Azione 41 del 7 ottobre 2019

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 ottobre 2019 • N. 41

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi La crociata populista Il 21 ottobre 1096 vide la fine di uno degli eventi più disastrosi della storia del cosiddetto Occidente. La Crociata del Popolo – altresì nota come la Crociata dei Poveri o Crociata dei Contadini fu un evento meteorico per la sua dimensione temporale – durò infatti solo dall’aprile all’ottobre, poco più di sei mesi – e grottesco nella dimensione umana e culturale. Lo sfondo storico degli eventi era quello di un’Europa devastata dalla siccità e dalla carestia che generava fra le classi subalterne di tutto il continente disperazione mista a visionarie predizioni riguardo al futuro. Come se non bastasse, già nel 1095 si era assistito a fenomeni atmosferici straordinari: una tempesta di meteore, un’eclissi di luna ed una sorta di inusitata aurora boreale visibile a latitudini improbabili. A tutto si era poi aggiunta un’epidemia di ergotismo che al danno aveva aggiunto le beffe. Noto nella tradizione come «Fuoco di Sant’Antonio», l’ergotismo di manifesta nella forma di convulsioni allucinatorie dovute alla presenza dell’acido lisergico nelle spore

del fungo che attacca le spighe di segale nella forma di escrescenze nere (da cui il nome «segale cornuta») oppure nella forma di sviluppi cancrenosi che attaccano gli arti. Mortale in entrambe le forme, il Fuoco di Sant’Antonio veniva curato – si credeva – dai frati dell’ordine omonimo: quello che ancor oggi è conosciuto come Pane di Sant’Antonio altro non è che pane di grano (un tempo riservato alla nobiltà e al clero) che veniva somministrato dagli Antoniani agli afflitti in alternativa alla segale contaminata portando così sollievo e guarigione. Le condizioni erano pertanto ideali – si fa per dire – perché nascessero in tutta Europa movimenti spontanei millenaristi: siccità, carestia, malattie. La Trinità della Disperazione vedeva protagonisti i soggetti sociali più esposti: donne e bambini – spesso abbandonati a loro stessi e riuniti in gang – rimpinguavano le processioni che si tenevano spontaneamente su e giù per il continente incerte fra l’invocare il perdono divino dei peccati o il maledire la propria anagrafe. Sullo sfondo di questo fosco scenario si

delineò nei primi mesi del 1095 la figura di un predicatore francese in grado di focalizzare la visione allucinata delle masse e trasformarla in azione. Pietro l’Eremita di Amiens era tornato da un pellegrinaggio in Terra Santa nel 1093 convinto che Cristo gli avesse affidato la missione di liberare i luoghi sacri dal dominio musulmano. A partire dalla Francia del Nord e dalle Fiandre, il frate visionario accoglieva l’idea di Papa Urbano II per una crociata che raccogliesse il Gotha della nobiltà europea – e con questo certo non solo il suo potenziale militare ma anche il riconoscimento della leadership della Chiesa – e la consegnava al popolo eletto sovrano di contro ai tentennamenti interessati e incompetenti dei suoi leader. Vox populi, vox Dei. La Crociata dei Pezzenti – altro nome col quale l’episodio è conosciuto – riuscì nell’intento di far salire a bordo membri della nobiltà minore, cadetti diseredati, piccoli aristocratici impoveriti e qualche furibondo pezzo da novanta antesignano di Don Chisciotte: un nome per tutti sia sufficiente. Il Cavaliere crociato che aveva più

esperienza di combattimento era noto come Walter Sans-Avoir (italice: Valter lo Squattrinato). Così attrezzata, nell’aprile del 1095 un’armata brancaleone che presto avrebbe raggiunto i 100’000 – donne e bambini compresi – marciava attraverso l’Europa per confluire verso l’antica via Egnatia, rotta che li avrebbe portati a Costantinopoli e di lì a liberare la Terrasanta. Fu come se, non bastando le disgrazie che si lasciavano alle spalle, i Crociati aggiungessero per loro contributo personale un’ennesima piaga d’Egitto: come un esercito di cavallette si decise in primis – tanto per allenare gente inesperta alle armi allo scontro finale coi musulmani – di dare una ripassata agli ebrei: in una serie di pogrom scatenati nelle città lungo il Reno un numero calcolato fra i 2000 e i 12’000 ebrei furono uccisi. L’incedere della Crociata lungo i Balcani fu una progressione di saccheggi, assedi e violenze per alimentare una folla sempre più affamata per la quale nessuna logistica di vettovagliamento era prevista. 4000 ungheresi furono massacrati a Zemun, a Nis le forze locali

invece difesero le risorse della città e 10’000 crociati rimasero morti sul campo. A Sofia trovarono una scorta armata dell’esercito bizantino che li portò fino ai Dardanelli. Temendo per la sorte di Costantinopoli, l’Imperatore Alessio I Comneno organizzò il passaggio del Bosforo e vide con sollievo l’orda addentrarsi, ancora e nonostante, spavalda processione, verso l’interno dell’Anatolia (oggi Turchia) incontro al suo fato. Francesi contro Italiani e Tedeschi – il resto contro tutti. Presto rivalità esasperate dalla fame, dalla fatica e dunque dalla fine del Sogno, spaccarono il campo crociato. Pietro l’Eremita, esaurito il capitale del suo carisma, aveva perso il controllo della sua stessa creatura e pensò bene di tornare a Costantinopoli per organizzare i rinforzi. I turchi non aspettarono: sulla strada per Nicea attesero che i crociati entrassero in una stretta gola e poi colpirono. Pochi uscirono vivi dall’imboscata. I fortunati – donne e bambini – furono venduti schiavi. Succedeva oggi 923 anni orsono.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La salute, una questione di responsabilità collettiva Cara dottoressa, il problema che le prospetto non riguarda soltanto me, ma coinvolge molte donne della mia età (intorno ai sessanta), che si trovano a gestire contemporaneamente genitori e figli. Un doppio impegno che tante volte si somma, come nel mio caso, a quello del lavoro non ancora concluso. Non le chiedo una soluzione, so che è impossibile, ma una riflessione da condividere con i lettori di questa Stanza. Chissà se pensare insieme potrà aiutarci! Sposata, due figli grandi e un marito manager super-occupato, sto quasi per raggiungere il pensionamento dopo trent’anni di lavoro come oncologa ospedaliera. Una professione particolarmente impegnativa ma di cui vado fiera perché è stata una scelta appassionata e un’esperienza, benché faticosa, molto gratificante. Ora però mi sento stanca e avrei bisogno di riposo fisico e di tranquillità psicologica. Purtroppo non posso permettermelo

perché mia madre, ottantaseienne e affetta da deficit cognitivo, richiede continua assistenza. Mio fratello, come altri uomini, rifiuta di occuparsene e si limita a offrire un contributo finanziario fingendo di non capire che, in queste circostanze, i soldi non bastano. Le badanti si susseguono in continuazione perché nostra madre non le sopporta e, senza motivazione, le licenzia quando le pare. Di conseguenza devo sostituirle vagliando ogni volta numerose candidate prima di trovare quella che, in teoria, potrebbe andar bene. Inoltre, come medico, sono chiamata da mia madre per mille motivi: dalla somministrazione dei medicinali a improvvisi stati d’ansia, dall’irritazione delle accudenti ai vuoti di assistenza. Evidentemente le risorse economiche da sole non bastano per rispondere a necessità che l’invecchiamento della popolazione renderà sempre più urgenti e diffuse. Grazie dell’ascolto. / Mirella

Cara Mirella, la tua lettera getta un sasso nello stagno per cui il problema si allarga ad anelli concentrici. La vita umana si va sempre più allungando e di conseguenza cresce il numero delle persone anziane esposte al crollo fisico e mentale. Nel contempo è sempre più evidente che l’efficacia della cura è strettamente connessa alla capacità di prendersi cura. Un compito, quello di stabilire una relazione empatica, cioè di compassione e di condivisione con il paziente, che lungi dall’essere riservato ai sanitari, riguarda tutti, uomini e donne. Innanzitutto non è giusto – nonostante sia spesso così – che tu, come figlia femmina, debba far fronte a tutte le incombenze concrete mentre il figlio maschio se la cava pagando semplicemente una «tassa». Nel tuo caso poi, essendo figlia e medico, ti spetta il duplice incarico di curare e prenderti cura, davvero tanto per una donna che

lavora e deve occuparsi, oltre che della madre, del marito e dei figli. Una risorsa per alleviare il carico delle famiglie è costituito dall’esercito delle badanti, donne provenienti da Paesi lontani per aiutare noi, più abbienti, ad accudire i membri più fragili della società: bambini, vecchi e malati. Si è stabilita così una «comunità femminile» dove la prossimità è quasi sempre strumentale. Generazioni di donne collaborano da anni nella gestione dei nostri problemi familiari senza che intercorra una relazione di conoscenza, di simpatia e solidarietà. Non possiamo dimenticare inoltre che molti anziani sono affidati a Istituzioni private o pubbliche, le case di riposo, magari efficienti ma spesso poco affettive. Hai proprio ragione, cara amica, quando affermi che il problema non è solo privato ma anche pubblico. E,

aggiungo, neppure soltanto economico e organizzativo, sociale e politico. È anche questo ma prima di tutto è un problema morale, una questione di responsabilità collettiva. Come scrive Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura di Milano: « …La salute non è una questione riducibile ai pur decisivi progressi della scienza e della tecnica medica. Essa non è riducibile neppure all’efficacia degli interventi sul singolo paziente. La salute è il frutto dell’organizzazione complessiva di una società, del suo livello di coesione sociale, in una parola della sua civiltà». (www.casadellacultura.it).

sulla reale portata di questo trasferimento: l’aria mediterranea è merce esportabile? Non rischia di deteriorarsi a contatto con un ambiente tanto diverso, scadendo a scimmiottatura? In parole povere, Zurigo non è Ibiza. E, inevitabilmente, il trasloco sulle rive della Limmat di nuovi ritmi quotidiani e forme di divertimento non è stato indolore. Le aperture prolungate degli esercizi pubblici, dalle 21 alle 24, per i bar, e dalle 24 alle 2, per i club notturni, concesse dalle autorità, hanno provocato il disappunto di cittadini, infastiditi dai rumori e, soprattutto, dalla perdita di una prerogativa, considerata un vanto: la tranquillità e persino la noia tipicamente svizzere. Con ciò, la voglia di Mediterraneo ha radici storiche lontane. È il Drang nach Süden, che animò Goethe, in viaggio verso «il paese dove fioriscono i limoni» e spinse Heinrich Schliemann a scoprire i tesori dell’antica Grecia, e che con-

tinua a manifestarsi. Magari in forme a volte apparentemente assurde. Come il movimento, nato negli anni 80, intitolato Spreng die Alpen: abbatti le Alpi per godere la vista del Mediterraneo. Da intendere, ovviamente, un incentivo a favore dei trafori che abbreviano la via verso il sud, meta privilegiata nell’immaginario collettivo elvetico. Di cui il Ticino rappresenta un’anticipazione, grazie a un paesaggio prealpino, di valli e di laghi, dove fioriscono i castagni e anche le palme. Ma proprio queste ultime dovevano diventare un soggetto sfruttato dalla pubblicità turistica, dove il Mediterraneo rimane un punto di forza. Tanto che ci si è impegnati, anche da noi, per accentuarne la presenza e ringiovanire la propria identità. È all’insegna del giovanilismo che Lugano ha attribuito l’aggettivo «marittima» a un tratto di riva di lago: operazione, in fondo, illusoria. Ma di illusioni si continua ad avere bisogno.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Aria mediterranea nelle città svizzere Sia detto sottovoce per non urtare la diffusa suscettibilità ambientalista, ma l’estate calda e prolungata ha anche i suoi vantaggi. Se ne sono resi conto i nostri concittadini d’oltre Gottardo che, per via del persistente

Lugano Marittima.

bel tempo, hanno cambiato abitudini adeguandosi a un modello mediterraneo, sia pure riveduto e corretto. Nelle maggiori città, a cominciare da Zurigo, dove il fenomeno è più evidente, si tende a star fuori, a far tardi la sera, e persino la notte. Quindi, bar e ristoranti si sono attrezzati: invadono marciapiedi e piazze, con tavolini, sedie, gazebo e ombrelloni, destinati a clienti dalle esigenze, sino a una decina d’anni fa imprevedibili, del tipo una pizza alle 22. Proprio la pizza è diventata il simbolo più rappresentativo, appunto, della «mediterraneizzazione»: parola quasi impronunciabile, con cui in gergo sociologico si definisce un cambiamento, che non è soltanto questione di sapori. Certo, negli ultimi decenni, gli svizzero-tedeschi hanno imparato ad apprezzare espresso, spaghetti al dente, mozzarella e rucola, e via enumerando le proposte di una gastronomia,

del resto gestita prevalentemente da immigrati italiani e anche ticinesi. Ora, però, la conversione ha assunto connotati ben più impegnativi. Non concerne i palati, passati dal burro all’olio d’oliva, ma sta toccando comportamenti e sentimenti, ispirati a una diversa idea di quotidianità, addirittura una filosofia di vita. Da affrontare in modo libero, fantasioso, aperto, persino, all’improvvisazione. Come avviene nei paesi meridionali: dalla Spagna della movida al Sud Italia del dolce far niente, alla Grecia del sirtaki, per definizione luoghi di vacanza e, adesso, promossi a punti di riferimento per il trapianto alle nostre latitudini. È in atto, sul piano nazionale, una sorta di omologazione agli esempi mediterranei, considerati stimolanti iniezioni di spensieratezza e allegria. Il clima mite sembra consentirlo. Tuttavia, c’è un altro clima, d’ordine razionale e culturale, che induce a interrogarsi


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