Azione 10 del 6 marzo 2017

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10

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Cultura e Spettacoli

Gli Adamini sui cantieri degli zar

Editoria L’operosità di Tomaso, Leone e Domenico nei disegni conservati in Ticino studiati da Nicola Navone

Elena Robert Si rivolge alla comunità scientifica e a un pubblico più vasto la pubblicazione della raccolta di disegni conservata in Ticino degli architetti Adamini di Bigogno d’Agra, attivi a San Pietroburgo dalla fine del ’700 sino a metà ’800. Il volume, che per la prima volta indaga analiticamente la loro opera, esce nel ventesimo di attività dell’Archivio del Moderno dell’Accademia di architettura – USI, diretto da Letizia Tedeschi e segna un nuovo importante progresso su uno dei fronti di ricerca intrapreso fin dalla nascita dell’istituto, che ha portato a qualificarlo come un polo di riferimento in Europa per lo studio della cultura architettonica in epoca neoclassica in Russia. L’autore del catalogo e del corposo saggio che lo precede, Nicola Navone, vicedirettore dell’Archivio del Moderno e docente all’Accademia di architettura, è in prima linea impegnato da vent’anni nell’approfondimento scientifico del fenomeno dell’«aristocrazia» dell’emigrazione in Russia dalla Collina d’Oro nel ’700 e ’800. Alla riuscita delle ricerche dell’istituto ticinese hanno concorso l’apertura degli archivi delle famiglie Gilardi e Adamini ora conservati all’Archivio del Moderno, le molteplici collaborazioni con istituti museali e di ricerca svizzeri, italiani e russi, e il sostegno della Fondazione culturale della Collina d’Oro con Alessandro Soldini, della Fondazione Gilardi e del Comune di Collina d’Oro. Sono stati promossi in questi vent’anni nelle aree geografiche di riferimento convegni internazionali, un grande progetto abbinato a una mostra e la pubblicazione del corpus grafico degli architetti Gilardi di Montagnola attivi a Mosca (Alessandra Pfister e Piervaleriano Angelini, 2007). Studi e ricerche che sono alla base del volume odierno, frutto di ulteriori approfondimenti archivistici svolti da Nicola Navone in Russia, Svizzera e Italia. La raccolta Adamini è ricca e sostanzialmente integra dalle origini. Si

compone degli elaborati grafici riuniti da Tomaso Adamini (1764-1828), già in occasione del suo primo rientro a Bigogno nel 1810, e dai suoi due figli Leone (1789-1854) e soprattutto Domenico (1792-1860), le cui opere principali sono la casa per il mercante Antonov all’angolo tra la Mojka e il Campo di Marte (comunemente chiamata «Casa Adamini», 1823-1827), a San Pietroburgo, e la chiesa cattolica di Giovanni Battista a Carskoe Selo (1824-1826). La pubblicazione è dedicata a loro e alla raccolta di disegni che costituirono, mentre si indaga solo in parte l’attività del più noto cugino Antonio (1794-1846), per il suo ruolo nell’elevazione delle colonne dei portici della cattedrale di Sant’Isacco e soprattutto della Colonna Alessandrina eretta nel 1832 sulla piazza del Palazzo d’Inverno su progetto del francese Auguste de Montferrand. Anche per il Fondo Adamini si rileva il valore scientifico dell’insieme a livello internazionale, contribuendo lo stesso a far luce sui fenomeni di transfert tra la cultura architettonica italiana e russa. Si pensi, annota Nicola Navone, al ruolo dei costruttori italiani o ticinesi nella diffusione dei progetti architettonici elaborati a San Pietroburgo o a Mosca e realizzati nelle province, ma anche dei modelli deliberatamente imposti e messi in opera nelle campagne dall’imperatore Alessandro I (dal 1801 al 1825). La composizione articolata della raccolta Adamini, comprendente soprattutto l’opera di Tomaso e di suo figlio Domenico, in misura minore di Leone, e per quanto riguarda Antonio solo quella nei cantieri condivisi con i cugini, è interessante per la sua eterogeneità dovuta alla presenza di fogli di oltre una decina di architetti di nazionalità diverse operanti a Pietroburgo: documentano con una visione lungimirante il contesto nel quale lavoravano gli Adamini e l’ammirazione per l’operato di illustri colleghi. Tra questi fogli ve ne sono 22 di Francesco Bartolomeo Rastrelli (1700-1771) riferiti al monastero Smol’nyj, di grande

Progetto di rifacimento della cattedrale di Sant’Isacco, a San Pietroburgo, 1823 Archivio del Moderno. (Fondo Adamini)

rilevanza in quanto di quest’opera si registrano solo altri 25 disegni conservati in istituzioni russe o straniere. Ci sono poi fogli dell’italiano Carlo Rossi (17751849), fra i quali il prospetto completo dello Stato Maggiore, alla cui costruzione partecipò Domenico; o ancora di Luigi Rusca di Agno (1762-1822), per il Maneggio del Palazzo Aničkov; come pure del bergamasco Giacomo Quarenghi (1744-1817), per gli interventi nell’area dello Smol’nyj, l’Istituto Caterina e la sede del Consiglio di Tutela del Monte di Pietà. Al seguito di quest’ultimo, architetto di corte in Russia per 38 anni dal 1779, uno dei massimi protagonisti del rinnovamento neoclassico della capitale e dell’intera cultura architettonica in Russia furono molti Ticinesi attivi nella capitale. Nell’ambito del programma internazionale di celebrazioni per i duecento anni dalla morte di Giacomo Quarenghi, fino al 17 aprile la Pinacoteca Züst a Rancate espone i suoi disegni nelle raccolte grafiche degli architetti ticinesi, tra i quali quella degli Adamini. Nel saggio introduttivo al catalogo,

la minuziosa indagine di Nicola Navone è vestita di un taglio narrativo. Ne risulta, anche per il ricorso a non pochi contenuti inediti delle lettere scritte dagli Adamini ai famigliari a Bigogno (oltre un centinaio, trascritte nel 1997 da Mario Redaelli, nell’ambito delle ricerche compiute, con Pia Todorovic, sugli architetti della Collina d’Oro in Russia) uno spaccato vivo dell’attività a San Pietroburgo di questi capomastri e architetti particolarmente apprezzati nella capitale anche dalla committenza privata. Ancora sprovvisti della classica formazione accademica rispetto ai loro discendenti, si erano però esercitati nella piccola scuola di disegno aperta da Tomaso tra il 1810 e il 1814 circa nella casa di famiglia a Bigogno, avevano letto testi di architettura e in seguito praticato mestieri edili in botteghe nel nord Italia. Pur non avendo in linea di massima veicolato rilevanti linguaggi architettonici propri, tramandarono un peculiare modo di fare architettura, che si espresse nel vivo dei più presti-

giosi cantieri di San Pietroburgo. L’autore individua nella raison empirique e nella perizia costruttiva i caratteri che contraddistinsero il successo degli Adamini in una terra che, certo, offriva tantissimo lavoro ma in condizioni operative tutto sommato ostili per diversità culturale, clima, rivalità, competitività: dimostrarono uno spirito di adattamento notevole ai ritmi infernali dei cantieri pietroburghesi, versatilità, abilità organizzative, imprenditoriali e soprattutto relazionali nel tessere contatti, alleanze e strategie professionali e parentali, oltre che nel promuovere i propri interessi. Il volume sarà presentato alla Biblioteca cantonale di Lugano in primavera. Bibliografia

Nicola Navone Gli architetti Adamini a San Pietroburgo. La raccolta dei disegni conservati in Ticino, Mendrisio Academy Press-Silvana Editoriale 2017, 254 pp. www.arc.usi.ch/archivio

Quattro passi in prosa con Giorgio Orelli Recensioni Tornano in libreria i racconti di Un giorno della vita, pubblicati nel 1960 Pietro Montorfani Proviamo a fissare una data: l’autunno del 1960. A quell’altezza cronologica colui che di lì a poco sarebbe diventato il più celebre poeta svizzero di lingua italiana, con meriti che non si discutono, non aveva ancora mostrato, in quel genere, tutte le sue carte. Lungi dal dichiararsi soltanto – si fa per dire – uno scrittore in versi, era andato muovendosi come una cellula staminale, con i modi e le sicurezze di un intellettuale tout court: conferenze, lezioni, saggi critici, contributi radiofonici e recensioni, poi poesie certo, ma anche prosa, moltissima prosa, pagine e pagine di finissima narrativa d’occasione pubblicate in rivista, tra Italia e Svizzera, con un rigore e una costanza che non potevano dirsi casuali. Nonostante il successo giovanile di Né bianco né viola, vincitore del Premio Lugano nel 1944, e la successiva uscita di un volume di Poesie (1953) per le pur prestigiose Edizioni della Meridiana di Giuseppe Eugenio Luraghi (auspice Vittorio Sereni), non era ancora stato messo sul tavolo infatti il carico da venti di L’ora del tempo, l’autoantologia mondadoriana del 1962 che lo avrebbe definitivamente imposto all’attenzione della critica d’oltre confine. Bisognerebbe insomma chiedersi con che animo i lettori ticinesi dei primi anni Sessanta possano aver ac-

colto una bella novità come il libro di racconti Un giorno della vita, tredici testi più e meno brevi stampati anche qui da editori di nicchia (i milanesi Lerici) ma con tutti i crismi del caso, a iniziare dal viatico dei responsabili della collana, due palati fini come Mario Luzi e Romano Bilenchi. I racconti giungevano alla pubblicazione, tolta qualche avvisaglia consegnata a quotidiani locali negli anni Quaranta, dopo un lungo apprendistato in rivista, soprattutto sulle prestigiose pagine di «Paragone Letteratura» (curata da Anna Banti), e venivano raccolti sotto il titolo di uno dei pezzi della suite che ben si prestava a identificarli tutti: Un

giorno della vita, come dire il continuo rinascere dell’esistenza, ma anche la sua irripetibilità, il suo essere sempre «vita» nel pieno dispiegarsi di uno stupore esperienziale. Bene ha fatto quindi l’editore Marcos y Marcos a riprendere questo lontano libro, accolto in una collana diretta da Fabio Pusterla, e bene fa Pietro De Marchi nella sua postfazione (forse non nuova, però utile alla causa) a chiedersi quale traccia abbiano lasciato questi racconti nella cultura svizzero-italiana del secondo Novecento. Una traccia debole, purtroppo, non si può che concordare con lui, ma la causa è imputabile soltanto alla difficoltà di reperimento

Giorgio Orelli in una fotografia del 1998. (Keystone)

dei testi, non alla qualità degli stessi, a tratti davvero sopraffine. La cifra stilistica della prosa orelliana sta tutta, con minime variazioni da pezzo a pezzo, nella grande misura che la pervade: surreale ma non troppo, descrittiva senza eccedere nel dettaglio, calibratissima nella gestione dei dialoghi e nelle presentazioni dei personaggi. La lingua va di pari passo, equidistante dagli estremi: «né giovane né vecchia» la betulla di Ampelio (come il sarto di Serale), «né svelto né adagio» è l’incedere del protagonista nelle prime righe di Veronica, «né suo né nostro», infine, il «dialetto straordinario» delle storie narrate in Per un filino d’erba. Anche i protagonisti maschili, quasi tutti alter ego dello scrittore, amanti della bicicletta e garbati cultori della bellezza femminile, incarnano quella finezza e signorilità che erano riconosciute all’autore, con in più un’aria da straniero appena giunto da fuori porta che è invece un prestito del grande libro manzoniano. Un Orelli-Renzo si aggira tra queste pagine pronto a ogni nuovo incontro, parla con ragazze che, davanti ad antiche filande, sfuggono ai loro seduttori (Serale), oppure siede al tavolo di un’osteria chiedendo un «vino buono», che non faccia scherzi come quello della Luna Piena (Sosta al Lago d’Iseo). Il sorvegliato erotismo della poesia Ginocchi, per citare un testo emblematico, tratteggia qui e là anche que-

sta raccolta di prose, che a volte sanno accendersi di sincero sdegno come nei famosi «cardi» di Spiracoli: contro un funzionario delle Ferrovie Federali dalla carriera brillante e dal cervello poco fino (Veronica), contro uno straziante conferenziere venuto dall’Italia o una vecchia soprano «che non aveva mai fatto furore e tutt’a un tratto non le salta il ruzzo di fare il canto del cigno» (Suite provinciale). Allo stesso modo, per chi voglia cercarli, non mancano in queste pagine i delicati affondi fonosimbolici che hanno reso noto l’Orelli saggista, addirittura esplicitati, in qualche caso, per bocca degli stessi personaggi: «Riva Trigoso […] Il nome mi piace, – disse Dario. – Dopo Riva, non par vero che ci sia una parola ingorda come Trigoso». E via di questo passo. Lavoro, insomma, non ne mancherà di certo per tutti i lettori e gli appassionati di cose orelliane, che con questo gioiellino tra le mani (ma qualcosa scrisse anche in anni recenti e andrebbe recuperato) potranno riscoprire l’anima del prosatore, la sua produzione contenuta nei numeri eppure assai densa nei risultati, un piccolo incendio che va al di là del semplice fuoco di paglia. Bibliografia

Giorgio Orelli, Un giorno della vita. Marcos y Marcos 2017. 221 pagine.


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