molto meglio di te!».

«Be’, io ho molto meno da ricordare. Per me deve ancora accadere quasi tutto. Anzi, visto che il motivo per cui ti ho chiamato è proprio perché sono curioso di sapere cosa mi aspetta, perché non ci rilassiamo e me lo racconti? Dai! Vediamo se riesci ad afascinarmi e se vale la pena che io spenda i prossimi sessant’anni a vivere la tua vita…».

Rifettei per un istante soltanto. Poi accettai: «Si può fare, amigo. Ma mettiti comodo: sarà una storia lunga».

«Tranquillo», disse, mentre sorrideva impudente, «ho tutta la vita davanti, io». Pronunciò quell’io con rinnovata arroganza e il prurito alle mani si ripresentò prepotentemente. L’istinto sollevò la sgraziata manona che mi porto in dote, pronta per colpire. Ma il mio autocontrollo ebbe la meglio e mi bloccai, stemperando il prurito con una grattatina sul palmo.

Poi sbufai e alzai gli occhi al cielo: «Chissà perché capitano tutte a me!».

E, con una pazienza che ignoravo di avere, iniziai a raccontare.

«Cogito ergo sum». cartesio

«Mangio ergo sum». bud spencer

Napoli 1929-43 Il piccolo Carlo

L’infanzia

Qualcuno mi ha detto che sono nato a Napoli il 31 ottobre 1929 alle quattro del pomeriggio (Scorpione, ascendente Scorpione). Stando allo zodiaco, lo Scorpione è un segno di forte fsicità, alla ricerca di un imperativo di vita e, sotto tale aspetto, con il classico senno di poi e nonostante il mio scetticismo per l’astrologia, devo dire che quel segno era già carico di presagi sul futuro del piccolo Bud. Piccolo lo ero ma non leggero: appena nato pesavo sei chili abbondanti, povera mamma! È stata lei a riferirmi tutte queste cose, perciò presumo di dovermi fdare.

La nascita, se uno si soferma a pensarci, è l’attimo primigenio e più importante della nostra vita. Quello in cui veniamo al mondo, è anche il primo momento in cui ci dobbiamo fdare degli altri e siamo totalmente afdati agli altri, essendo l’uomo l’unico animale che, se lasciato solo appena nato, non è in grado di sopravvivere. Per fortuna poi per i primi anni di vita c’è chi si prende cura di noi, ci aiuta a crescere, ci educa e io ho avuto i migliori genitori possibili. Mio padre e mia madre sono stati sposati per oltre cinquant’anni e a me e a mia sorella Vera hanno trasmesso la tranquillità di una coppia unita che ci ha dato grandi esempi di vita specialmente nei momenti difcili. Con la mia famiglia abitavamo nel quartiere di Santa Lucia, nella zona “in” di Napoli, e il tenore di vita nei primi anni era più che adeguato al posto: sin da piccolo ricordo la macchinona americana di mio padre,

con tanto di autista in livrea e ghette, in attesa sotto casa. Ai miei occhi di bambino l’abitacolo di quella enorme vettura sembrava quello di un’astronave o di un grande aereo e forse fn da allora ho covato il sogno di diventare pilota.

Insomma, il piccolo Carlo Pedersoli se la passava bene assai, anche se ovviamente non poteva rendersene conto né aveva riscontri con le difcoltà del mondo esterno e non conosceva la fame.

Avevo un’istitutrice tedesca, Rosa Polacek, che poi si prese cura di mia sorella Vera, nata quattro anni dopo di me, di cinque chili – e oggi insegnante in una scuola di Roma – provvedendo alla sua educazione. Mio padre voleva capire cosa dicesse suo fglio quando ci parlava e non ci riusciva perché io stavo venendo su a forza di lingua tedesca, senza conoscere l’italiano! Men che meno il napoletano. Rosa era una brava istitutrice e una donna straordinaria, con la quale sono rimasto in contatto per gran parte della vita, fno a pochi anni prima della sua morte. Ricordo che aveva sposato un pompiere di Torre del Greco e quindi, al suo italiano con l’infessione tedesca, tale e quale a quello delle caricature che tante volte uno sente nei flm e nei cartoni animati, si unì un surplus di accento partenopeo, col risultato di un linguaggio divertentissimo!

Rosa Polacek praticamente era diventata più napoletana del marito.

La mia infanzia è stata borghese e ricca, dovrei vergognarmene?

Non credo. E in ogni caso non è dipeso da me. Sì, lo so che di solito le biografe degli attori raccontano d’inenarrabili patimenti all’inizio della carriera (ma se sono “inenarrabili” come mai li narrano?), ma poiché io non mi ritengo un attore bensì un personaggio, mi posso permettere di rompere gli argini – cosa che data la mia mole non ha mai rappresentato un problema – di talune convenzioni letterario narrative. Anche perché noi, senza una lira, ci siamo rimasti pochi anni dopo, durante la Seconda guerra mondiale, quando un bombardamento distrusse la fabbrica di mio padre.

Più d’una volta i miei genitori dovettero ricominciare da capo nell’arco della loro vita matrimoniale, adeguandosi alle sorti d’una

fortuna molto incostante, mentre io e mia sorella nemmeno ce ne accorgevamo: stavamo bene, non capivamo, protetti dall’inconsapevolezza dell’infanzia e dalle cure premurose della famiglia. Non ho dubbi che proprio la mia famiglia sia stata la base dei miei successi. Può sembrare retorico ma la verità tanto più è retorica quanto più è vera.

Mia madre Rosa (in realtà si chiamava Rina ed era nativa di Chiari, nel bresciano, ma tutti la chiamavano Rosa), da moglie di un facoltoso industriale partenopeo, si sarebbe ritrovata più in là nella vita a ricamare i fazzoletti con l’efge del Colosseo per gli americani a Roma, nell’immediato dopoguerra.

Papà, Alessandro Pedersoli, era un industriale proveniente da una famiglia di industriali, che aveva ereditato le sue fortune e si dava da fare per non perderle. Era membro del club Savoia a Napoli, un luogo molto esclusivo che mi portò a visitare, più o meno quando avevo dieci anni e già si respirava l’aria della guerra imminente. Prima che tutto venisse distrutto, ricordo come fosse oggi che mi fece visitare la sua fabbrica, i suoi negozi. Era un uomo onestissimo che mi inculcò il senso di orgoglio verso il cognome di famiglia. Diceva sempre che un Pedersoli non aveva mai ricevuto nemmeno una contravvenzione e che non poteva esistere un motivo materiale per il quale un uomo fnisse per giocarsi la propria dignità. Oggi si direbbe che era un uomo d’altri tempi e in efetti era nato oltre un secolo fa ma quei principi non tramontano mai e sono stati alla base di ogni mio comportamento. Mia nonna materna era bresciana e la chiamavano la Sciùra Ninni (Signora Ninni). Quando andavamo a trovarla, non appena mi vedeva allargava le braccia e – nel suo dialetto che alle mie orecchie suonava poco più comprensibile della lingua cinese – esclamava: «Diu Siùr, che robe! Ven’chi patanfùn della nona…».

E chi la capiva?! Quel patanfùn mi è rimasto in testa fno a oggi. Solo poi realizzai che, dato che non ci vedevamo spesso, ogni volta che mi incontrava mi trovava fsicamente cresciuto in modo impressionante. Le prime volte era lei a prendere in braccio me, qualche anno dopo

invertimmo i ruoli. Questo curioso incrocio di dialetti, di usanze, di “sangue misto” fra Nord e Sud all’interno dello stesso nucleo familiare (e non eravamo certo gli unici), mi ha sin da piccolo educato a considerare l’Italia un unicum, perciò trovo incomprensibile ragionare del Paese dividendolo in schemi rigidi come la regionalità.

Peraltro è certamente vero che ciascuno di noi deve essere orgoglioso delle origini e non tradire le proprie radici. Infatti, nonostante letteratura, teatro e cinema ci abbiano abituati all’idea che la “napoletanità” sia retaggio del disagio, del convivere quotidianamente con la fame e con la morte – il che certamente rivela una verità profonda – forse sono più legato a Napoli io che molti miei conterranei dal “napoletanismo” ostentato e macchiettistico. Perché Napoli non è solo una località geografca; essere napoletani è una condizione dello spirito.

Lo dico con profondo orgoglio: la mia è una napoletanità interiore, meno apparente, non solo perché non ho conosciuto la fame nera da bambino ma soprattutto perché ho vissuto la maggior parte della mia vita all’estero. Ma ci volle pochissimo perché io attingessi a piene mani dallo stereotipo napoletano e ricominciassi a parlare come Totò (del quale ho un ricordo tristissimo, perché era anziano e già quasi cieco quando ebbi modo di conoscerlo). Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, non rappresenta Napoli: la incarna! Attore, compositore, poeta, benefattore, animalista quando non andava ancora di moda esserlo, nobiluomo e giullare, essere umano compassionevole che di notte lasciava di nascosto banconote inflate sotto le porte delle case più povere dei bassifondi. Io non rappresento questa Napoli per le ragioni che ho più sopra esposte e non mi divertirebbe fare o’pazzariello. Forse l’eredità più evidente che mi porto dentro di Napoli è distillata tutta nel mio slogan: “Futteténne! ”. Che non signifca fregarsene di tutto e tutti con allegra superfcialità, bensì non dare un peso eccessivo a ciò che ci riguarda, e stemperare con humour i guai che non sempre, anzi quasi mai, riusciamo a schivare. In poche parole io sono un indomabile ottimista.

Certo, e qui ricado per un attimo nella retorica dei ricordi, la Napoli di allora, negli anni Trenta e Quaranta, era per forza di cose completamente diversa non solo da oggi ma anche dalla Napoli di pochi anni dopo, a guerra iniziata: nella mia memoria di bambino agiato era una città meravigliosa e ridente, elegante e prestigiosa come una capitale. Di quella Napoli mi porto dentro la lingua e la musicalità che, da adulto e poi da anziano, ho riversato in alcune canzoni e ri f essioni.

In quella Napoli, luogo magico e meraviglioso dei ricordi d’infanzia, ho frequentato le scuole elementari e vissuto fno al 1943, quando la guerra annientò il nostro benessere in un solo colpo, e ci costrinse a infoltire le fla degli emigranti. Prima di quest’incubo la città in cui crescevo era quella dei fratelli De Filippo, Edoardo, Peppino e Titina, fgli illegittimi del grande Scarpetta ma già padroni delle scene da quegli artisti immensi che furono; era la città dove la squadra di calcio diretta da Antonio Vojak veniva retrocessa nonostante lo zelo commovente profuso in ogni partita, perché sempre più aumentava lo stremo della città e dell’Italia intera che pensava alla guerra.

Andavo all’Istituto Minerva, di fronte al cinema varietà Santa Lucia, e ricordo mia sorella Vera, di appena quattro anni, che entrava in classe a portarmi una sorta di gavetta di alluminio divisa internamente a scompartimenti (quello col panino, con l’acqua, la frutta eccetera) e mi cercava tra i banchi chiamandomi Lallo, il suo modo di bambina per dire Carlo. Ricordo anche un compagno di scuola con grembiulino e cartella, che poi sarebbe diventato un grande scrittore di successo: il mio amico Luciano De Crescenzo. Anche lui avrebbe fatto dello humour, della capacità di sdrammatizzare, un’arma e una flosofa per afrontare questa cosa pazza e grottesca che è la vita.

Certo che, se l’infanzia è fuga dalla realtà, la mia lo fu in senso letterale almeno in un’occasione: quando io e mio cugino Alessandro –due anni e mezzo io, tre lui, fglio del fratello di mio padre, anch’egli

imprenditore – un bel giorno fuggimmo di casa. Che incoscienti, avevamo poco più di cinque anni in due, ma tant’è!

Volevamo andare alla villa comunale per giocare con gli altri bambini, quando un signore ci ha notato e ci ha riportato a casa, dove nel frattempo era scoppiata una tragedia, tanto che avevano chiamato la polizia. Non so chi fosse quel “salvatore”, ma per noi fu un guastafeste e ci rovinò il divertimento. Per noi, quella villa, esaltata dalla fantasia fanciullesca, rappresentava il Paese dei Balocchi come oggi per un ragazzino è Gardaland. Eravamo usciti di nascosto e avevamo fatto il percorso di sempre: via Orsini, via Santa Lucia, via Chiatamone, parallela di via Caracciolo. Ricordo che avevamo il classico vestitino col pagliaccetto attaccato all’inguine, che si sbottonava per fare pipì. Non ce ne rendemmo conto ma quella fuga ebbe conseguenze quasi drammatiche, poiché era ancora nell’aria il terribile sequestro Lindbergh in America, dove il fglioletto del celebre trasvolatore Charles Augustus Lindbergh fu rapito, assassinato e sepolto in un bosco, dopo il pagamento del riscatto.

Noi proprio non capivamo perché i nostri genitori fossero così agitati, anche se tutto il bailamme di polizia e gente del circondario davanti casa ci suggerì che forse avevamo creato qualche disagio.

Del resto, a quel che ricordo, inciampavo nei guai con molta disinvoltura, come penso accada a tutti i bambini. Ero proprio portato al guaio, mi veniva bene, con naturalezza. Lo cercavo con dedizione e meticolosità.

Per esempio ogni estate, per diversi anni, andavamo in vacanza a Seiano, un paesino sulla penisola sorrentina, dove c’erano i tipici stabilimenti di legno su cui sorgevano le cabine, recintati da una staccionata; ogni staccionata aveva due paletti incrociati nel mezzo. Insomma, una sorta di palaftte piantate un paio di metri sotto la sabbia. Un giorno, volendomi fare una foto ricordo, mia madre mi stava posizionando nel modo migliore per lo scatto: «Va’ più indietro, più indietro», mi diceva, invitandomi col gesto della mano ad allontanarmi dall’obbiettivo. Come nelle barzellette, a forza di andare indietro, fnii per cadere

in mezzo ai paletti della staccionata. Grande paura, tutti che accorrevano gridando ma fortunatamente non era successo niente nonostante avessi anche colpito, nel cadere, una piccola àncora. Fosse stato un ferro di cavallo si sarebbe attribuito un qualche signifcato scaramantico al fatto di essere rimasto illeso, ma ancor oggi non mi viene in mente nulla di simile collegabile a un’àncora.

Proprio in quel di Seiano ebbi il battesimo dell’acqua, quando mi ci buttarono di peso a quattro anni e mezzo. Conoscevo un marinaio meraviglioso, Ninuccio Savarese, che aveva barconi enormi per traghettare i viaggiatori che arrivavano da Napoli col vaporetto, che ancorava al largo, e lui li trasportava al molo.

Mi portava sempre con sé e fu lui a insegnarmi i primi rudimenti del nuoto, lanciandomi in acqua. Ho annaspato per restare a galla e poi, essendo qui ancora oggi a raccontarvelo, evidentemente ho imparato. Tutte le mattine, quando non andavo a scuola, Ninuccio mi veniva a prendere e lo accompagnavo ad accogliere i turisti oppure i mariti delle donne che erano là in vacanza e che raggiungevano nei fne settimana; oppure accompagnavamo al vaporetto i pendolari e quelli che ripartivano. Ero già molto intraprendente e mi piaceva da impazzire andare per mare con lui e quando, molti anni dopo, colsi i miei primi successi nel nuoto, è certamente a Ninuccio che li dedicai: mi mettevano una medaglia al collo, chiudevo gli occhi un istante e in cuor mio glielo dicevo: “Grazie, Ninù, questa è pure un po’ tua!”. In fondo era stato il primo “istruttore”, l’uomo che mi fece scoprire l’acqua come mio elemento naturale e non avrei mai pensato allora che dalla mia capacità di stare a galla sarebbe nata la mia fortunatissima carriera d’attore… e qui torna prepotente lo zodiaco: perché il segno grafco dello Scorpione è la M che rappresenta l’acqua primordiale, lo stadio germinale della vita.

Vicino a Seiano ci sono due paeselli, uno a sud e l’altro a nord, sempre sulla costa: Vico Equense e Meta di Sorrento. Più in là ancora

c’è Scraio, dove da secoli sgorgano sorgenti di acque sulfuree, bianchissime, che emanano un odore terrifcante di uova marce. Più oltre, Castellammare di Stabia, dominato dal Monte Faito; sono luoghi meravigliosi e lassù c’era un’enorme villa d’una zia di famiglia, che aveva un parco con tanto di laghetto e cigni, campetto di bocce e un boschetto. Insomma, ai miei occhi una specie di paradiso dove andavo spesso a giocare. Ma la mia vita non era fatta solo di divertimenti: a otto anni e mezzo feci la prima gara, al Canottieri Napoli, in mare aperto; non c’erano ancora piscine a quell’epoca. Ricordo che avvenne dopo un litigio con mio padre, perché avevo fatto una cosa che non si doveva fare: allora c’erano i dinghi, piccole imbarcazioni che un bambino di otto anni, quale ero io, non avrebbe mai dovuto pilotare da solo. Ciò nonostante, me ne presi uno nel porto e me ne andai al largo, incurante di tutti quei marinai che mi gridavano dietro dal molo. La vittoria nella gara allentò un poco l’arrabbiatura di mio padre. C’era di nuovo mio cugino, nella suddetta gara: lui arrivò ultimo, non era certo portato per il nuoto ma questo non deve ingannare sul suo futuro. Anche lui era un vincente, infatti diventò uno dei più prestigiosi avvocati italiani. Poco dopo quella prima vittoria a Napoli, fui costretto a fuggire a Roma assieme alla famiglia a causa dei bombardamenti: stava arrivando anche per me il momento in cui avrei smesso di essere un bambino felice e spensierato.

Come ho detto prima, fno ad allora la tragedia della guerra ci aveva toccati relativamente e la vita era ai miei occhi addirittura monotona, con tutte quelle corse nei ricoveri, i coprifuochi. I ragazzi riuscivano persino a divertirsi perché si marinava la scuola e si andava in giro a raccogliere le schegge delle bombe, talvolta ancora calde, ignari del pericolo che si correva, addirittura allegri come l’età riusciva ancora a farci essere, e mi scuso se questo mi farà apparire superfciale agli occhi di chi purtroppo ha vissuto vere tragedie a causa del confitto. Non ricordo mai discorsi politici su Mussolini o Hitler o sugli americani e i

giapponesi, dentro casa. So soltanto che i miei, come tutti gli italiani, un giorno si tolsero le fedi nuziali d’oro e le diedero alla patria, pur non essendo né fascisti, né comunisti, ma convinti di fare qualcosa di utile al Paese: amavano la pace ma visto che ormai l’Italia era entrata nel confitto, ritennero di dover fare qualcosa nel loro piccolo per aiutare. Per il resto la politica non abitò mai nelle nostre stanze.

La Napoli della guerra era quella descritta da Curzio Malaparte nel suo dolentissimo La pelle, o dal cinema neorealista, fatta di sciuscià, “segnorite”, “borsa nera” e fame anche più nera. Ricordo anch’io gli scugnizzi miei coetanei che vendevano sigarette di contrabbando camufandone i nomi anglofoni col dialetto: le Chesterfeld diventavano Cess’e ferro; le Camel le chiamavano O’ ciuccio co’ scartiello; Allucca e strilla stava per Lucky Strike, così come È pall’ammano era il nome in codice delle Pall Mall. Era una piccola umanità afamata che si arrangiava per sbarcare il lunario. Ricordo come fosse oggi il giorno in cui la follia bellica cessò di esser solo una bizzarra cornice ai miei giochi: fu annunciato dal fragoroso scoppio d’una nave carica di esplosivi, ancorata al porto, davanti alla fabbrica di famiglia, una costruzione di sei piani nella zona industriale adiacente al molo. Vi si producevano mobili in ferro e se non fosse andata distrutta, saremmo divenuti un marchio nazionale come Zoppas o Ignis, tanto era grande e forida; la nave che saltò in aria colpita dai bombardieri americani era carica di munizioni e l’efetto di ritorno fu disastroso: la fabbrica venne rasa al suolo e nella disgrazia fu una gran fortuna che non vi fossero vittime, ché era domenica e non c’era nessuno.

A causa del grande porto, Napoli era obiettivo di continui raid aerei e dopo un altro bombardamento che fece crollare anche parte del ricovero in cui ci eravamo rifugiati, mio padre decise di trasferirsi a Roma insieme a suo fratello. Una nota amara e befarda a margine di tutto ciò fu che tentarono di convincere anche un loro amico il quale invece decise di trasferirsi in un paese vicino a Napoli. Poche settimane dopo il nostro trasloco venimmo a sapere che, una bella domenica,

mentre era a passeggio con la moglie, si staccò un pezzo di cornicione dalla chiesa e lo uccise sul colpo. Come recita quel vecchio adagio: “Puoi alzarti molto presto, anche all’alba, ma il tuo destino si alza sempre mezz’ora prima di te”.

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