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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ Pagina 5
Alla SUFFP un evento Human Library, la biblioteca in cui i libri sono persone che si raccontano
La rinuncia all’insegnamento del francese nelle scuole elementari torna a far discutere oltre Gottardo
ATTUALITÀ Pagina 19
L’IA e il riposo notturno delle idee
Che bellezza l’Intelligenza Artificiale (IA), argomento che trattano anche Alessandro Zanoli a pag. 13 e Benedicta Froelich a pag. 29. Seduce in molti ambiti e, a metterle un minimo di briglia, per esempio chiedendole sistematicamente di citare le fonti, diventa uno strumento di ricerca stratosferico. I lati oscuri? Per esempio temiamo che rubi posti di lavoro a mezzo mondo. Tutto questo non ci sembra né intelligente né artificiale. Perciò apprezziamo l’approccio dell’Unione europea che, nel Regolamento sull’Intelligenza Artificiale promuove «la diffusione di un’IA antropocentrica e affidabile, garantendo nel contempo un livello elevato di protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali». Anche il nuovo Papa, di fronte a questa novella rivoluzione basata sull’automazione del lavoro cognitivo batterà il tasto della «difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro». E meno male. Più sottilmente inquietante l’osservazione di Mario Botta, che ho incontrato nel suo studio di Mendrisio (trovate l’intervista alle pagine 24 e 25): «So – ha spiegato – che lo sviluppo tecnologico e le conquiste che abbiamo fatto fino a oggi sono direttamente proporzionali alla velocità dei risultati che riescono a ottenere. Tutto è stato fatto per aiutare l’uomo in maniera sempre più rapida. Ma questa rapidità, è stato scientificamente dimostrato, è direttamente proporzionale all’oblio. L’Intelligenza Artificiale ha nel suo DNA la moltiplicazione straordinaria dei dati e della rapidità. Se creiamo strumenti direttamente proporzionali al dimenticare creiamo una società di orfani. Orfani di se stessi. È come correre in continuazione contro il vuoto».
È vero? La Fondazione Bassetti (creata per promuovere l’innovazione responsabile) conferma questa percezione in uno studio secondo il quale «la velocità dell’innovazione supera la capacità della società di elaborare, ricordare e integrare le trasformazioni».
E così, la corsa ad accaparrarsi questo formidabile strumento, rilanciata da Donald Trump per ragioni di forza («L’intelligenza artificiale è una superpotenza. Se non la dominiamo noi, lo farà la Cina», aveva detto mesi fa) rischia di farci cadere in un trappolone che cancella le nostre radici. Precipitiamo verso l’“obsolescenza culturale”: ciò che è nuovo oggi viene subito superato, e si finisce col perdere la memoria del contesto in cui è nato. Ecco il racconto distopico che fa veramente paura: in un’era nella quale i grandi marchi della tecnologia creano strumenti che vanno continuamente aggiornati e ricomprati, altrimenti diventano inutilizzabili (dal PC al telefonino), l’intelligenza artificiale sta programmando l’obsolescenza dei tempi umani. No, le macchine non sono mostri cattivi che sottomettono l’uomo al loro dominio, ma divinità indifferenti che ci costringono a «correre contro il vuoto», contro la sparizione del nostro cammino di crescita, del tempo e della fatica necessari per capire le cose e interiorizzarle. L’IA è così immediata che non conosce il riposo notturno delle idee, il letargo rigenerante dei tempi di sviluppo, il sonno del seme che attende sottoterra il momento giusto per germogliare. Qui i fiori e i frutti ti sbocciano in mano subito, meravigliosi ma sintetici, plasmati dalla potenza di calcolo degli algoritmi. Li osservi ammirato, ma rischi di non sapere più da dove vengono.
VOTAZIONE GENERALE 2025
Rinnoviamo a tutti i soci l’invito a partecipare alla votazione generale. L’ultimo termine per esprimersi tramite voto elettronico o cartaceo (spedizione o consegna della scheda) è
SABATO 7 GIUGNO 2025
L’iscrizione al VOTO ELETTRONICO per il 2026 è possibile su www.corporate.migros.ch/e-voting o scansionando il
CULTURA Pagine 24-25
Mario Botta a ruota libera sul suo approccio all’architettura e i ricordi di un tempo che non c’è più
La Red Bull X-Alps quest’anno vola anche nei nostri cieli sfidando le geometrie verticali del Ticino
TEMPO LIBERO Pagina 35
Al Museo nazionale di Zurigo la consacrazione della techno
Olmo Cerri – Pagina 21
Carlo Silini
Fondazione Diamante, un progetto che unisce
Info Migros ◆ Migros Ticino, Coop
e
Fondazione Diamante
in sinergia nella realizzazione di un video che favorisce l’inclusività
Tre partner locali fortemente radicati nel territorio ticinese collaborano a favore dell’inclusione lavorativa in vari ambiti del commercio al dettaglio. La Fondazione Diamante è orgogliosa di presentare l’impegno quotidiano profuso dai propri collaboratori attraverso il video Attività inclusive nella grande distribuzione, reso possibile grazie alla cooperazione con Migros e Coop.
I collaboratori a beneficio di una rendita AI seguiti da più operatori sociali che lavorano, in diversi settori e con compiti distinti a stretto contatto con il personale della Centrale di distribuzione di Migros Ticino a Sant’Antonino e della filiale Coop a Castione sono una ventina. Si tratta di due progetti sbocciati e cresciuti nel tempo grazie all’impegno e alla passione di tutto il personale coinvolto: il lavoro quotidiano in questi contesti legati al commercio al dettaglio permette relazioni significative e arricchenti per tutti coloro che partecipano al successo delle iniziative.
«Per noi è importante evidenziare come si possano trovare attività proficue per tutti gli attori coinvolti»
Ne abbiamo parlato con Maria-Luisa Polli, direttrice della Fondazione Diamante: «Il filmato realizzato dal laboratorio Laser della FD evidenzia le collaborazioni inclusive con i due storici attori della grande distribuzione in Ticino; queste collaborazioni hanno voluto essere evidenziate grazie a questo filmato che risulta importante per illustrare diverse modalità di inclusione delle persone con disabilità. Credo si tratti di due testimonianze estremamente positive e che mostrano le possibili sinergie tra attori presen-
Notti magiche e stellate con Moon&Stars
Moon&Stars ◆ Dal 10 al 20 luglio 2025 il tradizionale appuntamento con la musica in Piazza Grande a Locarno
L’estate si avvicina a grandi passi, e con essa arrivano anche gli open air che contraddistinguono la bella stagione nel nostro Paese. Paléo di Nyon, Gurtenfestival di Berna o Openair Frauenfeld sono solo alcuni degli appuntamenti musicali di cui Migros è tradizionalmente sponsor. Anche il Ticino può fregiarsi di un suo Festival, quest’anno, dal 10 al 20 luglio, in Piazza Grande a Locarno tornerà
per la 21esima volta Moon&Stars. Concerti sotto il cielo stellato in una piazza suggestiva come quella locarnese, numerose attrazioni collaterali per grandi e piccoli, una ricca offerta culinaria e tanta voglia di divertimento sono da sempre gli ingredienti di questo magico Festival, che anche quest’anno può annoverare nel proprio programma nomi importanti come Nek, Rose Villain, Gigi D’Agostino, Clean Ban-
dit, Zucchero, Gianna Nannini, Scorpions e Alvaro Soler (giusto per citarne qualcuno!). In luglio per dieci giorni Locarno si trasformerà in un luogo internazionale, votato alla leggerezza e al divertimento, nel nome della buona musica, dei momenti conviviali e di indimenticabili notti stellate.
Mettete dunque in calendario il periodo dal 10 al 20 luglio! Noi ci saremo, e voi?
Azione mette in palio 3x2 biglietti per il concerto di Zucchero (martedì 15 luglio) e 2x2 biglietti per il concerto di Gianna Nannini (giovedì 17 luglio). Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@ azione.ch (oggetto «Moon&Stars 2025», specificare il concerto cui si vuole partecipare) con i propri dati entro domenica 8 giugno 2025 (estrazione 11 giugno). Buona fortuna!
ti sul territorio ticinese. Inoltre, l’ottima collaborazione tra le direzioni, ossia Migros Ticino, Coop e Fondazione Diamante attesta anche una volontà di collaborare insieme a favore delle persone con disabilità. Si tratta pertanto di un contesto positivo e credo che di questi messaggio abbiamo bisogno».
I compiti sono svolti meticolosamente grazie alla fiducia, al supporto e alla volontà di condividere conoscenze settoriali specifiche del personale di Migros Ticino e di Coop, contribuendo con successo al raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Conclude Maria-Luisa Polli: «Quello del video è un messaggio positivo sostenuto da atti concreti grazie ai nostri partner, ed è importante che questi fatti siano comunicati e divulgati anche al grande pubblico.
Per noi lo scopo primo è quello di evidenziare come, grazie alle collaborazioni che si possono stringere, si possano trovare attività proficue per tutti i partner coinvolti, e di conseguenza illustrare eventualmente a possibili altri partner, aziende pubbliche e private del Cantone, come si possano ricercare e di seguito implementare delle soluzioni legate all’inclusione socio-lavorativa».
100 anni Migros ◆ Il Merci Tour – Das Zelt farà tappa anche in Ticino dal 4 all’11 settembre
La Migros promuove la cultura dal 1957 e, in occasione del suo centenario, lo fa in modo ancora più speciale: in collaborazione con il più grande palcoscenico culturale mobile della Svizzera (DAS ZELT), Migros sta toccando 15 città diverse in tutta la Svizzera con il «Merci Tour» e 9 fantastici spettacoli. Nel 1925, un secolo fa, un biglietto per il teatro nella città di Zurigo poteva costare fino a 9 franchi: si trattava dunque di un piacere assai costoso per l’epoca. Per il suo 100esimo anniversario, per potere dire «grazie» a tutte e tutti voi, per gli oltre 250’000 biglietti del «Merci Tour», Migros ha deciso di replicare i prezzi di 100 anni or sono: ogni biglietto costerà soli 9 franchi.
Il Merci Tour farà tappa anche in Ticino: dal 4 all’11 settembre sono previste otto serate con quattro programmi diversi, presentati ognuno per due sere consecutive. Si parte con la Famiglia Dimitri (4-5 settembre), per andare avanti con Young Artists (6-7 sett.) e Comedy Club (8-9 sett.) e concludere con Magic Club (10-11 sett.). Assicuratevi sin d’ora il vostro biglietto a 9 CHF, e partecipate così ai festeggiamenti per i 100 anni di Migros!
Dove e quando Merci Tour – Das Zelt, Agno, 4-11 settembre 2025 Per informazioni e prenotazioni merci.migros.ch/it/merci-tour/
Mattia Keller (a destra), direttore di Migros Ticino, insieme a MariaLuisa Polli, direttrice della Fondazione Diamante e Dario a Marca, capo vendita di Coop Ticino; in basso, un utente FD impegnato nella logistica di Migros Ticino.
Zucchero sarà la star indiscussa di martedì 15 luglio, in Piazza Grande a Locarno.
Concorso
SOCIETÀ
Duecento anni di navigazione
Nel 2026 si festeggerà il bicentenario della navigazione di linea tra la sponda italiana e quella svizzera del Verbano
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Gli pneumatici del futuro
Con le nuove tecnologie e la ricerca oggi si punta anche alla sostenibilità, come in casa Pirelli dove si festeggiano i 40 anni di PZero
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Raccontarsi come un libro aperto
Brissago ha una Casa della Cultura Palazzo Branca Baccalà è stato totalmente restaurato ed è già un punto di riferimento per la comunità locale
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Incontri ◆ Il prossimo 7 giugno si terrà presso la Scuola universitaria federale per la formazione professionale un evento pubblico ispirato al progetto danese Human Library. Ne abbiamo parlato con l’organizzatore Noè Albergati
Ascoltare uno o più capitoli della vita degli altri, permeata da esperienze di pregiudizio o esclusione, come fossero dei libri da sfogliare. Non si tratta di una metafora, bensì dell’essenza della Biblioteca Umana. La straordinaria idea nasce in Danimarca all’alba del nuovo millennio, nel 2000.
E fra pochi giorni, in Ticino, fedele alla lettera a quel progetto illuminato, prenderà corpo – è proprio il caso di dire, dal momento che parliamo di libri in carne ed ossa – il primo evento pubblico alle nostre latitudini, in calendario sabato 7 giugno dalle 15.30 alle 18 a Massagno alla SUFFP, la Scuola universitaria federale per la formazione professionale, sotto il titolo Biblioteca Umana, dialoghi che aprono mondi, dopo che ad oggi l’iniziativa viene proposta con regolarità in un centinaio di Paesi di tutto il mondo, in Europa in particolare, ma anche oltreoceano.
Ne parliamo alla vigilia dell’incontro con il suo fondatore, Noè Albergati, umanista a pieno titolo – scrittore, poeta, autore di un potente romanzo in versi (Cemento e Vento, Gabriele Capelli Editore), bibliotecario, un dottorato in italianistica e collaboratore della SUFFP, egli stesso «libro vivente» che ha accettato di registrare nel fitto catalogo della permanente Human Library di Copenhagen il volume riguardante la sua personale condizione di giovane vedovo.
Di cosa stiamo parlando precisamente e come nasce l’iniziativa?
La Human Library viene fondata a un festival da un gruppo di attivisti danesi contro la violenza che escogita un modo per combattere i pregiudizi, coniando il motto «Eliminare un giudizio su qualcuno». Io sono incappato in questa iniziativa nel 2023 quando stavo frequentando il Master in biblioteconomia perché era al centro di un modulo. L’idea mi è piaciuta tantissimo e così ho proposto ai miei superiori di poterla realizzare anche in Ticino, secondo tutte le direttive del progetto originario. La SUFFP è lieta di accogliere questo progetto perché rientra in uno dei suoi temi strategici: lo sviluppo sostenibile. Una volta ottenuta l’autorizzazione ci ho impiegato un po’ a tradurla in realtà. Ho scritto a una trentina di associazioni ticinesi, alla ricerca di persone interessate a diventare «libri», e nel frattempo, prima che si concretizzasse il progetto, sono trascorsi quasi due anni.
All’evento ci sarà un pubblico, ma soprattutto «libri viventi». Come va intesa quest’ultima definizione?
I «libri viventi» in sé devono seguire una formazione online della durata di circa un’ora per acquisire alcune
strategie di storytelling e di gestione della lettura. Ogni «persona-libro» potrà essere ascoltata da un pubblico formato da una o due persone, le quali, dopo un’esposizione di alcuni minuti, avranno la possibilità di porre domande. I «libri», se lo ritengono, completeranno la narrazione, oppure, in un modo elegante, potranno ribattere con espressioni del tipo «spiacente ma questo capitolo sul quale mi interpella non è ancora stato scritto». I «libri viventi» devono comunque arrivare all’evento preparati. Ancora prima io devo valutare se lo sono realmente, perché non deve essere un incontro di natura terapeutica. Chi ricopre il ruolo di «libro» deve aver superato in buona parte la propria storia. Se, al contrario, si sentisse ancora fragile gli viene consigliato di posticipare il momento a un evento successivo, dandosi così un tempo di elaborazione. Per i «libri viventi» si tratta di un’esperienza intensa, ma non si vuole che diventi spiacevole, bensì protetta entro precisi limiti.
Quali «libri» possono aderire al progetto? Tutti. Non c’è alcun limite. Posso-
no essere legati a ideologie – come le persone vegane o femministe, attorno alle quali ci sono ancora diversi pregiudizi – ad aspetti fisici (come i tatuaggi e i piercing) o all’orientamento sessuale. Il 7 giugno ci saranno persone legate all’ambito LGBTQ+, a malattie, a neuro divergenze. Ci saranno persone ipovedenti o sorde, o con una disabilità fisica, oppure persone dipendenti – avremo al proposito un ex alcolista – o ancora con un passato migratorio. Nella pagina online dell’evento il pubblico interessato potrà consultare il catalogo completo con i titoli proposti.
Spesso si tratta di temi divisivi. Sì, soprattutto il focus delle storie trattate dai «libri» riguarda pregiudizi o idee non fondate, temi rispetto ai quali i «libri» possono sentirsi vittime o riconoscersi in questi termini.
Concretamente il 7 giugno come si svolgeranno le letture?
Ci sarà un catalogo. I «libri», ad oggi, salvo rinunce, sono ventuno, di diverse età. Sono previsti quattro slot di letture di circa mezz’ora l’una. Come funziona? Il pubblico
sceglie un libro e, uno o due lettori si recheranno con il libro prenotato in un’aula, in modo da ritrovarsi in uno spazio isolato, con una certa privacy. Inizia dunque a prendere la parola per primo il «libro», narrando per circa cinque minuti il contesto del suo titolo. Per il resto del tempo saranno i lettori e le lettrici a poter rivolgere domande su quella precisa tematica al loro interlocutore. E dal canto suo, il «libro» cercherà di rispondere nel modo più esaustivo possibile. In contemporanea avranno luogo in altre stanze dello SUFFP altre letture, con altri libri e un altro pubblico formato da una a due persone. Eviteremo di norma letture per gruppi più ampi. Con me ci saranno altri collaboratori librai volontari che monitoreranno lo svolgimento delle narrazioni. Potenzialmente dovremmo raggiungere per questo primo evento complessivamente una quarantina di persone. L’evento è a ingresso gratuito, ma per ragioni organizzative è richiesta la prenotazione all’indirizzo suffp.swiss. I «libri» non vengono retribuiti, è tutto su base volontaria, a parte un rimborso a copertura delle spese. Questo a
garanzia della qualità e dell’autenticità della proposta. È un principio importante, perché altrimenti i «libri» potrebbero anche banalmente inventare.
Sarà questo il primo di una serie di eventi per la nuova Human Library? Lo spero, con l’idea che il catalogo potrebbe crescere e diversificarsi, così da ampliare la scelta. Chiaramente ogni libro iscritto non sarà tenuto a seguire tutti gli eventi.
Ma qual è, in conclusione, la differenza di «lettura» tra il fruire di un libro della Biblioteca Umana e il tradizionale volume che possiamo stringere tra le mani?
Il romanzo classico non è flessibile, dal momento che il contenuto lo decide l’autore. Nel caso della Human Library, invece, è la persona del pubblico che formula una o più domande e interroga dunque il libro e pertanto stabilisce in quale direzione deve andare la narrazione. La parte preminente della Biblioteca Umana è infatti formata dalle domande e dall’interazione fra chi narra e chi ascolta.
Gli eventi di Human Library sono proposti in un centinaio di Paesi di tutto il mondo. (Flick.com)
Guido Grilli
Caffè ticinese d’eccellenza
Attualità ◆ Il caffè artigianale Carlito è disponibile a Migros Ticino in tre pregiate varietà per soddisfare ogni tipo gusto. Per far conoscere meglio l’attività di questa piccola azienda Locarnese, sono previste alcune giornate esclusive di porte aperte riservate ai lettori di Azione
Dalla variante «Espresso Crema» per chi cerca quel gusto forte e autentico caratteristico, passando per l’aroma ben equilibrato del caffè «Aroma», fino alla varietà «Mocca» dal sapore pieno, ideale per la preparazione tradizionale o in filtro: con Caffè Carlito ogni amante della bevanda più famosa al mondo troverà di che soddisfare il proprio palato. Questa azienda familiare, fondata a Losone negli anni Sessanta e oggi gestita alla seconda generazione da Daniele Schillig, si distingue per la sua tostatura lenta e ben ponderata, capace di valorizzare al massimo le qualità intrinseche di ogni singolo chicco. Le miscele sono formate dalle migliori varietà di caffè
Arabica e Robusta, raccolte nelle regioni del mondo più pregiate per la loro coltivazione, dall’Asia, all’Africa, fino al Centro e Sud America. Inoltre, da sempre l’azienda è particolarmente impegnata anche sul fronte della sostenibilità. Grazie a certificazioni come Fairtrade e Bio vengono promosse condizioni di lavoro dignitose per i produttori e sistemi di coltivazione rispettosi dell’ambiente. Anche i materiali utilizzati per il confezionamento sono eco-compatibili. Vuoi scoprire come viene prodotto il caffè Carlito? Allora partecipa al nostro concorso e, con un po’ di fortuna, potresti aggiudicarti una visita guidata presso l’azienda di Losone (vedi box).
Caffè Carlito, in collaborazione con Migros Ticino, durante il mese di giugno, ogni martedì dalle ore 9.00 alle 11.00, organizza una visita guidata dell’azienda riservata a 5 lettori di Azione per ogni data (3, 10, 17 e 24 giugno 2025). Per partecipare manda una e-mail a: concorso@migrosticino.ch, oggetto «Caffè Carlito» con i tuoi dati (nome, cognome, indirizzo, nr. di telefono), indicando in quale data vuoi partecipare, entro il 1.6.2025. Verranno presi in considerazione i primi cinque iscritti per
Il sapore del mare a casa tua
Attualità ◆ L’orata alla griglia è un grande classico della cucina estiva, che conquista tutti per la sua semplicità e delicatezza. Approfitta questa settimana dell’offerta speciale nei nostri reparti pesce
L’estate è sinonimo di seducenti momenti all’aria aperta nella natura e allegre grigliate in giardino in compagnia. Tra le moltissime specialità che trovano spazio sulla griglia, l’orata occupa sicuramente un posto di primo piano. Pesce dalla carne estremamente delicata, leggero e facilmente digeribile, si caratterizza per il tronco e la testa argentei, dorso blu, fianchi gialli argentei e ventre bianco. La carne è soda, di colore bianco e particolarmente povera di lische. In cucina l’orata si prepara preferibilmente intera, cotta al forno o grigliata. Per esaltare al meglio il delicato aroma
del pesce, non eccedere con i condimenti. La preparazione più semplice è quella di sciacquare dapprima il pesce sotto l’acqua fredda e asciugarlo bene con carta da cucina. Spennellarlo quindi con dell’olio d’oliva e inserire qualche fetta di limone nel ventre. Condire con sale e pepe, sia internamente che esternamente, e a piacere aggiungere qualche fogliolina di erbette mediterranee, come per esempio timo, rosmarino, prezzemolo o aneto. Alla griglia l’orata va cotta a fuoco forte per ca. 6 minuti, girandola regolarmente per evitare che si attacchi alla graticola.
Flavia Leuenberger
Caffè Carlito Espresso Crema, Aroma in grani o Mocca
250 g Fr. 5.40
Attualità ◆ In occasione dell’evento del 28 maggio 2025, il punto di
Apprezzato non solo per la sua posizione centrale nel cuore della città, ma anche per l’atmosfera accogliente e la sfiziosa offerta di proposte culinarie da consumare sul posto o da portare via, il Take Away di Migros
Bellinzona Centro è un punto di riferimento per tutte le generazioni, dagli studenti che apprezzano la comodità e la convenienza, ai lavoratori che trovano soluzioni veloci ma di qualità per la loro pausa pranzo, fino a tutti coloro che si fermano semplicemente per un buon caffè durante la giornata. L’offerta, variegata e ottimizzata appositamente per il punto di ristoro, spazia dalle pizze in vari gusti ai pa-
notte bianca 28maggio2025
nini caldi e freddi, dalle insalate alla sfiziosa pasticceria e briocheria, fino alle bibite calde e fredde. Appositamente per la Notte Bianca Bellinzona 2025, il Take Away di Migros Bellinzona Centro propone in esclusiva fino alle ore 23.00 una specialità assolutamente da provare: il trancio di pizza bianca con mortadella, mascarpone e granelli di pistacchio, a soli Fr. 6.50
Lo spritz analcolico italiano
Notte Bianca Bellinzona 2025, mercoledì 28 maggio
Giunta alla seconda edizione dopo l’enorme successo dell’anno scorso, la Notte Bianca Bellinzona propone tutta una serie di eventi che animeranno il centro storico della capitale fino alle 4.00 del mattino. Sia le piaz-
ze, che le vie, come pure il suggestivo Castel Grande ospiteranno tutta una serie di coinvolgenti attività rivolte a residenti e turisti, tra cui mostre, performance, musica dal vivo, installazioni e molto altro.
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La via delle genti sulle acque del Verbano
Anniversari ◆ Nel 2026 si festeggerà il bicentenario della navigazione di linea tra le due sponde del Lago Maggiore, italiana e svizzera. È previsto un intenso programma di crociere e festeggiamenti, con un’anteprima durante il prossimo Jazz Ascona
Mauro Giacometti
La via delle genti sull’acqua. Prima del tunnel ferroviario del San Gottardo e ben prima della galleria autostradale c’era un altro elemento che univa e travalicava le frontiere tra Svizzera e Italia: le acque del Lago Maggiore. Un lago che con la sua storia ha superato gli steccati e unito i popoli che vi si affacciano, dopo secoli in cui talvolta ha costituito un bacino insuperabile. Il 15 febbraio 1826, dal piccolo porto del Burbaglio di Muralto, davanti a una folla incuriosita e forse un po’ timorosa nell’osservare quella nave in legno con il comignolo fumante, il Verbano I mollò gli ormeggi ed effettuò la sua prima corsa ufficiale di un natante adibito al trasporto di passeggeri. Era l’inizio della moderna navigazione lacustre e sulla banchina muraltese, a celebrare lo storico varo, si stagliava l’austera figura di un nobile italiano, Michele Benso, marchese di Cavour, padre del futuro statista Camillo. Fu proprio grazie al marchese di Cavour e ad alcuni suoi amici investitori lombardi e sardi, insieme ad altri magnati svizzeri e francesi, che venne varato il primo battello di linea che collegava Magadino a Sesto Calende aprendo la «strada d’acqua» tra le sponde italiane e svizzere. Da allora, di acqua sotto gli scafi ne è passata tanta: il servizio all’utenza si è sviluppato, la flotta di battelli, traghetti e motonavi è stata aggior-
nata (dal vapore si è passati ai motori diesel e oggi si punta a propulsori green, ibridi, elettrici e a idrogeno), a livello socio-economico la società è radicalmente cambiata, le impronte storiche e ambientali attorno alle rive del Verbano non sono più quelle dell’Ottocento, tuttavia questo prezioso collegamento non ha mai interrotto la propria attività, assicurando a residenti e turisti corse 365 giorni l’anno. Erede di una lunga tradizione, a gestire le sorti di battelli ed equipaggi per il lato svizzero del bacino è, oggi, la Società di Navigazione Lago di Lugano (SNL), per quello italiano la competenza è invece della Gestione Governativa Navigazione Laghi (GGNL) con sede centrale a Milano e base operativa ad Arona. L’ultimo accordo quadro tra le due entità che disciplina la gestione «collettiva» della navigazione sul Verbano è stato firmato nel dicembre 2023 e resterà in vigore fino al 31 dicembre 2046. A 200 anni da quello storico evento, l’Associazione Verbano ’26, costituitasi nel 2023, non vuol far passare inosservato questo giubileo del trasporto lacustre proponendo tutta una serie di eventi e crociere celebrative sulle due sponde (il programma delle manifestazioni in allestimento è consultabile sul sito https://verbano26. blogspot.com). Al timone dell’associazione troviamo Antonio Leuc-
Prove di giubileo ad Ascona
Un succoso antipasto del giubileo della navigazione lacuale sul Lago Maggiore è previsto durante il Jazz Festival di Ascona in programma dal 25 giugno al 5 luglio prossimi. L’Associazione Verbano ’26 ha messo a punto un programma di crociere immerse nelle atmosfere jazz più autentiche. A bordo della Motonave Torino, infatti, oltre ad ammirare le
bellezze del lago ci si lascerà trasportare dalla melodia di artisti straordinari che si esibiranno dal vivo. Sono previste tre crociere «circolari» della durata di circa un’ora con un collegamento di andata e ritorno dal porto di Locarno.
Informazioni sul sito https://verbano26.blogspot.com
Ora in azione
L’intera gamma di latti di proseguimento e Junior Aptamil
Un’immagine d’epoca del piroscafo Torino costruito nel 1913. (Gestore Governativo Ente Navigazione Laghi, GGNL).
ci, ristoratore verbanese, ex studente dell’istituto Nautico di Genova, appassionato e storico della navigazione sul Lago Maggiore. A dargli man forte un nutrito gruppo di storici ed esperti di navigazione. «Verbano ’26 è un progetto transfrontaliero ambizioso e al tempo stesso affascinante, che rende omaggio a una lunga tradizione abbattendo le frontiere ideali e fisiche e creando una sorta di unicità territoriale del Lago Maggiore», spiega Leucci. Sono innumerevoli gli eventi allestiti nelle principali località che si affacciano sul Lago Maggiore. I promotori di Verbano ’26 nel programmare e pianificare gli appuntamenti su entrambe le sponde che caratterizzeranno il giubileo, hanno potuto sin da subito contare sul sostegno di Comuni, associazioni e società operanti nel settore dei trasporti, enti turistici, amministrazione cantonale e del Gestore Governativo Ente Navigazione Laghi, organismo italiano che da oltre 60 anni, su indirizzo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, garantisce il servizio di collegamento sui tre
grandi laghi del Nord: Garda, Como e Maggiore. «Una collaborazione sinergica fondamentale per arrivare alla scadenza della primavera-estate del 2026 con un’offerta di qualità e per tutti i gusti», evidenzia ancora Leucci. «Abbiamo accolto con favore le iniziative proposte dall’Associazione Verbano ’26 – spiega Pietro Marrapodi, gestore governativo della GGNL – . La ricorrenza dei 200 anni di navigazione sul Lago Maggiore rappresenta un orgoglio per la cultura e la tradizione del lago e merita doverose celebrazioni e festeggiamenti dell’intera comunità locale».
Gran protagonista del bicentenario sarà il piroscafo Piemonte, classe 1904 e fiore all’occhiello della flotta della GGNL. «Con la sua propulsione ancora a vapore rappresenta un patrimonio storico che sentiamo il dovere di valorizzare. Proprio in questi mesi il Piemonte è oggetto di importanti interventi di manutenzione straordinaria dei ponti, degli arredi interni e della macchina a vapore che gli consentiranno, proprio in occasione della ricorrenza giubilare, di torna-
re a solcare le acque del Verbano con un inconfondibile stile “belle èpoque” e un ritorno al turismo slow», evidenzia Marrapodi. Anche sulle sponde ticinesi ci si appresta a celebrare degnamente la prestigiosa ricorrenza. «L’obiettivo principale è potenziare l’integrazione tra i servizi di navigazione delle due sponde al fine di offrire un sistema di mobilità sostenibile, efficiente ed attrattivo – sottolinea Simone Bianchi, direttore della SNL –. Per noi Verbano ’26 non rappresenta soltanto una ricorrenza simbolica o un’occasione celebrativa, ma è soprattutto un’opportunità per consolidare un modello stabile di cooperazione transfrontaliera capace di generare benefici concreti per cittadini, turisti e pendolari».
Un sistema di navigazione rispettoso della propria storia, integrato con la mobilità generale e sempre più green. Nel 2021 sulle acque del Verbano la GGNL ha varato la prima nave ibrida-diesel/elettrica, soluzione oggi ritenuta più confacente alla tipologia del servizio lacuale attuato dal gestore italiano (che nel 2024 ha trasportato circa 3 milioni di passeggeri solo sul Lago Maggiore e 12 milioni in totale sui tre laghi); da parte sua la SNL ha intrapreso il programma Venti35 pensato per il futuro di una navigazione sostenibile per tutta l’area del Ceresio e come modello da sviluppare anche sul bacino svizzero del Lago Maggiore. «Oltre alla riduzione dell’inquinamento delle acque fino ad arrivare alle emissioni zero con la progressiva sostituzione di mezzi navali alimentati a energia fossile con veicoli elettrici, il supporto a elettrificazione e predisposizione delle stazioni di ricarica sui pontili, il programma Venti35 prevede anche la creazione di un Centro di competenza tecnologica in ambito della mobilità sostenibile lacustre», conclude Bianchi. Come sarà dolce e green navigare sul Verbano (e il Ceresio) per altri due secoli…
Avviso importante: L’allattamento al seno è ideale per il suo bambino. Il latte di proseguimento conviene solo a bambini a partire dai 6 mesi. Chieda un consiglio. Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti.
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Gli pneumatici puntano anche alla sostenibilità
Motori ◆ All’autodromo di Monza Pirelli ha festeggiato i quarant’anni di Pzero e ha presentato la nuova gamma: oggi almeno il 50% dei materiali che li compongono è di origine naturale
Mario Alberto Cucchi
Sono passati trent’anni dallo scatto di Annie Leibovitz per la famosa campagna pubblicitaria Pirelli che ritrae il velocista americano Carl Lewis ai blocchi di partenza su tacchi a spillo rossi. «La potenza è nulla senza controllo» recita il famoso headline, ideato dall’agenzia Young & Rubicam, che ha accompagnato la pubblicità dell’azienda per diversi anni. Uno slogan che è sempre attuale e che è andato oltre al prodotto «pneumatico» diventando un mantra nel mondo della comunicazione e dell’imprenditoria.
La storica azienda sfrutta anche l’Intelligenza artificiale per ridurre i tempi di sviluppo e limitare il numero di prove fisiche di prototipi con benefici per l’ambiente
Si usa infatti per evidenziare l’importanza di bilanciare forza e capacità di gestione. D’altronde il produttore di gomme italiano ha ideato campagne di comunicazione rimaste iconiche come il celebre calendario Pirelli: mai posto in vendita ma solo regalato a VIP, sportivi e opinion leader. È stato realizzato dai più famosi fotografi come Richard Avedon ed Helmut Newton che hanno immortalato le modelle più belle come Naomi Campbel, Adriana Lima, Gisele Bundchen, Kate Moss ed Eva Herzigova ma anche attrici come Sophia Loren e Monica Bellucci. Un oggetto che ancora oggi è ricercato da collezionisti di tutto il mondo che sono disposti a pagarlo cifre davvero importanti pur di appenderlo in salotto.
Ecco allora che anche il compleanno del conosciuto Pirelli Pzero nato nel 1985 è diventato un vero e proprio evento in cui fare il punto dello stato dell’arte «dell’unico punto di contatto tra le nostre automobili e la
Viale dei ciliegi
Stefanie Höfler – Philip Waechter
Ada e le formiche nella pancia
Uovonero (da 6 anni)
Di Stefanie Höfler abbiamo potuto apprezzare finora due romanzi, Il ballo della medusa e Lucciole per lanterne, con protagonisti adolescenti alle prese con l’immagine di sé rispetto al gruppo dei pari. Nel primo la «diversità» del protagonista era prevalentemente legata all’immagine fisica, mentre il secondo metteva a fuoco una «diversità» sociale, costituita dalla povertà. Con questo terzo romanzo (o per meglio dire raccolta di piccoli istanti di vita quotidiana, sotto forma di brevi racconti), l’autrice tedesca - sempre ben tradotta in italiano da Anna Patrucco Becchi - si rivolge invece a lettori più piccoli, mettendo in scena non l’adolescenza ma l’infanzia (anch’essa peraltro con le sue ombre, fatte di paure, di grandi interrogativi, di momenti di malinconia).
strada». Per festeggiare i quarant’anni di Pzero il 15 maggio 2025 come teatro è stato scelto uno dei tempi della velocità: l’autodromo di Monza. Riunite al tavolo del festeggiato, giunto alla quinta generazione, decine di auto sportive e vere e proprie Supercar come la Pagani Utopia o la Pagani Huayra R Evo Roadster. L’ultima generazione del nuovo PZero era stata annunciata lo scorso mese di marzo con una gamma di ben cinquanta misure comprese fra 18 e 23 pollici. Ecco allora che come tecnologicamente progrediscono le auto lo stesso discorso vale per gli pneumatici che in questo caso hanno un nuovo disegno che migliora le performance anche sul bagnato, sicurezza, scorrevolezza e rumorosità. Il costruttore parla di netti miglioramenti in termini di frenata e handling ma anche in fatto di resa chilometrica. In poche parole durano di più.
Debutto anche per il PZero E che è stato progettato ad hoc per le elettriche sportive utilizzando una mescola specifica che aumenta l’efficienza e di conseguenza l’autonomia del mezzo. Prolungano anche la vita dello pneumatico grazie a un’usura ridotta e giocano un ruolo fondamentale nel controllo della vettura in varie situazioni di guida. Nella famiglia Pirelli c’è anche il PZero R per auto ancora più prestazionali e PZero trofeo RS per le vere e proprie Hypercar come la McLaren W1. Un bolide da 1275 cavalli. Prestazioni sì, ma sempre green. Basti pensare che le PZero trofeo RS che monta la supercar inglese sono fra i prodotti di Pirelli che puntano di più sulla sostenibilità. Almeno il 50% dei materiali che li compongono è di origine naturale: caucciù, resine, lignina, rayon. E allora ecco che sul fianco della gomma oltre le solite sigle che indicano le misure appare un’indicazione: FSC che richiama la certificazione internazionale sul rispetto di procedure di approvvigionamento rispettose delle
E tuttavia anche qui lo sguardo della Höfler si posa con acutezza (e tenerezza) sui concetti di «diversità» e «normalità», che poi rimandano all’unicità di ognuno di noi: «Ada non è coraggiosa. Ada è normale. Ada, appunto.». Unicità che si esprime anche nelle apparenti contraddizioni, in cui chiunque potrà rispecchiarsi: Ada va all’asilo, dopo l’estate andrà a scuola, non ne vede l’ora ma ne ha anche paura; Ada è curiosa, ma «parla troppo piano per fare domande»; Ada vuole bene al suo fratellino Max, ma a volte è così arrabbiata con lui che vorrebbe picchiarlo. Insomma, la gamma di emozioni che agitano il cuore dei bambini è raccontata con empatia in questi intensi quadretti, a loro volta racchiusi in capitoli che si rifanno a variazioni metereologiche («Sole», «Nuvole», «Pioggia», «Temporale», «Spunta di nuovo il sole»), in cui è evidente il rimando
foreste. «Utilizziamo anche l’intelligenza artificiale – ci spiega lo chef technical officer Pierangelo Misani –che permette non soltanto di ridurre i tempi di sviluppo anche del 30% ma di limitare il numero di prove fisiche
di prototipi con benefici evidenti anche per l’ambiente». «Pzero – spiega Pirelli – è una gamma di pneumatici UHP (Ultra High Performance) per veicoli ad alte prestazioni con diversi prodotti studiati per le diverse esigenze della mobilità contemporanea. Tutti accomunati da alti livelli di performance e sicurezza, consentiti dall’innovazione tecnologica alla base del loro sviluppo». Ecco perché sono i preferiti non solo dalla Formula 1 in cui hanno un’esclusiva ma anche dalle case automobilistiche premium e prestige di tutto il mondo. Basti pensare che coprono oltre il 50% dei modelli sul mercato. Nel corso dei quarant’an-
ni di storia, sono state oltre 3mila le versioni di P Zero realizzate su misura per modelli come Ferrari F40, Lamborghini Aventador, McLaren P1; tutte le Pagani; Aston Martin V12 Vantage; Porsche 911 in molteplici declinazioni; oltre a decine di modelli di brand come Audi, BMW, Jaguar Land Rover e Mercedes. In chiusura un altro slogan: gli pneumatici sono l’unico punto di contatto con la strada. Questo vale per Pirelli ma anche per qualsiasi altro brand. Devono sempre essere verificati sia in termini di usura del battistrada che di pressione e possibilmente è meglio sceglierli di qualità. La sicurezza prima di tutto.
alle variazioni dello stato d’animo della piccola protagonista, e a quanto siano significativi i momenti, anche minimi, della vita di una bimba. A uno sguardo superficiale non sembrerebbe accadere granché, Ada vive l’estate che la separa dall’ingresso a scuola facendo cose apparentemente ordinarie, contornata dalle sue figure di riferimento, familiari, amici, maestre, vicini. Ma lo sguardo dell’autrice non è superficiale, e sa rendere luminoso ogni istante. Da quei pomeriggi in cui Ada è seduta con la mamma sul tappeto a giocare, magari a Uno o a Memory, ma «poco importa quello che fanno» perché «in un pomeriggio del genere tutto ciò che si fa è bello e basta e tutto quello che si possiede è sufficiente». Sono attimi impalpabili, intimi, che alla bimba richiamano sensazioni belle, come mangiare «una torta al cioccolato», o sentire il calore di una chiazza di sole sul pavimento. Oppure ci sono quei momenti di ansia per le farfalle, che sotto la pioggia potrebbero affogare; c’è la gelosia perché la sua migliore amica improvvisamente passa tanto tempo con un altro bambino; o la paura di mettere la testa sott’acqua, nella piscina comunale dove tut-
ti convergono d’estate; o il disagio per aver fatto qualcosa di riprovevole (come aver messo in tasca uno dei pupazzetti dello scatolone nella sala d’aspetto dell’oculista). Il punto di vista è sempre quello di Ada, ossia dell’infanzia, e ciò rende magica ogni descrizione, come quando ci viene raccontato il cortile, con da una parte un muretto, dall’altra un rododendro, e «in mezzo c’è un mare». Come un mare? «Il mare naturalmente non c’è sempre, ma soltanto oggi e forse anche domani o comunque finché non pioverà di nuovo», perché il mare lo hanno fatto i bambini con i gessetti, ma per loro, in quel momento, è un mare vero. È un libro che si presta particolarmente alla lettura ad alta voce da parte di un adulto, proprio per condividere con i bambini tutta la grandezza del loro mondo emotivo. Contribuiscono all’intensità delle storie le vivaci, belle illustrazioni di Philip Waechter.
Beatrice Masini – Giulia Tomai
Fate. Le storie e gli antichi miti Rizzoli (da 10 anni)
Non pensate a un libro luccicante di dolci fatine: questo è una sorta di at-
lante in cui le fate sono raccontate in tutta la loro potente malia. Non sempre gentili, spesso feroci e vendicative; non sempre femmine, ma anche creature maschili; non sempre abbigliate con cappello a punta e bacchetta magica, ma scapigliate, scomposte, metamorfiche; non sempre provenienti dalle fiabe europee, ma dalle storie di ogni continente, le fate rivivono nella scrittura sapiente e concisa di Beatrice Masini, che attinge a miti e leggende di tutto il mondo, e nelle illustrazioni affascinanti di Giulia Tomai, che ha ideato il volume.
La nuova gamma degli pneumatici PZero da poco presentata; sotto, la famosa campagna pubblicitaria degli anni ’90 con protagonista il velocista Carl Lewis.
di Letizia Bolzani
rasatura perfetta
Da dimora privata a Casa della Cultura
Territorio ◆ Palazzo Branca Baccalà a Brissago è stato totalmente restaurato ed è già un punto di riferimento per la comunità locale
Stefania Hubmann
Arte, socialità, istituzioni, cultura. Lasciato alle spalle il travagliato percorso per giungere al suo completo restauro, da poco ultimato, il Palazzo Branca Baccalà di Brissago si presenta già come un punto di riferimento per la locale comunità con l’auspicio di diventare attrattivo nella nuova veste di Casa della Cultura anche in un contesto più ampio. L’elegante e imponente edificio seicentesco spicca nel nucleo a poca distanza dal lago circondato da spazi esterni fruibili. Tre piani offrono numerosi locali ai quali si aggiungono un loggiato e un piano seminterrato affacciato su una piazza. Racchiude la storia di famiglie patrizie, dell’impegno del Comune per acquisirlo e restaurarlo e in quest’ultimo secolo anche la storia di due donne benefattrici grazie alle quali oggi il Palazzo, oltre a essere utilizzabile in tutte le sue parti, ospita il Museo Ruggero Leoncavallo e l’esposizione Bhutan-Tibet. Il primo ha sede al piano terra del Palazzo Branca Baccalà dall’inizio degli anni Duemila a seguito appunto di una donazione e della convenzione fra il Comune di Brissago e la Fondazione Ruggero Leoncavallo. Sempre al pianterreno (restaurato all’inizio di questo secolo) è ora possibile visitare una sala dedicata al Regno del Bhutan, Paese da dove provengono gli oggetti esposti e al quale è molto legata la mecenate residente a Brissago che ha finanziato circa un terzo dei lavori di
restauro del Palazzo. Temporanea invece – fino a fine anno – la mostra fotografica dedicata alla storia di Brissago allestita da Marco Garbani Nerini con le immagini aeree catturate dall’ex sindaco Giancarlo Kuchler. Ma torniamo al Palazzo Branca Baccalà per il quale il sindaco Veronica Marcacci Rossi esprime a nome del Comune grande fierezza. «Giungere a questo risultato non era impresa
semplice dopo il lungo iter dei diversi progetti di restauro, ma ora guardiamo avanti con l’intenzione di valutare bene i contenuti da affiancare a quanto già proposto all’interno del Palazzo». Dopo la sua inaugurazione, avvenuta a metà aprile, le richieste non si sono fatte attendere. «Non vogliamo necessariamente riempire subito tutti gli spazi – prosegue il sindaco – perché desideriamo sviluppare
un progetto coerente a lungo termine. Per il momento in autunno è previsto il trasferimento nella Casa della Cultura della Galleria Amici dell’arte, molto attiva nel Comune. Oltre all’aspetto artistico, c’è quello sociale con il Centro diurno che è stato dotato di una cucina e spostato dal piano terreno al seminterrato in modo da avere accesso diretto alla piazza con il pozzo. All’ultimo piano la sala principale è destinata a ospitare anche le sedute del consiglio comunale, mentre attraverso il loggiato è possibile accedere a una sala di rappresentanza dove sono già stati celebrati alcuni matrimoni». Il Palazzo, da dimora privata con diversi edifici annessi persi nel tempo – oggi rimane sul davanti un giardino chiuso da mura accessibile al pubblico – è stato trasformato in un luogo che riunisce diverse funzioni legate alla comunità brissaghese. Veronica Marcacci Rossi invita nella presentazione dell’esposizione Bhutan – Tibet a lasciarsi «ispirare dalla bellezza dell’arte, dalla ricchezza della storia e dall’energia di un luogo che appartiene a tutti noi».
L’edificio stesso, oltre alla sua pregiata struttura architettonica, è caratterizzato da ornati esterni e interni come i soffitti decorati. I lavori di restauro, durati due anni, sono stati realizzati su progetto dell’architetto Stefano Garbani Nerini che ci ha guidato nella visita assieme a Cristiana Perlini, già curatrice del Museo Ruggero Leoncavallo. Va ricordato che il Palazzo, acquistato dal Comune nel 1976, ha conosciuto diversi interventi di risanamento e ristrutturazione parziali fra i quali quello più incisivo firmato dall’architetto Livio Vacchini negli anni Ottanta del secolo scorso. Bocciature a livello di Consiglio comunale e in votazione popolare hanno successivamente impedito per molti anni di giungere a un restauro completo e a una chiara destinazione. L’architetto Garbani Nerini ha completato il restauro conservativo, uniformando il risultato finale con la supervisione dell’Ufficio dei beni culturali essendo l’edificio protetto quale bene culturale di interesse cantonale. Spiega Stefano Garbani Nerini: «Gli spazi sono rimasti quelli originali con numerosi locali di piccole e medie dimensioni e due sale più ampie al primo e al secondo piano ricavate già con l’intervento di Livio Vacchini. I nuovi contenuti saranno quindi chiamati ad adattarsi alla struttura dell’edificio». Le sale più grandi si prestano a un utilizzo po-
livalente, da mostre a conferenze, ad altre iniziative. «I pavimenti sono ora uniformati con lastre di granito della Vallemaggia – prosegue l’architetto – mentre i soffitti lignei sono stati conservati con interventi di pulitura e rinforzo. Le decorazioni presenti su alcuni di essi sono state oggetto almeno in parte di un restauro. Meritano di essere menzionati il soffitto della Sala Caldelli (opera del decoratore brissaghese Giovanni Antonio Caldelli) e le tre grandi tele che ricoprivano il soffitto del salone del Museo Ruggero Leoncavallo occultando una decorazione valorizzata nel precedente intervento di restauro interno. Depositate per oltre vent’anni nella grande sala al secondo piano (quella del Consiglio comunale), dopo il restauro sono state collocate sul soffitto della medesima. A causa della loro delicatezza, non hanno mai lasciato questo spazio nemmeno durante i lavori». Fino alla recente totale riapertura, Palazzo Branca Baccalà era conosciuto soprattutto quale sede del Museo Ruggero Leoncavallo. Cristiana Perlini, membro della Fondazione che porta il nome del compositore, ne è stata la curatrice per dieci anni e conosce ogni dettaglio delle due sale ricche di testimonianze della vita di Leoncavallo, autore dell’opera I Pagliacci, che visse a Brissago all’inizio del Novecento nella Villa Myriam (demolita nel 1978) che si era fatto costruire dall’architetto Ferdinando Bernasconi, pure progettista del Teatro di Locarno. Se gli spazi riservati al Museo nella Casa della Cultura restano i medesimi, Cristiana Perlini rileva che «ora si può pensare di sfruttare anche gli spazi esterni per i concerti. Al momento li organizziamo nel salone che ricostruisce la sala di lavoro di Leoncavallo con al centro il suo pianoforte Erard del 1841». Il Museo ha riaperto il 2 maggio (lunedì, mercoledì e venerdì dalle 14 alle 18 e dal primo giugno invece martedì, giovedì e venerdì nei medesimi orari). Maggiori informazioni sul Museo e sul Palazzo saranno disponibili a breve sul sito del Comune di Brissago in fase di aggiornamento. Un investimento importante da parte del Comune (circa due milioni di franchi), il contributo cantonale (mezzo milione) e una generosa donazione (un milione) hanno permesso a Brissago di ridare vita a un bene culturale essenziale della sua storia. Per il Municipio l’immobile «merita una definitiva concretizzazione quale opera identitaria del paese» (Messaggio municipale no. 1522 del 4 maggio 2022 con la richiesta del credito per i lavori), aprendosi nel contempo «alla componente turistica della regione». Veronica Marcacci Rossi, in Municipio dal 2021 e sindaco dal 2024, sottolinea che l’obiettivo è stato raggiunto grazie anche all’impegno di Ivo Storelli e Roberto Ponti che si sono adoperati a lungo per portare a buon fine il progetto.
Concludere il restauro dell’importante edificio storico per metterlo a disposizione di attività culturali a favore della popolazione e dei visitatori è quindi un’opera corale che ora proseguirà con la consapevolezza di doverlo gestire al meglio anche dal punto di vista della sostenibilità finanziaria. Per il sindaco Palazzo Branca Baccalà deve però prima di tutto vivere: «Sono spazi pregiati che vanno valorizzati, vissuti e conosciuti». Informazioni www.brissago.ch
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Approdi e derive
La scuola come novità
«Credo che la scuola oggi abbia un’occasione straordinaria, ossia di essere ripensata dall’inizio».
Sono parole di Ilario Lodi, direttore di Pro Juventute Svizzera Italiana, a conclusione di un suo commento a proposito di un recente sondaggio svolto dal MPS tra gli studenti da cui emerge il disagio dei giovani confrontati con un sistema educativo ansiogeno e selettivo: molti ragazzi ricorrono a lezioni private, ma non tutti possono permetterselo. Si tratta di una questione che merita molta attenzione.
Condivido l’invito a ripensare la scuola dall’inizio, ovvero a orientare la questione verso una domanda di fondo, verso un approccio radicale al senso della scuola. Innanzitutto chiediamoci: da dove arrivano gli allievi? Quale visione del mondo, e della scuola, si portano addosso quando entrano nelle aule?
La risposta a me pare scontata: lo spirito del tempo avvolge oggi le aspettative di allievi e genitori in atmosfere
Terre Rare
sempre più utilitaristiche. In sintonia con questo clima culturale, la scuola si preoccupa sempre più di valorizzare l’acquisto di competenze, di saperi utili, che diventano così l’obiettivo privilegiato del fare scuola. L’uso della parola acquisto è solo una piccola provocazione nei confronti del pervasivo linguaggio del mercato di cui rischiamo un po’ tutti di diventare clienti. Tutto ciò con buona pace della lentezza della riflessione, del valore dell’esperienza intima e personale della conoscenza, piena di gratuità e di bellezza fine a se stessa, a prescindere dalle sue possibili ricadute utili. Ripensare la scuola vuol dire allora resistere a questo mainstream, resistendo a forme di accoglienza, comprensibili e belle, ma un po’ avvelenate, proprio come la mela di Biancaneve, che spingono la scuola ad assecondare le richieste della società anche quando si rivelino perlomeno riduttive rispetto al compito educativo. La necessità di ripensare la scuola
Un ammasso di parole
No, non si può togliere. Quel pallino azzurro che appare da qualche settimana in qua sulla parte inferiore destra nella vostra schermata di Whatsapp è lì e ci rimane. È il pulsante di collegamento con Llama 4, la piattaforma dialogica dell’Intelligenza Artificiale messa in opera da Meta, la società che gestisce Facebook e che molti anni fa ha acquisito il più popolare programma di comunicazione via chat al mondo. Avete provato a chiacchierarci un po’? La conversazione con lui è quella vagamente stucchevole sperimentata ogni volta che si interagisce con i suoi confratelli (o consorelle, non si sa) offerti oggi dal mercato IA: sia ChatGPT, sia Deepseek et similia ricoprono a volte il ruolo del compagno secchione che con nonchalance ti lascia copiare dai suoi appunti e che, povero, fa di tutto per risultarti simpatico. La presenza del pallino
azzurro, comunque, per quanto possa sembrare divertente la possibilità di giochicchiarci, non è piaciuta a molti utenti. I quali hanno cominciato a chiedere in giro per forum e per social se davvero è inevitabile trovarselo sotto gli occhi ad ogni apertura di Whatsapp. E la risposta è stata, appunto, che sì, è obbligatorio tenerselo, e che no, non si può togliere di lì. Sembrava che tutto finisse con un sospiro di delusione generale. E invece, è recentissima la notizia che in Italia il Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e la tutela dei diritti di utenti e consumatori (in sigla CODACONS), ha diffidato Meta e presentato un esposto al Garante della privacy e all’Autorità antitrust italiane, perché questa scelta potrebbe configurarsi come «una pratica commerciale scorretta». La richiesta è quella che l’elemento
Le parole dei figli
Onlife
Onlife non è una Parola dei figli, ma una parola che dobbiamo conoscere per comprendere il loro mondo. Nell’ultima rubrica de Il caffè dei genitori, abbiamo riflettuto sulla miniserie Adolescence, che mette in luce quanto poco conosciamo davvero della Gen Z e del loro linguaggio. Se vogliamo capire cosa fanno e come stanno i nostri figli, dobbiamo imparare a porre le domande giuste. Per farlo, dobbiamo prima comprendere la realtà in cui vivono: la realtà onlife. Il termine descrive la fusione tra vita online e offline, in cui digitale e fisico si intrecciano senza distinzioni. Cade la dicotomia. È un neologismo, più attuale che mai, coniato nel 2013 dal filosofo Luciano Floridi, nato a Roma nel 1964, laureato con lode a La Sapienza, già direttore del Laboratorio di etica digitale a Oxford, nel 2023 fondatore del Cen-
mi ha riportato ad un’idea che coltivo da tempo, e cioè che la scuola deve avere il coraggio di stare un po’ altrove rispetto al mondo esterno. Deve avere il coraggio di essere, o meglio di esserci, come qualcosa d’altro: una vera novità, in un mondo che con il suo continuo «innovarsi», del nuovo e dell’inatteso ha smarrito il significato autentico. Eppure, come ricorda Edgar Morin nel suo saggio I sette saperi fondamentali, l’inatteso è una realtà da accogliere e valorizzare, al di là del bisogno di prevedere e controllare tutto. Che cosa può essere allora questa novità inattesa della scuola, del suo stare un po’ altrove rispetto al mondo esterno?
Oggi i ragazzi, ma non solo loro, vivono immersi nel deserto di relazioni virtuali, fatte di immagini e di esperienze senza corpo. La scuola può essere allora l’altrove della fisicità, dell’esperienza fisica dell’aula, dei suoi odori, dei suoi rumori, dell’incontro con il corpo vivente dell’al-
tro, con voci piene di parole vive e vibranti, parole ascoltate fin dentro lo sguardo, lasciandosi toccare dal volto dell’altro che ci interpella. Oggi i giovani, ma non solo loro, vivono un’agitazione perenne in cui esistere significa troppo spesso saper funzionare bene, in una continua corsa ad ostacoli verso il successo. L’altrove della scuola può essere allora la lentezza di un’esperienza intima e condivisa del mondo, quando il sapere dei Maestri è solo un invito a riconoscerne la bellezza; un invito a sostare, con calma, senza fretta, dentro le proprie domande, senza l’assillo di trovare subito la risposta giusta.
In queste atmosfere l’esperienza della conoscenza può essere allora novità bella, incontro con se stessi e incontro autentico con l’Altro. Ecco, mi piace ripensare la scuola come luogo in cui intravvedere e far sbocciare un altro mondo possibile. È un desiderio che mi accompagna da una vita; viene da lontano, da
quando molti anni fa, tenevo lezioni serali di storia per lavoratori italiani nell’ambito dei corsi per l’ottenimento della licenza di scuola media. Quando iniziai ad avvicinarli alla materia parlando della loro esperienza di immigrazione ci fu una vera e propria insurrezione: era come se volessero rimuovere il loro vissuto di fatica e sofferenza e mi chiedessero di raccontare loro la storia con la S maiuscola: volevano conoscere le vicende grandiose dell’umanità. Con questo immaginario un po’ ingenuo, erano alla ricerca del non ancor visto che potesse aprire il loro sguardo altrove come esperienza feconda del possibile. Questo ricordo indelebile mi fa pensare che forse anche i ragazzi, in una scuola che li sappia sorprendere da un altrove, potrebbero cominciare ad apprezzarne la novità: una novità in cui liberarsi da tanti vissuti di fragilità che si portano addosso, dentro la solitudine e le false protezioni del mondo virtuale.
venga del tutto rimosso, finché non sarà chiarito dalle norme d’uso se il prodotto è usato per raccogliere dati all’insaputa dell’utente, dati usati nello specifico per l’addestramento dei modelli di funzionamento dell’IA stessa. L’utilizzatore deve essere in grado di dare il consenso all’uso delle proprie conversazioni per Llama. A questo punto in molti di noi potrebbe aprirsi un interrogativo: «A cosa serviranno mai le mie interazioni con un giocattolo di quel tipo?». Gran parte delle persone, immaginiamo, rivolgeranno a Llama domande ben poco interessanti, tali da non sembrare utili per addestrare nemmeno un bambino di scuola media. Sulla chat di Whatsapp, poi, il livello di dialogo sarà difficilmente di alto livello. Per capire, in realtà, quanto anche delle porzioni apparentemente insignificanti di dialogo
interattivo uomo-macchina possono essere importanti, occorre riflettere sul meccanismo di funzionamento di queste strutture. Qualche tempo fa su Git Hub, una importante piattaforma in cui i professionisti del settore informatico interagiscono e si scambiano informazioni, era stata data la possibilità di dare un’occhiata «sotto il cofano» di un motore IA (l’articolo purtroppo ad oggi non è più raggiungibile). Da un esame sommario di quel resoconto, lunghe pagine di codice di programmazione significative solo per addetti ai lavori, si poteva comprendere che per nutrire i loro LLM (modelli linguistici di grandi dimensioni) i fornitori di IA stanno in un certo senso registrando tutte le domande possibili e tutte le risposte possibili che gli esseri umani possono formulare. Questo materiale viene opportunamente smontato
(il termine tecnico è tokenizzato), inscatolato, repertoriato, classificato per argomenti. L’enorme bagaglio è esattamente quello che occupa gli spazi nei colossali datacenter di cui abbiamo parlato spesso. In pratica, tutto lo scibile umano è messo a disposizione dei grandi database contestuali, che lo richiameranno in uso a seconda delle necessità.
Se chiediamo ad esempio a Llama4 chi è Francesco Chiesa, lui ci risponderà «Francesco Chiesa è un calciatore italiano, nato il 25 giugno 2001. Gioca come attaccante nella Juventus». Questo perché qualche tifoso, discutendo con amici su Whatsapp, l’avrà recentemente chiamato in causa… Siamo in attesa di vedere gli effetti dell’esposto di CODACONS. Se venisse accettato, Meta dovrà rivedere la sua scelta. E, forse, il pallino potrà sparire.
tro di etica digitale della Yale University che oggi dirige. I suoi lavori sono stati tradotti in numerose lingue, tra cui albanese, arabo, cinese, francese, tedesco, giapponese e spagnolo. Per spiegare il tempo in cui viviamo, Floridi scrive: «È come la Società delle mangrovie (piante tipiche delle latitudini tropicali: grandi foreste di mangrovie si trovano in Brasile, Indonesia, India, Filippine, Madagascar ndr). Vivono in acqua salmastra, dove quella dei fiumi e quella del mare si incontrano. Un ambiente incomprensibile se lo si guarda con l’ottica dell’acqua dolce o dell’acqua salata. Onlife è questo: la nuova esistenza nella quale la barriera fra reale e virtuale è caduta, non c’è più differenza fra “online ” e “offline ”, ma c’è appunto una “onlife ”: l’esistenza, che è ibrida come l’habitat delle mangrovie». I nostri figli crescono in questo am-
biente, dove l’acqua dolce e quella salata si mescolano: il digitale e l’analogico non sono separati, ma si integrano in un’unica esperienza. E la verità è che anche noi viviamo in questa Società delle mangrovie. Quando seguiamo le indicazioni del navigatore GPS mentre ascoltiamo musica in streaming, quando facciamo smart working, quando la nostra quotidianità è costantemente mediata dalla tecnologia, siamo tutti onlife. La differenza con gli adolescenti è che loro ci sono nati e non conoscono un altro modo di vivere. Noi lo affrontiamo da sommozzatori, loro come pesci. Se la distinzione tra essere connessi e non essere connessi non esiste più, non ha più senso chiedersi se i nostri figli sono online o offline. È come domandare se l’acqua delle mangrovie è dolce o salata: vuol dire che non abbiamo capito nulla.
Chiariti i concetti teorici, telefono al mio amico Simone Arcagni, docente dello Iulm e uno dei più quotati divulgatori scientifici italiani sulle nuove tecnologie, autore con Andrea Colamedici de L’algoritmo di Babele (Solferino, novembre 2024). Gli pongo la domanda chiave: appurato che i nostri figli vivono onlife, quali sono le conseguenze? «Joseph C. R. Licklider, psicologo e matematico statunitense, è stato il primo, negli anni Sessanta, a prevedere lo scambio di informazioni tra computer, diventando di fatto il precursore di Internet – mi spiega –. Ecco, oggi i nostri figli vivono loro stessi uno scambio continuo di informazioni con la tecnologia. In un rapporto di fatto alla pari. È uno stato di simbiosi. L’errore più grande che possiamo fare da genitori è vederli e farli sentire come lo scarafaggio de La metamorfosi di Kafka». Nella novella di
Kafka, il giovane Gregor, commesso viaggiatore che mantiene la famiglia con il suo lavoro, si sveglia trasformato in un insetto. Cerca di adattarsi, ma i genitori non lo accettano e lo fanno sentire così abbandonato a se stesso da spingerlo a lasciarsi morire di fame. Per capire Le parole dei figli, serve allora un cambio di prospettiva. Non guadiamoli come scarafaggi da social! Invece di rimproverarli perché passano troppo tempo a scrollare sul cellulare, è più utile domandare cosa gli piace guardare. Invece di condannare TikTok, è più proficuo chiedere da dove provengano certe loro convinzioni. Invece di obbligarli a smettere di chattare, è bello farsi raccontare chi sono i loro amici e dove li hanno conosciuti (e la risposta può essere: «Su Instagram! »). Senz’altro più facile da dire che da fare! Ci possiamo, però, almeno provare.
di Lina Bertola
di Alessandro Zanoli
di Simona Ravizza
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Focus su India e Pakistan
La fragile tregua tra i due Paesi e la mai risolta questione del Kashmir con le sparate di Trump
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La ritirata americana
Il punto sulla guerra in Ucraina con gli Stati Uniti che si disimpegnano e Putin che non molla
Pagina 17
L’intransigente Kaja Kallas
Un ritratto dell’alta rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Ue
Pagina 18
Una Svizzera più tedesca
Diversi Cantoni stanno pensando di rinunciare ad insegnare francese nelle scuole elementari
Pagina 19
L’Europa alla ricerca di un’identità
L’analisi ◆ Gli Stati Uniti fanno un passo indietro, il Vecchio continente resta diviso e la Germania non ce la fa
Lucio Caracciolo
Gli Stati Uniti stanno cercando in Europa qualcuno che si accolli la difesa del Continente in modo da permettere loro di concentrarsi sulla Cina. L’idea è di ridurre considerevolmente lo schieramento convenzionale nei Paesi Nato, mantenendo l’ombrello nucleare. Le truppe liberate dall’impegno europeo potrebbero essere rischierate in Asia o riportate a casa. L’importante è che responsabilità e costi della difesa europea ricadano molto meno su Washington e molto più sui singoli Stati euroatlantici. È una rivoluzione copernicana, di cui si vedono già le prime mosse americane e qualche accenno di reazione da parte degli europei, se non altro verbale. Il cambio di approccio Usa alla Nato, ovvero alla struttura militare dell’impero americano in Europa costruito dal 1945 in avanti, parte dal tentativo di normalizzare i rapporti con la Russia. Non più Nemico strategico e ideologico, quindi collante della Nato. Semmai fattore di potenza da staccare dalla Cina. Ne consegue che noi europei non abbiamo urgenza di essere protetti da attacchi russi, visto che Mosca non è nemmeno in grado di prendersi il grosso
dell’Ucraina. A tenerla a distanza di sicurezza bastano l’ombrello nucleare Usa e il riarmo convenzionale dei principali Stati «alleati», Germania e Turchia in testa. La prima responsabile per l’Europa centrale, la seconda per quella meridionale.
I tedeschi continuano a temere se stessi come nessun altro popolo. O ad averne abbastanza della germanofobia
Idea abbastanza balzana. La Turchia è già una notevole potenza militare, destinata prima o poi a dotarsi di un arsenale nucleare. Ma certo non per servire l’equilibrio europeo né tantomeno gli interessi Usa. È un impero in riformazione. Nominalmente nella Nato, di fatto autocentrato. Deciso a fissare in proprio la sua strategia, con agilità. Il suo attivismo nella mediazione fra Russia e Ucraina, nemici da cui si ostenta equidistante, ne è un esempio.
Ma la questione centrale per tutti gli europei rimane quella tedesca. Se gli americani sono sbarcati due
volte nel nostro Continente durante la guerre mondiali – la seconda volta per restarci – è perché i tedeschi stavano per impadronirsene. Il grande tabù della geostrategia americana era (rimane?) il timore che nella massa eurasiatica emergesse una potenza o un’alleanza di potenze avversa allo zio Sam, quali un’intesa russo-tedesca o peggio sino-russo-tedesca. Eppure dal 1945 le distanze fra Russia e Germania non sono mai state così ampie come oggi. E la Cina ha altre priorità che il dominio dell’Europa. Il problema della Germania non è la sua potenza ma la sua debolezza, che si innesta sulle sue incertezze strutturali. I tedeschi continuano a temere sé stessi come nessun altro popolo al mondo. O ad averne abbastanza della germanofobia. In ogni caso, non hanno trovato un equilibrio fra queste due pulsioni. La questione dell’AfD è la cartina di tornasole del caso Germania. Quello che oggi è il secondo partito tedesco, capace di raccogliere dieci milioni di voti alle ultime elezioni e di scavalcare in molti sondaggi attuali la coppia CDU-CSU, secondo il servizio segreto interno è «estremista di destra».
Nel gergo costituzionale germanico, «estremista» equivale a sovversivo. Questa qualifica potrebbe spingere la Corte costituzionale di Karlsruhe a mettere fuori legge l’AfD. In nome della «wehrhafte Demokratie», ossia il dogma della «democrazia protetta». Regime assai peculiare che deriva dal timore che l’«ordine liberaldemocratico» venga sopraffatto da forze antidemocratiche, nel caso neonaziste o quasi. E questo Paese dovrebbe essere il perno della sicurezza nel cuore dell’Europa?
Trascuriamo il fatto che malgrado le roboanti affermazioni del debolissimo cancelliere Merz sulla decisione di fare della Bundeswehr la «principale potenza militare in Europa» e di stanziare a questo scopo centinaia di miliardi di euro, ci vorrebbe almeno un decennio per raggiungere l’obiettivo. Oltretutto, solo una quota risibile dei giovani tedeschi si dice disposto a morire per la patria (vale per quasi tutti gli europei a ovest della Polonia). Il provocatorio discorso del vicepresidente Usa J. D. Vance a Monaco, in febbraio, è rivelatore della preoccupazione che gli europei in generale e i tedeschi in particolare non siano
in grado di assumersi l’onere che Washington vorrebbe trasferire sulle loro spalle – e sui loro bilanci pubblici. Si aggiungano le recenti osservazioni del segretario di Stato Marco Rubio sulla «tirannia travestita» che minaccerebbe la Germania causa squalifica dell’AfD e si avrà la misura di quanto improbabile sia l’obiettivo di Trump. Resta il fatto che se gli americani si allontanano da noi dovremo comunque, volenti o nolenti, assumerci responsabilità che abbiamo sempre schivato e che non sembriamo pronti a considerare cogenti. E poiché restiamo un Continente diviso, con 44 Stati (computo Onu) di cui 30 nella Nato, ciascuno con storie, culture e tradizioni proprie, immaginare una strategia comune è impossibile. Fino a ieri ci hanno tenuto più o meno insieme l’America e la minaccia russa – rossa o putiniana. E adesso? Il monito di Vance, secondo il quale il vero problema per noi non è la Cina o la Russia ma siamo noi stessi ha qualche fondamento. Gli ottant’anni di egemonia americana potrebbero passare alla storia come una lunga parentesi nei secoli di rivalità e guerre fra europei.
L’America e la fragile tregua tra India e Pakistan
Diplomazia ◆ Le dichiarazioni del presidente Usa internazionalizzano
Francesca Marino
Donald Trump ne fa un’altra delle sue. Postando su X, e senza che prima le parti ne dessero l’annuncio ufficiale, il cessate il fuoco tra India e Pakistan: «Dopo una lunga notte di colloqui mediati dagli Stati Uniti, sono lieto di annunciare che l’India e il Pakistan hanno concordato un cessate-il-fuoco completo e immediato. Congratulazioni a entrambi i Paesi per aver dato prova di buon senso e grande intelligenza». E viene prontamente smentito dal ministro degli Esteri indiano Vikram Misri secondo cui la fine delle ostilità è stata discussa tra il direttore generale delle operazioni militari pakistano e la sua controparte indiana senza mediazione di terzi. La faccenda sarebbe a quanto pare andata così: gli americani avrebbero ricevuto «informazioni credibili di intelligence» sul fatto che qualcosa di tragico stava per accadere. A quel punto, il vicepresidente J. D. Vance avrebbe telefonato al premier indiano Modi mentre il segretario di Stato Marco Rubio chiamava Islamabad e i due Paesi sarebbero stati invitati a trovare una «soluzione onorevole» per entrambi.
Gli Usa mettono sullo stesso piano l’India, una democrazia, e il Pakistan che alleva e sponsorizza terroristi
Il Pakistan, che a quanto pare aveva come da copione agitato lo straccio rosso della guerra nucleare, chiamava Nuova Delhi, ringraziava gli americani e proclamava immediatamente vittoria. Cosa abbia vinto esattamente non è dato sapere, ma tant’è: il capo dell’esercito pakistano generale Asim Munir, scomparso dai radar mentre gli indiani bombardavano campi di addestramento terroristi e postazioni militari, si è auto-promosso «maresciallo di campo» (il grado più alto nell’esercito, attribuito in Pakistan prima di lui soltanto al dittatore Ayub Khan) e tutti sembrano felici nel «Paese più pericoloso del mondo». Felici soprattutto, si dice, dei due miliardi e mezzo di dollari stanziati al Pakistan dal Fondo monetario internazionale proprio durante le giornate in cui si combatteva per reagire a un atto di terrorismo, l’ennesimo, commesso ai danni dell’India da jihadisti legati a Islamabad. Trump però, che non è uomo da essere smentito, rincarava
la dose. Con un altro post, all’inizio: «Sono molto orgoglioso della leadership forte e incrollabile dell’India e del Pakistan, che hanno avuto la forza, la saggezza e il coraggio di comprendere appieno che era giunto il momento di porre fine all’attuale aggressione che avrebbe potuto causare la morte e la distruzione di così tante persone e cose. Milioni di perso-
Gli Stati Uniti e il Sud Africa
Dopo Zelensky, l’imprevedibile Trump se l’è presa con Cyril Ramaphosa, presidente sudafricano, ex negoziatore di Mandela all’epoca dell’apartheid.
L’occasione: un incontro nello Studio Ovale settimana scorsa. Ramaphosa è arrivato alla Casa Bianca con l’obiettivo di convincere il presidente americano a riappacificarsi con il suo Paese. Gli Usa sono il secondo partner commerciale di Pretoria e il taglio degli aiuti deciso da Trump in risposta alla Legge sulle terre (misura che consente al Governo di espropriare terreni privati senza fornire indennizzi se ritenuto nell’interesse pubblico) sta mettendo in crisi la sua economia.
L’obiettivo, sostiene la citata legge, è affrontare le conseguenze dell’apar-
Un cartellone celebra il capo dell’esercito pakistano Asim Munir a Peshawar, Pakistan. (Keystone)
ne innocenti avrebbero potuto perdere la vita! Le vostre azioni coraggiose hanno reso ancora più grande la vostra eredità. Sono orgoglioso che gli Stati Uniti abbiano potuto aiutarvi a giungere a questa decisione storica ed eroica. Sebbene non sia stato nemmeno discusso, aumenterò in modo sostanziale il commercio con entrambe queste grandi Nazioni. Inoltre lavo-
theid e correggere la situazione che vede una minoranza di bianchi, il 7% della popolazione, detenere i tre quarti delle aziende agricole. Per l’amministrazione Trump si tratta invece di un provvedimento «razzista», ed è per questo che il 7 febbraio ha firmato un ordine esecutivo per tagliare i finanziamenti Usa al Sud Africa e a marzo ha espulso l’ambasciatore di Pretoria. Durante l’incontro con Ramaphosa Trump ha sostenuto tra le altre cose che gli agricoltori bianchi sudafricani (afrikaner ) sono vittime di un «genocidio». Ramaphosa non si è scomposto e ha replicato che gli atti di violenza sono opera di «una minoranza di estremisti. Non è la linea del Governo». / Red.
rerò con voi per vedere se si potrà arrivare a una soluzione riguardo al Kashmir». E poi in conferenza stampa, prima alla Casa Bianca e poi in Qatar: conferenze in cui dichiarava di aver costretto i due Paesi alla pace ricattandoli con la minaccia di tariffe e allettandoli con incentivi al commercio, ribadendo il suo ruolo e offrendosi di mediare sulla «questione del Kashmir» che «va avanti da almeno un migliaio di anni».
Risate a scena aperta. Il Pakistan è stato creato difatti, su base religiosa, nel 1947. E dal 1947 reclama presunti diritti su uno Stato, il Kashmir, che aveva scelto di rimanere indipendente pur essendo a maggioranza musulmana e che decise di annettersi all’India proprio in seguito a un’invasione pakistana. Ma post e dichiarazioni sono soltanto in apparenza fanfaroni e poco accorti, frutto del temperamento impetuoso, per usare un eufemismo, del presidente americano. Sollevano difatti un paio di questioni non di poco conto che hanno fatto rizzare i capelli a Nuova Delhi e che costituiscono probabilmente la «libbra di carne» reclamata da Islamabad (oltre ai soldi dell’Fmi) per non perdere completamente la faccia durante il conflitto e far finire una guerra che preoccupava l’Occidente. Le dichiarazioni di Trump stabiliscono anzitutto l’equi-
valenza tra l’India, una democrazia, e il Pakistan che, come Washington sa perfettamente, alleva e sponsorizza terroristi oltre a essere governato di fatto da una dittatura militare. E internazionalizza, come chiedono da anni i pakistani, la famigerata «questione del Kashmir»: che per l’India non è più una «questione» almeno dal 2019, quando Jammu and Kashmir e Ladakh sono diventati territori dell’unione. Per il Kashmir, di cui il Pakistan ancora detiene la parte invasa dopo averne ceduto un pezzo alla Cina, Islamabad ha combattuto (e perso) quattro guerre e ha fondato, allevato, nutrito e addestrato una pletora di gruppi terroristici al solo scopo di colpire l’India e farla «sanguinare con mille tagli».
Sul Kashmir l’India mantiene da anni una posizione cristallina: si tratta di una questione interna, visto che il Kashmir è parte integrante dell’India, che deve essere risolta al massimo con colloqui bilaterali. Nessun colloquio è possibile, però, fino a che il Pakistan non cesserà di finanziare e armare gruppi terroristici. Secondo gli osservatori, la nuova tenerezza di Trump per Islamabad rientra nella schizofrenica strategia americana degli ultimi anni verso l’India: alleata necessaria a contenere la Cina, ma poco propensa ad allinearsi senza discutere alle politiche di Washington. Mantenere la spada di Damocle dei jihadisti pakistani sulla testa di Nuova Delhi farebbe il paio, dicono, con l’avere propiziato allo stesso scopo il colpo di stato islamista in Bangladesh. E mentre Islamabad celebra la vittoria, l’India annuncia un cambiamento decisivo nella sua dottrina politico-militare: ogni futuro attacco terroristico sarà trattato da Nuova Delhi come se fosse una dichiarazione di guerra. Curiosa nota a latere: Ismail Royer, un ex jihadista con legami con il gruppo terroristico pakistano Lashkar-e-Toiba (LeT), è stato nominato membro del Comitato consultivo della Commissione per la libertà religiosa della Casa Bianca. Secondo i rapporti di polizia, Royer, che è stato in galera negli Usa per tredici anni, sarebbe stato addestrato in un campo della LeT in Pakistan nel 2000 e sarebbe stato coinvolto in attacchi in Kashmir prima di diventare una figura chiave della «Virginia Jihad Network», gruppo americano di fiancheggiamento a terroristi pakistani. Si tratta soltanto di un caso?
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La ritirata di Trump dalla guerra in Ucraina
L’analisi ◆ Per anni la propaganda russa ha cercato di fomentare il sentimento anti-americano in Europa, mentre ora sono gli Stati Uniti a voler voltare le spalle al Vecchio Continente
Anna Zafesova
Dalla richiesta di una tregua immediata, al patrocinio di un negoziato tra russi e ucraini, fino alla prospettiva di un vertice per «uscire dallo stallo» con Vladimir Putin, per poi tornare a minacciare una «linea rossa» superata la quale gli Stati Uniti se ne laveranno le mani: la diplomazia di Donald Trump nei confronti della guerra in Ucraina continua a procedere a zig-zag, ora allontanandosi, ora avvicinandosi alle posizioni del Cremlino. Dopo una accelerazione nelle settimane scorse, quando perfino molti europei scettici avevano cominciato a parlare di prospettive di pace, e la borsa di Mosca era salita scommettendo sulla tregua, il negoziato è tornato su un binario morto e, nonostante l’ottimismo dichiarato dal presidente americano, non è chiaro dove possa approdare ora. Che un compromesso tra Mosca e Kiev non aveva buone probabilità di riuscita era chiaro ancora prima dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca, ma la determinazione del leader repubblicano di attribuirsi il merito di aver fatto finire la guerra ha spinto comunque gli avversari a una trattativa. Un curioso esempio di una politica trascinata da esigenze mediatiche: Putin e Zelensky hanno lanciato e rilanciato iniziative diplomatiche per manifestare ciascuno la propria disponibilità a fare la pace.
L’incontro a Istanbul del 16 maggio ha evidenziato in poche ore una totale incompatibilità di vedute. La delegazione russa ha portato le stesse pretese territoriali dei mesi scorsi
L’incontro a Istanbul, il 16 maggio scorso, ha evidenziato in poche ore una totale incompatibilità di vedute: la delegazione russa ha portato le stesse pretese territoriali dei mesi scorsi, esigendo l’annessione alla Russia di quattro regioni ucraine, inclusi territori che le truppe russe non hanno nemmeno occupato. All’ovvio rifiuto degli ucraini, il capo della delegazione russa Vladimir Medinsky ha replicato che «la prossima volta chiederemo cinque regioni» e ha promesso che la Russia «può continuare a combattere per l’eternità». Intanto a Mosca Putin prometteva davanti alle telecamere una inevitabile riconciliazione futura con «la parte ucraina del popolo russo», e le bombe continuavano a cadere con agghiacciante puntualità sulle città ucraine. Ma dopo due ore di telefonata con il capo del Cremlino, Trump sembra aver rinunciato a tutte le condizioni che lui stesso aveva posto: nessuna tregua immediata, soltanto la promessa di un negoziato «da iniziare subito», senza specificare se si tratta dello stesso negoziato fallito a Istanbul soltanto 48 ore prima, o di un altro formato tutto da reinventare.
Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha tolto dal tavolo anche la promessa di nuove sanzioni a Mosca, per «non disincentivare i russi dal trattare». Una «autorizzazione a Putin per lanciare una nuova offensiva», come la interpreta l’ex collaboratore del Cremlino, il politologo in esilio Abbas Gallyamov, secondo il quale l’assenza di nuove pressioni economiche sulla Russia verrà interpretata a Mosca come una luce
verde per provare a estendere le sue conquiste in Ucraina. Ma il passaggio più enigmatico e inquietante del resoconto trumpiano della telefonata – pieno di ottimismo, contrariamente al riassunto estremamente prudente sulla «possibilità di una tregua per un determinato periodo in caso di adempimento a una serie di condizioni», offerto da Putin – riguarda la promessa di un negoziato «tra le due parti, che conoscono meglio di chiunque la situazione».
Secondo l’analista ucraino Victor Andrusiv, è il segno della «ritirata di Trump» da quella che continua a definire «una guerra che non è nostra». Constatato il fallimento del suo progetto di «far finire la guerra in 24 ore», il presidente americano potrebbe puntare ora a uscirne, lasciando il peso del conflitto sulle spalle degli europei. Intanto, potrebbe proseguire i contatti appena ristabiliti con Mosca per esplorare una serie di altri dossier, incluso l’ingresso degli investitori americani in progetti energetici russi, e altri «business» di cui l’emissario speciale del Cremlino Kirill Dmitriev avrebbe discusso con l’inviato di Trump Steve Witkoff. Far cancellare l’Ucraina e la sicurezza europea dalle priorità di Washington, spaccando il fronte comune occidentale che sembrava essersi appena ricompattato, è un obiettivo che Putin inseguiva da moltissimo tempo. Il suo calcolo però si è capovolto: per anni la propaganda russa ha cercato di fomentare il sentimento anti-americano in Europa, mentre ora sono semmai gli Usa a voler voltare le spalle al Vecchio Continente. Che appare invece molto più determinato e motivato a opporre resistenza alla minaccia russa, tra i piani di rilanciare la difesa europea e il sostegno sempre più convinto a Zelensky. Il giorno dopo la telefonata tra Trump e Putin, l’Unione europea ha varato il 17.mo pacchetto di sanzioni contro Mosca, nonostante il passo indietro dell’America. Che, secondo Andrusiv, continuerà comunque a inviare aiuti militari all’Ucraina, se non altro per aumentare la sua quota nell’accordo sulle risorse minerarie
ucraine. Anche Rubio ha confermato, che le armi per Kiev continuano ad arrivare, e per ora non si pen-
sa di interrompere l’assistenza, anche attingendo dagli arsenali degli altri alleati Nato. Un flusso di aiuti che
potrebbe aumentare se Trump decidesse di aumentare la pressione per costringere la Russia a negoziare, come lo stesso presidente americano ha detto di poter fare. Per il momento però il nuovo zig-zag trumpiano ha ridotto le chances della diplomazia: il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha respinto l’idea di una tregua e ha ripetuto il mantra del Cremlino sulla necessità di «eliminare le cause all’origine del conflitto» (cioè un’Ucraina che sceglie lo schieramento occidentale). Visto da qui, perfino un «congelamento» della guerra lungo la linea del fronte attuale rimane improbabile. La Russia sta ammassando truppe sul confine nord-est dell’Ucraina, e l’agenzia Bloomberg cita fonti moscovite secondo le quali Putin è convinto di poter sfondare le difese ucraine nel Donbass, per poi accettare una nuova trattativa in autunno, a condizioni che spera siano più favorevoli per lui. Un piano non facile da realizzare, anche perché non farebbe che aumentare la convinzione dell’Ue di avere a che fare con una minaccia che tocca l’Europa da vicino. Mentre il «Wall Street Journal» evoca di un nuovo incontro tra Russia e Ucraina che potrebbe tenersi in Vaticano a metà giugno, con l’America presente. Staremo a vedere.
Trump potrebbe proseguire i contatti appena ristabiliti con Mosca per esplorare una serie di dossier, incluso l’ingresso degli investitori americani in progetti energetici russi. (Keystone)
L’intransigenza di Kaja Kallas non convince
Potentissime ◆ Un ritratto dell’alta rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea
Cristina Marconi
Kaja Kallas è quello che gli inglesi chiamano una «straight shooter», una che va dritto al punto. Parla chiaro, si sa cosa pensa, è intransigente, cristallina nell’eloquio, chiara nei valori. Ce ne fossero di più, di politici come lei, in teoria. Non è detto però che le sue siano le qualità ideali in un momento in cui le relazioni internazionali sono spinose anche con gli alleati tradizionali, a partire dagli Stati Uniti... Soprattutto per chi, trovandosi alla guida della diplomazia dell’Unione europea, deve vedersela con sensibilità e storie diverse, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con Mosca.
Estone proveniente da una famiglia legata alla tormentata storia del Paese, avvocata, pensa che Vladimir Putin sia il male
Un rapporto che per lei, estone proveniente da una famiglia legata alla tormentata storia del Paese, non conosce sfumature possibili: Vladimir Putin è il male, ha invaso l’Ucraina e tutto il fronte est dell’Europa è in pericolo. Un sostegno limpido, il suo, e per questo encomiabile, che però la sta portando a creare fronti e fazioni all’interno dell’Ue e anche in quella che dovrebbe essere la sfera di influenza europea. Ex premier, con un passato da avvocata, a un anno dalla sua nomina a detta degli
osservatori brussellesi mancherebbe di quel piglio felpato che a un diplomatico è richiesto, soprattutto quando è alla guida di una struttura ancora fragile sia perché relativamente recente, sia perché in eterna competizione con gli altri centri di potere Ue, a partire dalla Commissione europea. E quindi in queste settimane tutti scrivono che la
stella di Kallas, così brillante all’inizio, si starebbe già offuscando. Facciamo un passo indietro. La capa del Servizio europeo di azione esterna è nata nel 1977 a Tallinn, quando la città era nell’Unione sovietica. La sua è una famiglia importante, legata alla lotta per un’Estonia indipendente, di cui il suo trisavolo era
la Russia non torni ad attaccare. Temi su cui ha accusato più volte gli altri leader europei, già ai tempi di Angela Merkel, di essere naif. Normalizzare la relazione con Mosca è impensabile, trattare con Putin impossibile. Kallas addirittura vorrebbe che i turisti russi non fossero accettati in Europa. Timothy Garton Ash sostiene che Kallas sia in una posizione unica, perché il suo è un Paese oggetto di colonialismo, non colonialista, e per questo può parlare dal punto di vista delle vittime, dire: «Vi rendete conto che si tratta di una guerra neo coloniale?»
A Bruxelles starebbe cercando di imporsi attraverso una rimozione di tutto quello che porta le tracce del suo predecessore, lo spagnolo Josep Borrell, e della sua schiera di diplomatici esterni. Questo fa il gioco di Ursula von der Leyen, ben felice di riprendersi il controllo di tutto, anche degli esteri, portando dalla sua parte i diplomatici esperti licenziati da Kallas, che in questo primo anno è stata legata quasi unicamente al dossier ucraino, su cui però non ha ottenuto grandi risultati: l’idea di mobilitare 40 miliardi per armamenti e capacità militari a Kiev è stata un fallimento; se non ci fossero Stati Uniti e altri Paesi la somma non sarebbe mai stata raggiunta, visto che l’Ue ci ha messo solo 5 miliardi e per le munizioni. Non ha saputo cogliere lo stato d’animo a Bruxelles, e mentre lei continua a parlare di vittoria di Kiev, tutti pensano ormai ai negoziati di pace. Solo che la macchina europea funziona con l’unanimità, e lei non sembra avere il piglio adatto per ottenerla. Non che sia facile, sia chiaro, anche i suoi predecessori hanno sofferto molto.
Anche con la Casa Bianca ha preso un tono poco diplomatico. «Oggi è chiaro che il mondo libero ha bisogno di un nuovo leader», ha scritto dopo lo sventurato incontro nello studio ovale tra Trump, Vance e Zelensky, e in molti a Bruxelles avrebbero preferito che questa evidenza fosse ammantata di una maggiore cautela.
La macchina europea funziona con l’unanimità e Kaja Kallas non sembra avere il piglio adatto per ottenerla
stato uno dei padri fondatori nel 1918, nonché primo capo della polizia segreta. La mamma di Kaja Kallas era stata mandata in Siberia quando aveva 6 mesi insieme alla nonna e alla bisnonna ed era sopravvissuta per miracolo, la sua storia famigliare è piena di aneddoti di stenti e ferocia, così comuni in una parte dell’Europa, eppure distanti, quasi esotici per molti Stati membri, che faticano a immaginare la vita sotto una dittatura. Da ragazzina lei stessa aveva viaggiato per i Paesi dell’Unione sovietica come ballerina folk, ma era stata una vacanza a Berlino est insieme ai genitori a segnarla di più: vicino al muro, il papà l’aveva esortata a respirare l’aria di libertà che veniva dall’altra parte. Nel 1991, al momento dell’indipendenza, il padre Siim aveva fondato il Partito riformista liberale, diventando uno dei volti della nuova Estonia libera. Avvocata, sposata una prima volta quando era piuttosto giovane, Kallas inizia a far politica presto, nel 2010, perché è troppo sveglia, dicono i vecchi amici, per non fare carriera. La sua famiglia è ingombrante, e si impegna a tracciarsi un sentiero che sia suo, a proporsi come qualcosa di completamente nuovo. Deputata nel 2011, eurodeputata nel 2014, prima donna alla guida dell’Estonia nel 2021, prima è molto popolare, poi la sua fama si fa più salda all’estero che in patria. Un colpo al suo prestigio è venuto fatto che il suo secondo marito, l’imprenditore e banchiere, Arvo Hallik, abbia infatti una quota in un’azienda di logistica che ha continuato a operare in Russia anche dopo l’invasione dell’Ucraina. Lei nega di esserne stata al corrente e ha parlato di caccia alle streghe, ha dichiarato di averci riflettuto e di non aver ritenuto di doversi dimettere, mentre più di qualcuno, compresi membri del Governo ungherese, la accusavano di «ipocrisia». L’altra accusa è di aver fatto un po’ di «cresta» sui rimborsi per le armi inviate in Ucraina: erano vecchie, sono state pagate come fossero nuove, ma a detta sua nessuno si è lamentato. Eppure la sua intransigenza anti-russa l’aveva portata a chiedere lo smantellamento delle statue risalenti al periodo sovietico, finendo sulla lista nera del Cremlino per un metodo considerato poco rispettoso della storia, almeno da Mosca. E la sua lettura della guerra in Ucraina è semplice e lineare – «c’è un aggressore e un aggredito» – e la priorità è fare in modo che
Ha chiesto ai leader europei di non andare a Mosca per il 9 maggio, ma ha usato toni perentori, controproducenti, non in grado di creare quel consenso fondamentale per tenere insieme la macchina comunitaria. C’è una sfida sotterranea che Kaja Kallas non ha ancora vinto, ed è quella che consiste nel distaccarsi da quell’etichetta di Lady di ferro che viene imposta a qualunque donna entri nell’arena politica per imporre le proprie qualità, una propria maniera di fare le cose: la stampa ha iniziato ad agitarsi, il pragmatismo ruvido non deve restare il punto essenziale della sua identità politica, i consiglieri vanno ascoltati. E la politica estera, dicono tutti, deve guardare oltre all’ex cortina di ferro, almeno fino al Medio Oriente, all’Africa, di America Latina. Intanto l’Ue, settimana scorsa, ha deciso di revocare tutte le sanzioni economiche ancora in vigore sulla Siria, nella speranza che lo sgravio faciliti l'accesso ai fondi e acceleri la ripresa del Paese devastato dalla guerra dopo la caduta della dittatura di Bashar al-Assad. E Kallas ha commentato: «O diamo loro una possibilità, o rischiamo un nuovo Afghanistan».
Keystone
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Verso una Svizzera «germanizzata»?
Prospettive ◆ Appenzello esterno ha rinunciato all’insegnamento del francese nella scuola elementare e altri Cantoni tedescofoni ci stanno pensando. Il futuro incerto delle lingue nazionali minoritarie
Roberto Porta
Il termine, a quanto pare, non ha un’origine precisa. Ce lo dice il Dizionario storico della Svizzera. Sta di fatto che il «Röstigraben» torna regolarmente a ravvivare la vita politica del nostro Paese. È successo ad esempio per alcune votazioni popolari che hanno lasciato una traccia indelebile nella nostra storia recente, una su tutte quella che portò alla bocciatura dello Spazio economico europeo, con la Svizzera tedesca (e con essa anche il Ticino ma non Basilea) a schierarsi per il fronte dei «Nein-sager», mentre la Romandia aveva sostenuto con forza questa svolta europeista. Era il 6 dicembre del 1992, forse uno dei giorni di maggiore incomprensione tra la maggioranza tedescofona e la prima minoranza del nostro Paese, quella francofona. Da allora quel «fossato dei Rösti» torna di tanto in tanto a farsi sentire, in questa «Willensnation» che esiste grazie alla volontà delle sue comunità culturali e linguistiche che convivono sotto un’unica bandiera.
Il federalismo assegna ai Cantoni ampie competenze per quanto riguarda la gestione della scuola e dell’insegnamento
Una delle leve per riuscire a cementare questa coesione è senza dubbio quella linguistica. Non per nulla la Legge federale sulle lingue mira a «rafforzare il quadrilinguismo quale elemento essenziale della Svizzera», con un’attenzione particolare all’insegnamento, ambito in cui, nel rispetto delle loro competenze «Confederazione e Cantoni promuovono il plurilinguismo degli allievi e dei docenti». Facile a dirsi, ma molto complesso a farsi, anche perché il federalismo elvetico assegna ai Cantoni ampie competenze per quanto riguarda la gestione della scuola e quindi anche dell’insegnamento delle lingue. Ne scaturisce un mosaico di impostazioni scolastiche che a volte va a cozzare proprio contro il principio della coesione nazionale. Un ambito politicamente delicato e in cui sono più volte emerse polemiche e tensioni, in particolare per quanto riguarda l’insegnamento del francese nei Cantoni svizzero-tedeschi. Una problematica che sembrava risolta, ma che di recente è tornata ad infiammarsi.
Nella città di Berna è stato deciso di sopprimere le classi bilingue nelle scuole cittadine a partire dal 2026
In parecchi Cantoni tedescofoni – e la lista è piuttosto corposa: Turgovia, Argovia, Svitto, Berna, Zurigo, Zugo, Lucerna e San Gallo – si sta facendo sentire con forza la voce di chi chiede di rinunciare all’insegnamento del francese nella scuola elementare, il cosiddetto «Frühfranzösich». Appenzello esterno ha già compiuto questo passo lo scorso mese di marzo, con una decisione del Parlamento cantonale. Dopo 30 anni di insegnamento, il francese viene così «espulso» dalla scuola elementare appenzellese, dove invece rimarranno le lezioni di inglese. Al posto della lingua di Molière verrà
intensificato l’apprendimento della matematica e del tedesco. Così ha deciso questo piccolo Cantone della Svizzera orientale, una realtà periferica che potrebbe però fare scuola anche in altre regioni del nostro Paese. Oltralpe, a dipendenza dei Cantoni, il francese viene oggi insegnato a partire dalla terza o dalla quinta elementare, e questo vale anche per l’inglese, che in diversi Cantoni è la prima lingua straniera a finire sui banchi di scuola. Va detto che agli allievi di questi Cantoni tedescofoni viene servito un menù linguistico piuttosto corposo, anche perché per molti di loro il tedesco, nel senso di Hochdeutsch, non può essere considerato una vera e propria lingua madre, visto che a casa viene parlato lo Switzerdütsch oppure, nelle famiglie straniere, la lingua del Paese d’origine. Per questo motivo una parte dei docenti si lamenta per il sovraccarico che tutto questo comporta per una buona parte degli allievi e anche per gli stessi insegnanti. Da qui la richiesta formulata a voce sempre più alta di posticipare l’insegnamento del francese, a partire dalla scuola media. Anche la politica si è mossa, in particolare lo ha fatto il Partito liberale radicale svizzero che l’anno scorso ha presentato una serie di richieste in ambito scolastico: una di queste chiede proprio di dare «priorità all’apprendimento della prima lingua». Questo perché «il declino delle competenze linguistiche nelle lingue nazionali locali è un segnale d’allarme che parla da sé».
La pressione sul francese è dunque sempre più forte, con la Svizzera romanda che guarda con preoccupazione a quello che potrebbe capitare nelle scuole dei Cantoni tedescofoni. Un declassamento del francese non farebbe che scavare ancora più il «Röstigraben» che attraversa il nostro Paese, con possibili ricadute negative anche sull’insegnamen-
to dell’italiano, che rischierebbe di finire sempre di più ai margini del sistema scolastico di parecchi Cantoni d’oltre San Gottardo. Non per nulla sul tema sono di recente intervenute diverse associazioni: il Forum du Bilinguisme, Coscienza svizzera, il Forum per l’italiano in Svizzera e Helvetia latina. In una presa di posizione congiunta dello scorso 24 aprile esortano le autorità federali e cantonali a mantenere «l’insegnamento di una seconda lingua nazionale a livello primario in tutti i Cantoni svizzeri».
Un declassamento del francese potrebbe avere delle ricadute negative anche sull’insegnamento dell’italiano
Per quanto riguarda il francese queste associazioni ricordano che è parlato da quasi un quarto della popolazione svizzera, il suo apprendimento «è un elemento essenziale della coesione nazionale». A loro dire c’è il rischio di «un calo della motivazione e dell’interesse per questa lingua, essenziale per la vita professionale e sociale in Svizzera». Per il francese i tempi sembrano però essere davvero difficili, visto che persino nella città di Berna è stato deciso di sopprimere le classi bilingue nelle scuole cittadine a partire dal 2026. Una decisione che ha mandato su tutte le furie la minoranza francofona bernese, con la Romandia che si sente tradita proprio dalla capitale svizzera, città che dovrebbe pur sempre fungere da esempio per il resto del Paese. E c’è tensione anche a Friburgo, la città dove scorre la Sarine (o die Saane) il fiume che di fatto separa la Svizzera tedesca da quella francese. A far discutere è la volontà del Consiglio comunale di modificare il logo cittadino, per renderlo bilingue. Un progetto che non piace per nulla alla maggioranza
francofona, a cui appartiene l’85% dei cittadini di Friburgo. A detta della Communauté Romande du Pays de Fribourg c’è il rischio di una «germanizzazione a tutti i costi delle istitu-
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zioni». Tempi difficili dunque per il francese, in diversi contesti del nostro Paese. Il «Röstigraben» è ancora lì, a ricordarci che la «pace della lingue» non è mai data una volta per sempre.
Poschner, Fischer e l’OSI Una Pentecoste d’eccezione grazie al talento della violinista Julia Fischer, del maestro Markus Poschner e dell’Orchestra della Svizzera italiana
Pagina 23
Dai campi ai musei, vita di un maestro Mario Botta riflette sul senso dell’abitare, sull’architettura, sull’identità delle città e sull’eredità culturale della civiltà contadina
Pagine 24-25
A Cannes la musica prende parola Desplat, del Toro, Bono, sulla Croisette grazie alle colonne sonore il racconto si fa melodia e il suono diventa personaggio
Pagina 27
teCHno, viaggio nella cultura elettronica svizzera
Mostre ◆ Il Landesmuseum di Zurigo riscrive la storia di quello che è molto più di un genere musicale
Olmo Cerri
Cosa ci fa la musica techno in un museo nazionale? A Zurigo, al Landesmuseum, la risposta è chiara: racconta una storia che ha plasmato intere generazioni. «teCHno» è una mostra sorprendente, che celebra la scena elettronica svizzera accanto a quelle di Berlino e Detroit.
La prima cosa che colpisce è il tono: finalmente si parla di techno e delle culture che le ruotano attorno – moda, grafica, design, danza – con la stessa dignità e lo stesso rigore con cui si trattano altri generi musicali più «istituzionali». Si raccontano occupazioni, spazi autogestiti e processi di riappropriazione urbana con serenità storiografica, come pratiche legittime, persino salutari, per il tessuto culturale di una città. Infatti la techno, dal 2024, è ufficialmente diventata patrimonio immateriale dell’umanità. L’UNESCO – l’agenzia delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura – ha riconosciuto la scena techno berlinese come bene culturale, includendo non solo il genere musicale, ma anche l’intera rete di club e rave che ne costituiscono il cuore pulsante. E non si può fare a meno di pensare a quanto invece, a sud delle Alpi, il fenomeno techno sia ancora vissuto
con sospetto, a metà tra problema di ordine pubblico e questione di salute. Un atteggiamento di diffidenza forse rafforzato dalla vicinanza con l’Italia e dal recente decreto anti-rave voluto dall’attuale Governo, che ha criminalizzato pesantemente il movimento, prevedendo pene fino a sei anni di carcere non solo per gli organizzatori, ma anche per i partecipanti.
L’esposizione, suddivisa in cinque sezioni, si apre con un’analisi del contesto storico e tecnologico in cui la musica techno è emersa. Negli anni Ottanta, l’accessibilità crescente delle tecnologie musicali ha accompagnato l’esplosione di una controcultura elettronica viva e radicale. Zurigo, in quel periodo, era un laboratorio fertile di sperimentazione artistica e sociale. Occupazioni e «TAZ – Zone temporaneamente autonome» nascevano di continuo. Un momento chiave? La prima edizione della Street Parade che si è tenuta nel 1992, ispirata alla celebre Love Parade di Berlino. All’inizio erano solo poche centinaia di partecipanti, ma da quel nucleo è nato uno degli eventi simbolo dell’estate svizzera, capace oggi di attirare ogni anno quasi un milione di persone da tutto il mondo.
Un approfondimento è dedicato agli spazi: quei club, magazzini dismessi e capannoni industriali che hanno ospitato notti indimenticabili, raccontate oggi tramite interviste ai testimoni dell’epoca. La scenografia della mostra è immersiva e coerente: bancali, casse, superfici metalliche e luci evocano l’atmosfera dei dancefloor. E si racconta anche la metamorfosi di questi luoghi: da epicentri underground a catalizzatori di processi di gentrificazione.
Una sezione della mostra approfondisce la figura del DJ come sperimentatore, innovatore, artefice di nuove estetiche sonore. E un angolo dell’esposizione è allestito come un vero negozio di dischi, dove è possibile ascoltare brani rari e (ri)scoprire artisti meno noti. Non manca un’analisi, seria e non moralistica, del rapporto fra techno e sostanze: si parla apertamente di consumo, ma anche degli avanzati progetti di riduzione del danno, come i laboratori mobili per il testing delle pastiglie direttamente nei luoghi di consumo.
Poco spazio, invece, riservato al Ticino. Una interessante video-intervista a Luca Tavaglione, alias DJ Lukas, primo ticinese a salire su un carro del-
la Street Parade di Zurigo. Spulciando tra i volantini d’epoca esposti, si trova qualche altra traccia sudalpina: due flyer degli anni Novanta delle feste dedicate alla musica commerciale all’Alcatraz di Riazzino (poi discoteca Vanilla, oggi centro formativo), e un evento al Fevi di Locarno, Destination Rainbow, datato 18 settembre 1993, con musica dalle 22 alle 10 del mattino successivo. Ma l’immagine esposta più eloquente e che rappresenta il Ticino è il grande manifesto della Città di Lugano, datato 2009, contro i «rumori molesti», a ricordarci che, almeno da queste parti, la techno non ha mai trovato davvero un riconoscimento istituzionale. Eppure, anche da noi, seppur senza mai un vero riconoscimento istituzionale, la musica elettronica ha avuto un periodo d’oro. Resta viva la memoria delle notti techno ai Molini Bernasconi e dei rave al Maglio di Canobbio della fine dello scorso millennio. Due delle esperienze attive in questo ambito in Ticino in quegli anni sono stati Ponte ologrammi, specializzata in musica ambient e chillout, e il collettivo XXXEKS che si occupava invece dei generi più spinti, con ritmi che superavano i 180 battiti al minuto.
Non legato all’esposizione a Zurigo, ma perfettamente complementare, segnalo The Rave Party – una storia proibita, il podcast curato dallo scrittore e saggista Marco Mancassola: una storia intensa e collettiva del movimento techno, che parte dall’Inghilterra degli anni Ottanta e arriva all’oggi attraversando le generazioni. Disponibile gratuitamente su tutte le principali piattaforme di streaming. La mostra «teCHno» resta visitabile fino a metà agosto, così che anche chi accorrerà in città per la prossima Street Parade possa approfittarne. Sul sito del museo è disponibile anche una completa playlist di brani musicali. Una visita consigliata anche per chi pensa di sapere già tutto sulla techno, o per chi è interessato a capire come anche fenomeni di controcultura «underground» siano fondamentali per la vivacità culturale di una regione e per la qualità di vita dei suoi abitanti.
Dove e quando teCHno, Zurigo, Museo nazionale svizzero. Fino al 17 agosto 2025. Orari: ma-do 10.00-17.00; gio 10.00-19.00; lu chiuso. www.landesmuseum.ch
Sguardo sulla mostra dedicata alla techno nell’ala più recente del Museo nazionale a Zurigo.
Concerti ◆ La violinista Julia Fischer e il Maestro Markus Poschner ospiti speciali del concerto di Pentecoste
Enrico Parola
Chissà, magari suonerà Brahms anche questa volta, nonostante sia Britten l’autore con cui si presenta come solista. Julia Fischer è una delle violiniste più talentuose, appassionate e appassionanti degli ultimi decenni; almeno da quando, correva l’anno 1995, ad appena dodici anni vinceva il concorso Menuhin e il leggendario violinista iniziò a suonare spesso con lei, come fecero direttori quali Maazel, Temirkanov, Rattle, Eschenbach, Tate. E da stella assoluta era stata accolta dal pubblico dell’Orchestra della Svizzera Italiana quando si era presentata al Lac per interpretare il Concerto in re maggiore di Brahms; fu un’esecuzione travolgente, così come trionfali furono le ovazioni che il pubblico luganese le tributò. La quasi quarantaduenne bavarese (li compirà il 15 giugno) illuminerà il «Triduo di Pentecoste» dell’OSI; il primo giorno, 6 giugno, Jam Session con i musicisti dell’orchestra, band e Markus Poschner, che sarà sul podio anche nelle due successive serate: il 7 accompagnando la Fischer nel Concerto di Britten, incastonato tra le danze sinfoniche da West Side Story di Bernstein e la seconda sinfonia di Brahms, l’8 per intonare i Carmina Burana di Orff con i cori amatoria-
Concorso
«Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto OSI a Pentecoste di sabato 7 giugno 2025. Per partecipare al concorso, inviate una mail con i vostri dati a giochi@azione (oggetto: Pentecoste) entro domenica 1. giugno 2025. Buona fortuna!
li della Svizzera Italiana; un’impresa coraggiosa e ambiziosa, che vedrà il palco del Lac affollato da trecento coristi; un appuntamento monumentale e spettacolare, popolare e di grande impatto territoriale, che per tanti sarà anche l’occasione di scoprire una musica ricchissima, che è ben più e ben oltre il celeberrimo, stentoreo «O Fortuna» iniziale, utilizzato in tanti film e pubblicità.
Il momento però più rilevante dal punto di vista squisitamente artistico rimane quello mediano, innanzitutto per la presenza della Fischer. La quale, come già fatto in passato, e Poschner consenziente, potrebbe suonare non solo Britten, ma anche Brahms. «Ogni tanto mi piace, dopo aver suonato un Concerto, sedermi tra le fila dei violini dell’orchestra e affrontare il brano che segue nella seconda parte. Ci sono tanti aspetti positivi in questa “licenza”: innanzitutto è divertente poter affrontare certi grandi capolavori che non suono, divertente e salutare: quando suoni una sinfonia di Brahms, inizi a conoscerlo in modo diverso da come lo considereresti limitandoti alla produzione per violino, e conoscendolo sotto un’altra prospettiva, o con un’altra profondità e completezza, lo suoni anche in modo diverso. E devo dire che anche alcuni direttori sono contenti di avermi sotto la loro bacchetta, perché poi parliamo e posso dare loro dei feedback che magari non ricevono dai loro professori; non dico migliori, non è il mio mestiere suonare in orchestra, ma diversi, quindi in qualche modo diversamente utili».
Se il Concerto di Brahms è una pietra miliare della letteratura violinistica romantica, e quello di Beethoven è il preferito di Fischer, Britten è una presenza assai rara nei cartelloni delle
stagioni sinfoniche: «Fin da studente sono stata abituata a studiare brani nuovi e a curiosare anche nel Novecento; la mia insegnante, Ana Chumachenko, pretendeva che imparassi un concerto nuovo al mese; in musica si può imparare ad imparare, e più lo si fa, più si diventa veloci a farlo. Beethoven ha composto dieci Sonate per violino: per impararne una ci si possono volere sei mesi, quando ne rimangono tre le si impara molto in fretta. A vent’anni dovevo debuttare con la London Symphony; sapevo che avrei suonato Beethoven, poi mi chiesero anche il secondo Concerto di Bartok e il secondo di Prokof’ev; non li avevo mai studiati, per Bartok mi rimanevano cinque giorni e dovetti farmeli bastare. Per fortuna un tale affastellamento è raro, ma quando capita biso-
gna saperne uscire».
Le emergenze non sono comunque rarissime nella vita di una concertista di successo: «Una volta a Zurigo ho dovuto suonare senza prove, salendo sul palco mezz’ora dopo essere atterrata all’aeroporto, per sostituire in extremis Tetzlaff; un’altra volta ho dovuto prendere al volo il terzo Concerto di Mozart quando stava già iniziando la prova, ma fu tutta colpa mia: ero convinta di dover suonare il quarto Concerto! Per fortuna li conosco tutti…»
Pur bella e giovane, non ha mai curato un’immagine che potesse calamitare le attenzioni di chi non ha passioni musicali: «Non ho mai voluto rappresentare me stessa, avessi avuto questa velleità avrei tentato di fare la modella. Quando salgo sul pal-
co non voglio portare una certa immagine di me, ma Mozart, Brahms, Beethoven, Britten, e suono le loro musiche in pubblico perché credo che quelle note arricchiranno le vite degli ascoltatori. So anche come sia impossibile controllare il modo con cui i media trasmettono l’immagine di qualcuno, ma comunque io sono quello che sono e credo nella sincerità e nell’autenticità; se poi a qualcuno non piaccio, amen». Eppure, quando sale sul palco un’immagine ce l’ha, eccome; «La chiamerei piuttosto “carisma”: è un dono, se uno non l’ha non l’impara e non potrà mai diventare un buon solista».
Dove e quando Osi a Pentecoste, sabato 7 giugno 2025 (20:30). www.luganolac.ch
Confessioni di un ebreo ossessionato dal sesso
Letteratura ◆ Adelphi rinuncia al quieto adattamento e reinventa Portnoy di Roth con un taglio netto e un’estetica che spiazza
Manuela Mazzi
Se un libro fa ancora così discutere, forse ha più cose da dire di quanto si voglia ammettere. È da sempre un romanzo non solo ironico e provocatorio, ma anche molto scomodo. Già quando uscì nel 1969 fu accolto con disturbo: troppo sguaiato, troppo esplicito, troppo rabbioso, troppo ebraico, troppo tutto. Oggi come allora, Portnoy non chiede di essere accolto in silenzio: chiede di essere sopportato, o respinto, ma non ignorato. La nuova edizione Adelphi, in libreria da pochi giorni, infatti non smorza i toni, ma li rilancia. A partire dalla scelta di troncare il titolo – quasi a voler infastidire anche chi all’opera di Philip Roth si era affezionato – in origine Il lamento di Portnoy ora solo Portnoy. Per non parlare della copertina di Al Capp, dove una pin-up con la pipa sottomette un porco affranto: respingente, volgare secondo alcuni, e proprio per questo in perfetto dialogo con ciò che il libro è sempre stato. Persino le critiche che serpeggiano sui social sia contro la nuova traduzione (a cura di Matteo Codignola, ex editor della casa dello struzzo), sia verso l’umorismo «invecchiato», o il presunto anacronismo morale: tutto rientra nel solco che ha lasciato questo classico americano, fatto di opposizioni, resistenze e frizioni. Portnoy dunque non
cambia natura, anzi. E di questi tempi, nei quali sembra esserci un clima da politicamente corretto forzato ai massimi estremi, un’opera che riesce ancora a innescare una micro ribellione ci sembra già una forma di verità Al di là delle polemiche, diciamo subito che ad arricchire questa nuova edizione è anche un fornito glossario yiddish/italiano e un’interessante postfazione a firma proprio del traduttore Matteo Codignola.
Per chi non lo avesse ancora letto, si fa presto a riassumere il contenuto del romanzo che mette in scena un io narrante nevrotico e affetto da un furore edipico senza pari, che cerca di uscire dal ruolo di figlio represso «in una barzelletta sugli ebrei», attraverso una lunga, schietta e sconcia confessione che rilascia al suo psicanalista (il «dottor Spielvogel», citato qua e là, che non replica mai salvo con una fulminante battuta finale pronunciata con forte accento tetesco). Portnoy è il cognome della famiglia a cui appartiene Alexander: ebreo americano, ossessionato dal sesso, dai sensi di colpa, dalla madre e dal suo giudizio. In quello che potrebbe essere definito un vivace flusso di coscienza (liberatorio?, necessario per la sua salvezza?) ci si trova di tutto, dal disprezzo per sé stesso alle difficoltà di vivere un’in-
timità reale, dalle masturbazioni ossessive alle repressioni famigliari, dove l’identità ebraica si rovescia in una nevrosi condita di sesso; intrigante, anche se a noi piace di più lo scarto che intercorre tra pensiero e parola, che non le descrizioni di amplessi ed eiaculazioni.
Indignazioni e rigurgiti di decoro a parte, molti lettori, come detto, esprimono perplessità soprattutto riguardo alla decisione di modificare il titolo originale, e ancor prima in molti non capiscono per quale ragione Adelphi abbia acquisito i diritti delle opere di Philip Roth, essendo un autore ormai
assodato in Italia. Di tutto questo si è parlato di recente agli Eventi Letterari Monte Verità che hanno avuto per ospite proprio il giovane e appassionato direttore editoriale e amministratore delegato di Adelphi Roberto Colajanni, erede intellettuale del compianto Roberto Calasso, in dialogo con Paolo Di Stefano.
«Sì, – ha confermato Colajanni – l’acquisto dei diritti di Roth è stato un azzardo. Non era un autore che sentivo vicino. Conoscevo solo i libri più noti. È stato un incubo dover rileggere tutta la sua produzione in un mese, per capire se aveva senso questa operazione, e alla fine ho capito che Roth era un’altra cosa rispetto a quello che avevamo in testa. È stata una riscoperta che ha coinvolto tutta la casa editrice e abbiamo quindi deciso di fare il possibile per dare all’idea della sua opera, una forma diversa. Questa è la chiave essenziale. A volte l’editore deve capire se c’è lo spazio per fare questo, per dare un’immagine completamente diversa di uno scrittore. E secondo noi c’è. Ma starà al lettore capirlo, e dipende molto dalla frequenza, dalla scelta, dalla qualità delle traduzioni. Perché, secondo me, è proprio lì che bisogna lavorare di più». Difficile, qui, era soprattutto la resa dell’effetto comico creato da un
testo pensato originariamente per una stand-up comedy Colajanni ha argomentato anche la scelta del titolo: «Il lamento di Portnoy era arbitrario. L’originale (Portnoy’s) Complaint in inglese non significa solo “lamento”, può anzi voler dire tante cose: protesta, doglianza, ed è persino la definizione di una sindrome psichiatrica. Tutte queste cose sono interessantissime. Il lamento, si sa, rimandava al Lamento di Giobbe, ma non poteva esaurirsi lì. Abbiamo provato a chiamarlo Sindrome di Portnoy, perché all’inizio del libro c’è proprio una definizione medica della sindrome, come fosse una cartella clinica. Ma risultava troppo tecnico, e costringeva la lettura. Alla fine, abbiamo deciso che Portnoy poteva stare da solo. È un libro che si regge su un monologo, e il suo personaggio è ormai parte della mitologia letteraria contemporanea».
Piaccia o no, Portnoy è una spina nel cervello che non smette di bruciare, e Adelphi non prova a medicarla: se il lettore cerca un libro bon ton, è meglio che cambi scaffale.
Bibliografia
Philip Roth, Portnoy, a cura di Matteo Codignola, Adelphi, 2025, 283 pp.
La violinista Julia Fischer. (Uwe Arens)
«Sono un animale architettonico»,
L’intervista
«Sono nato nel 1943 in una famiglia matriarcale a Genestrerio, all’estremo sud della Svizzera. Sono cresciuto attraverso il mondo delle donne. E ho avuto la fortuna di sentire da loro il racconto della guerra, che ho solo sfiorato. Ma soprattutto il racconto vissuto della vita contadina della mia famiglia, con gli animali, la raccolta della frutta e della verdura. Un mondo rurale che mi ha modellato profondamente. Anche oggi, dopo ottant’anni di vita, non lo dimentico. Sono elementi primordiali che ti restano addosso, ti segnano».
Quello di Mario Botta è un percorso che lo ha portato a interrogarsi sul rapporto tra progresso, memoria e il futuro della società
A parlare, nel suo studio di Mendrisio, un immenso open space popolato di modellini di edifici in cartone, scrivanie colme di rotoli, foto, lampade da tavolo e disegni, è Mario Botta, un architetto che non necessita di presentazioni. Ci sediamo a uno dei tanti tavoloni, più libero degli altri, perché qui ogni piano di lavoro è il suo ufficio e la conversazione parte da lontano, dall’ambiente contadino che l’ha generato. Si porta addosso quel mondo l’architetto Botta, che poi nella vita ha costruito ville, campus universitari, fabbriche, musei, chiese, biblioteche e si è immerso coi suoi progetti nel cuore delle città del mondo. «I sentimenti più forti ti restano nell’infanzia» confessa. «Credo che
a dieci anni sei già un uomo. Le esperienze che vivi allora durano tutta la vita. Ricordo quegli anni del vivere contadino nella piazza. La mietitura del grano, l’arrivo della trebbiatrice in paese, come se fosse una giostra, una grande festa per tre giorni: per il grano che arrivava come una benedizione. Da bambini non potevamo aiutare più di tanto, ma potevamo viverne gli aspetti positivi e ludici. La fiera, la festa, gli elementi che hanno segnato la mia infanzia resistono dentro di me. Così come i lutti, la morte di mia nonna, che si è spenta dopo i novant’anni in una casa contadina, con tutti attorno a recitare il rosario e lei stessa che l’ha sgranato fino all’ultimo. Una fine auspicabile. Non sono nostalgico, ma questa cultura contadina è un privilegio che la mia
generazione ha vissuto; il fatto – intendo – di aver sentito il profumo della terra nelle diverse stagioni».
Da questo viene un rapporto forte con la terra e i suoi frutti?
Certo. Noi si mangiava prima di tutto i frutti della terra, poi mia nonna con le sue figlie, le mie zie, vendeva i propri prodotti al fruttivendolo, il quale a sua volta li vendeva alla Migros.
A proposito, quali sono i suoi primi ricordi di Migros?
Come molti, ricordo noi bambini che giravamo attorno ai furgoncini della Migros: erano un’attrazione. I papà e le mamme lo vedevano come un negozio forse un po’ più ricco di come lo immaginavano a quei tempi, ma per noi il camion della
Migros era una festa quando arrivava in paese.
Che rapporto ha, in generale, con Migros?
Duttweiler era un visionario e io ancora oggi lego questa personalità agli esordi della grande distribuzione che si spingeva sin nei più minuti villaggi della Svizzera. La distribuzione alimentare è un capitolo di storia del nostro Paese che ho potuto vivere direttamente, e di cui ho seguito poi l’enorme sviluppo. In fondo, la Migros dei primordi, quella della mia gioventù, ha scandito quegli anni di consumismo dal volto umano. Molte cose le ho scoperte dopo, ma fin da subito mi era chiaro che aveva un fondamento sociale molto ampio e che distribuire le merci per Migros era anche un’opportunità per aiutare
lo sviluppo, allentare le tensioni, sostenere le proposte e i valori culturali. Associo la Migros indirettamente anche al sostegno al cinema e alla carta stampata.
Una curiosità di parte: leggeva già «Azione»?
Anche oggi per me «Azione» è una lettura fissa. Ma ricordo ancora il direttore Vinicio Salati e soprattutto Luciana Caglio (già redattori responsabili di «Azione»), che saluto e abbraccio perché è stata una compagna di viaggio di molti itinerari delle mostre in Ticino e non solo.
In tempi molto più recenti lei con Migros ha avuto a che fare anche per il Fiore di Pietra sul Monte Generoso.
Fu l’allora sindaco di Mendrisio
Uno schizzo del Fiore di Pietra (foto di Enrico Cano). Sotto: Mario Botta nel suo studio a Mendrisio (foto C.S.) e la Chiesa di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro (Wikimedia Commons); nella pagina accanto l’architetto ticinese nello studio dell’amico Giuliano Vangi a Pesaro in un ritratto di Alberto Giuliani.
Carlo Silini
parola di Mario Botta
Carlo Croci a dirmi che c’era l’opportunità di fare qualcosa di speciale in vetta al Generoso. E io sono scattato immediatamente perché il Generoso per noi del Mendrisiotto è la «nostra» montagna. Mi sentivo impegnato in un territorio amico. Mi venivano in mente i racconti che ascoltavo da adolescente, a Genestrerio, e che parlavano dei bombardamenti su Milano che si vedevano proprio dalla cima del Generoso. Mi dicevano che le luci sembravano quelle dei fuochi d’artificio. Come avrei potuto rifiutare un progetto da realizzare proprio lassù?
Lei ha interiorizzato i cicli stagionali della civiltà contadina da cui proviene, poi è passato all’architettura.
Quando ho finito le scuole dell’obbligo ho avuto la fortuna di fare l’apprendista da Tita Carloni, che all’epoca era già uno dei maggiori architetti. Ho incrociato allora un mondo che sarebbe maturato dopo, un mondo di ricchezza culturale, di riviste, di pubblicazioni, di apprezzamenti per l’architettura che sono indispensabili per far crescere la disciplina. Abbiamo un secolo intero dedicato alla cultura architettonica, ma la forza dell’architettura svizzera non è un miracolo spuntato dal nulla. Per i fondatori della cultura architettonica svizzera, Borromini, che ha lavorato nella Roma del Seicento, non è poi così lontano nel tempo.
È soprattutto la cultura contadina ad aver profondamente influenzato la visione del mondo dell’architetto
Un amore a prima vista, per lei, quello per l’architettura?
Settant’anni fa ho cominciato a interessarmi a questa passione, a questa attrazione della forma architettonica, della missione architettonica del fare che mi ha portato a declinare i diversi momenti della vita attraverso il mio mestiere. Sono un animale architettonico, non ho la capacità di fare astrazione dalle altre discipline. Il mio mondo professionale, il mio lavoro, è la mia vita.
L’architettura in Svizzera gode di buona salute?
Ci sono state diverse stagioni. Vorrei parlare di quella del privilegio della modernità. Una conquista sulla scia del Bauhaus e di quegli architetti che hanno segnato il XX secolo, come Le Corbusier che era un mostro di consapevolezza disciplinare.
Ha fatto uno stage anche da lui, in gioventù, vero?
Sì, nel suo studio a Parigi, ma non posso dire di averlo davvero cono-
sciuto come persona. Conosco invece molto bene la sua opera.
Lei è un maestro dell’architettura moderna, ma le piacciono i tempi che stiamo vivendo?
Da un punto di vista esistenziale e culturale siamo nel mondo del consumo. Un mondo su cui mantengo parecchie riserve ma di cui valuto anche gli aspetti positivi. Abbiamo perso i cicli stagionali che ritmavano le nostre vite. Ma già ai tempi dell’università vivevo in un mondo molto
lontano da quello delle mie origini, quello della terzializzazione del vivere. Una stagione, tra l’altro, molto felice per il Canton Ticino. Certo, da architetto osservo che le nuove cattedrali della società di massa sono gli spazi della grande distribuzione: di merci, di traffico, del benessere, ma anche della cultura. L’architettura si adatta ai nuovi ritmi, se la gente è libera il sabato si creano centri di aggregazione a tutti i livelli alla fine della settimana. L’architettura si è adattata. La gente oggi ha una mobi-
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lità che prima non aveva e si sposta dove trova quello che cerca.
Cosa pensa dell’urbanizzazione?
Bisogna distinguere l’urbanizzazione, che ha portato anche in Svizzera alla sempre maggiore costruzione di vie di transito, dalle città. Le autostrade che noi abbiamo visto formarsi, ci permettono non solo di modificare il territorio, ma anche il nostro modo di essere. E le relazioni possibili fra le città, comprese quelle svizzere. Di fatto abbiamo sviluppato i
centri di aggregazione sociale dentro le città. Ma le città, lo ricordo, sono la forma di convivenza sociale e culturale più bella, più ricca, più colta e flessibile del vivere collettivo.
Non si rischia l’omologazione?
quando era piccolo e dei valori che l’hanno accompagnato nella sua esperienza di uomo e di protagonista della vita artistica internazionale azione
Redazione
Carlo Silini (redattore responsabile)
Simona Sala
Barbara Manzoni
Manuela Mazzi
Romina Borla
Ivan Leoni
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Il rischio esiste, ma dobbiamo ricordare che le città sono tutte in un qualche modo un luogo sacro. Nel tempo ognuna si è adeguata al proprio territorio, alla propria storia, alla propria orografia e ha sviluppato una propria funzionalità, risolta con la comodità dei ponti e dei passaggi, diversa da quella delle altre città. Il territorio alla fine è più forte di tutto il lavoro degli uomini. Con tutte le trasformazioni e gli errori che abbiamo commesso, se c’è speranza per l’architettura e per ogni architettura è nel disegno delle città e del territorio che le circonda. Ogni architettura mira a essere una parte della città, un qualcosa che si inserisce in un contesto più grande, che la supera.
Le piace l’aria che stiamo respirando?
Parto da Trump, che ha già legalizzato una condizione problematica: l’arroganza al potere, che oggi è accolta impunemente da tutti, mi sembra contraddire lo spirito di servizio che ci vuole per fare il bene comune. Il bene esige anche una riflessione di compassione, di attenzione, di servizio al di là del profitto economico. Per me che ho vissuto un tempo immune dalla guerra, vedere che siamo precipitati nella teoria del riarmo è un trauma. Mi sembra che così alle generazioni future venga negata la gioia del vivere.
Cosa pensa dell’Intelligenza artificiale in architettura?
Penso che, anche al di fuori dell’ambito architettonico, sia uno strumento formidabile che avrà una fortuna sfacciata. Avrà successo perché è condannata a soddisfare un mercato e a diventare un business. Ma ho una grande perplessità sul principio su cui si regge. So che lo sviluppo tecnologico e le conquiste che abbiamo fatto fino a oggi sono direttamente proporzionali alla velocità dei risultati che riescono a ottenere. Tutto è stato fatto per aiutare l’uomo in maniera sempre più rapida. Ma questa rapidità, è stato scientificamente dimostrato, è direttamente proporzionale all’oblio. L’IA ha nel suo DNA la moltiplicazione straordinaria dei dati e della rapidità. Se creiamo strumenti direttamente proporzionali al dimenticare creiamo una società di orfani. Orfani di se stessi. È come correre in continuazione contro il vuoto. È un discorso anche d’architettura. Se escludi il territorio della memoria, che oggi è un antidoto possibile alle follie della guerra, resti orfano di una parte della tua coscienza critica, che è data appunto dal «territorio della memoria».
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Da sinistra: il moderatore Stéphane Lerouge, giornalista, Alexandre Desplat, compositore di colonne sonore, e Guillermo del Toro, regista.
Demo-crazy
Cinema ◆ Autoritarismo, repressione, e giustizia, tra i filoni più forti di Cannes 2025
Nicola Falcinella
Tutta un’altra musica a Cannes
Cinema ◆ Tra masterclass, documentari e appelli ufficiali, le colonne sonore rivendicano il posto che meritano
Nicola Mazzi, testo e foto
Cannes ha fatto ballare e riflettere sulle sette note, quest’anno più che mai. La musica è stata al centro di un grande appuntamento e ha avuto un ruolo da protagonista anche in altri momenti del festival. Parliamo, in particolare, della masterclass con Guillermo del Toro (regista messicano due volte premio Oscar) e Alexandre Desplat (compositore pure due volte premiato dall’Academy), ma anche del suggestivo e originale documentario su Bono, lo storico frontman degli U2, presentato in anteprima sulla Croisette e in arrivo su Apple TV dal 30 maggio.
Iniziamo col dire che la musica, a Cannes, è da sempre importante. Basti pensare ai recenti film dedicati a musicisti come Amy (2015) di Asif Kapadia, The Velvet Underground (2021) di Todd Haynes, o Elvis (2022) di Baz Luhrmann. I musicisti non sono mai mancati nemmeno nelle giurie o sul tappeto rosso, in veste di ospiti d’onore, richiamando con la loro sola presenza un ponte tra cinema, suono e memoria collettiva.
La musica è ovunque, anche sul tappeto rosso, dove accompagna (talvolta in modo assordante, bisogna dirlo) le star nella celebre sfilata, invitandole perfino a ballare — come dimenticare i passi improvvisati di Emma Stone e del cast di All We Imagine as Light lo scorso anno? All’interno delle sale, invece, risuona il celebre jingle Le Carnaval des animaux di Camille Saint-Saëns, colonna sonora immaginaria e sognante di una montée des marches che dal mare arriva fino alle stelle. Un motivo evocativo che segna ogni proiezione ufficiale e dà il tono al rito collettivo del cinema di Cannes.
Veniamo agli appuntamenti musicali dell’edizione conclusasi questo sabato. Il primo è Stories of Surrender di Andrew Dominik (già regista di un documentario su un altro cantante, Nick Cave); un film in bianco e nero dedicato a Bono. Girato sul palco del Beacon Theatre di New York, è uno show intimo e minimalista con un tavolo, quattro sedie, un’arpista e una violoncellista, dove musica, racconto e confessione si fondono in un vero one man show. In questo film, Bono si racconta con ironia e leggerezza, evocando momenti salienti della sua vita: la nascita con una mal-
formazione cardiaca che anni dopo quasi lo uccise, l’incontro – nella stessa settimana – con la futura moglie e con la band e il rapporto complesso con il padre «duro e puro».
Non mancano aneddoti gustosi, come l’incontro con Pavarotti: «Venne in studio per convincermi a partecipare al suo concerto benefico a Modena, ma Adam Clayton e Larry Mullen Jr., cresciuti col punk, erano contrari… e si nascosero». Oppure il surreale faccia a faccia tra suo padre e Lady Diana: «Lei gli tese la mano, e otto secoli di oppressione svanirono in otto secondi». Il racconto è intervallato da versioni acustiche e raccolte dei brani più celebri degli U2 (Pride, Beautiful Day, With or Without You , Sunday Bloody Sunday), accompagnati solo da arpa e violoncello, di cui Bono svela origini, contesti e significati spesso inaspettati. È sicuramente un modo nuovo di ascoltare canzoni che pensavamo di conoscere a memoria.
L’altra grande tappa musicale del festival è stata la masterclass con del Toro e Desplat, un incontro per veri appassionati che non ha deluso. «Molti musicisti sono arrivati al cinema per caso. Io no, lo cercavo sin da ragazzo» ha raccontato Desplat. «I miei idoli erano De Niro, Scorsese, Spielberg, e andavo al cinema per ascoltare le colonne sonore. All’epoca non c’erano video, così tornavo più volte per godermi le sonorità di quei capolavori».
«La musica apre spazi mentali nuovi», ha continuato. «Amo ogni genere: classica, contemporanea, ritmi africani, sudamericani, sonorità avanguardistiche». Ha poi raccontato la sua esperienza per Birth di Jonathan Glazer, uno dei film chiave della sua carriera: «Il regista venne a Parigi, e per due giorni ci immergemmo nella colonna sonora. Partimmo da Wagner, vista l’atmosfera fiabesca del film, iniziando con quattro flauti leggeri, per poi arricchire la scena con altri strumenti e renderla più drammatica».
Desplat ha sottolineato l’importanza della collaborazione con i registi e dell’approccio ai personaggi più che agli ambienti: «Con la musica posso dare loro un carattere e accompagnarne l’evoluzione nella storia». La collaborazione con del Toro è tra
La crisi della democrazia, l’autoritarismo, il populismo e le degenerazioni del potere. E ancora le minacce dell’intelligenza artificiale, come nell’ottimo Mission: Impossible – The Final Reckoning di Christopher McQuarrie che chiude il ciclo delle avventure o, meglio, delle imprese dell’agente Ethan Hunt inscindibile dal suo interprete Tom Cruise. Sono stati i temi in evidenza nel 78esimo Festival di Cannes che si è chiuso sabato sera, tra racconti del passato e scenari presenti o futuristici. Ragionamenti e suggestioni sulla demo-crazy come è definita, con gioco di parole non nuovo ma efficace, nella potente opera prima nigeriana My Father’s Shadow di Akinola Davies jr., una delle belle sorprese del festival, ambientato nella Nigeria del 1993 con le elezioni annullate dai militari.
notazione di regime è quello egiziano di Al-Sisi, contro il quale si schiera nettamente il bel The Eagles of the Revolution di Tarik Saleh, terzo capitolo di una trilogia critica su Il Cairo. È la storia dell’attore George Fahmy, detto il faraone dello schermo, una star vecchia maniera (la pellicola è anche un omaggio a quelle classiche del cinema arabo degli anni Cinquanta/ Sessanta) che non si allinea al potere, ma suo malgrado diventa una pedina quando gli propongono di interpretare proprio Al Sisi in una biografia. Un thriller coinvolgente che culmina in una pazzesca scena di attentato che ricorda quello contro il presidente Sadat nel 1981.
le sue più feconde: La forma dell’acqua (che gli valse l’Oscar), Pinocchio e il nuovo, attesissimo Frankenstein in uscita tra autunno e inverno.
«Lavorare con Alexandre è molto creativo» ha detto del Toro. «Prima di lui non partecipavo mai alle sessioni di registrazione, poi non ne ho mancata una». E a proposito del suo Pinocchio ha aggiunto: «Volevo che cantasse per Mussolini. La musica doveva umanizzare il burattino». Desplat ha anche raccontato che la sfida in quel film fu anche quella di scrivere i brani durante il Covid, quando nessuno si poteva trovare, dunque le voci furono registrate da remoto: «Mi ricordo che, per esempio, Ewan McGregor ha lavorato dal suo garage».
L’incontro si è chiuso con un’anticipazione su Frankenstein, interpretato da Jacob Elordi e Oscar Isaac. Non sarà un horror: «Il cinema di Guillermo è lirico, e la mia musica lo è altrettanto. Sarà un Frankenstein più commovente che spaventoso», ha detto Desplat. E del Toro ha rilanciato: «Questa versione si concentrerà sul rapporto emotivo tra padre e figlio, piuttosto che sugli elementi horror classici. Sarà un progetto personale che esplorerà i temi dell’identità e dell’appartenenza».
Al termine della masterclass, un lungo applauso e due omaggi preziosi per celebrare il centenario della nascita di Georges Delerue, un altro grande compositore francese: una lettera a François Truffaut donata a Desplat, e una partitura originale regalata a del Toro. Due regali simbolici, due gesti d’amore verso il cinema e la musica. Un addio in perfetta armonia. È dunque indiscussa l’importanza, anche per Cannes, della musica nel cinema, eppure non esiste un premio ufficiale per le colonne sonore. Dal 2010 viene «solo» assegnato il Cannes Soundtrack Award, un riconoscimento indipendente attribuito da una giuria di giornalisti alla miglior colonna sonora originale tra i film in concorso. A tal proposito, sempre durante la masterclass di del Toro e Desplat, la direttrice della Sacem (Société des auteurs, compositeurs et éditeurs de musique), Cécile Rap-Veber, ha sollecitato il Delegato generale Thierry Frémaux a istituire un premio ufficiale per la musica, senza però ottenere una risposta positiva…
Prospettive che è facile definire orwelliane attingendo al grande scrittore inglese de La fattoria degli animali e 1984. Non a caso Orwell: 2+2=5 dell’haitiano Raoul Peck è stato uno dei titoli di punta della sezione non competitiva Cannes Première. Non un documentario biografico quanto una sorta di pamphlet che parte dalla vita, il pensiero e le opere di George Orwell per esplorare come nascono le sue idee (cruciali le esperienze di soldato nella colonia di Burma, ora Birmania, e nella Guerra civile spagnola) e come prendono forma. Uno scrittore socialista che si schierò contro il comunismo e ambientò 1984 nel suo Paese per mostrare che anche le culture anglosassoni non sono immuni dal totalitarismo. Il regista di Lumumba, I’m not your Negro e Il giovane Carlo Marx usa Trump, la Corea del Nord, la Cina o l’Ungheria come esempi, utilizzando immagini dei film ispirati alle opere di Orwell, Brazil di Terry Gilliam, La mia Africa e vari lavori di Steven Spielberg e Ken Loach, tra fantascienza e realismo. Vorrebbe forse fare un discorso simile Ari Aster (noto per l’horror Midsommar) con Eddington, uno dei più deludenti nel concorso per la Palma. Siamo in New Mexico nel maggio 2020. Mentre la pandemia imperversa, lo sceriffo Joe (Joaquin Phoenix) è contrario all’uso della mascherina e si candida contro il sindaco che fa rispettare l’obbligo. La prima parte contiene tutti gli elementi del western (lo sceriffo che infrange la legge, il saloon, la comunità che si sente assediata, il negare l’evidenza, il farsi giustizia da soli) ed è un interessante quadro di come la paranoia e il complottismo prendano il sopravvento, peccato che poi la pellicola sbrachi e non si capisca neanche più su cosa sia indirizzata l’ironia.
Altro Governo con una forte con-
Il tema del potere intrecciato alla giustizia accomuna due pellicole molto diverse tra loro come Two Prosecutors dell’ucraino Sergei Loznitsa e il francese Dossier 137 di Dominik Moll, entrambe venate da un amarezza di fondo. Il primo è ambientato nel 1937, «nel pieno del terrore staliniano», con il giovane procuratore Korneyev che riceve un messaggio scritto con il sangue da un carcerato. Il funzionario, iscritto al Pcus e dedito all’ideale di giustizia, farà di tutto per incontrarlo, raccogliere la sua denuncia e prendersi a cuore il caso, aprendo gli occhi su ciò che sta accadendo. Il regista di Maidan e Donbass mette a frutto il suo stile curatissimo e le inquadrature fisse per rendere vividi i destini a cui non si può sfuggire. Allo stesso modo non sfugge il parallelo suggerito tra Stalin e Putin. Siamo a Parigi, nel novembre 2018, mentre sono in corso le manifestazioni dei gilets jaunes, nel film di Moll, noto per La notte del 12. Un polàr (ndr, noir) con protagonista Stéphanie Bertrand (la bravissima Léa Drucker), poliziotta dell’Igpn con l’ingrato compito di indagare i colleghi colpevoli di reati. Come Korneyev, l’inquirente parigina prende molto sul serio il proprio lavoro: non si tratta di accusare la polizia, ma di difenderne la dignità e l’immagine. Quando la signora Girard si presenta a denunciare il ferimento del figlio Guillaume con un colpo di pistola in una strada laterale degli Champs-Èlisées durante una protesta, la donna raccoglie verbali e immagini delle videocamere di sorveglianza, incrociando le evidenze e cercando di identificare i reparti operanti in zona. Un poliziesco classico nella forma, ma implacabile, che parte da fatti veri per mostrare, pur in un caso estremo, l’impossibilità della giustizia anche in una democrazia. Come nel film precedente, Moll arricchisce la vicenda di tante sfaccettature e presenta una protagonista determinata che si ritrova coinvolta a livello personale, ad affrontare una serie di dilemmi.
Sfondo della locandina di Orwell: 2+2=5 dell’haitiano Raoul Peck.
RIDUCE
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Battibecchi
Sedici anni più tardi
Suona il telefono. Rispondo. «Ehilà, Giulio, come va? Ti ricordi di me?», dice una voce maschile. «Buongiorno», dico. «Purtroppo non riconosco la voce».
«Sono Enrico», dice Enrico. «Buongiorno, Enrico», dico. «Ma quale dei tanti Enrico che conosco?».
«Ci siamo conosciuti a una conferenza», dice Enrico.
«Quale conferenza?», dico. «Quando?» «Ma nel duemila e sei, a Novara», dice Enrico.
«Oibò», dico. «Diciannove anni fa. A Novara. Sinceramente, non ricordo». «Ma sì, dài», dice Enrico, «dopo la conferenza siamo andati a prendere un caffè».
«Non lo so», dico, «non ricordo. Ma non è importante. Posso sapere il suo nome?».
«Mai sentita», dice Enrico. «Ho letto un suo bel romanzo storico, qualche anno fa», dico.
«Ma perché mi tiri fuori questa Paola Presciuttini?», dice Enrico. «Ma così», dico, «lei mi chiama, di punto in bianco, mi dice che dovrei ricordarmi di lei, sto scandagliando la mia memoria».
«Comunque io con questa Paola Presciuttini non c’entro», dice Enrico. «Che importanza ha se c’è un’altra persona col mio stesso cognome?». «Nessuna», dico, «ha ragione». «Ah, ecco», dice Enrico. «Ma veniamo al dunque», dico: «qual è il motivo della sua chiamata?». «Intanto ci davamo del tu», dice Enrico. «Va bene», dico. «Qual è il motivo della tua chiamata?».
«Ti mandai un romanzo da leggere,
dopo il nostro incontro», dice Enrico. «Ah», dico.
«Non te ne ricordi?», dice Enrico. «No», dico.
«Comunque fosti molto gentile», dice Enrico. «Qualche settimana dopo mi scrivesti per dirmi che ti era sembrato orribile».
«È possibile», dico.
«Ho apprezzato molto la tua schiettezza», dice Enrico. «Meno male», dico. «C’è chi se la prende, per un giudizio negativo». «Io me la sono presa un sacco», dice Enrico.
«Ah», dico. «Mi pareva di aver capito il contrario».
«Sono andato in depressione», dice Enrico.
«Mi spiace», dico.
«Per sei anni non sono stato capace di scrivere una sola parola», dice Enrico. «Non so che dire», dico.
«E tutto perché tu non ti limitasti a dirmi che il mio romanzo non ti era
piaciuto», dice Enrico. «Tu mi dicesti proprio che era orribile. Orribile».
«Posso aver sbagliato tono», dico. «Ma te ne sono grato, sai?», dice Enrico.
«Mi sei grato di averti mandato in depressione?», dico. «Era un brutto momento», dice Enrico, «se non andavo in depressione per quello sarei andato in depressione per qualcos’altro».
«In che senso?», dico.
«Mia moglie mi aveva lasciato», dice Enrico.
«Ahi!», dico. «Bah, ormai sono tanti anni», dice Enrico. «E poi io la tradivo di continuo». «Insomma, il vostro matrimonio era alla frutta», dico.
«Poi ho perso il lavoro», dice Enrico. «Santo cielo», dico.
«Con mia moglie avevo una lavanderia», dice Enrico. «Era sua. Appena ha avuto il divorzio mi ha licenziato». «Ma hai trovato un altro lavoro?», dico.
di Benedicta Froelich
Quando l’autore è ChatGPT: i dilemmi etici legati all’AI
Recentemente, mentre stavo completando un Master presso un’università inglese, ho notato come gli studenti ricevessero frequenti e-mail in cui li si esortava a evitare l’impiego di ausili riconducibili all’IA (Intelligenza Artificiale) per redigere i lavori scritti richiesti dai vari tutor nel corso dell’anno. Non solo: veniva più volte specificato che tali strumenti non dovevano essere utilizzati neppure per pianificare la struttura o stesura definitiva di un qualsiasi scritto – e si sottolineava anche come, nel caso uno studente avesse deciso di contravvenire a tale regola, la direzione universitaria lo avrebbe comunque scoperto, dato che disponeva di nuovissimi software in grado di riconoscere rapidamente un testo redatto dall’IA. Sebbene io non abbia mai, personalmente, fatto uso di nessuno strumento del genere di ChatGPT, già all’e-
Xenia
poca ebbi la sensazione che tali divieti fossero quantomeno ingenui; perché se è vero che esistono programmi in grado di riconoscere all’istante un testo prodotto dall’intelligenza artificiale, è altrettanto vero che (almeno teoricamente) basterebbe riscrivere interamente tale testo, parafrasandone il contenuto, per aggirare simili strumenti di controllo. In altre parole, mi riesce difficile credere che sia davvero possibile disarmare questa sorta di ipertrofico «grande fratello», ormai entrato a far parte delle nostre vite in modo pervasivo quanto inaspettato. Del resto, ricordo perfettamente lo sgomento da me provato la prima volta che mi è capitato di imbattermi in una pubblicità particolarmente insistente, che da qualche settimana spopola online: mostra una casalinga impegnata a tessere le lodi della sua nuova attività part-time, la quale le
permette di guadagnare somme ragguardevoli su Amazon vendendo libri («non certo scritti da me, io non sono una scrittrice») «firmati» in pochi minuti dall’intelligenza artificiale – e pronti per essere acquistati sui vari marketplace virtuali dai lettori (i quali, spesso, scoprono solo dopo l’acquisto come dietro l’autore si celi, in realtà, un cervello elettronico). Sì, perché molti nuovi generatori di testo IA sono (apparentemente) in grado di redigere in tempi irrisori interi romanzi o volumi di saggistica: è sufficiente offrire al sistema un prompt, ovvero uno spunto o domanda da cui partire, e il gioco è fatto.
Ma allora, quale futuro attende noi professionisti – gli obsoleti scrittori, poeti, studiosi, giornalisti e creativi dei tempi andati? In quale modo potremo rimanere indispensabili in un mondo in cui il valore, la consi-
derazione stessa riservata a uno scritto, sono subordinati alla sua rapidità di esecuzione o facilità di fruizione? È chiaro che nessuno di noi creativi «vecchio stampo» potrebbe (o vorrebbe) mai competere con la velocità con cui, partendo dall’istantanea elaborazione di tutto lo scibile reperibile sul web e altrove, uno strumento quale ChatGPT può produrre un testo. Certo, gli stessi sviluppatori dei servizi di scrittura basati sull’IA sono i primi a sottolineare come qualsiasi opera generata da tale tecnologia debba in ogni caso essere rivista e corretta da un essere senziente, così da fornirle una dimensione più autentica e «umana» e rimediare alle incongruenze grammaticali da cui un tale prodotto sarà inevitabilmente affetto; eppure, ciò non basta a scoraggiare chi vede in questo mezzo l’incarnazione dell’antico sogno della
Tania, colei che ha amato dandosi illimitatamente
[Segue dal numero 18 di «Azione»]. Dopo l’arresto di Gramsci, Tania rinuncia alla propria vita. Al lavoro, alla casa, e alla salute (polmoniti, flebiti, ascessi e infezioni la costringono spesso in ospedale): la salute declinante di «Nino» le appare più importante della sua. Lo provvede di dolci, panettoni, indumenti caldi, mutande di lana, e libri, perché possa studiare e scrivere. Gli fa visita – a Milano e poi, dopo il processo al Tribunale Speciale e la condanna, a Turi, vicino Bari. Gli incontri sono spesso deludenti e burrascosi. Lui, ulcerato dall’insonnia, dalla reclusione e dalla solitudine, aspira allo stoicismo ma è diffidente, irritabile, sospettoso. Le lettere lunghe e vivaci che lei gli scrive in bell’italiano, gli sono indispensabili, ma gli causano anche fastidio e collera. Spesso la tratta con asprezza e brutalità, la rimprovera di essere impulsiva, ingenua, disordinata, «in-
«Ancora no», dice Enrico. «Il mercato delle lavanderie è un po’ fermo». «Ma quindi sono –». «Esatto», dice Enrico, «sono sedici anni che non lavoro».
«Ma come fai a mantenerti?», dico. «Ho vinto un milione e ottocentomila euro al lotto», dice Enrico. «Una settimana dopo il divorzio». «Ah», dico. «Pensa che se li vincevo un mese prima mi toccava dividerli con lei», dice Enrico. «Ma dunque», dico, «qual è il motivo di questa telefonata?». «Quel romanzo», dice Enrico. «Quell’orribile romanzo?», dico. «Sì», dice Enrico Presciuttini. «Cos’hai da dirmi di quel romanzo?», dico.
«Mi è capitato tra le mani la settimana scorsa», dice Enrico, «e l’ho riletto». «E?», dico. «Fa cagare», dice Enrico. «Fa veramente cagare».
«massima resa con il minimo sforzo». Così, diventa fin troppo facile dimenticare come l’IA sia totalmente asservita alle informazioni generiche reperibili nei suoi database, che non è in grado di selezionare con spirito critico ma semplicemente mastica e rigurgita, senza alcun processo di rielaborazione mediato dall’esperienza o dal mestiere – né, tantomeno, dall’empatia o emotività. Anche per questo, sarebbe utile ricordare agli instancabili promotori di tale tecnologia come la creatività umana sia comunque destinata a rimanere irrinunciabile e imprescindibile prerogativa del vero lavoro intellettuale; e la speranza è che tale realtà, benché apparentemente scontata, non venga mai surclassata dalle irrealistiche esigenze commerciali e produttive che oggigiorno governano un mercato sempre più spietato.
capace nelle cose pratiche», la accusa di danneggiarlo, confessa «una terribile sardesca voglia di avere in mano un nodoso bastone». Ma né le offese né l’indifferenza alle sue sommesse richieste di comprensione la scalfiscono. Tania non sa «aprirsi». Per poter «gustare la vita con la maggiore intensità», sa solo «vivere al di fuori del proprio io»: darsi – illimitatamente. Questa è l’unica forma di amore che conosce.
Gli Schucht, e anche Gramsci, insistono perché li raggiunga in Russia (Giulia sta male, la situazione è difficile). Ma lei si è assunta una missione, e non organizza mai il viaggio. Cerca di migliorare le condizioni di detenzione di Nino, si illude che sarà liberato, per uno scambio di prigionieri, o per l’amnistia del 1932. Ma il regime non lo lascia, e nemmeno il partito lo vuole libero. Le porte della cella si schiudono solo quando la lesione
tubercolare, l’arteriosclerosi, l’ipertensione e l’uremia sono a uno stadio così avanzato da esigere il ricovero in clinica. Nel 1935, Tania va a trovarlo alla Cusumano di Formia tutte le domeniche (salvo quando è lei stessa in ospedale), e infine alla Quisisana di Roma. È con lui quando, troppo tardi, gli concedono la libertà vigilata. E nell’agonia, il 27 aprile 1937. È Tania che, dopo aver discusso coi funzionari del Ministero degli Interni, fa prendere le fotografie della salma, e il calco del volto e della mano. È l’unica a partecipare al suo funerale, insieme al fratello Carlo Gramsci e alla forza pubblica. È la «sorella» che, come Antigone, si occupa della sua sepoltura. Fa deporre le ceneri di Gramsci nella cassettina di zinco e più di un anno dopo, nel settembre del 1938, le trasla al cimitero acattolico di Testaccio. Solo a novembre, quando – mes-
se in salvo le preziose carte di Gramsci, concluso anche il lavoro sull’urna e sul chiusino della tomba – non può fare più nulla per lui (che ritiene tradito anche dai suoi compagni), accetta di lasciare l’Italia. Torna in Unione Sovietica – un Paese che non conosce, di cui ignora la nuova morale, le pratiche del potere e del terrore stalinista. Non ha vissuto le tre Rivoluzioni (del 1905 e del 1917, marzo e ottobre), non è mai stata bolscevica. Si consegna, di sua volontà, al «manicomio» della sua famiglia e dell’Urss. Ai figli di Antonio, che non lo hanno mai conosciuto, poco prima di partire scrive che torna per portare loro l’affetto del padre. Vi parlerò di lui, e voi capirete quanto la sua vita, il suo sacrificio e il suo pensiero siano stati e saranno importanti per tutta l’umanità. A Mosca vorrebbe insegnare storia e filosofia, ma vive di traduzioni, lavo-
rando in casa. Ha nostalgia dell’Italia e si consola con la musica. Detesta le menzogne, l’ignoranza e la meschinità. Critica e deride le idiozie ideologiche del regime, come a nessuno è concesso. La salva probabilmente la protezione occulta di Togliatti. Rimane libera, indipendente e anticonformista. I comunisti italiani in visita, intimiditi dalla sua immensa cultura, la considerano «una donna borghese». Nel 1941, quando Mosca è minacciata dall’invasione nazista, evacua con Genia, Giulia e la madre Lula a Frunze, in Kirghizistan, dove poi le raggiunge Giuliano Gramsci. Vi muore nel 1943 – di «pellagra», secondo il nipote. O forse di tifo. Insomma, di stenti e privazioni: le malattie dei poveri. Tania l’italiana è sepolta in quella città dell’Asia centrale, oggi Biškek. Ma non ho trovato la sua tomba. Il custode del cimitero non sapeva chi fosse, Tatiana Schucht.
di Giulio Mozzi
di Melania Mazzucco
Grigliare
all’American Way
Negli Stati Uniti non si griglia a temperature così elevate come qui, ma si cuoce più a lungo. Ma i risultati sono parimenti straordinari
Beef Brisket
Punta di petto marinata alla griglia
Piatto principale, per 8 persone
1½ cucchiai di fleur de sel
2 cucchiai di pepe
1 cucchiaio di cipolle in polvere
1 cucchiaio d’aglio in polvere
1 punta di petto di manzo di ca. 1,5 kg , ordinabile in anticipo dal macellaio Migros
1. Il giorno prima, mescolate tutte le spezie. Se necessario eliminate grasso e tendini dalla carne, poi sfregatela con la miscela di spezie. Mettete il pezzo di carne in un sacchetto per surgelati e lasciatelo marinare in frigo per tutta la notte.
2. Togliete la punta di petto dal frigo un’ora prima di grigliarla. Scaldate il grill a ca. 110 °C. Accomodate la carne sulla griglia e grigliatela a fuoco basso per ca. 6 ore, finché la temperatura interna della carne raggiunge ca. 90 °C. Durante la cottura girate di tanto in tanto la carne. A fine cottura togliete la carne dal grill, avvolgetela nella carta alu e lasciatela riposare per ca. 10 minuti. Tagliatela a fette sottili di traverso al senso delle fibre e servitela.
Consigli utili Disponete il beef brisket su un grande piatto da portata con insalata coleslaw, patatine, ketchup, salsa BBQ, fagioli bianchi, cetriolini sott’aceto, alette di pollo e salsiccette. La temperatura del grill non dovrebbe superare i 120 °C, altrimenti la carne risulterà dura. Il calore alto (220-280 °C) è adatto alla cottura diretta: gli alimenti vengono messi sulla griglia direttamente sulla fonte di calore (brace). A calore medio (180–220 °C) si griglia o si arrostisce a fuoco indiretto; gli alimenti non devono essere posti direttamente sulla brace e il coperchio del grill è abbassato.
Flat iron steak con salsa di pomodori
Questo pezzo di manzo dalla marcata marezzatura, cotto alla griglia diventa delicato e succulento. Si accompagna alla perfezione a una salsa fredda di pomodori.
Ricetta
Pulled sparerib burger
La carne sfilacciata («pulled») delle costine alla griglia, insaporita con cipolle e salsa all’aglio, rende questo burger particolarmente tenero e gustoso.
BBQ Short Ribs
Le short ribs non sono altro che le costine di manzo cotte delicatamente alla griglia per tre ore. Una vera delizia da assaporare con una salsina speziata.
Cosce di pollo al miele e al peperoncino
Marinate a lungo con zenzero, miele, salsa di soia, salsa al peperoncino e olio di sesamo, queste cosce di pollo alla griglia sono una vera bontà.
1
Spalla o collo di maiale
Questi due pezzi di carne sono perfetti per il Pulled Pork. La carne di maiale viene grigliata per diverse ore ed è così tenera che è facile da sfilacciare. La carne rimane succosa perché il collo e la spalla sono ricchi di grasso.
2
Costine di maiale
Le puntine della parte inferiore della pancia vengono utilizzate per preparare le Spare Ribs. Le costine contengono molto tessuto connettivo e grasso, per cui la carne rimane particolarmente succosa. Dopo la cottura sulle costine si forma una bella crosta, detta «bark», grazie a una glassa che viene applicata solo all’ultimo momento e che si caramella magnificamente.
Un pezzo dopo l’altro per la gioia
del
barbecue
La cottura lenta alla brace rende la carne tenera e succosa e le conferisce un sapore affumicato. I pezzi giusti.
Questi contorni non possono mancare
Anche i contorni sono sostanziosi quando si fa una grigliata in stile americano: non può mancare l’insalata di cavolo e carote tritati finemente. Di solito viene preparata con la maionese, ma la versione con aceto e olio è un po’ più leggera. Non si può sbagliare con il Corn Bread fatto con il semolino di mais, cotto in una padella di ghisa. La pannocchia alla griglia è un must, così come le salse BBQ, che variano a seconda della regione e sono spesso preparate in casa.
3
Petto di manzo
Il Beef Brisket è la disciplina suprema del barbecue americano. Si prepara con un grosso pezzo di petto di manzo. Il petto viene spesso cotto nel fumo per oltre dieci ore, fino a diventare morbido come il burro. Questi articoli devono essere ordinati in anticipo al banco della carne Migros.
4
Flat Iron Steak
Questa bistecca proviene dalla spalla del manzo. La si vede spesso sul barbecue perché, a differenza di altri pezzi, deve stare sulla griglia solo per poco tempo. Ciononostante, è molto tenera e dal sapore intenso – e persino più economica di una normale bistecca..
5
Costata
La costata proviene dalla parte anteriore della lombata di manzo. Negli Stati Uniti è conosciuta come Rib Eye Steak per via del tondo di grasso ben visibile, simile all’occhio di un bovino. Questo pezzo di carne cuoce in 6-8 minuti a fuoco diretto. È popolare perché è molto succosa e saporita grazie al suo alto contenuto di grassi. Il suo sapore è anche più forte di quello del filetto.
La saporita base di pomodori che solitamente condisce una pasta, questa volta regala una sferzata di gusto ai filetti di pesce rosolati
Tigri, dadi e altre forme di sopravvivenza
Alcuni giochi da tavolo permettono di imparare che per salvare gli esseri viventi più fragili del nostro mondo
è questione di scelte, errori da non sottovalutare e impegno
Inediti scali ticinesi per la maratona delle Alpi
Adrenalina ◆ Con otto vittorie in otto edizioni, il re del parapendio estremo Christian Maurer torna a sfidare le vette, sorvolando anche il Locarnese e il Bellinzonese
È una cartolina inedita quella che Christian Maurer e diversi altri suoi colleghi di caratura internazionale, «spediranno» in tutto il mondo nella seconda metà di giugno. Sotto ai suoi piedi, infatti, ci saranno scorci di un Ticino, e in particolare di Locarnese e Bellinzonese, visto dall’alto. Molto in alto. Il parapendista di Adelboden e gli altri suoi compagni di avventura tra qualche settimana saranno infatti gli attori principali del Red Bull X-Alps, competizione hike & fly che alla sua dodicesima edizione sconfina per la prima volta anche nei nostri cieli. Dove, manco a dirlo, il 42enne bernese sarà ancora l’uomo da battere. Basta dare un’occhiata alla biografia di «Chrigel, l’Aquila di Adelboden» – come viene anche soprannominato Christian Maurer tra gli addetti ai lavori – per farsi un’idea dello spessore dell’atleta in questa adrenalinica disciplina: «È un vero atleta di montagna incredibilmente forte e rapido. Un brillante pilota di parapendio, bravissimo nel volo di resistenza. È capace di decollare e atterrare ovunque, e sembra visualizzare le linee ideali di volo e le alternative che altri non sono in grado di scorgere. In particolare, Chrigel è eccellente nelle condizioni difficili o addirittura “non volabili” per gran parte degli altri atleti».
Quella della X-Alps è una sfida in cui la velocità conta, ma è il bollettino meteo a decidere chi vola alto e chi resta a terra
A deporre in favore di Christian Maurer sono anche le sue impressionanti statistiche: otto vittorie in altrettante partecipazioni, per un’incontrastata egemonia che si protrae da ben sedici anni. Ossia dal 2009, anno della sua prima partecipazione a questa avvincente competizione che si tiene con cadenza biennale. Allora 26enne, e con lo statuto di «rookie », il bernese aveva sbaragliato la concorrenza, lasciando tutti a bocca aperta. Otto vittorie (una in fila all’altra) più tardi, Maurer è una certezza. Ancora dal suo biglietto da visita del sito della X-Alps: «Pochi sport hanno conosciuto un regno di dominio incontrastato come quello che si è costruito Chrigel in questa competizione. Ha vinto la sua prima edizione come giovane esordiente nel 2009 e tutte le edizioni da allora, migliorando di anno in anno la sua prestazione per riconfermarsi in testa alla classifica». Nelle competizioni hike & fly di parapendio, a essere determinanti sono due abilità: quella del volo con la vela, anche in condizioni atmosferi-
che non proprio idilliache (eufemismo) e quella di una buona condizione di resistenza che permetta di spostarsi il più velocemente possibile da un punto di atterraggio a quello del successivo decollo. Qualità che, appunto, l’Aquila di Adelboden cercherà di mettere in campo nel tentativo di mettere le mani sul suo nono trofeo. Anche se non sarà facile, visto che di fronte si trova atleti di spessore internazionale pronti a scalzarlo da quel trono che ormai occupa da oltre
tre lustri. Complessivamente, a prendere parte alla dodicesima puntata del Red Bull X-Alps saranno 35 atleti, in rappresentanza di 17 Paesi. Quattro quelli provenienti dalla Svizzera: oltre al citato Maurer, ci saranno Patrick von Känel, Nicola Heiniger e Lars Meersteeter.
Nelle gare hike & fly determinante è la velocità: vince il primo che completa il percorso. In competizioni come questa, che si svolgono sull’arco di più giornate, occorre ad ogni buon
conto mettere a preventivo un gran numero di incognite e variabili che al tirar delle somme hanno un loro peso specifico nell’esito finale. A cominciare da quelle meteorologiche, passando poi per le scelte strategiche dei singoli. Ogni partecipante può però far capo a un compagno di squadra (che per Christian Maurer sarà il fido Ramon Krebs) che fungerà da punto di riferimento per ragguagli meteo, consigli strategici e assistenza fisica e psicologica.
Dal profilo pratico, l’edizione 2025 dell’X-Alps si compone di 16 passaggi obbligati (Turningpoint) che toccano cinque Paesi: Austria, Germania, Italia, Francia e Svizzera, con partenza da Kitzbühel e traguardo finale Zell am See, in Austria (il 12 giugno è previsto un prologo a Kirchberg).
A mettere ancora più pepe al tutto, quest’anno ci sarà pure un X-Turnpoint, a St. Moritz, da cui i concorrenti dovranno transitare due volte.
Dall’Austria alla Svizzera, passando per Germania, Italia e Francia, il cielo diventa il confine di un volo senza frontiere
Con i suoi complessivi 1283 km da attraversare, il percorso di quest’anno è il più lungo finora mai realizzato. E non sarà però la sola novità della dodicesima puntata di questa adrenalinica competizione: come detto, infatti, per la prima volta l’X-Alps toccherà anche le nostre latitudini, e più precisamente il Locarnese e Bellinzona, rispettivamente undicesimo e dodicesimo passaggio obbligato dell’edizione 2025. Quando? Dipenderà dalla velocità con cui si sposteranno i concorrenti. Il tutto rispettando poche semplici regole, ma inderogabili. Come quella che consente ai partecipanti di essere «attivi» unicamente tra le 5 e le 22, limitando però la finestra temporale per il volo dalle 6 alle 21. Dopo le 22 ogni atleta ha l’obbligo di restare dov’è fino all’indomani. Ha tuttavia il diritto di infrangere questo coprifuoco una volta: una sorta di «jolly» che va giocato con astuzia per potersi procurare un vantaggio strategico sui rivali, bruciando però ulteriori preziose energie… Dal primo giorno di gara e per quelli successivi, l’ultimo atleta della classifica al termine della giornata viene eliminato. Dal profilo storico, l’idea di proporre una simile competizione è da ascrivere al pilota austriaco Hannes Arch, rimasto impressionato da un documentario incentrato sulla traversata delle Alpi da nord a sud di un parapendista tedesco (Toni Bender) con tanto di equipaggiamento per bivaccare e arrampicare. La primissima edizione dell’X-Alps, partita il 14 luglio 2003 dal ghiacciaio austriaco Dachstein, aveva visto al via 17 partecipanti, ma solo in 3 erano riusciti a raggiungere la meta finale nel Principato di Monaco entro le 48 ore seguenti il primo arrivato. Per la cronaca, il più veloce in quell’occasione era stato lo svizzero Kaspar Henny, giunto al traguardo in 11 giorni, 22 ore, 55 minuti e 30 secondi dopo la partenza.
Chrigel Maurer. (Sebastian Marko - Red Bull Content Pool)
Moreno Invernizzi
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«Sono un animale architettonico»,
LIFESTYLE
L’intervista ◆ Il grande architetto ticinese parla delle sue origini contadine, del camion Migros che arrivava nel villaggio
Carlo Silini
Chil’ha inventata?
Protezione solare
«Sono nato nel 1943 in una famiglia matriarcale a Genestrerio, all’estremo sud della Svizzera. Sono cresciuto attraverso il mondo delle donne. E ho avuto la fortuna di sentire da loro il racconto della guerra, che ho solo sfiorato. Ma soprattutto il racconto vissuto della vita contadina della mia famiglia, con gli animali, la raccolta della frutta e della verdura. Un mondo rurale che mi ha modellato profondamente. Anche oggi, dopo ottant’anni di vita, non lo dimentico. Sono elementi primordiali che ti restano addosso, ti segnano».
Il calore e la luce del sole rendono possibile la vita sul nostro pianeta. Ma questa palla di fuoco può anche causare dolorose scottature.
Quello di Mario Botta è un percorso che lo ha portato a interrogarsi sul rapporto tra progresso, memoria e il futuro della società
A parlare, nel suo studio di Mendrisio, un immenso open space popolato di modellini di edifici in cartone, scrivanie colme di rotoli, foto, lampade da tavolo e disegni, è Mario Botta, un architetto che non necessita di presentazioni. Ci sediamo a uno dei tanti tavoloni, più libero degli altri, perché qui ogni piano di lavoro è il suo ufficio e la conversazione parte da lontano, dall’ambiente contadino che l’ha generato. Si porta addosso quel mondo l’architetto Botta, che poi nella vita ha costruito ville, campus universitari, fabbriche, musei, chiese, biblioteche e si è immerso coi suoi progetti nel cuore delle città del mondo. «I sentimenti più forti ti restano nell’infanzia» confessa. «Credo che
La protezione solare è essenziale. Fin dall’antichità, erano soprattutto le classi più povere e lavoratrici ad avere la pelle abbronzata, mentre le classi più elevate prediligevano un pallore nobile. L’aristocrazia trascorreva poco tempo al sole e quando lo faceva, si proteggeva con ombrellini e abiti a collo alto. La moda andava di pari passo con i concetti morali: la pelle nuda era un peccato e la fonte di ogni male.
Un tour in montagna con conseguenze
a dieci anni sei già un uomo. Le esperienze che vivi allora durano tutta la vita. Ricordo quegli anni del vivere contadino nella piazza. La mietitura del grano, l’arrivo della trebbiatrice in paese, come se fosse una giostra, una grande festa per tre giorni: per il grano che arrivava come una benedizione. Da bambini non potevamo aiutare più di tanto, ma potevamo viverne gli aspetti positivi e ludici. La fiera, la festa, gli elementi che hanno segnato la mia infanzia resistono dentro di me. Così come i lutti, la morte di mia nonna, che si è spenta dopo i novant’anni in una casa contadina, con tutti attorno a recitare il rosario e lei stessa che l’ha sgranato fino all’ultimo. Una fine auspicabile. Non sono nostalgico, ma questa cultura contadina è un privilegio che la mia
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, le attività di svago si spostarono all’aria aperta e i primi filtri solari arrivarono sul mercato. Il pioniere è stato il marchio Zeozon nel 1911, successivamente chiamato Ultrazeozon. L’ideatore della crema con estratto di castagna è stato il dermatologo tedesco Paul Unna. In precedenza aveva scoperto il legame tra il sole e il
Crema solare
Latte, crema, olio – hanno tutti un unico obiettivo: proteggerci dalle scottature. Cosa c’entrano le castagne e le Alpi
generazione ha vissuto; il fatto – intendo – di aver sentito il profumo della terra nelle diverse stagioni».
Da questo viene un rapporto forte con la terra e i suoi frutti?
Certo. Noi si mangiava prima di tutto i frutti della terra, poi mia nonna con le sue figlie, le mie zie, vendeva i propri prodotti al fruttivendolo, il quale a sua volta li vendeva alla Migros.
Migros era una festa quando arrivava in paese.
Che rapporto ha, in generale, con Migros?
lo sviluppo, allentare le tensioni, sostenere le proposte e i valori culturali. Associo la Migros indirettamente anche al sostegno al cinema e alla carta stampata.
Una curiosità di parte: leggeva già «Azione»?
A proposito, quali sono i suoi primi ricordi di Migros? Come molti, ricordo noi bambini che giravamo attorno ai furgoncini della Migros: erano un’attrazione. I papà e le mamme lo vedevano come un negozio forse un po’ più ricco di come lo immaginavano a quei tempi, ma per noi il camion della
Duttweiler era un visionario e io ancora oggi lego questa personalità agli esordi della grande distribuzione che si spingeva sin nei più minuti villaggi della Svizzera. La distribuzione alimentare è un capitolo di storia del nostro Paese che ho potuto vivere direttamente, e di cui ho seguito poi l’enorme sviluppo. In fondo, la Migros dei primordi, quella della mia gioventù, ha scandito quegli anni di consumismo dal volto umano.
Molte cose le ho scoperte dopo, ma fin da subito mi era chiaro che aveva un fondamento sociale molto ampio e che distribuire le merci per Migros era anche un’opportunità per aiutare
cancro della pelle. Negli anni successivi, la ricerca è proseguita diligentemente ovunque. A partire dal 1933, il marchio tedesco Delial pubblicizzò il prodotto con lo slogan «Schenkt klassische Bräune» («Dona un’abbronzatura classica») per conquistare il favore del crescente numero di amanti del sole. Tre anni dopo, L’Oréal ha lanciato l’olio per il corpo Ambre Solaire. Nel 1938, lo studente svizzero di chimica Franz Greiter prese una scottatura scalando la vetta del Piz Buin. Si mise quindi alla ricerca di un rimedio che lo proteggesse in futuro. Nel 1964 lanciò la Glacier Cream del marchio Piz Buin. È stato il primo a introdurre, all’inizio degli anni 60, il fattore di protezione solare sul suo prodotto, che all’epoca era stato fissato a due, decisamente basso rispetto ai valori abituali di oggi.
Anche oggi per me «Azione» è una lettura fissa. Ma ricordo ancora il direttore Vinicio Salati e soprattutto Luciana Caglio (già redattori responsabili di «Azione»), che saluto e abbraccio perché è stata una compagna di viaggio di molti itinerari delle mostre in Ticino e non solo.
In tempi molto più recenti lei con Migros ha avuto a che fare anche per il Fiore di Pietra sul Monte Generoso. Fu l’allora sindaco di Mendrisio
Da allora sono stati fatti molti passi avanti nella protezione solare: creme, lozioni, oli, spray o stick, resistenti all’acqua o meno, con o senza profumo - ce n’è per ogni tipo di pelle.
Testo: Edita Dizdar
Uno schizzo del Fiore di Pietra (foto di Enrico Cano). Sotto: Mario Botta nel suo studio a Mendrisio (foto C.S.) e la Chiesa di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro (Wikimedia Commons); nella pagina accanto l’architetto ticinese nello studio dell’amico Giuliano Vangi a Pesaro in un ritratto di Alberto Giuliani.
di Genestrerio
La protezione solare giusta
Crema
Ricetta della settimana - Filetti di pesce con salsa alla puttanesca
Ingredienti
Piatto principale
Ingredienti per 4 persone
2 spicchi d’aglio
600 g di pomodori, ad es. a grappolo o cherry
8 filetti d’acciuga sott’olio
1 peperoncino
100 g di olive Kalamata snocciolate
6 cc circa, d’olio d’oliva
3 cc di concentrato di pomodoro
2 cc di capperi
4 rametti d’erbe aromatiche, ad es. basilico oppure origano
600 g di filetti di pesce, ad es. merluzzo o lucioperca sale pepe farina per infarinare
Preparazione
1. Tagliate l’aglio a fettine sottili, i pomodori a dadini e i filetti d’acciuga a pezzettini. Eliminate i semi del peperoncino a piacimento e tritatelo. Tagliate le olive a fettine.
2. Fate soffriggere in un po’ d’olio l’aglio e i pezzetti d’acciuga, poi aggiungete il concentrato di pomodoro e fatelo soffriggere brevemente.
3. Unite i pomodori, il peperoncino, le olive e i capperi. Dopodiché aggiungete le foglie delle erbe aromatiche e lasciate sobbollire la salsa per circa 10 minuti.
4. Condite con sale e pepe.
5. Nel frattempo, tagliate i filetti di pesce a pezzetti di 2 cm di larghezza. Conditeli con sale e pepe e infarinateli.
6. Rosolate i filetti da entrambi i lati nell’olio rimasto per circa 4 minuti.
7. Serviteli sulla salsa di pomodori alla puttanesca.
Consigli utili
I filetti di pesce si possono utilizzare con o senza la pelle. Anche la varietà può essere scelta a piacimento tra merluzzo, lucioperca, trota o coregone. Preparate la salsa di pomodoro in grande quantità. In frigo, in un contenitore ermetico, si conserva a lungo.
Ottima anche per condire la pasta o sui crostini.
Preparazione: circa 25 minuti
Per persona: 38 g di proteine, 31 g di grassi, 15 g di carboidrati, 500 kcal
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Colpo critico ◆ Proteggere la vita e la speranza è un gioco complicato, ma possibile
Andrea Fazioli
Un giorno, mentre passava dal monte Taj, Confucio vide una donna piangere disperata accanto a una tomba. S’informò su ciò che le era accaduto. La donna spiegò che tutta la sua famiglia era stata sbranata dalle tigri che infestavano quella regione. Confucio allora le chiese: «Ma perché resti in questo luogo?» La donna rispose: «Perché qui non ci sono Governi spietati». Confucio allora commentò: «Ricordate, miei discepoli, un Governo spietato è più famelico delle tigri». A citare questo aneddoto è John Vaillant nel suo saggio La tigre (2010; Einaudi, 2012), nel quale mostra come esista un predatore più vorace della tigre siberiana dell’Amur. Solo l’essere umano infatti sa uccidere meglio di questo formidabile felino, un vero e proprio congegno programmato per la caccia. Il fatto è che, avrebbe forse commentato Confucio, una tigre si limita a toglierti la vita, mentre un Governo spietato ti toglie pure la speranza che il mondo abbia un senso. Per me l’esistenza delle tigri prova che il mondo abbia un senso. Certo, io non corro il rischio di venire sbranato. Ma come scrive Vaillant, le popolazioni che per millenni hanno convissuto con questo animale non l’hanno mai visto come un flagello, bensì come una potenza della natura, un suggello del mistero, una sorta di via d’accesso per capire la propria vita. Della tigre ho sempre ammirato l’e-
leganza, la maestà, l’insondabile perfezione. Da bambino cercavo nei libri illustrati le strisce giallo-nere e più tardi, più tardi ho collezionato versi e romanzi sul più avventuroso e metafisico fra tutti i felini. Come scrisse Jorge Luis Borges, «non esistono parole […] che possano essere emblema della tigre, questa forma che da secoli abita l’immaginazione umana» (Tigri azzurre, 1977, in Tutte le opere, II, Mondadori, 2005).
La tigre è potente, ma rischia l’estinzione. Gli esseri umani, tanto più fragili, sono invece fra le specie di animali a sangue caldo più numerose al mondo (gli unici a tenerci testa sono i polli, poi a seguire i ratti e i topi). Come dice un esperto intervistato da Vaillant, «perché le tigri esistano, dobbiamo volerlo». A mettere in scena questo scenario è Endangered (Grand Gamers Guild, 2020), un gioco di Joe Hopkins in cui i partecipanti, da uno a cinque, collaborano per salvare le tigri dalla scomparsa. Alla mia prima partita abbiamo perso all’ultima mossa, perché non siamo riusciti a convincere il governo brasiliano a stanziare dei fondi. In precedenza, va detto, ci eravamo illusi che le tigri avessero procreato una prole abbastanza numerosa da resistere alla distruzione del loro habitat, in particolare in Cina, ma avevamo fatto male i nostri calcoli. Per fortuna abbiamo imparato dai nostri sba-
Giochi e passatempi
Cruciverba
«Ciccio, come si chiama quella che predice il futuro?» «Indovina». Cosa risponde l’amico?
Trova la risposta leggendo, a cruciverba ultimato le caselle evidenziate.
(Frase: 2, 2, 2, 2, 6, 4, 4, 3, 3, 2, 2)
ORIZZONTALI
1. Moltitudini di persone
5. Generi letterari
10. Il rango dei nobili
11. È una testa calda
12. Divinità greca della Terra
13. Cadono sulle spalle
15. Primo... scrittore
17. Le iniziali del conduttore Ossini
18. Il bene nei prefissi
19. Una festosa oscillazione
20. Pronome personale
22. Ascolta... una poesia
23. Fa esplodere per sdegno
24. Il cantante Rosalino Cellamare
25. Ninfa greca della montagna
26. Simbolo chimico dell’olmio
27. Santa... in Argentina
28. Particella atomica
31. Richiamo al dovere
33. Le batte anche l’oca
35. Mansueto
36. Nome femminile
37. Porta in vetta
38. Un politico Romano
VERTICALI
1. C ompie prodigi
2. Si dice per incoraggiare ed esortare
3. Il ricovero con la greppia
4. Le iniziali dell’attore Orlando
5. Un numero
6. Colpiscono il naso
7. Ghiandola nel torace
8. D esinenza di diminutivo plurale femminile
9. Se loro, lo perdono...
11. Lo ottieni con 10 etti
13. 105 romani
14. Gli schiaffi che si minacciano
16. Le iniziali dell’imitatrice Aureli
gli. Nella seconda partita siamo riusciti a influenzare le lobby giuste per lottare contro il disboscamento, evitando sia la frammentazione del territorio dei felini, sia che arrivassero a contatto troppo ravvicinato con i villaggi umani.
Endangered è basato sull’uso di dadi per attivare carte azioni, combinato alla gestione di una mappa che raffigura l’evoluzione dell’habitat natura-
le. Nella scatola, oltre alle tigri, sono presenti altri due moduli per tentare di salvare il panda gigante e la lontra di mare. Ogni partecipante ha un ruolo unico (il benefattore, la reporter, il lobbista, la zoologa…). Tutti insieme tentano di influenzare il voto delle Nazioni Unite. Il materiale è assai curato, con piccole tigri (o panda, o lontre) di legno che aiutano l’immedesimazione.
Un altro gioco che invita a proteggere gli animali, sia pure in modo più astratto, è Moving Wild (Oink Games, 2024). Chris Priscott ha immaginato che i partecipanti, da uno a sei, debbano costruire un parco naturale in grado di accogliere quante più specie possibile. Si tratta di selezionare delle carte, che passano di mano in mano, per allestire degli ambienti. Poi bisognerà creare delle combinazioni per gestire gli animali, ricordando che gli ippopotami hanno bisogno sia di acqua sia di terra, i bradipi e i pinguini non possono stare soli mentre gli orsi non amano i gruppi numerosi, oppure che è meglio tenere le murene lontane dai trichechi e i formichieri separati dai coccodrilli… eccetera. Il gioco, compatto, è racchiuso in una piccola scatola dalla grafica suggestiva, nel tipico stile minimalista della casa editrice giapponese. Endangered è cooperativo, Moving Wild competitivo; entrambi sono appassionanti. Lo scopo di questi giochi non è direttamente educativo, per fortuna. Non c’è niente di peggio del moralismo di una predica travestita da divertimento. Ma occorre dire che, in maniera implicita, la lotta per salvare gli animali è un invito a considerare la bellezza, a preservarla. Lasciatemi concludere con una finta citazione di Confucio (non se ne avrà a male): «Finché ci saranno tigri, ci sarà speranza».
Scoprite i 3
18. Così si chiamava Tokyo
19. Figlio di Iside e Osiride
21. Congiunte ma non parenti
22. Un’immensa... liquidità
23. L e tre lettere di Gesù
24. Famoso Tony cantante
25. Preposizione francese
27. In fondo al fiume
29. Un risultato calcistico
30. Li ricorda il fisionomista
31. Un esame radiologico
32. Piccola rana verde
34. Diodo ad emissione luminosa
35. L e iniziali dell’attore
Le iniziali dell’attrice Rossellini
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una
4.– Anguria mini Spagna, il pezzo 4.– Peperoni rossi Spagna/Paesi Bassi, al kg
1.80
Cicoria Svizzera/Paesi Bassi, sacchetto da 500 g, (100 g = 0.36)
3.10
1.85
Formaggio fresco alla panna Kiri 8 porzioni, 144 g, (100 g = 2.15)
2.25
2.50 Mezza panna aha! senza lattosio, 250 ml, (100 ml = 1.00) –.80 Yogurt al moca Migros Bio, Fairtrade 180 g, (100 g = 0.44)
Crème Fraîche al naturale Valflora 200 g, (100 g = 1.15)
Le Gruyère dolce AOP circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato
PREZZO BASSO
Offriamo oltre 1000 prodotti di uso quotidiano a prezzo basso e con la consueta qualità Migros. I prezzi bassi si trovano in tutto l’assortimento e includono i prodotti preferiti dalla nostra clientela, rendendo gli acquisti sensibilmente più convenienti per tutti.
1.95
Wienerli M-Classic Svizzera, 4 pezzi, 200 g, in self-service, (100 g = 0.98)
4.50
Sciroppo d'acero Migros Bio
250 ml, (100 ml = 1.80)
2.35 Coca-Cola 1,5 litri, (100 ml = 0.16)
4.10 Prosciutto cotto IP-SUISSE
150 g, in self-service, (100 g = 2.73)
2.– Pane ticinese IP-SUISSE
400 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.50)
2.–
g, (100 g = 1.60)
1.40
1.90
Farina bianca M-Classic, IP-SUISSE 1 kg, (100 g = 0.19)
11.90 Café au lait Nescafé Dolce Gusto 30 capsule, (100 g = 3.97)
16.–
d'oliva Monini Classico 1 litro
Olio
Frutta e verdura
Tenere, croccanti, di stagione
3.35
invece di 3.95
Pomodorini ciliegia a grappolo Svizzera, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.67) 15%
Tutti i cespi di insalata Migros Bio e Demeter per es. lattuga verde Migros Bio, Svizzera, il pezzo, 2.32 invece di 2.90 20%
Nuovo raccolto dalla buccia tenera
2.95
Patate novelle Svizzera, sacchetto da 1 kg 24%
invece di 3.90
Conservabili in frigorifero per massimo 5 giorni
3.15 invece di 3.95
Champignon Migros Bio marroni e bianchi, Svizzera, vaschetta da 250 g, (100 g = 1.26) 20%
1.50
Snack carote
Danimarca, 200 g, confezionate, (100 g = 0.75)
Tutta la frutta bio surgelata per es. miscela di bacche Migros Bio, 300 g, 4.13 invece di 5.50, (100 g = 1.38) a partire da 2 pezzi 25%
Ravanelli Svizzera, al mazzo 21%
1.25 invece di 1.60
Fragole Svizzera, in cartone da 1 kg 20%
9.50
invece di 12.–
Migros Ticino
2.95 Lattuga iceberg Migros Bio
220 g, (100 g = 1.34)
2.95 Pesche
Spagna/Italia, vaschetta da 1 kg
30%
6.93
invece di 9.90
Il nostro pane della settimana: farina integrale di frumento e cruschello di segale per un gusto intenso. E grazie alla pasta acida, si mantiene fresco a lungo.
14%
Extra ciliegie
Spagna, 500 g, confezionate, (100 g = 1.39)
5.60
invece di 6.53
3.30
Pane paesano rustico IP-SUISSE
400 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.83)
28%
5.–
invece di 7.–
30%
Panini per aperitivo precotti M-Classic in conf. speciale, con il 50% di contenuto in più, 360 g, (100 g = 1.56)
Berliner con ripieno di crema in conf. speciale, 4 pezzi, 400 g, (100 g = 1.25)
Tutte le baguette e i pani Twister per es. Twister chiaro cotto su pietra Migros Bio, 360 g, 2.24 invece di 3.20, prodotto confezionato, (100 g = 0.62)
20%
4.10
invece di 5.16
Biscotti prussiani M-Classic in conf. speciale, 516 g, (100 g = 0.79)
Migros Ticino
Migros
Pesce e frutti di mare
Una festa per amanti del pesce
30%
9.95
invece di 14.30
20%
Salmone affumicato Migros Bio d'allevamento, Norvegia, 180 g, in self-service, (100 g = 5.53)
20%
11.95
invece di 15.–
Tutti i sushi refrigerati e tutte le specialità giapponesi refrigerate (articoli fatti in casa esclusi), per es. Smoked Salmon Wrap, 240 g, 6.– invece di 7.50, in self-service, (100 g = 2.50)
Filetti di salmone con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 4 pezzi, 500 g, in self-service, (100 g = 2.39)
20%
3.60
invece di 4.50
Filetti di pesce persico con pelle M-Classic d'allevamento, Svizzera, per 100 g, in self-service
Dalla Svizzera
Sfizi e bontà per menu veloci
Tutte le insalate pronte con condimento, Anna's Best e Migros Bio per es. insalata di patate Anna's Best, 300 g, 2.28 invece di 2.85, (100 g = 0.76)
dolce pastorizzato Migros Bio 1
2.95 Corn Ribs Anna's Best
g, (100 g = 1.84) 20x CUMULUS
Pasta Migros Bio, refrigerata fiori ricotta e spinaci o agnolotti all'arrabbiata, per es. fiori, 3 x 250 g, 9.90 invece di 14.85, (100 g = 1.32)
Fettine alle verdure e patate o Crispy tofu, Migros Bio per es. fettine, 2 x 180 g, 6.30 invece di 7.90, (100 g = 1.75)
20x
Crema di formaggio per tartine da aperitivo
3.80 Crema per antipasti con peperoncini ciliegia Anna's Best
g, (100 g = 2.92)
Formaggi e latticini
Qui il protagonista è il latte
LO SAPEVI?
Il kefir è un latticinio acidulato ricco di proteine. Ne contiene tante e tanto calcio come il latte, ma chi è intollerante al lattosio lo digerisce molto meglio. La particolarità delle colture utilizzate per produrre questo kefir è che contengono diversi batteri acidolattici e diversi lieviti.
Migros Ticino
Latte Drink UHT o latte intero UHT, Valflora IP-SUISSE
a partire da 2 pezzi
Snack al latte refrigerati Kinder Fetta al Latte, Pinguì, Choco fresh e Maxi King (articoli singoli esclusi), per es. Fetta al Latte, 5 pezzi, 140 g,
Tomino boscaiolo
2.50
1.70
Surchoix
Migros Ticino
Dispensa piena, giornata serena
Tutta la pasta Migros Bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. penne integrali, 500 g, 1.72 invece di 2.15, (100 g = 0.34)
Tutto l'assortimento di purea di patate Mifloc M-Classic per es. 4 x 95 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 1.05) a partire da 2 pezzi
di 22.–
pizze Piccolinis Buitoni prodotto surgelato, in confezione speciale, al prosciutto o alla mozzarella, 40 pezzi, 1,2 kg, (100 g = 1.38)
Tutte le olive bio non refrigerate per es. olive greche Amphisis Migros Bio, 150 g, 2.40 invece di 3.20, (100 g = 1.60) a partire da 2 pezzi
Tutto l'assortimento Sempio e Kelly Loves per es. Seaweed Rice Crisps Kelly Loves, 20 g, 2.36 invece di 2.95, (100 g = 11.80) 20%
3.50 Taco Shells Fiesta del Sol 12 pezzi, 158 g, (100 g = 2.22)
a partire da 2 pezzi 20%
Tutti i cereali e i semi, Migros Bio (articoli Alnatura esclusi), per es. fiocchi d'avena svizzeri, fini, 400 g, 1.44 invece di 1.80, (100 g = 0.36)
a partire da 2 pezzi –.50 di riduzione
Tutte le noci e tutta la frutta secca, Migros Bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. noci di anacardi, Fairtrade, 150 g, 3.05 invece di 3.55, (100 g = 2.03)
a partire da 2 pezzi 30%
Tutte le capsule Starbucks per es. House Blend, 10 capsule, 3.71 invece di 5.30, (100 g = 6.51)
Tutti i tipi di olio e aceto, Migros Bio (articoli Alnatura esclusi), per es. olio d'oliva greco, 500 ml, 9.56 invece di 11.95, (100 ml = 1.91) 20%
a partire da 2 pezzi 30%
Tutti i tipi di farina Migros Bio da 1 kg (prodotti Alnatura, Demeter e Regina esclusi), per es. farina per treccia, 2.66 invece di 3.80
a partire da 2 pezzi 30%
Tutti i tipi di caffè Caruso, in chicchi e macinato per es. Crema Oro in chicchi, 500 g, 6.65 invece di 9.50, (100 g = 1.33)
conf. da 2 20%
Ovomaltina
Crunchy Cream, müesli o barrette, per es. Crunchy Cream, 2 x 400 g, 7.90 invece di 9.90, (100 g = 0.99)
conf. da 6 50%
3.25 invece di 6.50
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