BREVISSIMA NON-STORIA DELLA POPOLAZIONE ROHINGYA

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claudio canal

BREVISSIMA NON-STORIA DELLA POPOLAZIONE ROHINGYA

Ottobre 2017


Brevissima si capisce subito. Non-storia ha bisogno di qualche chiarimento. Rohingya è una parola, prima di essere una popolazione. Ha quindi una storia di per sé. In Myanmar non esiste. Tutti la conoscono, sanno a chi si riferisce, ma è una parola interdetta. Anche Kofi Hannan, a capo della Commissione d’inchiesta internazionale voluta da Aung San Suu Kyi, nel suo rapporto dell’agosto 2016 dichiara: In accordo con la richiesta del Consigliere di Stato [cioè Aung San Suu Kyi] la Commissione non usa né il termine Bengali [quello usato dal governo] né Rohingya, a cui ci riferiamo come Musulmani o comunità musulmana in Rakhine. Quest’ultima non include i Musulmani Kaman, a cui ci riferiamo semplicemente come Kaman. Che mi ricorda l’atteggiamento di un proconsole romano a Gerusalemme mentre si sciacquava le mani.

foto Marta Tucci


Che Rohingya sia così indicibile è tuttavia falso. Una smentita tra le tante a disposizione è in un libro edito dal Ministero dell’Educazione birmano nel 2012:

Storici, polemisti, studiosi, hanno rincorso la parola con la convinzione che trovandola in qualche carta o scolpita su pietra sarebbe anche spuntata la gente ivi nominata. Se poi per caso la trovano si accapigliano, perché la storia non fa la pace, è anzi la piattaforma di partenza per lacerare gli animi. Infatti quando la incontrano in un testo del 1799 di un medico scozzese che stava da quelle parti, Francis Buchanan, comincia il finimondo. Sono loro, non sono loro. Quasi tutti presi dall’idea che una popolazione, un’etnia, sia una cosa precisa, primordiale, ancestrale e fissa, dai confini antropologici nettamente definiti. In pratica, una razza, come si trattasse di levrieri o di bulldog. Questa razializzazione delle popolazioni non avviene solo in Birmania, come sappiamo, ma qui il determinismo etnico ha avuto una particolare santificazione dal colonialismo inglese che l’ha celebrato attraverso la catalogazione, la definizione, la gerarchizzazione delle popolazioni e degli istituti sociali e politici autoctoni. Ricorrendo ad una sbrigativa mappatura delle terre e delle menti definendo certe regioni Frontier/Excluded/Scheduled Areas e il resto Ministerial Burma o Burma proper. La burocratizzazione della politica e dello Stato ha significato dovunque il rafforzamento dei criteri etnici. Il centro e la periferia, le terre alte e le terre basse, le terre escluse e le terre proprie, che l’impero di Sua Maestà saprà manipolare molto bene, dopo tre dure guerre di conquista nel XIX secolo. Per la precisione va ricordato che le ampie fondamenta dell’Impero Britannico in Asia furono impiantate da una start up dell’epoca, la prima grande multinazionale Compagnia Britannica delle Indie Orientali e non direttamente dallo Stato, che darà invece il suo fattivo contributo nella fase di consolidamento e ampliamento.


Un tratto caratterizzante della storia birmana, dal XIII al XVIII secolo, è il suo andamento ciclico, in cui il Sud, la Lower Burma, patria del regno e cultura Mon, e il Nord, la Upper Burma, regni di cultura bamar-birmana, sono in continua tensione, che spesso assume le forme dello sfruttamento e della distruzione. Avranno la meglio alla fine i birmani.

Official of the East India Company riding in an Indian procession, watercolour on paper, c. 1825–30; in the Victoria and Albert Museum, London.

La complessa architettura amministrativa e antropometrica –chiamiamola cosìmessa in piedi dagli inglesi era ovviamente funzionale ad un più stretto controllo politico e un adeguato sfruttamento economico. Al contrario, in epoca precoloniale le frontiere di fatto non esistevano e le affiliazioni etniche erano fluide. Anche i nomi delle popolazioni/etnie non erano rigidi, spesso intercambiabili e adattabili alla diversità delle situazioni politiche, che fossero un principato, un regno, una città-stato, una federazione di potentati. Una biblioteca spropositata documenta questa realtà, sia in Birmania sia altrove. Come dovunque, una identità etnica è anche, e soprattutto, una costruzione politica.


Mrauk-U, or Arrakan (city of Arrakan), in the first plan the Portuguese settlement of Daingri-pet. In Wouter Schouten : Oost-Indische Voyagie, t.o. p. 148. 1676

Gli innominabili Rohingya abitano oggi soprattutto nella parte nord dello Stato Rakhine, già Arakan. Si chiama Stato, ma è una delle 14 divisioni amministrative di Myanmar. Da sempre l’Arakan è uno Stato che ha bordi mobili verso il mare, il Golfo del Bengala e verso l’India [prima Sultanato del Bengala, poi Raj Britannico, poi Pakistan Orientale, poi Bangladesh], e bordi rigidi verso la Birmania, da cui è separato grazie ai 400 chilometri di montagne. Lo Stato Arakan, che ha una storia millenaria [vedi lo splendido volume di Pamela Gutman, storica australiana scomparsa nel 2015], nel 1784 viene invaso e occupato dall’esercito di Bodawpaya della dinastia Konbaung, ultima casa regnante birmana. Nella prima Guerra anglo-birmana [1824-1826] il re dovrà cedere agli inglesi l’Arakan conquistato quarant’anni prima, e altre regioni acquisite con famelica bellicosità. Nella terza guerra anglobirmana del 1885 il re Thibaw e la regina Supayalat saranno costretti dagli inglesi ad abdicare e verranno deportati in India. L’annessione della Birmania, propria e non propria, da parte degli inglesi è a questo punto totale [lo scrittore indiano Amitav Gosh racconta magistralmente la fine della dinastia in Il palazzo degli specchi, Einaudi, trad. Anna Nadotti].



La città che si chiama Rosānga è un luogo incomparabile sulla terra, sempre ricco di cereali e di pesci. Libera dal dolore e dalla sofferenza vi abitano mercanti che vivono di commercio in libero sviluppo Questo è l’incipit di un poema di Ālāol [1607-1673], eminente poeta bengalese che, rapito da pirati portoghesi, viene consegnato alla corte del Regno Mrauk U [poi Arakan], dove esercita il suo mestiere di letterato con il sostegno della élite militare musulmana al servizio dei re buddhisti. Rosānga è il nome in bengali di Mrark U, capitale dell’omonimo regno che, nei suoi 350 anni di esistenza – dal 1429 al fatidico 1784-, si è esteso più volte a nord, ben oltre gli attuali confini tra Birmania-Rakhine e Bangladesh. È un ambiente cosmopolita quello di Mrauk U, in cui i musulmani bengalesi residenti parlano l’arakanese, la lingua locale variante del birmano, il bengali, la lingua franca transregionale, e il persiano, la lingua internazionale [l’inglese del tempo]. Le complesse stratificazioni culturali consentono al regno di avere ampi rapporti commerciali e diplomatici con gli altri poteri dell’area, diventando una potenza navale. Ālāol interpreta il suo compito in modo molto “laico”, diremmo oggi, decantando la figura del sovrano che persegue l’armonia che garantisce la prosperità, in cui la tigre e l’agnello si abbeverano alla medesima fonte. Approfondimenti : le radici delle influenze religiose in Michael W.Charney, Where Jambudipa and Islamdom converged: Religious Change and the Emergence of Buddhist Communalism in Early Modern Arakan [Fifteenth to Nineteenth Century] Paul Wormser, Thibaut d’Hubert, Représentations du monde dans le golfe du Bengale au XVIIe siècle : Ālāol et Rānīrī, Thibaut d’Hubert, Jacques P. Leider, Traders and Poets at the Mrauk U Court. Commerce and Cultural Links in Seventeenth Century Arakan Thibaut d’Hubert, Pirates, Poets and Merchants: Bengali Language and Literature in Seventeenth Century Mrauk-U Stephan Egbert Arie van Galen, Arakan and Bengal : the rise and decline of the Mrauk U kingdom (Burma) from the fifteenth to the seventeeth century AD Richard Foster, Magh Marauders, Portuguese Pirates, White Elephants and Persian Poets: Arakan and Its Bay-of-Bengal Connectivities in the Early Modern Era

Importante, soprattutto per noi, riconoscere questa storia multiforme e plurale in cui gli intrecci di culture, di commerci, di musiche, di religioni risultano molto alti. Problematici, come sempre, ma non distruttivi.


L’area della città Mrauk U è attualmente una meraviglia di architetture, d’arte e di natura. Non molto frequentata, per la difficoltà di arrivarvi da Yangon o Mandalay, e proprio per le tensioni tra le popolazioni. Koe Thaung pagoda, costruita dal re Dikkha tra il 1554 e il 1556



L’annessione dell’Arakan da parte di Bodawpaya nel 1784 ha significato il trasferimento del simbolo della sovranità dell’Arakan stesso, il Buddha di MahaMuni, nella capitale birmana, Amarapura, la deportazione di 20.000 prigionieri, la fuga di molti al di là del fiume Naaf [lo stesso attraversato oggi] negli allora territori britannici, lo svilupparsi di una resistenza antibirmana e, soprattutto, ha dato lo spunto agli inglesi per intervenire. Questioni locali ma anche Grande Gioco tra le potenze coloniali europee: la Francia da Sud, dalla sua Indocina, minacciava di espandersi verso l’area birmana e andava fermata in tempo.

Buddha MahaMuni a Mandalay

Conclusione: con le tre guerre anglo-birmane tutta la Birmania diventa provincia del Raj Britannico, colonia di una colonia. Le frontiere già flebili e porose spariscono. Gli inglesi trasferiscono nella nuova entità molti indiani come quadri amministrativi, tecnici, artigiani, operai, prestasoldi [Chettiar], proprietari terrieri, imprenditori, in posizione preminente e di prestigio, anche se sempre sotto la loro supervisione. Pratica che applicano ovunque nel loro impero. A Rangoon [poi Yangon] nel 1931 vivono 212.929 indiani e 121.998 birmani [v. N.Ranjan Chakravarti, The Indian Minority in Burma, Oxford Un. Press, 1971, pag 19]. La lettura di Giorni di Birmania [Burmese Days] di George Orwell rende viva questa nuova stratificazione nello stesso tempo etnica e di classe.


Centro, Rangoon, Sule Pagoda

Nel Novecento si manifestano i primi germi del nazionalismo birmano che lotta per l’indipendenza. Di forte impronta buddhista avrà come ispiratori due monaci venerati poi come eroi nazionali. Lo scontro con gli indiani sarà inevitabile. Il termine dispregiativo kalar, indicante i musi neri non birmani, colpirà prima genericamente gli indiani, poi si applicherà più specificamente ai musulmani e oggi va forte per i rohingya. Un caso da manuale del rapporto stretto e complesso tra capitalismo e razza si avrà nel 1930 quando lo sciopero dei portuali indiani a Rangoon, sostituiti dai britannici con lavoratori birmani, produrrà, al rientro dello sciopero, gravi disordini anti indiani con 200 morti. Replica nel 1938 con motivazioni simili ed altre di nuovo conio legate ai matrimoni misti e con una caratterizzazione più anti musulmana. Da allora la linea del colore segnerà a fondo la società birmana. Nella colonia britannica per incrementare la coltivazione del riso verrà facilitato e incoraggiato l’arrivo di migranti coolies dal Bengala verso l’Arakan e la Bassa Birmania, in assenza ormai di frontiere [gli attuali India, Pakistan, Bangladesh, Birmania formavano allora un tutt’uno]. L’economia ha bisogno di nuove braccia, il mercato spinge e i nuovi arrivati, in maggioranza musulmani, andranno a sovrapporsi alle comunità musulmane residenti. La complessità della situazione è studiata da un lavoro importante: A Colonial Economy in Crisis: Burma's Rice Delta and the World Depression of the 1930s, di Ian Brown, Routledge Curzon, 2005.


Truppe giapponesi in Birmania

La seconda guerra mondiale non farà che aggravare la frattura tra le consistenti e numerose minoranze etniche e la maggioranza bamar-birmana. La Birmania britannica, dal 1937 non più colonia di una colonia, ma colonia “autonoma”, diventa una prima linea molto importante nello scacchiere orientale. I giapponesi la invadono nel 1942 avendo di mira, a Nord, la Cina del nazionalista Chiang Kaishek e, a Sud, l’India britannica. La politica coloniale aveva applicato il governo diretto-direct rule alla Birmania centrale, quella più sfruttabile economicamente, e il governo indiretto-indirect rule alle aree alte, abitate dalle minoranze, meno interessanti e utili. Certe popolazioni cristiane, come i Karen, ad esempio, fin dall’Ottocento si sono alleate con gli inglesi. L’invasione giapponese ha rinvigorito, armi alla mano, il dualismo birmani v/s resto del paese. Popolazioni non-birmane sono state alleate dell’esercito inglese, per altro composto in buona parte da indiani e africani delle colonie, gli indipendentisti birmani, guidati dal giovane Aung San, padre di Aung San Suu Kyi, hanno combattuto a fianco dei giapponesi, salvo cambiar fronte verso la fine della guerra.


Aung San promosso generale del BNA [Burma National Army], in attesa di essere ricevuto dall'Imperatore giapponese Hirohito, Marzo 1943

All’avanzare dei giapponesi in Arakan l’amministrazione inglese si ritira in India e l’area diventa una terra di nessuno in cui buddhisti e musulmani, pur molto divisi all’interno delle loro comunità, si trovano schierati su fronti opposti. I musulmani prevalentemente con gli inglesi e i buddhisti con i giapponesi fino alla loro disfatta. Sul terreno c’è la grande guerra tra anglo-indiani [e cinesi, americani, africani] e giapponesi [e thailandesi], dentro cui si combattono piccole guerre sanguinose fatte di incendi di villaggi, spietate rappresaglie, esecuzioni sommarie. Tutti colpevoli di essere collaborazionisti di qualcuno.


soldati indiani e africani dell'esercito inglese in Birmania

soldati africani arruolati nelle divisioni inglesi che combattono in Birmania


Terminata la guerra, avviato il processo di indipendenza guidato da Aung San [ucciso nel 1947], delineato uno Stato nominalmente federale, ma nella sostanza etnocratico, a predominanza birmano [bamar] buddhista, in quasi tutte le aree “di frontiera”, “excluded”, si costituiscono milizie indipendentiste/secessioniste.


Nell’Arakan la scena politico-militare vede una triangolazione in cui sono attivi i comunisti [il più antico partito birmano presente su tutto il territorio della nuova nazione indipendente, dopo il 1989 autoriciclatosi in altri schieramenti], i federalisti locali oppositori dello Stato centralizzato di Yangon e i secessionisti musulmani che dagli anni Cinquanta cominciano a definirsi Rohingya, etichetta politica che si trasforma in marchio etnico. Due narrative contrapposte e simmetriche si vengono così man mano costruendo: le rispettive definizioni etnico-politiche si solidificano e una strisciante guerra civile caratterizza i decenni successivi. Formazioni di mujaheddin di varia denominazione e ispirazione guerreggiano con il Tatmadaw, l’esercito birmano, soprattutto dopo il colpo di Stato militare del 1962. Si alternano trattive politiche, tregue e scontri militari, e, come non bastasse, conflitti anche con le varie milizie arakanesi [buddhiste, Arakan Liberation Army, Arakan Army…] che a loro volta combattono contro il governo centrale, di cui accettano però la versione dei Rohingya come immigrati irregolari. Una guerra al cubo.

Arakan Liberation Army

Decenni di conflitti incastonati nel conflitto generale tra centro e minoranze, di cessate il fuoco e trattative, di esodi di massa e di ritorni. La diffidenza e l’odio crescono. Nel 1977 una massiccia operazione di “catalogazione” della popolazione, Naga Min-Re Dragone, crea il panico e 200.000 musulmani fuggono in Bangladesh. Il successivo rimpatrio è faticoso, ostacolato e ingovernabile.


Le fonti internazionali cominciano a parlare di apartheid per la popolazione musulmana del Nord Arakan. La legge del 1982 non riconosce l’esistenza di una parola/entità rohingya e soprattutto non riconosce lo status di cittadini ai musulmani del nord Arakan.

Ragazza rohingya foto Steve Gumaer

Nel 2012/13 un vero pogrom si abbatte sui musulmani della Birmania. Non solo sui rohingya, ma sugli altri musulmani che abitano nel centro del paese e che sono portatori di storie completamente autonome e diverse. Una xenofobia diffusa alimentata da iniziative politiche ben costruite rende l’attualità drammatica.


Questo disegno è tratto da un libro appena pubblicato e che suppongo non sarà mai tradotto in italiano: Kazi Fahmida Farzana, Memories of Burmese Rohingya Refugees. Contested Identity and Belonging, Palgrave, 2017.

L’autrice, studiosa malese, da anni raccoglie poesie, canzoni, disegni dei rohingya, adulti e bambini, rifugiati dispersi nel SudEst Asiatico. In questo sono rappresentate le due situazioni di partenza e di arrivo, a sinistra in Myanmar, a destra in Bangladesh, separate dal fiume Naaf. Molto simili nell’oppressione. In un altro suo lavoro è possibile ascoltare [e vedere] due canti, uno dei quali riporto qui: rohinga-song-audio.mp3


Questa traccia storica si conclude con una musica e con una foto in cui donne rohingya rifugiate in Malesia seguono corsi di lingua, preludio ad una esistenza meno tormentata.


Qualche riflessione e informazione l’ho raccolta qui e qui. Nel libro in immagine ho cercato di ricostruire la complessa dinamica storicopolitica della Birmania/Myanmar.


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